Cina

  • L’India ‘scippa’ il Kenya alla Cina e si prende l’aeroporto di Nairobi

    L’aeroporto di Nairobi, in Kenya, è uno dei fronti caldi della partita tra grandi potenze in Africa. Qui il gruppo indiano Adani, di proprietà dell’omonimo imprenditore Gautam, è pronto a investire 1,85 miliardi di dollari in cambio della concessione trentennale dello scalo. È già chiuso l’accordo con il governo keniota, guidato dal presidente William Ruto, che insiste sull’opportunità di approfittare dei fondi indiani per portare “tecnologie avanzate e infrastrutture moderne” all’aeroporto internazionale “Jomo Kenyatta”. Eppure, il progetto incontra forti resistenze.

    Nella notte tra il 10 e l’11 settembre l’Unione dei lavoratori aeroportuali del Kenya ha avviato uno sciopero che ha completamente paralizzato lo scalo, tra i primi dieci in Africa in termini di traffico passeggeri. Centinaia di passeggeri, tra cui una ventina di cittadini italiani, sono rimasti bloccati all’interno dell’aeroporto. Il sindacato sostiene che l’accordo con Adani porterebbe a licenziamenti e a un peggioramento delle condizioni di lavoro. Le critiche all’accordo, però, non si fermano qui: secondo gli oppositori, la concessione dell’aeroporto di Nairobi al gruppo Adani priverebbe lo Stato keniota di profitti che, ad oggi, costituiscono circa il 5 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) nazionale.

    Nella notte tra l’11 e il 12 settembre lo sciopero è stato sospeso, ma la questione resta aperta e potrebbe continuare a logorare un governo, quello di Ruto, che già la scorsa estate ha traballato vistosamente durante le proteste di massa contro gli aumenti delle tasse decise dalle autorità nell’ultima manovra finanziaria, poi revocata. Anche perché, nel frattempo, contro l’accordo con Adani è stata mossa un’azione legale da parte della Commissione per i diritti umani del Kenya e dell’associazione nazionale degli avvocati, che ritengono l’intesa incostituzionale. Nell’esposto all’Alta corte keniota la concessione viene definita “irrazionale”, poiché violerebbe “i principi costituzionali di buona governance, di trasparenza, di prudente e responsabile uso del denaro pubblico”.

    La vicenda per il Kenya è delicata, soprattutto perché s’intreccia con una complicata trama d’interessi geopolitici. Il Paese, con Ruto al potere (domani, 13 settembre, la sua presidenza compirà due anni), è diventato il più stretto alleato degli Stati Uniti in Africa. Lo scorso maggio Ruto è stato il primo leader africano invitato alla Casa Bianca da 15 anni a questa parte. Nell’occasione, il presidente Joe Biden ha nominato il Kenya “maggior alleato non-Nato”, attribuzione che consentirà a Nairobi di accedere a prestiti nel settore della difesa, programmi di addestramento e attrezzature militari sofisticate di produzione statunitense. L’amministrazione Ruto, da parte sua, ha manifestato un attivismo internazionale senza precedenti. Lo ha fatto inviando mille agenti di polizia a Haiti nel quadro di una missione internazionale contro la gang criminali che controllano la capitale Porto Principe, ma anche svolgendo un importante ruolo di mediazione per la conclusione della guerra civile nel Tigrè, in Etiopia, e per la riduzione delle violenze nell’est della Repubblica democratica del Congo (Rdc). Il Kenya, insomma, si è trasformato in un bastione degli interessi degli Stati Uniti in un’area, quella dell’Africa orientale, nella quale negli ultimi anni era stata soprattutto la Cina, con i suoi investimenti, ad accrescere il proprio peso.

