concorrenza

  • Amazon: US accuses online giant of illegal monopoly

    US regulators have sued Amazon, alleging that the internet giant is illegally maintaining monopoly power.

    The Federal Trade Commission (FTC) said Amazon uses “a set of interlocking anticompetitive and unfair strategies” to push up prices and stifle competition.

    Amazon said the lawsuit was “wrong on the facts and law, and we look forward to making that case in court”.

    It is the latest technology giant to be sued by US regulators.

    The FTC’s boss, Lina Khan, has had Amazon in her crosshairs for years.

    In 2017, Ms Khan, then only 29, published a major academic article arguing the online retailer had escaped anti-competition scrutiny.

    “With its missionary zeal for consumers, Amazon has marched toward monopoly,” she said at the time.

    Since her surprise appointment as FTC Chair in 2021, this case has been widely expected – and viewed as a crucial test of her leadership.

    The dominance of a handful of powerful tech firms has led some US politicians to call for action that would promote more competition in online search, retail and social media.

    However, the FTC under Ms Khan has had little to show for its strong rhetoric against Big Tech.

    In February it lost its attempt to stop Meta from buying VR company Within.

    And in July it lost an attempt to block Microsoft from completing its deal to buy the maker of Call of Duty.

    There is pressure on Ms Khan to make at least one high profile complaint stick – and at the FTC they have high hopes for this case.

    The agency, along with 17 state attorneys, claims that Amazon is a “monopolist” that stops rivals and sellers from lowering prices.

    The regulator also alleged the internet giant’s actions “degrade quality for shoppers, overcharge sellers, stifle innovation, and prevent rivals from fairly competing against Amazon”.

    However, Amazon says that if the “misguided” FTC lawsuit is successful, it would mean fewer products to choose from, higher prices, and slower deliveries for consumers.

    The key part of the case involves consumers losing money – getting worse deals – because of the alleged monopoly.

    US anti-competition legislation is complicated, but generally, prosecutors have to show companies have acted in a way that hurts consumers financially.

    That isn’t always an easy thing to prove when it comes to Big Tech, as many of their services are free – like Google’s search engine or Meta’s Instagram.

    Earlier this month, a court battle began between Google and the US government, which has accused it of having an advertising technology monopoly.

  • Coldiretti contesta pratiche sleali a Lactalis

    «Procederemo a denunciare il gruppo Lactalis per pratiche sleali all’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF) del Ministero dell’agricoltura e della sovranità Alimentare per la violazione del contratto sul prezzo del latte» – ha annunciato il presidente nazionale della Coldiretti Ettore Prandini in occasione dell’Assemblea Nazionale della principale Organizzazione Agricola Europea.

    Il decreto legislativo in attuazione della Direttiva Ue sulle pratiche commerciali sleali, fortemente voluto dalla Coldiretti, prevede lo stop a 16 pratiche sleali che vanno dal rispetto dei termini di pagamento (non oltre 30 giorni per i prodotti deperibili) al divieto di modifiche unilaterali dei contratti e di aste on line al doppio ribasso, dalle limitazioni delle vendite sottocosto alla fine dei pagamenti non connessi alle vendite fino ai contratti rigorosamente scritti, ma anche che i prezzi riconosciuti agli agricoltori ed agli allevatori non siano inferiori ai costi di produzione.

    Le pratiche sleali che Coldiretti contesta a Lactalis consistono nell’aver modificato unilateralmente il contratto con gli allevatori fornitori di latte diminuendo i prezzi riconosciuti ed introducendo tra l’altro un nuovo indice collegato tra l’altro alle quotazioni del latte europeo non concordato e fortemente penalizzante per i produttori italiani.

    La multinazionale Lactalis ha acquisito i marchi nazionali Parmalat, Locatelli, Invernizzi, Galbani, Cadermartori e Nuova Castelli e controlla circa un terzo del mercato nazionale in comparti strategici del settore lattiero caseario.

  • La Direzione Generale della Concorrenza della Commissione europea organizza un dibattito pubblico a Modena dal titolo “Markets for People: La concorrenza e le sue regole al servizio della società”

    Partirà da Modena il tour di “Markets for People: la concorrenza e le sue regole al servizio della società”, l’iniziativa lanciata dalla Direzione Generale per la Concorrenza della Commissione europea per approfondire e discutere l’impatto della politica di concorrenza sulla vita delle persone. L’appuntamento è per giovedì 20 aprile dalle 11 alle 12.30 al teatro della Fondazione San Carlo in via S. Carlo 5, Modena.

