Commercio

  • I grandi d’Europa chiedono agli Usa una deroga per commerciare con l’Iran

    «I ministri delle finanze e degli esteri di Germania, Francia e Gran Bretagna hanno inviato una richiesta, sottoscritta anche dall’alto rappresentante Federica Mogherini, alle controparti statunitensi, Steve Mnuchin, segretario al tesoro, e Mike Pompeo, segretario di Stato, nel tentativo di ottenere un’esenzione dalle nuove sanzioni all’Iran reintrodotte unilateralmente dall’amministrazione Trump e che entreranno in vigore il prossimo novembre», scrive Paolo Balmas su Transatlantico, rivista a cura di Andrew Spannaus.

    Ecco, nel dettaglio, il reportage: «La richiesta proveniente dall’Unione Europea riguarda, in particolare, i settori energetico, finanziario e farmaceutico. L’obiettivo è di evitare la rottura dei contratti firmati dalle proprie imprese con l’Iran a partire dal 2016. La richiesta si fonda sulla convinzione che il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) è il migliore strumento per assicurare che l’Iran non persegua il suo programma di armamento nucleare. Nella richiesta europea, si legge che in qualità di alleati ci si aspetta che gli Stati Uniti non agiranno in modo da ledere gli interessi strategici europei.

    La richiesta è stata inviata dopo che l’Unione Europea aveva avviato, circa due settimane prima, il “blocking statute”, una procedura che difende i cittadini e le imprese europee che potrebbero essere colpite dalle sanzioni di secondo livello (secondary sanctions), in questo caso imposte dagli Usa contro chi commercia con l’Iran. In tal modo, l’UE sta cercando anche di permettere alla Banca europea d’investimento (Bei) di continuare con le attività in Iran e, in generale, di assicurare i pagamenti per le importazioni di greggio iraniano da parte delle banche europee. Malgrado l’impegno delle istituzioni, le imprese europee hanno già dichiarato di volersi ritirare dall’Iran. Il rischio di subire le sanzioni, di avere accesso limitato al mercato statunitense e, soprattutto, di essere colpite sul fronte finanziario, hanno determinato una lunga serie di decisioni in aperta opposizione con i tentativi dell’amministrazione europea. Ciò dimostra quanto gli Stati Uniti abbiano un potere contrattuale incontrastabile, che oggi agisce principalmente attraverso una leva finanziaria. La stessa Bei non ha preso di buon grado la volontà delle istituzioni europee, secondo quanto riporta Reuters, per il fatto che circa un terzo delle sue attività sono denominate in dollari e aumentare l’esposizione in Iran la metterebbe di fronte a potenziali ritorsioni.

    Fra le grandi imprese che sono pronte a ritirarsi dall’Iran vi sono, fra le altre, la Total, la Maersk, la Shell. Ma lo spettro delle sanzioni danneggia, oltre l’Iran e le imprese straniere che vi stanno investendo ormai da due anni, anche quelle imprese europee coinvolte in progetti con controparti iraniane all’estero. Un esempio è la British Potroleum che ha annunciato di voler bloccare le attività nel Mare del Nord che ha intrapreso insieme alla Iranian Oil Company. Il contrasto che è sorto fra il tentativo dei governi di mantenere in vita il JCPOA e le imprese che non vogliono entrare in conflitto con gli Stati Uniti, non riguarda solo l’UE. Anche l’India e la Russia, che sostengono il patto sul nucleare iraniano, vedono le proprie imprese pronte a stracciare i contratti firmati con Teheran. La russa Lukoil ha già confermato di volersi ritirare da tutte le attività aperte in Iran, mentre l’indiana Reliance Industries, ha deciso di bloccare tutte le importazioni di greggio iraniano. Il vuoto che lasceranno queste imprese, almeno per quanto riguarda la Total e la Shell, sarà colmato dalle imprese di Stato cinesi. Infatti, Pechino non ha alcuna intenzione di rinunciare all’Iran, tanto meno al suo petrolio.