    Appare dunque ben probabile che Washington abbia benedetto l’investimento del gruppo indiano a Nairobi proprio in funzione anti-cinese. Allo stesso modo, è plausibile che Pechino, dopo che la scorsa settimana il presidente Xi Jinping ha annunciato 51 miliardi di dollari d’investimenti nei prossimi tre anni in Africa, si stia mobilitando per contenere la penetrazione economica indiana nella regione. Una penetrazione che vede in prima fila proprio il gruppo Adani, che nel frattempo ha anche ottenuto la concessione per trent’anni di un terminal container al porto di Dar es Salaam, in Tanzania. A giugno un rapporto dell’Ufficio nazionale di statistica di Nairobi indicava come l’India abbia ormai superato la Cina quale principale investitore straniero in Kenya. Due anni fa era stato lo stesso Gautam Adani, presidente del gruppo, ad anticipare gli sviluppi attuali. “Prevedo che la Cina, che a lungo è stata vista come campione della globalizzazione, si sentirà sempre più isolata. L’incremento del nazionalismo, la mitigazione dei rischi nelle catene di fornitura globali, le restrizioni alle tecnologie avranno un impatto”, aveva detto il tycoon indiano commentando la perdita di slancio della Nuova via della seta (Belt and road initiative, Bri).

    In Kenya, del resto, la maxi-iniziativa infrastrutturale cinese non è stata un successo. Il principale dei progetti finanziati da Pechino, la Ferrovia a scartamento normale (Sgr) tra la capitale Nairobi e il porto di Mombasa, è stato inaugurato nel 2017 alla presenza dell’allora presidente Uhuru Kenyatta. Tuttavia, il piano iniziale prevedeva che la linea fosse collegata all’Uganda e, potenzialmente, ad altri Paesi della regione senza sbocco sull’Oceano Indiano (Ruanda, Burundi, Repubblica democratica del Congo), con una movimentazione di merci che avrebbe consentito al governo keniota di ripagare i prestiti da circa 4,7 miliardi di dollari ottenuti dalle banche cinesi. Invece due anni dopo, per mancanza di fondi, i lavori della ferrovia si sono fermati a Naivasha, nella Rift Valley, meno di 100 chilometri a nord di Nairobi e quasi 300 chilometri da Malaba, città di frontiera dell’Uganda. La questione è stata al centro della visita di Ruto a Pechino la scorsa settimana, in occasione del Forum sulla cooperazione Cina-Africa (Focac). Non è chiaro se il presidente keniota sia riuscito a ottenere impegni concreti dal governo cinese (almeno 5 miliardi di dollari i fondi necessari al prolungamento della ferrovia Sgr), come preannunciato alla vigilia della visita. È ben possibile, però, che Pechino tenti di condizionare ulteriori aiuti a un cambio di rotta della politica estera di Nairobi.

  • Nuova guerra fredda: bombardieri cinesi e russi intercettati sull’Alaska

    Il Comando di difesa aerospaziale del Nord America (Norad) ha intercettato a fine luglio due bombardieri russi e due cinesi in volo al largo dell’Alaska. Lo ha riferito un funzionario del dipartimento della Difesa Usa citato dall’emittente televisiva “Cnn”, secondo cui è la prima volta che bombardieri dei due Paesi vengono intercettati mentre effettuano un pattugliamento congiunto al largo di quello Stato Usa. I quattro bombardieri si sono mantenuti nello spazio aereo internazionale all’interno della Zona di identificazione per la difesa aerea dell’Alaska, e “non sono stati ritenuti una minaccia”, secondo un comunicato diffuso dal Norad. I quattro velivoli – due bombardieri strategici russi a lungo raggio Tu-95 Bear e due bombardieri cinesi H-6 – sono stati intercettati da cacciabombardieri statunitensi F-16 ed F-35 e da cacciabombardieri canadesi Cf-18.

    Gli Stati Uniti intendono adottare un nuovo approccio alle sfide strategiche nell’Artide, basato su una più stretta collaborazione con alleati e Paesi partner e in risposta al crescente allineamento delle politiche regionali di Russia e Cina. Il dipartimento della Difesa Usa ha presentato questa settimana una nuova strategia regionale, che prevede l’istituzione di una “Tavola rotonda per le politiche di sicurezza nell’Artide”, tesa a definire linee guida in materia di difesa. La Tavola rotonda si affiancherà al Consiglio artico, il forum internazionale di alto livello che include tra i suoi membri anche la Russia, e che non si occupa di questioni legate alla difesa. Il dipartimento della Difesa Usa non aggiornava la propria strategia per l’Artide dal 2019, e la nuova versione del documento fa esplicito riferimento ai tentativi della Cina di aumentare la propria presenza e influenza nella regione.

