Carcere

  • In attesa di Giustizia: quinto grado

    Non bastano programmi televisivi che si arrogano il diritto di svolgere vere e proprie indagini parallele sui fatti di cronaca nera senza evitare di esprimere giudizi, generalmente di colpevolezza perché al pubblico piace sapere che il bene vince sempre ed i cattivi hanno una punizione segnata nel destino: per chi si perdesse qualche puntata, ci pensa la carta stampata a celebrare un quinto grado di giudizio alimentando la fame di gogna di quel popolo italiano nel cui nome – lo abbiamo ricordato molte volte – è amministrata la giustizia e dovrebbe, pertanto, ricevere un’informazione corretta in proposito stimolando la funzione di controllo di una comunità che aspiri ad essere democratica a tutela dei diritti del cittadino dinanzi alle prevaricazioni del potere

    Un’ennesima e recente esperienza dimostra – invece – che la cronaca giudiziaria, più che ad una doverosa e corretta informazione, sia intesa a sollecitare indignazione fomentando una pericolosa deriva illiberale che Tribunali e legislatore sono facilmente disposti ad assecondare: basti pensare al vergognoso sit in organizzato a Genova contro il Governatore agli arresti con provvedimenti in cui il Ministro della Giustizia ha affermato di far fatica a comprendere cosa ci sia scritto.

    Questa volta parliamo della concessione degli arresti domiciliari, con braccialetto elettronico, ad uno dei due ragazzi americani accusati per l’uccisione del Vicebrigadiere dei Carabinieri Mario Cerciello, avvenuta nel luglio 2019 a Roma.

    Nessuno tra i cronisti ha ritenuto opportuno mettere in evidenza che si tratta di un imputato sotto processo (non ancora concluso) che ha già sofferto cinque anni di carcerazione preventiva e la cui pena, dopo l’annullamento da parte della Corte di Cassazione, è stata dimezzata per una ragione giuridicamente ineccepibile: il suo ruolo è risultato essere quello del concorrente anomalo nell’omicidio. Il che, tradotto, significa che ha partecipato all’aggressione nei confronti del sottufficiale dell’Arma ma senza l’intenzione di uccidere. Una differenza non banale rispetto all’omicidio volontario tutt’ora contestato al suo coimputato, colpevole materiale di quella morte.

    La detenzione domiciliare con un dispositivo elettronico di controllo è – dunque – coerente con il tipo di responsabilità attribuita e proporzionata bilanciando la pena residua con quella già espiata in attesa di giudizio ed è stata disposta  presso l’unico domicilio disponibile in Italia, quello dei nonni che non hanno colpa se risiedono a Fregene: tutto ciò è diventato ghiotto pretesto per sollecitare su alcuni quotidiani sentimenti di rabbia e rancore, come si trattasse di un crimine impunito, con titoli del tipo “Il killer del carabiniere va ai domiciliari al mare”. Ovviamente silenzio circa su quella dinamica processuale che, come altre anche questa volta, la nostra rubrica cerca di rendere comprensibile anche a lettori non tecnici.

    Altrettanto ovviamente nessuno ha inteso ricordare l’immagine di questo giovane fotografato all’interno di una caserma che veniva predisposto all’interrogatorio del P.M. bendato e con le mani legate dietro la schiena con un garbato metodo di persuasione in salsa magiara.

    Ecco allora che altri titoli come Cerciello: un killer ai domiciliari. La moglie: giustizia al contrario ed a seguire un articolo che trasuda in alternativa malafede o ignoranza dei fatti e del diritto (forse entrambe), scegliete voi, parla di un’informazione disinteressata alla comprensione dei fatti che, però, possono esercitare una pressione indebita sui giudici, anche compromettendo la loro indipendenza e imparzialità, generando sfiducia nelle istituzioni e promuovendo sentimenti di vendetta piuttosto che di giustizia.

  • Caso Salis: dati a confronto

    Per ogni cittadino italiano è doveroso portare rispetto al Capo dello Stato poiché rappresenta l’Italia e tutti gli italiani. Inoltre, la sua funzione non è solo al di sopra delle parti ma anche degli altri poteri istituzionali: il legislativo (può sciogliere le Camere e non controfirmare le leggi), l’esecutivo (è lui a nominare i ministri) e il giudiziario (è Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura). Naturalmente tale rispetto è giustamente dovuto anche all’attuale Presidente, l’On. Sergio Mattarella che, prima di diventare Deputato, ministro e Presidente della Repubblica, fu perfino docente di diritto presso l’Università di Palermo.