    L’abbandono del JCPOA da parte dell’amministrazione Trump ha avuto due principali ripercussioni. La prima è stata la fuga delle imprese dall’Iran, eccezion fatta per quelle cinesi. Anche le imprese sudcoreane e giapponesi impegnate nella realizzazione di nuovi impianti di raffinazione si sono ritirate, o sono sul punto di farlo. Si tratta forse di uno dei danni più gravi all’economia iraniana, in quanto i progetti seguiti dalla Daelim, dalla Hyundai e dalla Chiyoda Corporation, avrebbero aumentato le capacità di raffinazione del 22% e la produzione di materiali di base per l’industria petrolchimica del 57%. Gli investimenti delle imprese coreane e giapponesi superano in totale i 5 miliardi di dollari. Non è un caso che il governo Abe, fortemente colpito anche dai dazi sull’acciaio, abbia utilizzato per la prima volta parole così dure contro Washington. La seconda ripercussione, invece, consiste nell’aver lasciato il campo libero alle imprese cinesi e nell’aver spinto l’Iran ancora di più nell’orbita della Shanghai Cooperation Organization (SCO), l’organizzazione che unisce fra le altre Russia, Cina e India sul piano dello sviluppo e della sicurezza in Asia.

    Pechino ha sottolineato l’importanza della presenza iraniana nel prossimo summit della SCO, che si terrà fra il 9 e 10 giugno 2018 a Qingdao, in Cina. Il governo cinese ha ricordato che le consultazioni con la controparte iraniana avverranno con l’esplicito intento di mantenere in vita il JCPOA, ma anche di ampliare la cooperazione su un piano bilaterale. L’avvicinamento dell’Iran alla SCO, che dopotutto era già inevitabile, è strettamente legato alle crisi mediorientali, dalla Siria, alla Palestina e allo Yemen, in cui Teheran è direttamente coinvolta, e al rapporto di quest’ultima con Mosca. Il Cremlino si sta impegnando per mediare gli attriti fra Israele e Iran, in relazione alle forze iraniane che operano nei pressi del confine siro-israeliano. L’isolamento di Teheran attraverso le sanzioni non può che avere ripercussioni negative a livello regionale. La risposta iraniana consiste nel riprendere le attività di arricchimento dell’uranio, soluzione che potrebbe innescare confronti ben più preoccupanti.

    La manovra dell’amministrazione Trump è volta certamente a esercitare una pressione estrema per ottenere un maggior controllo e una maggiore presenza in Iran. Se le trattative in stile Trump stanno in parte funzionando con la Cina e la Corea del Nord, non è detto che avranno successo con l’Iran, paese contro il quale i noti storici nemici (Israele e Arabia Saudita) sono disposti a rischiare un conflitto. Un secondo obiettivo di Washington consiste nel rallentare lo sviluppo della produzione e dell’export iraniano di idrocarburi. Le sanzioni segnano la messa fuori gioco di un potenziale avversario nella riorganizzazione del mercato globale del greggio e del gas. Dalla fine del 2015, gli Usa sono divenuti esportatori di greggio, dopo il divieto durato decenni di vendere il proprio petrolio all’estero. Le crisi in Venezuela, in Libia, in Nigeria, e i ritardi in Brasile e in altri paesi, ora in Iran, hanno agevolato la politica commerciale Usa in questo settore, volta inoltre a riequilibrare la propria bilancia commerciale.