    Al confronto – moderato da Ubaldo Stecconi, esperto di comunicazione della Commissione europea – interverranno Anna Argentati, direttore direzione studi giuridici e analisi della legislazione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Pier Luigi Bersani, politico e scrittore, Silvia Sciorilli Borrelli, giornalista del Financial Times, Sara De Simoni, dirigente alla Tetra Pak e il prof. Michele Polo, docente dell’Università Bocconi.

    L’incontro mira a sviluppare un confronto con la pubblica opinione sugli aspetti economici e sociali di mercati aperti, equi e regolati e sul loro impatto nella vita quotidiana dei cittadini. Il dibattito è aperto a tutti previa registrazione al link.

    L’iniziativa è organizzata in stretta collaborazione con l’Autorità Garante per il Mercato e la Concorrenza, le Rappresentanze della Commissione europea in Italia e il centro Europe Direct Modena unitamente agli altri centri della regione Emilia-Romagna.

    Per ulteriori informazioni si potrà contattare direttamente la Commissione europea scrivendo all’indirizzo email comp-mamawope@ec.europa.eu.

  • Quale concorrenza

    La vicenda ancora irrisolta e relativa alle concessioni balneari ha riportato all’attenzione della politica e dell’economia il principio della concorrenza. Il contenuto di questo principio economico e strategico è di certo importante e può ancora oggi venire considerato fondamentale, tuttavia  il suo continuo e manieristico rimando ad opera di una ormai esausta componente del variegato mondo “liberale”, lo rende ormai distonico rispetto alla complessità dei soggetti economici e dei mercati globali.

    Il continuo e perpetuo riferimento alla semplice applicazione sic et nunc di un concetto scolastico di concorrenza evidenzia in modo inequivocabile la volontà ed il desiderio di coprire una evidente incapacità nella elaborazione di analisi più approfondite della quale purtroppo il mondo liberale non sembra essere esente.

    La sentenza Bolkestein ha ribadito l’importanza quanto la legittimità dell’attuazione di questo principio economico, lasciando tuttavia una macroscopica lacuna relativa alle complesse modalità della sua applicazione in quanto la sentenza non ha assolutamente tenuto in alcuna considerazioni, né doveva farlo, di come all’interno della stessa Unione Europea questo principio, per la sua stessa applicazione, dovrebbe contare sul presupposto di una minima uniformità fiscale. Quest’ultima, infatti, garantirebbe le condizioni minime di base con l’obiettivo di assicurare uno stesso contesto ai diversi soggetti economici in competizione nella aggiudicazione di un servizio su concessione statale.

    In altre parole, il principio di una base comune economica e fiscale dovrebbe rappresentare la condizione minima per permettere l’applicazione equa e corretta dello stesso principio della concorrenza dalla quale proverebbe la sua massima espressione nel know how professionale piuttosto che nella semplice applicazione di un vantaggio fiscale assicurato dalle diverse normative nazionali.

    Viceversa, tanto il mondo politico quanto, a maggior ragionr, quello liberale si dimostrano ancora una volta superficiali nelle analisi e soprattutto estremamente infantili nelle soluzioni le quali si estrinsecano sempre nella semplice individuazione di un principio economico come semplice soluzione di tutti i mali.

    Sembra incredibile come non vengano presi in considerazione i diversi asset normativi e soprattutto fiscali conviventi all’interno della stessa Unione Europea, le cui differenze ex ante rendono impossibile qualsiasi applicazione della concorrenza tra i diversi soggetti economici. Una lacuna soprattutto imputabile a quell’area politica la quale, con molta superficialità, si considera ancora oggi “liberale” e che ha appoggiato le privatizzazioni dei monopoli fisici statali che hanno determinato il disastro della gestione privatistica della società Autostrade fino alla morte di 43 persone con il crollo del Ponte Morandi. Senza dimenticare l’Eni, diventata una società con la sede fiscale in Olanda partecipata dallo Stato la quale, all’interno di una situazione drammatica come quella post pandemica. ha utilizzato le proprie leve speculative all’utenza privata ed industriale nelle forniture di energia.