    È proprio per queste sue indiscutibili competenze ed esperienze che stupisce quanto, a detta del sig. Salis, gli abbia espresso nella telefonata in risposta alla lettera di quest’ultimo e cioè una particolare solidarietà per il caso di sua figlia che sembrerebbe essersi recata in Ungheria con l’innocente scopo di picchiare dei locali manifestanti. La cosa più strana è che il nostro Presidente avrebbe pure affermato che la differenza tra il nostro sistema giudiziario e quello ungherese stia nel fatto che il nostro si ispira a “valori europei” mentre quello magiaro non si sa. Purtroppo, credo che il nostro rispettato Capo dello Stato sia stato vittima di alcune spiacevoli dimenticanze che, proprio in quanto Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, avrebbe dovuto ricordare.

    Vediamo di ricordarglielo noi.

    -L’Italia, così come l’Ungheria, ha aderito alla Convenzione di Roma del 1950 che impone la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali verso tutti. Tuttavia, tra il 1959 e il 2021 il nostro Paese è stato condannato ben 2466 volte per aver violato i principi di quella Convenzione ponendosi, tra i firmatari, al terzo posto dopo Turchia e Russia. L’Ungheria ha subito 614 condanne*.

    -Per nove volte l’Italia è stata condannata per torture. L’Ungheria mai.

    -Come tutti gli italiani sanno, la nostra magistratura non brilla per velocità e la Corte di Strasburgo l’ha condannata per questa ragione ben 1203 volte. L’Ungheria ha subito la stessa sorte 344 volte.

    -A proposito di “giusto processo”, noi abbiamo subito 297 condanne per non averlo rispettato. L’Ungheria ha subito “solo” 33 condanne.

    -Da noi più di un detenuto su tre è imprigionato per oltre sei mesi in attesa di giudizio.

    – Gli italiani attualmente detenuti in Stati esteri sono circa 2600 e molti di loro stanno al di fuori dell’Unione Europea. In Ungheria ce ne sono 32 di cui 12 in attesa di giudizio come la signorina Salis accusata di terrorismo. Anche i parenti di costoro scriveranno al Presidente e riceveranno la sua telefonata di risposta?

    -Dal 1991 al 2022 sono stati appurati da noi circa 30.000 casi di errori giudiziari e sembrerebbe che, in media, ogni anno si scopre che almeno 961 cittadini sono incarcerati e poi giudicati innocenti.

    -È meglio non fare paragoni tra le nostre carceri e quelle ungheresi poiché quasi la metà delle nostre non dispone di acqua calda per le docce e i suicidi tra i detenuti nel 2022 sono stati 85. Non risulta che sia lo stesso in Ungheria.

    -Si accusava il Paese magiaro di non rispettare l’indipendenza della magistratura ma il Presidente avrebbe annunciato di chiedere al nostro Governo che si interessi presso il Governo di Budapest affinché intervenga nel processo a favore della nostra connazionale? Pretendiamo una magistratura indipendente e poi vogliamo un’interferenza del loro esecutivo?

    Ho dovuto citare tutti questi dati anche perché sappiamo che il nostro amato Presidente è dichiaratamente un cristiano osservante e quindi conscio del detto evangelico che invita a non guardare la pagliuzza negli occhi altrui se i nostri bulbi ospitano addirittura una trave.

    *Tutte le cifre citate sono contenute in una lettera aperta che Augusto Sinagra ha inviato al Presidente basandosi su una accurata ricerca effettuata dal generale Raimondo Caria.

  • In attesa di Giustizia: la Corrida

    Chi non ricorda lo spassoso programma televisivo condotto da Corrado Mantoni in cui entusiasti improvvisatori si cimentavano nelle più disparate performances sottoponendosi al giudizio – più spesso al biasimo – del pubblico armato di pentole, fischietti ed altri originali strumenti di voto?