    In ogni caso, a perdere insieme all’Iran sarà l’Unione Europea, i cui paesi sono quelli attualmente più coinvolti nel futuro dell’economia iraniana. L’UE ne esce nuovamente indebolita, di fronte alle esigenze delle singole imprese e dei governi che non vogliono rischiare ripercussioni più gravi dagli Stati Uniti. Le recenti vicende politiche di alcuni paesi, come ad esempio l’Italia, in cui sono giunti al governo partiti populisti, si inseriscono in questo delicato contesto internazionale. Il nuovo governo Conte dovrà affrontare il G7 [articolo pubblicato l’8 giugno, n.d.r], che si accavalla nel giorno del 9 giugno al summit SCO, e mantenere una posizione ambigua fra Bruxelles e Washington, in quanto appoggerà la politica dei dazi, ma tenterà di difendere le proprie imprese coinvolte in Iran (l’Italia è il principale partner europeo di Teheran). Inoltre, sosterrà una posizione di apertura alla Russia. Se da un lato Roma potrebbe avere la forza di divenire uno degli strumenti per assicurare il riavvicinamento di Mosca a Bruxelles, sembra lontana l’ipotesi di una posizione di netto contrasto a Washington, o di costruttiva mediazione, sulla questione iraniana. Sotto la minaccia delle secondary sanctions, i paesi europei, che stanno di fatto contribuendo a un processo di pace in Medio Oriente attraverso lo sviluppo di un’economia emergente, quella iraniana, di 80 milioni di persone, rischiano di deragliare insieme al tentativo di regolare le situazioni più delicate della politica internazionale attraverso la diplomazia. Tentativo al quale sono stati dati meno di tre anni di possibilità».

  • Cina e Ue provano a superare la reciproca diffidenza per fare più business

    Ue e Cina si trovano sempre più alleate nel voler sostenere il multilateralismo nelle relazioni internazionali, spinte anche dall’unicameralismo di Donald Trump, ma tra di loro persiste mancanza di fiducia. Ue e Cina potrebbero lavorare insieme per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, una serie di obiettivi fissati nel 2015 per prevenire la povertà e cambiamenti climatici e affrontare la salute, l’istruzione, i servizi igienico-sanitari, l’energia e la giustizia sociale nei paesi in via di sviluppo. A fronte della linea “America First» proclamata da Trump, la Cina ha iniziato a dipingersi come difensore del multilateralismo e del commercio basato su regole globali e l’Ue ha incoraggiato Pechino a ricoprire un ruolo centrale nella lotta al protezionismo, insistendo sulla necessità di una riforma per essere equa nei confronti degli investitori e dei commercianti europei. La Cina è la principale fonte di importazioni dell’Ue e il suo secondo mercato di esportazione (Cina ed Europa si scambiano in media oltre un miliardo di euro al giorno). L’ambasciatore cinese Zhang Ming ha detto che «lo sviluppo sostenibile sarebbe fuori questione senza una solida ripresa economica e un commercio basato su regole e un ambiente di investimento. L’attuale ambiente per lo sviluppo non è sufficientemente resiliente e non può permettersi atti spericolati di unilateralismo e protezionismo. Dobbiamo sostenere con fermezza il sistema multilaterale di scambi che è libero, aperto e non discriminatorio e combattere il protezionismo in qualsiasi forma o sotto qualsiasi pretesto: la Cina e l’Ue hanno una responsabilità comune in questo senso». Ed ha aggiunto che Pechino è pronta a «intensificare il dialogo» in materia di protezione ambientale, energia pulita ed economia circolare (in base alla quale più materiali vengono riciclati e riutilizzati nei prodotti).

    Il vicepresidente della Commissione europea Jyrki Katainen ha convenuto che l’Ue e la Cina devono rifiutare l’unilateralismo ma ha insistito sulla necessità di «sostenere i valori democratici a casa, lo stato di diritto». Affermando che Ue e Cina «devono promuovere un ordine aperto, fondato sulle regole e leale», Katainen ha spiegato che «ciò significa che dobbiamo sostenere l’OMC [Organizzazione mondiale del commercio], ma anche aggiornare le sue regole – ad esempio negoziando nuove regole sui sussidi – per combattere le sovraccapacità e promuovere condizioni di parità».