    Il documento evidenzia anche la maggior frequenza delle esercitazioni militari congiunte intraprese da Russia e Cina nell’Artide, e sottolinea che navi da guerra dei due Paesi hanno operato in acque internazionali al largo dell’Alaska sia nel 2022 che nel 2023. “L’isolamento della Russia causato dalla sua invasione su larga scala dell’Ucraina l’ha resa sempre più dipendente (dalla Cina) per il finanziamento delle infrastrutture di esportazione energetica nell’Artide”, afferma il documento strategico, secondo cui “oltre l’80 per cento della produzione russa di gas naturale e il 20% di quella di petrolio viene dall’Artide, e la Russia si sta rivolgendo sempre più ai fondi (della Cina) per l’estrazione e l’acquisto di queste risorse”. La politica artica adottata dalla Cina nel 2018 afferma che il futuro della regione è questione che riguarda “il benessere” di tutti gli Stati mondiali, e che la governance dell’Artide richiede la partecipazione e il contributo ” di tutte le parti interessate”.

  • La “trappola di Tucidide” di Cina e Usa. E l’insussistenza Europea

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Dario Rivolta apparso su notiziegeopolitiche.net il 27 luglio 2024

    Da un po’ di tempo a questa parte diversi analisti di politica internazionale usano volentieri i concetti della “Trappola di Tucidide” per parlare dei rapporti tra Cina e Stati Uniti. Tucidide fu uno storico greco che sostenne fosse inevitabile scoppiasse la guerra tra una potenza dominante in declino e una nuova potenza nascente che aspirasse a prenderne il posto.
    Se applicassimo quel criterio alla situazione del mondo di oggi non dovremmo nemmeno domandarci se scoppierà una guerra tra la Cina e gli Stati Uniti. La sola domanda che potremmo porci è: quando.
    Per cercare di rispondere al quesito è interessante leggere l’intervista che l’americano Graham Allison ha concesso poche settimane orsono ad un giornale indipendente di Hong Kong. Il personaggio non è un qualunque politologo: fu assistente segretario alla Difesa nell’amministrazione Clinton ed è ora professore di Government alla Harward University, oltre che rettore e fondatore della John F. Kennedy scuola di Government, sempre alla Harward. In un libro dal titolo “Destinati alla guerra” naturalmente parla proprio di Washington e Pechino come classici rivali.
    Poco prima di rilasciare l’intervista aveva compiuto un viaggio in Cina dove incontrò non solo il ministro degli esteri Wang Yi e altri alti livelli del ministero degli Esteri, ma anche lo stesso presidente Xi Jinping per una lunga conversazione a due. Allison descrive l’uomo come fortemente ambizioso, sicuro di sé e determinato a far sì che la Cina diventi ogni cosa che potrà essere. Parole particolarmente curiose e interessanti sono quelle di Xi quando riferisce di una conversazione avuta con Barak Obama. Il presidente cinese ricorda che Obama gli disse che se i cinesi fossero diventati benestanti come gli americani e come loro consumassero la stessa quantità di energia con conseguente emissione di gas nocivi, la biosfera sarebbe diventata inabitabile per tutti. Dopo una pausa Xi aggiunse ad Allison: “Si immagina dunque che noi dovremmo essere felici di essere benestanti solo un quinto di quanto lo sono oggi gli americani?”. E dette lui stesso la risposta affermando che comunque la Cina era intenzionata a modernizzarsi in un suo proprio modo pur senza effetti negativi per l’intero mondo. Era fiducioso che, poiché i cinesi sono gente intelligente e grandi lavoratori, avrebbero facilmente raggiunto almeno la metà del PIL pro capite degli americani. E poi: “Faccia un conto aritmetico. Poiché noi siamo una popolazione quattro volte più numerosa significa che il nostro Pil pro-capite sarà due volte quello degli Usa. E con un PIL doppio avremo un budget della difesa che sarà il doppio, un budget per l’intelligence due volte più grande e una leva economica con altrettanta proporzione”.