    Mai come ora la peggiore conservazione politica intesa come l’incapacità di attualizzazione del proprio pensiero economico e politico trova casa presso le vecchie aggregazioni ed istituzioni liberali incapaci anche solo di aggiornarsi ad un mercato sempre più globale in continua evoluzione al quale rispondono con le semplici e scolastiche definizioni di principi economici.

  • Gli errori da evitare nel Disegno di legge sulla Concorrenza

    Finalmente, grazie al Governo Draghi, si è interrotto l’immobilismo sulla riforma della Concorrenza, che durava dal 2009, con l’adozione del relativo Disegno di legge, anche se il testo appare meno ambizioso e incisivo di come avrebbe dovuto essere, a causa di varie dimenticanze e timidezze.

    Purtuttavia non si può negare la valenza del tentativo di avviare un processo di riforma, fra le tante di corredo al PNRR, fondamentale per lo sviluppo e la competitività complessiva del sistema Italia e il cui ritardo risulta essere una delle principali cause della stagnazione economica del nostro Paese.

    Infatti nessun governo in Italia ha mai avuto il coraggio di mettere le mani sulle riforme, ed in particolare su quella della Concorrenza, in questo assecondato dal silenzio tombale di tutte le opposizioni, mentre le reazioni erano chiaramente fuori tema, perché concentrate sulla contestazione sterile e anacronistica della globalizzazione, come se fosse un nemico da combattere e non piuttosto la cornice entro la quale le economie di tutto il mondo operano, ed all’interno della quale l’Italia, proprio per l’assenza di riforme, ha sofferto l’impotenza di vedere frustrate le sue aspirazioni di competere con successo e produrre ricchezza, piuttosto che impoverirsi con l’aumento esponenziale del Debito Pubblico.

    Il punto è che la sfida alla globalizzazione da parte della politica è quella di riuscire a governarla, recuperando il primato della politica, in quanto espressione di scelte sottoposte al controllo sovrano dei cittadini, per eliminarne o attenuarne gli aspetti negativi e a volte disumani, ed esaltarne gli aspetti positivi, già sperimentati in epoche passate, allorquando invasioni e conflitti hanno rimandato indietro gli orologi della storia.

    Nessuna paura, quindi, né complessi di inferiorità a gestire un sistema complesso, al quale fino ad ora è mancata la politica e la sua visione di correggere le brutture attraverso il dialogo ed il confronto, per l’assunzione globale di regole e di misure da rispettare e, quindi da controllare, per contenere lo strapotere dei giganti dell’industria e della finanza e garantire il rispetto delle identità e della libertà dei popoli. Modalità di governo ispirate quindi non a velleitarie posizioni di impossibile contrapposizione per il ritorno ad una Arcadia mai esistita, di un mondo governato da logiche protezionistiche, ma la necessaria presa d’atto che la globalizzazione può finire, specie dopo la quarta rivoluzione industriale, unicamente a causa di un cataclisma o di un conflitto di livello mondiale, assolutamente da scongiurare per il bene dell’umanità, mentre, al contrario, va interpretata, affrontata e governata.

    Questo è il dovere della politica, che invece di appiattirsi a servire le lobby, deve capire il fenomeno, ritrovare se stessa sulle visioni di quale società vuole realmente servire e con quali diritti e doveri e deve affrontare il presente ed il futuro con idee chiare e proposte condivise con tutti i soggetti interessati.

    Da qui la colpevole latitanza dei governi del passato e, forse, l’eccesso di timidezza su questo provvedimento del governo in carica, nel perseguire le liberalizzazioni, che non sono quindi la penalizzazione di alcune categorie, ma la cessazione dei loro ingiusti privilegi, che hanno contribuito a penalizzare produzione e lavoro e costituisce lo strumento per servire finalmente l’interesse generale e il bene comune, con il rilancio dell’economia, senza più freni a mano tirati per rallentarne le potenzialità.

    Le liberalizzazioni costituiscono anche la cartina di tornasole per individuare se le posizioni dei partiti sono davvero al servizio del bene comune.

    E’ infatti bastato l’annuncio di questo provvedimento per fare scattare la polemica sui primari da parte di Forza Italia, che non è d’accordo sul fatto che la politica perda la possibilità di sceglierli con criteri discrezionali. Ma il primario deve curare i cittadini, non certo essere funzionale al suo protettore politico, come purtroppo fino ad ora è accaduto frequentemente.