    La sovraccapacità cinese nell’acciaio e le sue esportazioni a basso costo sono state attribuite alle nuove tariffe statunitensi introdotte da Trump, nonostante la riluttanza dell’amministrazione statunitense ad affrontare la questione accanto ai suoi alleati europei – piuttosto che introdurre tariffe punitive unilaterali. Un osservatore del commercio con sede in Svizzera, Global Trade Alert, ha tuttavia avvertito che il concetto di eccesso di capacità globale, comunemente citato contro la Cina, è esagerato come giustificazione per il protezionismo statunitense.

    Ma l’eccesso di capacità non è l’unico problema che riguarda l’Ue. Gli investitori europei sono preoccupati per gli ostacoli cinesi. Nel 2016, gli investimenti cinesi verso l’Ue sono saliti al livello record di quasi 40 miliardi di euro, mentre gli investimenti dell’Ue in Cina sono scesi a un minimo da 10 anni inferiore a 8 miliardi di euro. La questione dovrebbe essere affrontata nell’ambito dell’accordo di investimento Ue-Cina, in corso di negoziazione dal 2013. «Dobbiamo anche garantire più apertura reciproca l’uno verso l’altro – ha detto Katainen – La Cina ha ancora molte barriere agli investimenti stranieri e ha ripetutamente annunciato che li revocherà: è importante che tali riforme vengano attuate e che ciò sia sancito da un ambizioso accordo bilaterale di investimento».

  • Tutte le opportunità per investire in Marocco

    Si intitola Il Marocco porta dell’Africa: investimenti, infrastrutture, commercio la tavola rotonda organizzata dall’Ambasciata del Marocco in Italia, con la collaborazione di GreenHillAdvisory, il prossimo 9 maggio a Roma, alle ore 15,presso la sede dell’Ambasciata in via Brenta, 12. L’iniziativa ha l’obiettivo di presentare le opportunità industriali, commerciali e finanziarie che il Marocco è oggi in grado di offrire alle Imprese italiane e che lo rendono di fatto la migliore “porta di accesso” al Continente Africano.

    Al termine dell’incontro sarà possibile rivolgere domande direttamente all’Ambasciatore del Marocco, S.E. Hassan Abouyoub, ed al Responsabile Italia dell’Agenzia Marocchina per lo Sviluppo degli Investimenti, dott.ssa Yasmina Sbihi.

  • Profumo di monopolio

    Ed alla fine, com’era inevitabile, Amazon comincia ad aumentare le quote dell’abbonamento Prime del 80% avendo raggiunto, attraverso l’aggressività delle proprie politiche commerciali, una posizione di assoluto predominio. Quello che era stato indicato come la forma più moderna e democratica, quindi più interessante, della distribuzione da parte di tutti gli economisti e docenti europei sta diventando un semplice e tutto sommato già conosciuta posizione di monopolista la quale, avendo sbaragliato la concorrenza fisica dei negozi e dei centri commerciali, ora può  avviare le proprie strategie di sviluppo in regime di semi monopolio.

    A nulla è valsa l’esperienza che avrebbe dovuto insegnare il passaggio dal “dettaglio indipendente”, cresciuto nel dopoguerra fino alla metà degli anni ’80 con il proprio posizionamento all’interno delle nostre città, successivamente messo in crisi dai centri commerciali come dagli stessi  negozi monomarca di quelle aziende che la stessa distribuzione indipendente aveva contribuito a far crescere.

    Allora come adesso nella logica della distribuzione, come di quella economica ed in senso generale quindi anche industriale, non può risultare vincente un unico top player distributivo il quale possa avvalersi di una propria maggiore capacità economica ma soprattutto sostenibilità finanziaria (e quindi disponibile anche a reggere diversi esercizi in perdita).

    In questo senso la normativa europea, tanto  particolareggiata nella definizione dei calibri di zucchine e vongole, ha evitato di cimentarsi nella dottrina e soprattutto nella normativa di questo nuovo canale distributivo dimostrando ancora una volta il  proprio ritardo culturale e cognitivo.