    Sembrerebbe ovvio che, qualora ciò avvenisse, la “Trappola di Tucidide” potrebbe diventare una realtà.
    Allison non si dichiara però pessimista. Ritiene che esista, di là da un certo determinismo, un fattore umano che potrà influenzare il possibile comportamento dei leader. In particolare, riferendosi alla storia dei due millenni passati, ricorda che, pur in presenza di una potenza ascendente e di una in declino, non sempre ciò ha dato luogo ad una guerra. L’alternativa possibile dei nostri tempi è che i leader dei due Paesi, consci di ciò che potrebbe significare per il mondo un conflitto atomico, potrebbero scegliere di continuare a confrontarsi a distanza anche per trenta, quaranta o altri cinquant’anni senza ricorrere al conflitto. In questo caso sarebbero la storia e le rispettive popolazioni a decidere quale dei due sistemi, quello cinese o quello americano, meglio soddisfi ciò che i cittadini vogliono e il conflitto andrà appianandosi automaticamente.
    A una domanda in merito al risultato dell’incontro che Biden e Xi ebbero mesi fa a San Francisco, Allison risponde che, pur senza conoscere i dettagli di quell’incontro riservato, è probabile che si siano trovati d’accordo su diversi punti. Ammette tuttavia che entrambi possano aver nutrito e continuato a nutrire dubbi sulla buona fede e sul rispetto degli accordi da parte dell’altro. Sicuramente, continua, qualunque intesa sia stata raggiunta non ne saranno stati definiti i dettagli e quindi ciascuno potrà interpretare le cose a modo suo. Una seconda osservazione importante che Allison fa è che i poteri di un presidente Usa e di quello cinese sono molto diversi: mentre il primo opera in un sistema con più voci e con la presenza di contrappesi, il secondo può più facilmente imporre al proprio Paese le decisioni che intende assumere. E ciò potrebbe avere conseguenze, ma non necessariamente quelle di mutua soddisfazione.
    Un argomento cui l’intervistatore non rinuncia è di chiedere cosa pensi l’intervistato dei rapporti tra Cina e Russia. Allison risponde che molti politologi e politici statunitensi hanno continuato a ritenere innaturale, e quindi impossibile, una alleanza tra Cina e Russia e tuttora stentano ad accettare il fatto che sia stata proprio Washington a spingerli verso una alleanza sempre più stretta. La logica, ahimè negletta anche da politici altrimenti intelligenti, è “il nemico del mio nemico è mio amico”. È esattamente ciò che sta accadendo: Mosca e Pechino hanno il comune obiettivo di rendere innocuo quello che definiscono l’ordine egemonico statunitense “unipolare” per favorire invece un ordine multipolare in cui entrambe possano diventare dei poli strategicamente importanti nel mondo. Resterebbe solo da aggiungere che la Russia non aveva altra scelta dopo essere stata emarginata politicamente ed economicamente dall’occidente.
    Alla domanda “se la Russia è impegnata in una grande guerra contro l’Ucraina e se gli Stati Uniti si focalizzano su di essa, quale opportunità potrebbe crearsi per la Cina? Se nello stesso tempo esiste un Medio Oriente in fiamme e anche esso richiede l’attenzione degli Usa, come può Washington affrontare tre pericolosi scenari contemporaneamente?”