    Ecco, questa settimana, “In attesa di Giustizia” offre – quasi come una strenna – ai suoi lettori una carrellata di esibizioni degna de “La Corrida” se non fosse che i perfomers non sono dilettanti allo sbaraglio, forse si tratta solo di personaggi (ancora) in cerca di autore che presumono troppo. Preparate i campanacci…

    Cominciamo dai polemisti che da ogni dove hanno attaccato l’avvocato Cuccureddu (una donna, tra l’altro) per come ha condotto il controesame della ragazza che si presume abbia subito violenza da parte di Ciro Grillo e dei suoi amici; una considerazione deve premettersi a tutte le altre: come è possibile che neppure un’udienza “a porte chiuse”, cioè senza presenza di pubblico e/o cronisti proprio per la delicatezza degli argomenti e tutelare al meglio la riservatezza dei protagonisti, risulti così facilmente permeabile e la sostanza dei verbali diventi immediatamente di condiviso dominio di quotidiani e telegiornali?

    “Vegogna, domande da Medioevo, patriarcato! (che è il più recente degli insulti)”… alte si levano le voci degli indignati dalla circostanza che un difensore abbia fatto il suo mestiere che, nei casi in cui tutto si gioca sulla parola di uno contro quella dell’altro, consiste nella verifica della attendibilità dei testimoni e non può essere affidata ad altro che ad un rigoroso interrogatorio, magari sgradevole anche per chi lo fa: però anche essere sotto processo per violenza sessuale è sgradevole: in quello a carico di William Kennedy Smith, nipote del senatore Ted, il solo P.M. incalzò per ben undici ore la denunciante la cui partecipazione emotiva fu così coinvolgente che alcuni giurati svennero. Ma quello era il P.M., erano altri anni, accadeva lontano da noi e nessuno se ne lamentò. Il giovane fu, comunque, assolto.

    Per restare in tema di violenza di genere, è Interessante anche la proposta di Mauro Corona, scudiero da anni di Bianca Berlinguer, il quale interpellato per ottenere una illuminante soluzione alla piaga sociale dei femminicidi ha suggerito come deterrente una modifica del codice penale che richiama quello meno recente di Hammurabi (circa trentotto secoli) e che consiste nel mettere il presunto autore a disposizione dei famigliari della vittima per una settimana, chiusi in una stanza e se ne esce vivo buon per lui. Certo che, se la legge del taglione è la più quotata, non ci si deve stupire se una duplice e due volte inutile riforma ha provocato solo pericoloso smarrimento tra legittima difesa ed autorizzazione alla vendetta sociale, tra Far West e Stato di diritto. Ed anche a questo proposito il bestiario degli insegnamenti a reti unificate è stato ricco e vario.

    Il gran finale di questa puntatona della Corrida non poteva che riservarsi a lui: Piercamillo Davigo, in evidente calo di popolarità al punto che pur di ottenere un’ennesima ospitata – rigorosamente in solitario (guai a mettergli in studio un contraddittore) – si è reso disponibile a partecipare ad una puntata de “Il Muschio Selvaggio”.  Intervistato da Federico Leonardo Lucia è riuscito a sgomentare persino lui che, di sicuro, non è un raffinato giurista.

    L’ineffabile Dottor Sottile, richiesto da Fedez di manifestare il proprio pensiero rispetto alla problematica dei suicidi in carcere, non ha saputo dire di meglio che è davvero un peccato che i detenuti si tolgano la vita perché così vanno disperse possibili fonti di informazione.

    Non pago, a proposito della vicenda che ha portato alla sua condanna a quindici mesi di reclusione, non ha saputo offrire di meglio agli ascoltatori che la lapidaria affermazione “Io non ho commesso reati ma, visto che a Brescia le cose non sempre le capiscono mi hanno condannato”.

    Gioco, partita, incontro: sebbene debba annotarsi che l’ultimo palcoscenico dell’ex stratega di Mani Pulite denoti che sia stato, ormai, relegato ad un ruolo di macchietta. Esattamente come il buon selvaggio di Carta Bianca.

    Buon Natale a tutti voi e..meditate gente, meditate.

  • In attesa di Giustizia: il carcere è anche questo

    Con queste parole, la voce incrinata, il Direttore di San Vittore, meritatamente insignito dell’Ambrogino d’oro, ha congedato il pubblico esterno e i detenuti presenti per la tradizionale proiezione della Prima della Scala nella Rotonda dell’istituto penitenziario interrotta durante il secondo atto: un’impiccagione nel quinto reparto e chi conosce un po’ i movimenti del carcere aveva già capito l’allarme, le corse, l’agitazione.