    In questo senso infatti risulta assolutamente migliore un sistema nel quale vengano tutelate tutte le più diverse manifestazione di strutture imprenditoriali nel settore industriale come anche nel settore della distribuzione. Il favore con il quale il mondo politico ed accademico hanno invece salutato il notevole spazio che l’e-commerce ha saputo avere, per le proprie capacità, nel mercato della distribuzione dimostra ancora una volta sostanzialmente la mancanza di qualsiasi tipo di strategia non solo economica ma anche distributiva nella visione del medio lungo termine da parte di tutta l’Unione Europea. Il medesimo entusiasmo dimostrato per  l’arrivo sul mercato di Uber o l’avvento per le piattaforme professionali espressione della Gig Economy, considerate e valutate positivamente solo in quanto espressione di una innovazione tecnologica senza considerare i costi sociali, politici ed economici che queste inevitabilmente comportano.

    Il fallimento della catena Trony come la chiusura di oltre 257 negozi della Foot Locker dimostrano come per contrastare qualsiasi tipo di monopolio (esistente o in via di definizione non comporta alcuna differenza), proprio al fine di tutelare il consumatore finale, la classi politiche dirigenti ed economiche italiane ed europee avrebbero dovuto avviare delle politiche che garantissero la distribuzione ordinaria in considerazione del continuo aumento della pressione fiscale la quale  inevitabilmente si trasforma in un indiretto vantaggio competitivo di questi top player legati all’e-commerce.

    In questo contesto la politica come il mondo accademico e quello ancora più variegato degli economisti non dovrebbero dimostrare di scegliere uno dei tanti contendenti in campo economico  ma viceversa assicurarsi che tutti abbiano il medesimo trattamento, in particolar modo in relazione al sistema fiscale. Di contro tanto in Italia quanto in Europa si è dato ridicolo spazio al tentativo di mistificare una semplice accisa del 3% sul fatturato dei giganti di internet come se risultasse una tassazione sull’attività di impresa. L’ennesima riprova della disonestà intellettuale attraverso la quale  poter ottenere un vantaggio finanziario per la cui nascita la Ue si manifesta disponibile a mentire sul carattere dell’origine normativa invece di definirla una legittima scelta politica.

    Tuttavia tornando al valore della conoscenza ma soprattutto della comprensione della lezione che la storia sa offrire rimane incredibile come lo stesso scenario legato ai cambiamenti distributivi degli anni ottanta, attraverso la perdita di centralità di  un dettaglio indipendente posto in difficoltà prima dai centri commerciali e contemporaneamente dai negozi monomarca, non fornisca alcun dettaglio per interpretare gli scenari a medio lungo termine. In questo senso vanno ricordate tutte le analisi assolutamente postume che avevano individuato nella scelta scellerata italiana di non intervenire attraverso un’azione imprenditoriale nel settore della distribuzione organizzata. Uno dei motivi per il quale il nostro commercio si è sempre più trovato in forte difficoltà e con lui tutte le PMI italiane. Basti  ricordare in questo senso la vendita alla Rinascente da parte del gruppo Fiat.

    La recente acquisizione invece da parte del gruppo svizzero Richmond, leader mondiale nell’alta orologeria svizzera, della piattaforma italiana Yoox dimostra invece come anche un gruppo industriale possa investire in una piattaforma digitale per completare il controllo del ciclo di vita del prodotto dalla sua ideazione fino alla commercializzazione.

    Un investimento questo nello specifico che manifesta la volontà del controllo assoluto dell’intera filiera del prodotto, dalla sua ideazione fino alla commercializzazione compresa.