. Anche in questo caso la risposta, non si sa se totalmente sincera o perché non è facile accettare di diventare una Cassandra, è relativamente ottimista: “L’atteggiamento dell’amministrazione statunitense nei confronti della Cina dovrà avere tre componenti: una ferma competizione, una continua comunicazione e una sincera cooperazione. A quale fine? Per ottenere una competizione pacifica, a lungo termine che consenta di vedere in 25 anni o in mezzo secolo quale dei due sistemi risponda con maggior successo a ciò che i popoli vogliono”. Inoltre, aggiunge, gli americani stanno saggiamente costruendo una rete di alleanze come l’AUKUS, il QUAD, il rafforzamento dei trattati con Giappone, Corea del Sud, Australia e Filippine, e ciò assicurerà un sufficiente contrappeso alla Cina nel contesto asiatico. È ovvio, continua ancora Allison, che gli Stati Uniti dovranno fare delle scelte poiché è impossibile, nonostante siano la più grande potenza militare del mondo, fronteggiare contemporaneamente tre aree di crisi lontane tra loro. Sarà allora ovvio che le risorse destinate all’Europa dovranno essere ridotte sostanzialmente e occorrerà fare una scelta anche dal punto di vista economico per assicurare che alcuni prodotti importanti attualmente controllati dalla potenza dominante siano garantiti e non resi disponibili ai concorrenti.
    A questo punto l’intervistatore pone una domanda cruciale che pochi, anche tra gli storici, oserebbero porre. “Quale parallelo si può fare tra questa situazione con la Cina e le sanzioni statunitensi che portarono alla guerra tra il Giappone e gli Stati Uniti nel 1940?“.
    La risposta: “E’ certo vero che, storicamente, un certo numero di rivalità tucididee si siano manifestate proprio sulle risorse… se noi forziamo un concorrente a scegliere tra un suo strangolamento sicuro entro sei mesi o un anno, oppure tentare una soluzione rischiosa ma magari con la possibilità di vincere una guerra… Può diventare razionale per un contendente scegliere la guerra. Ora, io penso che nell’attuale rivalità tecnologica l’amministrazione Biden sia determinata nel cercare di mantenere il più ampio possibile il gap con i cinesi in tutte le frontiere tecnologiche quali intelligenza artificiale, semiconduttori, genomica o quantum per la biologia sintetica. Tuttavia in nessuno di questi gli Usa saranno capaci di impedire alla Cina qualche versione diversa di capacità. Potrebbe essere questione di una generazione o due… i cinesi sono intelligenti e grandi lavoratori e hanno ogni anno dieci volte più laureati degli americani… in Cina, dove c’è una competizione molto più forte tra le compagnie produttrice di macchine elettriche, la società BYD (partecipata finanziariamente anche da Warren Buffett) è attualmente quella che ha preso la maggiore fetta di mercato che fu di Tesla. La mia scommessa sarebbe che la rivalità tecnologica sarà forte ma non arriverà al punto da strangolare le opportunità per la Cina di svilupparsi per conto proprio o di trovare altre fonti… Siamo in una economia globalizzata e ci sono altre fonti potenziali per quasi qualunque cosa gli Stati Uniti cercherebbero di tenere sotto controllo… Gli sforzi americani potranno ritardare ma non impedire gli sforzi cinesi su questi fronti… non penso che queste intenzioni americane possano diventare un decisivo fattore di guerra”.
    A questo punto ognuno tragga le valutazioni che preferisce dal contenuto di questa intervista, ma è corretto notare che in nessuno dei temi toccati nell’intervista si trova un qualunque ruolo per l’Europa. L’unica volta in cui la si menziona è quando si afferma che affinché gli Usa possano concentrarsi efficacemente nelle aree considerate di crisi è necessario per Washington ridurre gli impegni che ha verso il Vecchio continente. Naturalmente nessuno può auspicare che scoppi una guerra mondiale ma, se dovesse succedere, gli europei vi verrebbero trascinati solo come obbedienti vassalli e, se fortunatamente nessun conflitto accadesse, i veri “grandi” troveranno un qualunque accordo tra di loro e ciò accadrebbe alle spalle o addirittura sulle teste degli europei stessi.