    Un ennesimo suicidio che come ognuno ha ragioni proprie e va rispettato in quanto dramma unico e l’aggettivo “ennesimo” vale solo a sottolineare uno sgomentevole dato quantitativo: sessantasei da inizio anno, ma che contribuisce a farci sentire tutto il peso della attuale situazione delle carceri. Lo aveva detto proprio il Direttore parlando di una situazione drammatica con oltre mille detenuti che non rallentano l’impegno per andare avanti, continuando a credere in un lavoro di grande sacrificio e, ovviamente, nella necessità di portare dentro al carcere la società per momenti di riflessione. Un contributo in tal senso lo diede prima della pandemia proprio il Gruppo Toghe & Teglie, che cura in queste pagine la rubrica di cucina, con due cene aperte ad un pubblico esterno, nel giardino della sezione femminile, eventi dal titolo simbolico “A Tavola con la Speranza”.

    La contraddizione è esplosa in occasione di una ricorrenza in cui va tutto bene, o si finge che così sia, pur consapevoli – e soprattutto noi avvocati lo siamo – che dietro alle cancellate dei reparti ci sono  disperazione,  sovraffollamento,  materassi per dormire per terra, i blindi chiusi, la carenza di igiene, una vita invivibile che aggiungono pene a quella della privazione della libertà andando in senso opposto al progetto di rieducazione dei condannati che dovrebbe essere coltivato nell’interesse comune, nell’ottica di un recupero non solo di esseri umani ma di quella sicurezza che – a parole – sembra stare a cuore a tutti.

    Sessantasei vite umane, un atroce conteggio che non può essere liquidato come un arido bilancio consuntivo di fine anno quando è in conto l’esistenza di persone affidate alla cura di uno Stato che dovrebbe restituirle migliori alla collettività: un elenco che si allunga inesorabilmente, nell’indifferenza di governi che guardano al pianeta carcere con cinica indifferenza, spesso utilizzandolo come emblema di una recuperata incolumità dei cittadini nella salvifica funzione di discarica sociale meramente afflittiva.

    Ora vi è solo da augurarsi che questo evento drammatico, verificatosi in un momento particolare, sia in grado di scuotere le coscienze di chi continua a credere che le carceri possano essere stipate all’inverosimile, e non solo nell’interesse della popolazione detenuta in senso stretto.

    Infatti, oltre ai carcerati non si deve dimenticare tutto il personale, civile ed in divisa, tutti quelli che entrano in carcere anche solo per dare una mano, e che fanno sì che San Vittore – e come San Vittore tutti gli altri Istituti non uno escluso – ogni giorno stia in piedi, nonostante un destino avverso. La cosiddetta società civile dovrebbe mobilitarsi ed esserci, fare proposte in ogni occasione in cui si parli dei progetti positivi che in carcere malgrado tutto esistono, evitando che i penitenziari restino invisibili ai più: strutture lontane dagli occhi e dal pensiero di chi non se ne vuole occupare.

    Ed è a costoro che si deve ricordare che una detenzione dignitosa è un diritto e che devono essere attivati gli strumenti affinché condizioni disumane cessino e prima ancora che sia definitivamente abbandonata la visione carcerocentrica di una giustizia penale che guarda poco o nulla alla effettiva dissuasione e meno ancora al fattore rieducativo della pena proseguendo nello sterile percorso di affrontare ogni emergenza con l’introduzione di nuovi reati o inasprendo le pene per quelli già previsti mentre non si può continuare a fare finta di niente, non più.

  • In attesa di Giustizia: ICAM

    ICAM…che sarà mai, forse parliamo di un talento calcistico proveniente da qualche terra esotica? Nossignore, è  l’ acronimo che sta per Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute: in due parole un segnale di civiltà nei riguardi della popolazione delle carceri che ricomprende le gestanti o le madri detenute, appunto, per le quali è previsto che tengano con sé – in cella, o camera di detenzione come viene eufemisticamente definita – la prole di età inferiore a tre anni.

    Non è difficile immaginare quali siano le condizioni in cui un bambino possa vivere e crescere nei primi anni della sua esistenza se ciò avviene rigorosamente dietro le sbarre di un carcere.