    Una scelta strategica che conferma ancora una volta quanto risulti vincente il modello aziendale “in-sourching “applicato da molte aziende svizzere le quali inseriscono all’interno del perimetro aziendale tutte le aziende fornitrici di servizi e nello specifico anche le piattaforme web. Quando invece in Italia ancora adesso sia preponderante la filosofia e la struttura aziendale Out-sourcing. Un successo confermato dai record ottenuti nelle esportazioni nel biennio 2016/2017 del sistema inerziale svizzero nonostante l’apprezzamento del Franco Svizzero divenuto valuta di rifugio e che toglie anche ogni valore agli effetti delle politiche monetarie tanto care ai nostalgici della lira. Ora che negli Stati Uniti i titoli della distribuzione organizzata vengono definiti junk e col passare degli anni anche i centri commerciali cominceranno a dimostrare i propri limiti dimostrando così ancora una volta l’assoluta mancanza di una strategia distributiva che vede coinvolti anche i massimi vertici dell’imprenditoria italiana.

    L’effetto di tale mancanza come di qualsiasi tipo di iniziativa si manifesta ora attraverso le prove che fanno trapelare una posizione assolutamente dominante di Amazon. Questa fotografia che sta delineando il nuovo futuro nella distribuzione moderna potrebbe dovrebbe viceversa venire contrastata esattamente mediando, adottando ed imparando dall’evoluzione storica della distribuzione fisica.

    In altre parole le aziende italiane che producono un prodotto ad alto livello o alto di gamma della filiera italiana (in questo prendo spunto dalle top player del lusso mondiale) potrebbero e dovrebbero creare un proprio monomarca digitale e-commerce che permetta di proporre solo prodotti garantiti dalla gestione diretta della propria azienda. In altre parole dovrebbero investire dalla nascita in una piattaforma nella quale risulti evidente il controllo della filiera produttiva e commerciale, sintesi felice del made in Italy. Il tutto ovviamente all’interno di un quadro normativo che avesse la finalità di assicurare all’interno di una nuova forma di distribuzione della piattaforma commerciale la storica certificazione della filiera espressione del made in Italy.

    Se questo non fosse possibile da parte una piccola azienda dovrebbero essere le associazioni di categoria a proporre e a gestire per i propri associati queste  piattaforme che forniscano garanzia della filiera. Associazioni di categoria che invece si ostinano ad organizzare convegni uguali per temi trattati e personalità intervenute non avendo ancora compreso che le soluzioni vanno trovate nell’immediato per quanto riguarda il sostegno alle imprese all’interno di un mercato sempre più competitivo anche nel settore distributivo. Le nostre associazioni di categoria invece con questa politica “relativa alle tematiche” finalizzata alla conferma della propria centralità ottenibile più che attraverso servizi alle imprese si dimostrano incapaci di cogliere l’ennesima occasione per dimostrare le proprie potenzialità ed eventualmente una nuova  propria centralità rispetto alle problematiche economiche e nello specifico distributive.

    Il perseguire con questa politica delle associazioni di categoria imitando l’assoluto ritardo dell’Unione Europea viceversa avrà come unico effetto rendere l’attuale profumo di monopolio sussurrato di Amazon una realtà assolutamente del medio lungo termine trasformando il profumo in un odore insopportabile.

     

  • Urso: uno Stato meno gravoso per ridare slancio all’Italia sui mercati globali

    Adolfo Urso si candida per FdI alle elezioni del 4 marzo e di seguito spiega quali sono i propositi che motivano la sua scelta di tornare in Parlamento.

    On. Urso, dalla sua scelta di tornare in pista per il Senato con Fratelli d’Italia, in Veneto ed in Sicilia, dobbiamo dedurre che voglia tornare a occuparsi di commercio internazionale, di cui è già stato viceministro?

    «Sì, anche se – a dire il vero – non ho mai smesso di occuparmi di questo settore determinante per l’economia e la produzione italiane. In questi cinque anni fuori dal Parlamento l’ho fatto in prima persona, da imprenditore che ha compreso ancora di più l’esigenza di uno Stato alleato con chi sceglie di portare l’Italia nel mondo. Con questa esperienza maturata anche su questo fronte spero di portare nella prossima legislatura le istanze e le soluzioni dei patrioti che in tutto il mondo lavorano per l’Italia».