    Sarà mai possibile che qualche politico europeo capisca che l’Europa deve assolutamente cambiare e mettere mano ai Trattati esistenti per costruire, con chi lo vorrà, una vera Unione politica di carattere federale? Altrimenti il destino degli europei sarà solo quello del “vaso di coccio” di manzoniana memoria.

    * Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.

  • La Cina alza l’età pensionabile

    Il governo della Cina innalzerà gradualmente l’età pensionabile prevista dalla legge, tra le più basse al mondo, per alleggerire la crescente pressione sul sistema di previdenza sociale. È quanto si apprende da un documento pubblicato dalle autorità cinesi, in cui vengono delineati piani per contrastare il calo della natalità e l’invecchiamento della popolazione, con il completamento dei relativi obiettivi entro il 2029. Attualmente, l’età pensionabile in Cina è fissata a 60 anni per gli uomini, a 55 anni per le donne che svolgono lavori impiegatizi e a 50 per le lavoratrici delle fabbriche. La riforma procede di pari passo con l’aumento dell’aspettativa di vita nel Paese asiatico, passata da circa 44 anni nel 1960 a 78 anni nel 2021. Entro il 2050, dovrebbe superare gli 80 anni.

    Come spiegato da Michael Herrmann, consulente senior presso il fondo delle Nazioni Unite per lo sviluppo della popolazione”, gran parte dei governi ricorrono all’aumento dell’età pensionabile in risposta alle pressioni demografiche, con l’obiettivo di salvaguardare i fondi dedicati alla previdenza e frenare una potenziale contrazione della forza lavoro. Attualmente, ogni pensionato in Cina è sostenuto dal contributo di cinque lavoratori: il rapporto risulta dimezzato rispetto a dieci anni fa e dovrebbe diventare di 4 a 1 nel 2030 e di 2 a 1 nel 2050. La riforma del sistema pensionistico cinese è appoggiata da diversi economisti, secondo cui il programma che prevede la riduzione della forza lavoro attiva per sostenere un numero crescente di pensionati è “insostenibile” e “deve essere riformato”. Secondo i dati del ministero delle Finanze, undici delle 31 giurisdizioni cinesi a livello provinciale registrano attualmente un deficit di bilancio relativamente alle pensioni. L’Accademia cinese delle scienze, controllata dallo Stato, prevede che il sistema pensionistico si esaurirà entro il 2035.

  • Terre rare ma non troppo: la Mongolia è lo scrigno della Cina

    La regione autonoma della Mongolia interna, che fa parte della Cina e non dello stato della Mongolia con capitale Ulan Bator, ha un valore strategico per la Cina: ricca di risorse naturali, ospita il più grande giacimento di terre rare della Cina, primo paese al mondo per riserve di tale risorsa che è essenziale per la fabbricazione di diversi tipi di microchip.

    L’area mineraria di Bayan Obo (ovest della regione) è considerata la “capitale delle terre rare”. Si stima che qui ve ne siano 100 milioni di tonnellate, cioè l’83% di quelle della Cina, che a sua volta possiede il 38% delle riserve mondiali. Si tratta soprattutto di quelle “leggere”, impiegate nello sviluppo di turbine eoliche, auricolari, microfoni, schermi lcd e al plasma, magneti, veicoli ibridi, videocamere, batterie ricaricabili, smartphone e missili guidati.

    Oggi la Mongolia Interna è abitata dagli han (17,6 milioni), dai mongoli (circa 4 milioni) e da altre etnie minoritarie. Il boom dell’estrazione mineraria e in particolare delle terre rare ha alimentato la crescita esponenziale della regione nei primi anni Duemila. Questo ha determinato tuttavia l’aggravarsi dell’inquinamento ambientale e l’accelerazione del processo di urbanizzazione. Pechino cerca di alimentare la crescita della regione coinvolgendola nel progetto “Una cintura, una via” (o Belt and Road Initiative) e allo stesso tempo, sta cercando di porre limiti all’estrazione, per non danneggiare eccessivamente l’ambiente.

    Pechino ha peraltro forti interessi economici anche con la cosiddetta Mongolia esterna, quella che il mondo conosce come lo Stato della Mongolia con capitale Ulan Bator, legati anzitutto al carbone, vero tesoro nazionale di quel Paese. Negli ultimi anni si sono registrate varie proteste nella capitale Ulan Bator perché funzionari pubblici sono sospetti di corruzione pro-Cina e di aver di fatto svenduto a Pechino quello che è il vero tesoro nazionale, il carbone appunto, per un valore di miliardi di dollari.

  • I proventi della droga viaggiano attraverso le banche fantasma cinesi

    La direzione distrettuale antimafia di Roma ha scoperto una banca fantasma cinese, che smistava in tutto il mondo i profitti del traffico di stupefacenti. In tutto gli indagati sono quaranta tra cittadini italiani e cinesi, per 19 sono scattate le misure cautelari, i reati contestati sono, a vario titolo, l’associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, il riciclaggio, l’estorsione, l’autoriciclaggio e la detenzione abusiva di armi.

    Si tratta peraltro dell’ultimo di una serie di episodi analoghi su cui sono in corso indagini da tempo.