    Ecco, allora che, già nel 2006, a Milano, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria nella persona dell’illuminato Dott. Luigi Pagano, d’intesa con la Magistratura di Sorveglianza, istituì un tavolo di concertazione cui parteciparono il Ministro della Giustizia Castelli, il Ministro dell’Istruzione Moratti, il Presidente della Regione Formigoni, il Presidente della Provincia Penati ed il Sindaco di Milano Albertini; all’esito dei lavori vi fu la firma di un protocollo d’intesa per la creazione dell’ICAM: per esternalizzare dal carcere l’asilo nido esistente a San Vittore.

    L’immobile fu messo a disposizione dalla Provincia, con l’interessamento dell’assessore Francesca Corso, e colà vennero alloggiate le donne detenute con i loro bambini.

    Una realtà diversa rispetto al carcere, non l’ideale ma un segnale anche simbolico per dimostrare che le cose se si vuole, si possono fare, rispettando la legge.

    Una battaglia di civiltà, come la definì il giornalista ed ex atleta Candido Cannavò che fu uno strenuo difensore del progetto.

    La Milano delle innovazioni e della cultura liberale precedette di qualche anno una legge che era in lenta gestazione (senza che vi venisse riconosciuto particolare interesse) e nella quale, comunque, veniva riposto grande affidamento.

    Passarono gli anni, l’ICAM di Milano funzionava perfettamente e rappresentava un’eccellenza ed un esempio nel settore della Amministrazione Penitenziaria. Infine, la normativa che avrebbe dovuto offrire respiro nazionale all’iniziativa fu varata nel 2011 ma con grave approssimazione, stravolgendo in negativo il progetto “milanese” (niente di nuovo sotto il sole) e ripristinando gli asili nido all’interno delle carceri.

    All’ICAM ci si sarebbe andati “eventualmente”…

    Che la disciplina fosse un pateracchio che nulla di buono aveva ereditato dalla esperienza lombarda fu subito chiaro – chissà perché subito dopo e non subito prima di approvare il testo – e da allora diversi Governi si sono alternanti e ogni Ministro ha promesso “mai più bambini in carcere”.

    Si è giunti così fino ai giorni nostri e nelle settimane scorse si è assistito ad uno scontro durissimo in Commissione Giustizia sull’ennesimo tentativo di regolamentare adeguatamente la materia delle madri detenute con i figli: il disegno di legge portava la firma di parlamentari del PD ma è stato ritirato sostenendo che il centrodestra lo voleva stravolgere.

    Sembra che le forze di maggioranza, tra le altre cose, volessero mettere dei paletti di accesso agli Istituti di Custodia Attenuata per le detenute recidive: in fondo nient’altro che una riproposizione di quanto previsto nell’Antico Testamento riguardo alle colpe degli ascendenti ricadenti sui figli.

    23 marzo 2023: Governi e Ministri sono passati ed i bambini sono rimasti in carcere. Anche loro, che sono sicuramente innocenti – checchè ne possa pensare Piercamillo Davigo – restano in attesa di Giustizia.

  • 41 bis per tutti per garantire i cittadini e rendere giustizia alle vittime

    Inutile che una parte del personale politico si impanchi in più o meno pretestuose polemiche, la verità incontrovertibile è che lo Stato, per garantire i cittadini e rendere giustizia alle troppe vittime, non può che applicare il 41 bis per tutti i crimini per i quali è contemplato.

    Tutto il resto è ininfluente.

  • In attesa di Giustizia: mani pulite in salsa belga

    Non è vero che mettiamo in carcere gli indagati per farli confessare, è vero – però – che li scarceriamo quando confessano”. Così parlò, ai tempi di Mani Pulite, il Procuratore della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli.

    Ebbene, gli obbrobri e le forzature della legge nella gestione di quella indagine (che, forse, sarebbe più corretto denominare “mani ammanettate”), di cui scontiamo tutt’ora le conseguenze, sembrano aver trovato degli emulatori esteri.