    Negli anni in cui non è stato parlamentare, lei si è occupato di impresa e di migliorare i rapporti commerciali tra l’Italia e altri Paesi, anche extra-Ue come l’Iran. Ritiene che il sistema Italia dia sufficienti supporti alle nostre imprese che vogliano lavorare all’estero e sufficienti garanzie alle imprese che vogliano lavorare in Italia?

    «La sua è una domanda centrale nel mio discorso. Proprio nei giorni scorsi con la fondazione che dirigo, Farefuturo, ci siamo occupati anche di questo argomento. Il punto è proprio questo: senza una politica estera nel nome di un rinnovato protagonismo dell’Italia nello scacchiere internazionale chi fa impresa sarà lasciato da solo dinanzi a una competizione globale sostenuta dagli altri Stati. In Iran, per venire al suo esempio, come in Russia non è possibile – nel nome dell’interesse nazionale – accodarsi a campagne e a richieste, ad esempio le sanzioni, che lungi dal risolvere delicate questioni che andrebbero condotte per vie diplomatiche come risultato portano danni per chi ha scelto di investire in quei Paesi a tutto vantaggio dei competitor stranieri, molto più “realisti” dei nostri ultimi governi».

    Quali eventuali proposte o accorgimenti pensa di fare nella prossima legislatura per sostenere le imprese italiane all’estero o quelle estere in Italia?

    “Come dicevo prima, le nostre imprese nel mondo hanno bisogno di un rinnovato protagonismo dell’Italia nello scacchiere geopolitico: una presenza da riattivare come potenza regionale non sottomessa ad alcun registro che non siano l’interesse nazionale e il modello italiano che significa anche umanesimo del lavoro anche fuori dai confini. Per le imprese straniere in Italia, e che non intendono delocalizzare poi altrove, dovrà valere lo stesso “diritto” delle nostre: dobbiamo passare da uno Stato vessatorio ad uno Stato che supporta il reddito, il lavoro e le famiglie. La Corte dei Conti dice che per esplicare le questioni burocratiche un contribuente italiano spreca 269 ore ogni anno: il 55% in più dei contributori europei. Allo Stato finisce il 49% dello stipendio lavoratori: il 25% in più di quanto succede nel resto d’Europa. Davanti a questo uno dei 15 punti del programma di Fratelli d’Italia è dedicato proprio al sostegno e alla semplificazione per le imprese: la Flat Tax. Questa può essere applicata dal primo giorno di Governo sul reddito incrementale e dopo il primo anno lo faremo sul resto del reddito».

    Una volta eletto pensa di abbandonare la sua attività professionale o di proseguirla?

    «Proseguirò ovviamente anche nella attività lavorativa. Scelta, lo dico chiaramente, che dovrebbero fare tutti i miei colleghi per non perdere mai di vista le ragioni del mondo del lavoro. Questo, è altrettanto scontato, nell’interesse di tutti e dello sviluppo della Nazione. Elementi, entrambi, dei quali un rappresentante istituzionale non dovrebbe mai separarsi».

    In questa legislatura al Parlamento europeo sono stati fatti alcuni piccoli passi avanti su etichettatura, difesa del consumatore e tutela dei produttori, ma il vecchio progetto della denominazione di origine per i prodotti extra-Ue, pur proposto alla Commissione e approvato a grandissima maggioranza dal PE, è stato poi affossato al Consiglio europeo per volontà della Germania e dei Paesi del Nord Europea. Ritiene che sarebbe giusto che anche l’Europa avesse le stesse norme dei suoi maggiori partner e competitor economici, quali India e Usa? Ritiene che un’eventuale governo di centrodestra, che all’epoca non fu particolarmente deciso nel difendere manifatturiero e consumatori da marchi illegali e prodotti contraffatti (salvo ovviamente il suo operato), tornerà a proporre in Europa la necessità di una disciplina del Made In?