    Così come la timidezza del governo di rinunciare all’inserimento, peraltro urgente, degli inceneritori, sulla base delle pressioni del M5S, ma in questo caso al prezzo di lasciare il Paese senza una strategia seria di smaltimento dei rifiuti.

    O le pressioni della Lega, che ha imposto al governo un ritardo di sei mesi sul delicatissimo e dirimente tema delle concessioni balneari.

    Una richiesta il cui accoglimento appare un errore grave del Governo, che sarebbe auspicabile venisse eliminato nel dibattito parlamentare, non solo perché appare intollerabile mantenere le attuali tariffe per strutture che fatturano oltre 15 miliardi l’anno e pagano per le concessioni meno dell’1% di quanto incassato, ma anche perché l’Italia per questo e per avere incredibilmente rinnovato tutte le concessioni balneari fino al 2033, già adesso è sotto procedura di infrazione dell’UE.

    Il che vuol dire, che il rinvio del Governo potrebbe costare caro all’Italia, anche di più dei 3 miliardi e 209 milioni di Euro versati all’UE quale condanna per il mancato pagamento delle multe della lobby dei produttori di latte, che avevano per decenni superato le quote assegnate annualmente, e sempre grazie alla Lega che si intestò pure quella battaglia, il cui costo, more solito, fu addossato agli incolpevoli contribuenti.  Se per difendere un’altra lobby, quella dei gestori degli stabilimenti balneari, dovessimo subire lo stesso danno, non sarebbe soltanto una vergogna, ma la fine oggettiva del processo di liberalizzazione dell’economia nazionale, perché a nessuna altra categoria si potrebbero più negare i privilegi e resteremmo per sempre con i lacci e i lacciuoli che ci hanno fino ad ora penalizzato, ma stavolta senza più speranza.

    Per questo appare assolutamente necessario che il premier Draghi, come fino ad ora ha fatto con successo, richiami tutti al loro dovere e ricordi che la politica delle bandierine si può fare quando comunque soddisfa il bene comune, ma non quando lo danneggia e lo dileggia.

    Già Sottosegretario per i BB.AA.CC.

  • Corporate Tax by Yellen & Biden

    Si potrebbe persino essere d’accordo con la proposta del Presidente degli Stati Uniti Biden e del segretario al tesoro Yellen su una tassazione minima delle multinazionali applicabile in tutto il mondo, intesa sia come risposta all’emergenza finanziaria legata alla pandemia che alla lotta ai paradisi fiscali i quali sottraggono risorse finanziarie con una tassazione degli utili di impresa infinitesimale.

    Resta da comprendere per quale motivo i principi della concorrenza applicati all’interno del mercato globale e che rappresentano il pilastro fondamentale tra i diversi sistemi economici nell’economia privata non possano viceversa essere applicati ai sistemi fiscali e politici per attrarre investimenti e creare benessere ed occupazione.

    A parte questo trattamento particolare riservato appunto alle pubbliche amministrazioni statali contemporaneamente all’introduzione di una tassazione minima, venendo meno il principio della concorrenza, dovrebbe essere indicata anche una tassazione massima (cioè un aliquota massima) oltre la quale uno stato non possa spingersi per finanziarie la propria spesa pubblica.

    Solo in questo contesto di reciprocity fiscale potrebbe essere adottabile una tassazione minima per le multinazionali e per le imprese in generale. Nel caso contrario sarebbe solo ed esclusivamente l’ennesimo artificio fiscale espressione di una manovra politica per assicurare maggiori risorse a disposizione della classe politica.

    (*) Il problema italiano invece è quello della scarsa produttività della stessa spesa pubblica alla quale delle risorse aggiuntive non modificherebbero gli già scarsi effetti.

  • Apple sotto la lente della Commissione per violazione delle regole di concorrenza dell’UE

    La Commissione europea ha avviato due indagini antitrust sulle App Store e Pay di Apple per valutare se le pratiche violano le regole di concorrenza dell’UE. Margrethe Vestager, responsabile per il digitale e per la politica di concorrenza della Commissione, ha dichiarato di voler meglio rendersi conto delle regole delle due App del colosso di Cupertino per garantire la loro conformità al diritto europeo e perché non distorcano la concorrenza nei mercati in cui Apple è presente con altri sviluppatori di app, come il suo servizio di streaming musicale Apple Music o con Apple Books.