    Nella prima relazione semestrale del 2020 della direzione antimafia, partendo dal crollo delle rimesse inviate dagli immigrati cinesi in Italia monitorato dalla Banca d’Italia. Nel 2017 la quota ammontava a 136 milioni di euro, nel 2019 a 11 milioni, nel 2022 la situazione non è migliorata molto: l’ammontare delle somme dirette a Pechino è risalito di poco, raggiungendo i 23 milioni di euro.

    Denominato flying money, soldi volanti, dal cinese feichien, il sistema informale di trasferimento di valore  è nato in Cina ai tempi dei Tang, la dinastia che ha regnato dal 618 al 907 dopo Cristo, ha portato l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia (Uif) a segnalare 62 operazioni sospette facenti capo a una rete di 1600 soggetti.

  • La Commissione impone dazi compensativi provvisori sulle importazioni di veicoli elettrici a batteria dalla Cina

    La Commissione europea ha istituito dazi compensativi provvisori sulle importazioni di veicoli elettrici a batteria dalla Cina.

    Sulla base dell’inchiesta svolta, la Commissione ha concluso che la catena del valore dei veicoli elettrici a batteria in Cina beneficia di sovvenzioni sleali, dalle quali deriva una minaccia di pregiudizio economico ai produttori UE di veicoli elettrici a batteria.

    Le consultazioni con il governo cinese si sono intensificate nelle ultime settimane, a seguito di uno scambio di opinioni tra il vicepresidente esecutivo Valdis Dombrovskis e il ministro cinese del Commercio Wang Wentao. I contatti proseguono a livello tecnico al fine di giungere a una soluzione che sia compatibile con l’OMC e risponda adeguatamente alle preoccupazioni sollevate dall’Unione europea. Rispetto alle aliquote comunicate preventivamente il 12 giugno 2024, i dazi provvisori sono stati leggermente adeguati al ribasso tenendo conto delle osservazioni sull’esattezza dei calcoli presentate dalle parti interessate.

  • Sempre più startup cinesi legate all’intelligenza artificiale si stanno stabilendo a Singapore

    Singapore sta diventando sempre più la destinazione preferita per le startup cinesi di intelligenza artificiale che cercano di entrare un circuito globale.

    Sebbene la città-stato attiri da tempo aziende dalla Cina, in particolare gli imprenditori dell’intelligenza artificiale stanno accelerando il cambiamento perché le sanzioni commerciali imposte dagli Stati Uniti sulla loro patria bloccano il loro accesso alle tecnologie più recenti.

    Qian Yiming, co-fondatore e chief technology officer della startup AI Climind, afferma che oltre all’affinità culturale e linguistica, Singapore è attraente perché il suo governo offre aiuto, compreso il sostegno finanziario e il supporto tecnico.

    Una base a Singapore è anche un modo per le aziende di prendere le distanze dalle loro origini cinesi, una mossa spesso chiamata “Singapore-washing” che però non sempre funziona.

  • Le migrazioni interne della Cina creano milioni di orfani di fatto

    Il termine cinese è “liushou ertóng”, significa “bambini lasciati indietro” e indica i bambini lasciati al paese dai genitori andati a lavorare in città lontane. Nel Paese del Dragone si stima che 300 milioni di contadini hanno lasciato la campagna per trovare occupazione in catene di montaggio e cantieri creando una massa di orfani di fatto.

    Nel 2013 l’Associazione statale delle donne cinesi pubblicò un primo rapporto secondo il quale 61 milioni di minori sotto i 17 anni vivevano lontani dai genitori: il 38% di tutti i figli della Cina. Le prime tragedie emerse da quel clima di disgregazione familiare (violenze, abbandono della scuola, depressione, suicidi) spinsero il governo di Pechino a intervenire con un piano da 14 miliardi di yuan per mandare insegnanti nei paesi più diseredati. Nel 2016 il Ministero degli affari civili proclamò che il numero dei “liushou” era stato ridotto a 9 milioni ma nel 2023 l’Ufficio nazionale di statistiche di Pechino e l’Unicef hanno rivelato che sono 66,9 milioni i minorenni lasciati in campagna o in piccoli centri di province remote dai genitori che lavorano lontano. I sociologi dicono che il 30% dei bambini che crescono senza padre e madre sono a carico dei nonni; l’11% di altri parenti o dei vicini del villaggio. E almeno 2 milioni di “liushou“ vengono semplicemente abbandonati a loro stessi in casupole dove non c’è un adulto. Un terzo dei minori in queste condizioni è clinicamente depresso. I bimbi fino ai 6 anni di età sono il 75% dei «lasciati indietro».

