colpevole

  • In attesa di Giustizia: non guardate nell’abisso

    Qualcuno ricorderà la vicenda di Martina Rossi, studentessa genovese ritrovata morta dopo essere precipitata dalla camera dell’hotel di Palma di Maiorca ove stava trascorrendo un periodo di vacanza e che – secondo l’accusa – stava cercando di sfuggire ad un tentativo di stupro raggiungendo un terrazzo adiacente.

    Il fatto è di nove anni fa e poteva essere comprensibile non serbarne memoria, se non fosse che – con i tempi della nostra giustizia – si è celebrato un paio di settimane fa il giudizio di appello per i due imputati richiamando l’attenzione sulla cronaca giudiziaria con una vicenda obiettivamente grave ed un processo delicato, senza contare la penuria di notizie in questo settore in periodi di covid – 19 e sostanziale chiusura dei Tribunali.

    Infatti, sin dalle prime ore del mattino e sebbene in ruolo ci fossero altri giudizi da trattare, nell’aula destinata e nella area antistante si andava allestendo una selva di microfoni e telecamere che avrebbe accompagnato il processo, con buona pace del divieto di assembramento…per non parlare delle condizioni in cui rischiava di versare l’indipendenza del Giudice: al sicuro quanto l’aplomb di un ultras quando l’arbitro fischia un rigore al novantesimo contro la sua squadra del cuore.

    L’attesa era, ovviamente, per una conferma della sentenza di condanna: la morte tragica di una giovane impone che ci sia un colpevole, anche un colpevole purchessia perché questo è il Paese dove – secondo la linea di pensiero propugnata da Piercamillo Davigo – innocenti non ve ne sono ma solo malvissuti che riescono a farla franca.

    Non era difficile prevedere che se la Corte avesse pronunciato una sentenza di proscioglimento si sarebbe scatenato l’inferno. E così è stato, nonostante le pressioni mediatiche e della folla in fermento: assoluzione.

    Occasione ghiottissima per dare sfogo a reti unificate alla solita sceneggiata giustizialista in cui si strumentalizza la sofferenza delle vittime e dei loro parenti per sostenere che le tesi dell’accusa sono verità rivelate e che i processi e le sentenze sono, nel migliore dei casi, inutili orpelli pretesi da quei complici occulti degli imputati che sono i loro difensori.

    Sulla notizia si è anche avventata una trasmissione che fa audience proprio con i dolori altrui: e quando tutto questo va in onda sul Servizio Pubblico, senza che vi sia una conoscenza puntuale degli atti ed in mancanza di una motivazione della sentenza è, tutto sommato, un’aggravante.

    Nell’attesa dei cittadini, quelli in nome dei quali viene amministrata la giustizia per dettato costituzionale, non c’è, evidentemente, un argomento razionale che spieghi per quale ragione questa sentenza, come mille altre in precedenza, sarebbe stata giusta solo se avesse condannato qualcuno.

    Il nostro sembra essere diventato l’unico paese al mondo nel quale ogni assoluzione è vissuta come una sconfitta della Giustizia, una infamia intollerabile. Non si conosce il processo bensì solo una decisione ancora priva di argomenti a sostegno ma se non si getta in pasto alla pubblica opinione una condanna e, quel che più conta, un condannato l’armageddon manettaro si mette in moto inesorabile. D’altronde e non a caso, Davigo una poltrona nei salotti televisivi la trova sempre, e di rado con dei contraddittori, nella incessante semina del pensiero unico forcaiolo.

    E’ notizia di questi giorni che sono stati arrestati alcuni “indignati speciali” che si aggiravano armati di coltello nei pressi delle abitazioni dei due imputati assolti con intendimenti più che chiari.

    Forse è inutile aspettare Giustizia, se questo è l’abisso di inciviltà giuridica in cui siamo precipitati ed al quale sarebbe meglio non guardare perché, poi, l’abisso guarderà dentro di noi.

    Manuel Sarno

     

     

  • In attesa di Giustizia: come gabbare i lettori

    Ormai da qualche settimana le cronache giudiziarie hanno rivolto l’attenzione alle decisioni della CEDU e della Corte Costituzionale che hanno rilevato delle criticità nell’Ordinamento Penitenziario, laddove prevede una presunzione assoluta ed insuperabile di permanente pericolosità dei condannati per reati di grande criminalità organizzata o ad essa collegati.

    Tra le diverse voci del coro – quasi sempre di soggetti disinformati sul reale tenore di quelle decisioni e pronti a farne oggetto di polemiche fuorvianti ed a gabbare lettori e telespettatori – si è levata quella della nota giornalista Milena Gabanelli la quale ha dedicato la sua rubrica “Dataroom” sul Corriere Tv proprio alle sentenze con le quali la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e la Consulta hanno “bocciato” l’ergastolo ostativo, stabilendo che anche il mafioso che non collabora con la giustizia può, se il suo legame con la criminalità organizzata è cessato, rivolgersi al magistrato di Sorveglianza per chiedere di ottenere, ad esempio, dei permessi premio.

    La  Gabanelli ha sostenuto che migliaia di atti processuali, nel corso di quarant’anni, hanno dimostrato che i detenuti (mafiosi, ma forse non solo quelli intendeva la giornalista) mantengono ancora contatti con la cosca, attraverso gli avvocati i cui colloqui in carcere, non sono monitorabili.

    Non sappiamo a quali atti si riferisse: considerato che ha fatto riferimento a una moltitudine di casi ci sarebbe stato da aspettarsi che ne citasse almeno uno, possibilmente conclamato. Invece nulla, anche se, doverosamente, non si può escludere che qualcosa di simile sia accaduto. Ma, certamente, non è la regola e nemmeno una prassi da ritenere frequente.

    Dunque, ci risiamo per l’ennesima volta a confondere volutamente, aprioristicamente, generalizzando senza riferimenti puntuali, dati statistici, prove certe, gli avvocati con i loro assistiti: criminali gli uni e gli altri e i primi, forse, peggiori dei secondi perché insospettabili e sfuggenti ai controlli.

    Questo non è giornalismo, tantomeno giornalismo di inchiesta: è una gratuita macchina del fango che schizza indiscriminatamente su una intera categoria messa in moto, per di più, dal  volto noto appartenente a professionista preceduta da una certa fama.

    Ovviamente, queste affermazioni non potevano passare nell’indifferenza e hanno provocato la reazione dell’Avvocato Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali che ha così commentato: “Uno spettacolo miserando e miserabile di approssimazione, genericità, indifferenza e mancanza di rispetto per la dignità e la reputazione di una intera categoria di professionisti”, preannunciando una querela.

    La via giudiziaria sembra quella più opportuna da praticare: la  Gabanelli avrà, così, l’opportunità di portare in Tribunale, se li ha, i riscontri di cui disponeva per addivenire ad una gravissima accusa diffamatoria.

    E avrà bisogno di un avvocato, di un difensore,  rammentandole con ciò  che la sua stessa libertà è garantita da uno dei tanti che indistintamente ha considerato dei collusi se non dei complici dei mafiosi e che ha accettato di assistere anche chi lo abbia toccato, sia pure indirettamente, in ciò che ha di più sacro: la dignità di una Toga che al servizio di tutti i cittadini. Anche della Gabanelli quando si trova in attesa di Giustizia.

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