    L’inchiesta ha fatto seguito alle denunce presentate da Spotify e da un distributore di e-book/audiolibri che ha accusato Apple di limitare la scelta dei consumatori abusando della sua posizione dominante nel mercato della musica online attraverso il servizio Apple Music e di addebitare, di conseguenza, una commissione del 30% sugli ebook venduti tramite l’App Store. Il gigante della tecnologia consente agli utenti di scaricare solo app native (non basate sul Web) tramite l’App Store, ponendo gravi restrizioni alla distribuzione di altre app e privando gli utenti di possibilità di acquisto alternative più economiche al di fuori delle app.

    Inizialmente Apple ha espresso tutta la sua delusione per la mossa attuata dalla Commissione perché in questo modo avrebbe dato retta a denunce infondate partite da una manciata di aziende che vorrebbero semplicemente adoperare il servizio in maniera gratuita senza seguire le regole come fanno tutti. Successivamente ha corretto il tiro dichiarando al canale web The Verge di accogliere con favore l’opportunità di dimostrare alla Commissione Europea il suo obiettivo, e cioè garantire ai propri clienti di avere accesso alla migliore app o servizi a loro scelta, in un ambiente sicuro e protetto.

    A seguito dell’annuncio della Commissione, Spotify ha accolto con favore la decisione, scrivendo sul suo sito Time to Play Fair: “Oggi è una bella giornata per i consumatori, per Spotify e gli altri sviluppatori di app in Europa e nel mondo. Il comportamento anticoncorrenziale di Apple ha intenzionalmente svantaggiato i competitor e ha privato i consumatori di scelte significative per troppo tempo”.

  • Free o Fair Trade? I diversi casi di ceramica, riso e tessile

    Bruxelles ha rinnovato i dazi antidumping applicati alla ceramica da tavola proveniente dalla Cina. Questa scelta politica rappresenta una prova di consapevolezza ma soprattutto di tutela di un settore che ha perso 33.000 posti di lavoro. Una giusta ed oculata decisione che ovviamente stride con la infantile visione di economisti sostenuti da sempre dalle maggiori testate giornalistiche contrari ai dazi in quanto tali. Nella loro visione massimalista, infatti, questi non riescono a cogliere la differenza tra i dazi imposti come strumento politico di una guerra commerciale, come quella tra Stati Uniti e Cina, e i dazi compensativi finalizzati a riequilibrare gli effetti del dumping fiscale retributivo e normativo, per altro con risultati  abbastanza relativi.

    Il mondo politico ed accademico europeo rimane attaccato quindi alla visione del Free Trade “hic et nunc”. Nel mondo del Monopoli, quindi assolutamente illusorio, forse una maggiore concorrenza porterebbe ad una riduzione dei prezzi praticati al consumatore, espressione di una maggiore produttività. Un vantaggio attribuito alla politica commerciale del Free Trade (libero quindi in assenza di ogni tipo di dazio compensativo), ormai ampiamente disattesa dalla realtà, ma ancora oggi sostenuta appunto dal mondo politico ed accademico nella sua articolata complessità. In questo senso un esempio lampante proviene dal mondo della risicoltura, specialmente italiana, per la cui tutela l’Unione Europea ha imposto dazi all’importazione delle produzioni provenienti da Cambogia e Myanmar.

    La visione economica e politica fino ad ora espressione del Free Trade, senza dazi quindi, aveva portato le quotazioni del riso da 700 a 300 euro/tonnellata, senza alcuna minima riduzione sul prezzo finale al pubblico ma azzerando la marginalità degli agricoltori del riso italiano. L’effetto giustificativo, quindi, tanto ricercato, relativo ai positivi effetti della concorrenza legata al calo di oltre il oltre 60% della quotazione del riso, risultava concentrato nelle dinamiche commerciali di grossisti e rete distributiva a scapito di produttori e consumatori. Primo motivo per cui gli immediati vantaggi della concorrenza sono clamorosamente disattesi (https://www.ilpattosociale.it/2019/01/17/riso-nellunione-europea-finalmente-i-dazi/).

    Eppure si continua ancora oggi, come espressione industriale del Free Trade, a professare quella teoria economica dello sviluppo multilaterale attraverso le delocalizzazioni produttive, per esempio nel settore abbigliamento, in paese africani dove un operaio guadagna 26 dollari al mese (23,17 euro).

