L’aeroporto di Nairobi, in Kenya, è uno dei fronti caldi della partita tra grandi potenze in Africa. Qui il gruppo indiano Adani, di proprietà dell’omonimo imprenditore Gautam, è pronto a investire 1,85 miliardi di dollari in cambio della concessione trentennale dello scalo. È già chiuso l’accordo con il governo keniota, guidato dal presidente William Ruto, che insiste sull’opportunità di approfittare dei fondi indiani per portare “tecnologie avanzate e infrastrutture moderne” all’aeroporto internazionale “Jomo Kenyatta”. Eppure, il progetto incontra forti resistenze.
Nella notte tra il 10 e l’11 settembre l’Unione dei lavoratori aeroportuali del Kenya ha avviato uno sciopero che ha completamente paralizzato lo scalo, tra i primi dieci in Africa in termini di traffico passeggeri. Centinaia di passeggeri, tra cui una ventina di cittadini italiani, sono rimasti bloccati all’interno dell’aeroporto. Il sindacato sostiene che l’accordo con Adani porterebbe a licenziamenti e a un peggioramento delle condizioni di lavoro. Le critiche all’accordo, però, non si fermano qui: secondo gli oppositori, la concessione dell’aeroporto di Nairobi al gruppo Adani priverebbe lo Stato keniota di profitti che, ad oggi, costituiscono circa il 5 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) nazionale.
Nella notte tra l’11 e il 12 settembre lo sciopero è stato sospeso, ma la questione resta aperta e potrebbe continuare a logorare un governo, quello di Ruto, che già la scorsa estate ha traballato vistosamente durante le proteste di massa contro gli aumenti delle tasse decise dalle autorità nell’ultima manovra finanziaria, poi revocata. Anche perché, nel frattempo, contro l’accordo con Adani è stata mossa un’azione legale da parte della Commissione per i diritti umani del Kenya e dell’associazione nazionale degli avvocati, che ritengono l’intesa incostituzionale. Nell’esposto all’Alta corte keniota la concessione viene definita “irrazionale”, poiché violerebbe “i principi costituzionali di buona governance, di trasparenza, di prudente e responsabile uso del denaro pubblico”.
La vicenda per il Kenya è delicata, soprattutto perché s’intreccia con una complicata trama d’interessi geopolitici. Il Paese, con Ruto al potere (domani, 13 settembre, la sua presidenza compirà due anni), è diventato il più stretto alleato degli Stati Uniti in Africa. Lo scorso maggio Ruto è stato il primo leader africano invitato alla Casa Bianca da 15 anni a questa parte. Nell’occasione, il presidente Joe Biden ha nominato il Kenya “maggior alleato non-Nato”, attribuzione che consentirà a Nairobi di accedere a prestiti nel settore della difesa, programmi di addestramento e attrezzature militari sofisticate di produzione statunitense. L’amministrazione Ruto, da parte sua, ha manifestato un attivismo internazionale senza precedenti. Lo ha fatto inviando mille agenti di polizia a Haiti nel quadro di una missione internazionale contro la gang criminali che controllano la capitale Porto Principe, ma anche svolgendo un importante ruolo di mediazione per la conclusione della guerra civile nel Tigrè, in Etiopia, e per la riduzione delle violenze nell’est della Repubblica democratica del Congo (Rdc). Il Kenya, insomma, si è trasformato in un bastione degli interessi degli Stati Uniti in un’area, quella dell’Africa orientale, nella quale negli ultimi anni era stata soprattutto la Cina, con i suoi investimenti, ad accrescere il proprio peso.
Appare dunque ben probabile che Washington abbia benedetto l’investimento del gruppo indiano a Nairobi proprio in funzione anti-cinese. Allo stesso modo, è plausibile che Pechino, dopo che la scorsa settimana il presidente Xi Jinping ha annunciato 51 miliardi di dollari d’investimenti nei prossimi tre anni in Africa, si stia mobilitando per contenere la penetrazione economica indiana nella regione. Una penetrazione che vede in prima fila proprio il gruppo Adani, che nel frattempo ha anche ottenuto la concessione per trent’anni di un terminal container al porto di Dar es Salaam, in Tanzania. A giugno un rapporto dell’Ufficio nazionale di statistica di Nairobi indicava come l’India abbia ormai superato la Cina quale principale investitore straniero in Kenya. Due anni fa era stato lo stesso Gautam Adani, presidente del gruppo, ad anticipare gli sviluppi attuali. “Prevedo che la Cina, che a lungo è stata vista come campione della globalizzazione, si sentirà sempre più isolata. L’incremento del nazionalismo, la mitigazione dei rischi nelle catene di fornitura globali, le restrizioni alle tecnologie avranno un impatto”, aveva detto il tycoon indiano commentando la perdita di slancio della Nuova via della seta (Belt and road initiative, Bri).
In Kenya, del resto, la maxi-iniziativa infrastrutturale cinese non è stata un successo. Il principale dei progetti finanziati da Pechino, la Ferrovia a scartamento normale (Sgr) tra la capitale Nairobi e il porto di Mombasa, è stato inaugurato nel 2017 alla presenza dell’allora presidente Uhuru Kenyatta. Tuttavia, il piano iniziale prevedeva che la linea fosse collegata all’Uganda e, potenzialmente, ad altri Paesi della regione senza sbocco sull’Oceano Indiano (Ruanda, Burundi, Repubblica democratica del Congo), con una movimentazione di merci che avrebbe consentito al governo keniota di ripagare i prestiti da circa 4,7 miliardi di dollari ottenuti dalle banche cinesi. Invece due anni dopo, per mancanza di fondi, i lavori della ferrovia si sono fermati a Naivasha, nella Rift Valley, meno di 100 chilometri a nord di Nairobi e quasi 300 chilometri da Malaba, città di frontiera dell’Uganda. La questione è stata al centro della visita di Ruto a Pechino la scorsa settimana, in occasione del Forum sulla cooperazione Cina-Africa (Focac). Non è chiaro se il presidente keniota sia riuscito a ottenere impegni concreti dal governo cinese (almeno 5 miliardi di dollari i fondi necessari al prolungamento della ferrovia Sgr), come preannunciato alla vigilia della visita. È ben possibile, però, che Pechino tenti di condizionare ulteriori aiuti a un cambio di rotta della politica estera di Nairobi.