    «Di certo lo proporrà, perché lo ha proposto e denunciato in tutti i modi, Fratelli d’Italia. E io sono più che d’accordo. Il tema della difesa del “Made in” è fondamentale in quella revisione del nostro rapporto con l’Europa dalla quale non si può prescindere ma che deve tornare a rappresentare una casa dello sviluppo comune, non una gabbia. Sviluppo significa anche tutela della qualità, della produzione “etica”, che mette al centro la salute e i diritti sociali di chi lavora e di chi, da imprenditore, rispetta e investe su tutto ciò e per questo va sostenuto contro la concorrenza sleale».

    Come si concilia, se si può conciliare, la libertà degli scambi, cioè la globalizzazione, con l’attrazione per Donald Trump e la linea protezionista da lui perseguita che pure serpeggia all’interno della coalizione di centrodestra?

    «Donald Trump ha vinto e oggi governa perché non ha smarrito l’idea della “prossimità” che è un valore anche economico. La globalizzazione è una sfida che non si può ignorare ma dalla quale si deve uscire rafforzati non schiacciati. Per fare questo – e incentivare la sana competizione – è necessario sviluppare regole condivise e innalzare la qualità del welfare nei Paesi che intendono investire nel mercato comune. Quando salta questo principio l’operaio, il lavoratore autoctono si sentono depredati del patto stretto con il proprio Stato: a questi si è rivolto Trump e a questi ha promesso “America first”. La sua è una misura di emergenza, non è una soluzione strutturale: ma è politica con la P maiuscola. Attendiamo la fase due. I governi di centrosinistra italiani si sono fermati alla diagnosi, invece…».

    In un’epoca in cui la politica viene interpretata come un gioco infantile, coi like grillini e i tweet trumpiani, lei come pensa di interagire con i cittadini in campagna elettorale ed una volta eventualmente eletto, tanto più su un argomento spesso molto tecnico come quello del commercio internazionale?

    «Come ho sempre fatto: parlando a tutti e a tutti i livelli. Non sono un nativo digitale ma credo che la tecnologia abbia avvicinato le persone ai rappresentanti e viceversa: non sempre in maniera virtuosa e utile ma almeno la distanza è stata colmata. Allo stesso tempo non ho mai smesso di produrre contenuti e pensiero “lungo” assieme alla fondazione Farefuturo. Poi, le ha ragione, esiste il momento della decisione “tecnica”, a volte poco intellegibile al grande pubblico: ma, ne sono certo, se uno ha agito e spiegato sempre con chiarezza i propri passaggi, anche su un argomento di settore e strategico è possibile coinvolgere i cittadini. La salvezza dell’Italia deve tornare a essere un grande romanzo comunitario».

  • La Russia medita di uscire dall’Organizzazione mondiale del commercio

    Il vicepresidente del Consiglio economico della Russia, Sergei Kalashnikov, ha detto che Mosca potrebbe lasciare l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) per via della disputa sulla limitazione delle importazioni di carne suina dall’Unione europea. L’Ue ha detto a dicembre di voler chiedere l’autorizzazione a imporre sanzioni commerciali annuali, sostenendo che la Russia non aveva rispettato una decisione dell’OMC su maiali e la Russia intende contestare il proposito dell’Unione Europea di imporre 1,39 miliardi di euro di sanzioni commerciali (il ministero dell’Economia russo ha definito infondate le accuse europee). Mosca ha imposto un divieto sulla maggior parte delle importazioni alimentari occidentali nell’agosto 2014 per rappresaglia contro le sanzioni occidentali sulle sue azioni in Ucraina, ma lo scorso febbraio ha perso il ricorso contro la decisione dell’Omc sul divieto delle importazioni di suini e prodotti a base di carne suina nell’Unione europea (e in seguito aveva acconsentito a conformarsi al verdetto a lei contrario entro il 6 dicembre).

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