    Il governo centrale ha comunque fatto molto, almeno per assicurare un’istruzione ai bambini soli. Ci sono controlli per ridurre il numero di chi non frequenta la scuola, fondi per ospitarli in dormitori più confortevoli delle loro catapecchie. E nel 2018 da una classe delle elementari nello Yunnan arrivò la storia di “Fiocco di neve”. Wang Fuman, 8 anni, ogni giorno faceva a piedi da solo quattro chilometri nei campi per arrivare a lezione; quella mattina c’erano 9 gradi sotto zero. Entrò con i capelli ridotti a fili di ghiaccio e le sopracciglia bianche. Il maestro scattò una foto col telefonino e la lanciò sui social, per mostrare ai cinesi la dedizione del piccolo “liushou”. Le autorità di Pechino si impossessarono del caso, invitarono Fuman nella capitale, lo ospitarono per qualche giorno in un bell’albergo, trovarono un impiego al paese per il papà. “Fiocco di neve” che aveva colpito il cuore della Cina e del Partito fu riscattato. Ma altri 66 milioni di figli lasciati indietro pesano sulla coscienza dei pianificatori della seconda economia del mondo.

  • China changed village names ‘to erase Uyghur culture’

    China has changed the names of hundreds of villages in Xinjiang region in a move aimed at erasing Uyghur Muslim culture, Human Rights Watch (HRW) says.

    According to a report by the group, hundreds of villages in Xinjiang with names related to the religion, history or culture of Uyghurs were replaced between 2009 and 2023.

    Words such as “sultan” and “shrine” are disappearing from place names – to be replaced with terms such as “harmony” and “happiness”, according to the research, which is based on China’s own published data.

    The BBC contacted China’s embassy in London about the allegations.

    In recent years, Chinese authorities have been radically overhauling society in Xinjiang in an attempt to assimilate its minority Uyghur population into mainstream Chinese culture.

    Researchers from HRW and Norway-based organisation Uyghur Hjelp studied the names of villages in Xinjiang from the website of the National Bureau of Statistics of China over the 14-year period.

    They found the names of 3,600 of the 25,000 villages in Xinjiang were changed during this time.

    While the majority of these name changes “appear mundane”, HRW said, around one fifth – or 630 changes – remove references to Uyghur religion, culture or history.

    Words freighted with meaning for China’s Uyghur population – including Hoja, a title for a Sufi religious teacher, and political or honorific titles such as Sultan and beg – have been replaced with words HRW claims reflect “recent Chinese Communist Party ideology”, including “harmony” and “happiness”.

    In one example highlighted by the report, Aq Meschit (“white mosque”) in Akto County, a village in the southwest of Xinjiang, was renamed Unity village in 2018.

    growing body of evidence points to systematic human rights abuses against the country’s Uyghur Muslim population. Beijing denies the accusations.

    Most of China’s Uygur Muslims live in the north-west of the country, in areas such as Xinjiang, Qinghai, Gansu and Ningxia.

    There are roughly 20 million Muslims in China. While China is officially an atheist country, the authorities say they are tolerant of religious freedom.

    However, in recent years observers say they have witnessed a crackdown on organised religion across the country.

    According to HRW, while the renaming of villages and towns appears ongoing, most of the place names were changed between 2017 and 2019.

    The group claims this coincides with an escalation in hostilities against the Uyghur population in Xinjiang.

    China has used the threat of “violent terrorism, radicalisation and separatism” in the past to justify the mass detention of the country’s minority Uyghur population.

    Maya Wang, the acting China director at Human Rights Watch, said: “The Chinese authorities have been changing hundreds of village names in Xinjiang from those rich in meaning for Uyghurs to those that reflect government propaganda

    “These name changes appear part of Chinese government efforts to erase the cultural and religious expressions of Uyghurs,” she added.

    The research follows a report published last year in which HRW accused the Chinese state of closing, destroying and repurposing mosques in an effort to curb the practise of Islam in China.

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