    Considerando lo stipendio medio di un operaio tessile italiano che si aggira attorno ai 1250 euro, anche aumentando la produttività e raggiungendo un rapporto 10 volte superiore a quello africano (10/1), rimarrebbero sempre 1019 euro di differenziale di costo (appunto l’extra guadagno speculativo sottratto al Pil divenuto così rendita di capitale) che rende ridicola di conseguenza la teoria del ricorso ad una maggior produttività (industria 4.0?) per compensare i bassi costi di produzioni delocalizzate. Per poi rilevare quotidianamente come i vantaggi economici espressione da tali “speculazioni produttive” non trovino alcun riscontro sul prezzo finale praticato al consumatore, esattamente come nel settore della risicoltura. Proprio come per la ceramica da tavola ed il riso la delocalizzazione rappresenta la forma speculativa industriale mediata dal mondo della finanza.

    Tornando alla ceramica da tavola che usufruirà giustamente con la nuova normativa ed il conseguente mantenimento dei dazi una tutela rispetto alla concorrenza, espressione di dumping retributivo, fiscale e normativo, ancora una volta l’economia reale offre un esempio non viziato da ideologie politiche che per due  volte l’Unione Europea ha dimostrato di comprendere.

    Una riflessione a parte va fatta, invece, per un settore importante, come il tessile-abbigliamento, che ancora oggi non riesce ad ottenere delle tutele, pur rappresentando il secondo settore per occupazione ed export, continuando ad essere in balia delle speculazioni più sordide attraverso delocalizzazioni inaccettabili per le condizioni di vita dei lavoratori e la certificazione del prodotto. Una riflessione che dovrebbe finalmente mettere in discussione l’azione e le politiche poste in campo dalle diverse organizzazioni di categoria, anche loro come il mondo della politica unite in una forte caduta di credibilità.

    Il Free Trade (libero commercio), in ultima analisi ben rappresentato quotidianamente da interventi di politici, economisti ed accademici all’interno delle diverse testate giornalistiche e dei programmi televisivi, si illude ancora oggi che, attraverso il semplice aumento  della produttività (si ricordi il prima citato 10/1), le aziende che operano in Europa potrebbero competere con le imprese concorrenti locate in estremo Oriente, e ora anche in Africa, che godono di un assoluto dumping normativo, fiscale e retributivo e della assoluta mancanza di qualsiasi tipo di normativa a tutela dei prodotti e dei lavoratori. Di contro il Fair Trade (equo commercio) dimostra come la tutela dei vari settori produttivi da azioni di dumping provenienti da paesi assolutamente non comparabili sotto profilo normativo non rappresenti una politica conservatrice ma semplicemente una azione di compensazione a tutela dei consumatori e dei lavoratori.

     

  • Amazon finisce nel mirino dell’Antitrust europeo

    La Commissione europea ha aperto un’indagine per verificare se l’utilizzo, da parte di Amazon, dai dati dei dettaglianti indipendenti che vendono i loro prodotti attraverso la piattaforma del gigante dell’e-commerce viola le regole sulla concorrenza. “Dobbiamo assicurare che le piattaforme online – ha detto la commissaria Ue alla concorrenza Margrethe Vestager – non elimini i benefici che il commercio elettronico offre ai consumatori attraverso comportamenti anti-competitivi”.

    “Il commercio elettronico – ha osservato ancora Vestager – ha stimolato la concorrenza nelle vendite al dettaglio, ha ampliato le possibilità di scelta e ha fatto scendere i prezzi”. Per garantire che i consumatori possano usufruire correttamente di questi vantaggi “ho deciso – ha aggiunto la commissaria – di esaminare molto attentamente le pratiche commerciali seguite da Amazon, e il suo doppio ruolo nelle vendite all’ingrosso e al dettaglio, al fine di verificare se la società stia rispettando le regole Ue sulla concorrenza”.

    Secondo i primi accertamenti condotti in una fase preliminare, osserva la Commissione in una nota, Amazon utilizzerebbe informazioni ‘sensibili’ dal punto di vista della concorrenza, in particolare sui venditori all’ingrosso, i loro prodotti e le transazioni effettuate. E questo, secondo Bruxelles, potrebbe portare a comportamenti non corretti visto che Amazon opera attraverso il suo sito web come dettagliante ma allo stesso tempo mette anche a disposizione la sua piattaforma per operatori indipendenti in modo tale che anch’essi possano vendere direttamente i loro prodotti ai clienti.