    O, forse, sarà  in ossequio ai principi che regolano i rapporti tra le diverse Autorità Giudiziarie dell’UE, basati sul principio del mutuo riconoscimento delle decisioni che trova il suo fondamento nella reciproca fiducia che ogni Stato dell’Unione può riporre nella legislazione degli altri partner: fatto sta che Pubblici Ministeri e Giudici Istruttori belgi stanno dimostrando di avere imparato la lezione di Davigo e Di Pietro;  ovvero, se preferite, di Alberto Sordi nei panni del magistrato Annibale Salvemini nel predittivo film “Tutti dentro” del 1984, che oggi  fa amaramente sorridere.

    Stiamo parlando, ovviamente, dell’inchiesta soprannominata “Qatargate” della quale molto si parla e molto altro si ignora o – comunque – è blandamente evidenziato dalle cronache.

    Sappiamo, per esempio, che l’ex europarlamentare Antonio Panzeri ha scelto di confessare (anche, presunte, altrui malefatte: altrimenti la confessione vale poco…) e ciò gli vale un liberatorio patteggiamento alla pena di un anno, che nemmeno sconterà, per reati che in Italia ne valgono una decina malcontati e – questo sì –  la confisca di una considerevole somma di denaro…magari una quota sacrificabile del totale.

    Sembrerebbe, dunque, che la lectio magistralis impartita dal Procuratore di Milano negli anni ’90, richiamata all’inizio, sia stata seguita con la dovuta attenzione, soprattutto per quello che andremo subito ad illustrare.

    Tra le cose di cui si tratta meno, infatti, c’è che alla ex vice presidente dell’Europarlamento Eva Kaili dopo ben ventotto giorni di detenzione è stato consentito di trascorrere un paio d’ore con la figlioletta di soli venti mesi (il cui padre, pure, è detenuto), rigorosamente in carcere neanche fosse una madre che debba rispondere di avere trucidato il fratellino o che vi sia il fondato sospetto che la bimba sia una pericolosa complice da istruire per inquinare le prove.

    La netta sensazione è che – insieme alla privazione della libertà – sia questo un metodo per effettuare pressioni e conquistare l’agognata ammissione di responsabilità…possibilmente condita da qualche accusa nei confronti di altri compartecipi.

    Il termine da utilizzare, di fronte a ciò è uno solo: vergogna. Allora, tanto valeva rinchiudere questa indagata in una vergine Norimberga o strapparle le unghie per vedere se confessava invece di paludarsi da Stato di diritto quando dello Stato di diritto vengono ignorate o infrante regole fondamentali; allora è fuor di luogo puntare l’indice proprio contro il Qatar perché laggiù non vi sarebbe rispetto dei diritti umani.

    Ebbene, sì: par proprio che una identità culturale ed una tradizione giuridica comune tra Italia e Belgio si possano riconoscere traendo spunto da un caso come questo.

    Questa è l’Europa dalle comuni radici cristiane, dell’agognato ravvicinamento dei sistemi penali dei Paesi Membri, la Mani Pulite in salsa belga.

  • Lo stragista norvegese Breivik resta in carcere: «Potrebbe colpire ancora»

    Per chiedere la libertà condizionata, 10 anni dopo aver commesso la più sanguinosa strage in Norvegia dalla Seconda guerra mondiale, si era presentato ai giudici con la testa rasata, il braccio teso nel saluto nazista e nessun segno di rimorso per le 77 persone uccise tra Oslo e l’isola di Utoya, dove si erano riuniti decine di giovani laburisti. In carcere da allora, Anders Behring Breivik dovrà restarci ancora a lungo. “C’è un rischio evidente che ripeta i comportamenti che hanno portato agli attacchi terroristici del 22 luglio 2011”, ha spiegato il tribunale di Telemark, nel sud-est del Paese scandinavo.

    Una decisione in linea con la richiesta della procura e sostanzialmente attesa alla luce della perizia della psichiatra che per anni lo ha osservato in detenzione, Randi Rosenqvist. “Credo che la diagnosi per Breivik rimanga la stessa. Il rischio di futuri atti violenti non è cambiato rispetto al 2012 e al 2013, quando ho scritto la mia prima valutazione”, ha dichiarato l’esperta, secondo cui il terrorista di estrema destra soffre di disturbi della personalità “asociali, istrionici e narcisisti”.