    Amazon sta “offrendo la massima collaborazione alla Commissione europea e continueremo a lavorare intensamente per sostenere le aziende di tutte le dimensioni e per aiutarle a crescere”. E’ quanto precisa Amazon in una nota in relazione all’indagine antitrust annunciata da Bruxelles. La società segnala inoltre che l’Antitrust tedesco ha chiuso l’inchiesta relativa al Marketplace di Amazon senza sanzioni anche grazie alla decisione di adottare alcuni interventi che cambieranno diritti e responsabilità dei suoi partner commerciali. “Stiamo apportando diverse modifiche al Business Solutions Agreement di Amazon Services per chiarire i diritti e le responsabilità dei partner commerciali. Tali modifiche – si legge nella nota – saranno efficaci dal 16 agosto. Il 58% del fatturato lordo su Amazon proviene da venditori terzi e continueremo a lavorare intensamente, investire e inventare nuovi strumenti e servizi per aiutare i nostri partner commerciali in tutto il mondo a raggiungere nuovi clienti e far crescere il loro business”.

  • La Commissione europea multa Google per pratiche abusive nella pubblicità online

    La Commissione europea ha inflitto a Google un’ammenda pari a 1,49 miliardi di euro per violazione delle norme antitrust dell’UE. Il motore di ricerca più noto al mondo ha abusato della propria posizione dominante sul mercato imponendo una serie di clausole restrittive nei contratti con siti web di terzi che hanno impedito ai concorrenti di Google di inserire su tali siti le proprie pubblicità collegate alle ricerche.

    Le pratiche di Google costituiscono un abuso della posizione dominante nel mercato dell’intermediazione pubblicitaria nei motori di ricerca che impediscono la concorrenza basata sul merito.

    Detenere una posizione dominante non è di per sé illegale ai sensi delle norme antitrust dell’UE. Tuttavia, le imprese dominanti hanno la particolare responsabilità di non abusare di tale potere limitando la concorrenza nel mercato in cui sono dominanti o in mercati distinti.

    La decisione della Commissione conclude che Google detiene una posizione dominante nel mercato dell’intermediazione pubblicitaria nei motori di ricerca nel SEE almeno dal 2006. Ciò dipende in particolare sulle quote di mercato molto elevate detenute da Google, che sono state superiori all’85 % per la maggior parte del periodo. Il mercato è inoltre caratterizzato da notevoli ostacoli all’accesso, tra cui gli ingenti investimenti iniziali e continui necessari per sviluppare e mantenere una tecnologia di ricerca generica, una piattaforma di pubblicità collegata alle ricerche e un portafoglio sufficientemente ampio sia di publisher che di inserzionisti.

    Sulla base di molteplici prove, la Commissione ha riscontrato che la condotta di Google ha danneggiato la concorrenza e i consumatori e soffocato l’innovazione. I concorrenti di Google non sono stati in grado di crescere e di offrire servizi di intermediazione pubblicitaria nei motori di ricerca alternativi a quelli di Google. Di conseguenza, i proprietari di siti web disponevano di opzioni limitate per monetizzare gli spazi sui siti web e sono stati costretti ad affidarsi quasi esclusivamente a Google che non ha dimostrato che le clausole creassero efficienze tali da giustificarne le pratiche.

    L’ammenda della Commissione, che è pari all’1,29 % del fatturato di Google nel 2018, tiene conto della durata e della gravità dell’infrazione ed è stata calcolata sulla base del valore delle entrate di Google provenienti dall’intermediazione pubblicitaria nei motori di ricerca nel SEE.

    Google ha messo fine alle pratiche illegali alcuni mesi dopo che la Commissione aveva emesso, nel luglio 2016, una comunicazione degli addebiti riguardante il caso. La decisione impone a Google di porre quantomeno fine al suo comportamento illegale, nella misura in cui non lo abbia già fatto, e di astenersi da qualsiasi misura avente oggetto o effetto identico o equivalente.

    Infine, Google potrebbe anche dover rispondere in procedimenti civili di risarcimento di danni eventualmente intentati dinanzi alle autorità giudiziarie degli Stati membri da persone o imprese penalizzate dal suo comportamento anticoncorrenziale. La nuova direttiva dell’UE sulle azioni di risarcimento dei danni per violazione delle norme antitrust permette alle vittime di pratiche anticoncorrenziali di ottenere più facilmente un risarcimento dei danni.

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