    Condannato nel 2012 a 21 anni di carcere, il massimo della pena prevista dal sistema norvegese, che potrebbe però essere prorogata se alla sua scadenza il condannato venisse ancora ritenuto socialmente pericoloso, Breivik aveva sfruttato l’occasione fornitagli dalla legge per tornare a sciorinare in pubblico i suoi deliri neonazisti. Dalla palestra del carcere di Skien, in cui è detenuto e dove per ragioni di sicurezza si era tenuta l’udienza, il suo folle show si era svolto esponendo tre cartelli – in mano, sulla giacca del completo e su una 24 ore – con la stessa scritta in inglese: “Cessate il vostro genocidio conto le nostre nazioni bianche”.

    Un’ennesima dimostrazione di assenza di rimorso e mancata riabilitazione. Eppure, ha spiegato il suo legale Oystein Storrvik, è intenzionato a fare ricorso per chiedere nuovamente di essere messo in libertà e a presentarne un altro contro le sue condizioni di detenzione in quasi totale isolamento.

    Era il 22 luglio 2011 quando Breivik fece prima esplodere un ordigno vicino alla sede del governo a Oslo, uccidendo otto persone, e poi ne sterminò altre 69, per lo più adolescenti, aprendo il fuoco travestito da agente di polizia sul campo estivo dei giovani laburisti sull’isola di Utoya, colpevoli nella sua visione distorta di aver abbracciato il multiculturalismo. Lo stragista, oggi 42enne, non si è mai pentito, pur sostenendo che la violenza farebbe ormai parte del suo passato. Dalla prigione, dove vive in tre celle con tv e dvd, videogiochi e una macchina da scrivere, nel corso degli anni ha ammesso soltanto di essersi fatto “radicalizzare” da terzi e di essere stato un burattino nelle mani del movimento neonazi Sangue & Onore, cui ha imputato la reale responsabilità degli attacchi.

    Se le chance di un suo rilascio sono sempre apparse scarse, sopravvissuti e familiari delle vittime avevano espresso timori di nuove provocazioni, che si sono puntualmente verificate, stigmatizzando l’attenzione mediatica attirata da ogni sua apparizione. “Breivik non dovrebbe andare in tv non perché sia scandaloso o doloroso, ma perché è il simbolo di un’estrema destra che ha già ispirato diverse altre uccisioni di massa”, aveva scritto su Twitter la sopravvissuta Elin L’Estrange. Un rischio di emulazione testimoniato dal caso dell’attentatore di Christchurch, in Nuova Zelanda, Brenton Tarrant, che il 15 marzo 2019 uccise 51 persone sparando all’impazzata in una moschea e un centro islamico durante il venerdì di preghiera dei musulmani, dicendo poi di essersi in parte ispirato proprio all’autore della strage di Utoya.

  • In attesa di Giustizia: Beccaria, chi era costui?

    Il ‘700, il secolo dei lumi, è lontano: eppure gli insegnamenti, il frutto del pensiero di un’epoca straordinaria di rinascita intellettuale, rimangono attualissimi. Basta pensare all’eredità lasciata dalle grandi rivoluzioni: quella francese e l’americana, al pensiero di Rousseau (che si rivolta nella tomba per l’accostamento del suo cognome con la nota piattaforma a firma Casaleggio & Associati), Montesquieu, Newton, Hegel  e – naturalmente – Cesare Beccaria: un visionario che credeva nella funzione rieducativa della pena e che il diritto penale avesse una mera  funzione sussidiaria come strumento di controllo sociale.

    Tuttavia, seguendo l’insegnamento di improbabili maestri del calibro di Marco Travaglio, Alfonso Bonafede, Nicola Morra (non propriamente definibili come raffinati cultori di teoremi giuridici) e di furbastri agit prop come Piercamillo Davigo e Nicola Gratteri, l’opinione pubblica  – e non solo quella – sembra allinearsi alla corrente di pensiero che segna il primato della querela e dei ceppi ai polsi sulla ragione in un mondo che è ideale solo se carcerocentrico e – quindi – molto distante dalla Città del Sole di Tommaso Campanella.

    Su queste premesse si è già acceso lo scontro dialettico sul controllo del green pass che in molti vorrebbero (ed altrettanti temono) suscettibile di severe verifiche da parte di baristi e camerieri, come per incanto trasformati in ausiliari delle Forze dell’Ordine ma – ahimè – sforniti di poteri sanzionatori.

    Perché, in fondo sempre lì si va a parare: una punizione purchessia per garantire l’ordine costituito. Sul punto, la Ministra competente (?) per materia è ondivaga nel chiarire le regole lasciando i cittadini nella spasmodica attesa di qualche circolare esplicativa che, verosimilmente, sarà partorita con la chiarezza di un testo redatto in lineare B di Cnosso.

    E c’è pure chi vorrebbe che anche i lavoratori sprovvisti di passaporto vaccinale siano passibili di sanzioni alta levando l’invocazione: crucifige, crucifige! sebbene la contestazione disciplinare appaia incompatibile con un obbligo, quello della vaccinazione, che dal punto di vista giuridico non esiste.

    Ma tant’è: in un Paese popolato da aspiranti sceriffi e punitori, quanto a distanza dal pensiero illuminista ed illuminato di Cesare Beccaria si continua a vedere di molto peggio, a conferma di quanto si è osservato sulla tendenza ad un sistema carcerocentrico anziché sulla  attuazione al canone costituzionale che affida finalità rieducative alla espiazione della pena. E non parliamo, non necessariamente, di redattori, editorialisti ed abbonati al Fatto Quotidiano.

    Infatti, qualche mese fa – tanto per fare un primo esempio – ad un detenuto in regime di carcere duro  (il famigerato 41bis) dal Magistrato di Sorveglianza di Viterbo è stata negata la possibilità di acquistare e leggere un libro di Marta Cartabia perché visto come un privilegio e le conoscenze che ne avrebbe tratto ne avrebbero aumentato il carisma criminale.

    Peggio ancora – al peggio, si sa, non c’è limite – ha saputo fare il Tribunale di Sorveglianza di Bologna negando la detenzione domiciliare a un condannato che, in regime di carcerazione, ha conseguito una laurea in economia, una in giurisprudenza ed anche un master. Scrivono questi fenomeni dell’oscurantismo giudiziario che “le lauree e la frequentazione di un master per giurista di impresa si ritiene che possano affinare le indiscusse capacità del condannato e, dunque, gli strumenti giuridici a sua disposizione per reiterare condotte illecite in ambito finanziario ed economico”.

    E, allora, perché non buttare via la chiave, già che ci siamo? Altrimenti prima o poi quest’uomo uscirà e sarà pericolosissimo.

    Anche Beccaria, come Rousseau, si rivolta nella tomba…già, Cesare Beccaria, chi era costui?

  • Terrorista islamico arrestato a Salerno

    Era stato in Siria nel 2012 e si era arruolato nelle file di al-Nusra, braccio armato di al-Qaeda, poi quando il Califfato aveva preso terreno sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi, aveva deciso di continuare a combattere per lo Stato islamico, di cui era diventato uno dei capi militari. Afia Abderrahman, più noto tra i foreign fighter con il nome di battaglia di Abu al-Bara, 29 anni, marocchino, è stato catturato dalla polizia a Lago, in provincia di Salerno. Su di lui, fanno sapere le autorità, pendono le accuse di associazione a delinquere finalizzata alla preparazione e alla commissione di atti di terrorismo, detenzione illegale di armi da fuoco, attività collettiva avente fine di attentare all’ordine pubblico e raccogliere fondi per il finanziamento di atti di terrorismo. A firmare il mandato d’arresto è stato il procuratore generale presso la Corte di appello di Rabat, in Marocco, il 28 giugno scorso. La misura è poi stata estesa a livello internazionale l’8 luglio.

    La cattura dell’ex foreign fighter è avvenuta grazie alla collaborazione tra l’intelligence italiana, marocchina e l’Interpol, che attraverso una minuziosa attività di osservazione, controllo e pedinamento, grazie anche all’uso di tecnologie all’avanguardia, sono riusciti a localizzare l’uomo vicino a un bar in Campania, mentre si trovava lì con altri cittadini extracomunitari. A quel punto è scattata l’operazione che ha portato all’arresto del 29enne, a carico del quale risultano segnalazioni nella banca dati Schengen inserite da Spagna e Francia. L’uomo era inoltre già emerso all’attenzione del Comparto sicurezza nel 2018, in quanto segnalato dall’intelligence come combattente jihadista. Adesso è detenuto nel carcere di Salerno, a disposizione dell’autorità giudiziaria in attesa del perfezionamento della procedura per l’estradizione.

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