Consiglio

  • La forma e la sostanza ora coincidono: Germania alla guida della Ue fino a fine anno

    Nei corridoi di Bruxelles e di Berlino la chiamano già “la presidenza Corona”. Quella della Germania sarà una presidenza del Consiglio Ue “completamente diversa” da quella che era stata programmata inizialmente. “Non sarà certo quella che avevamo preparato: abbiamo dovuto riprogrammare tutto”, ha spiegato alla vigilia una fonte diplomatica tedesca a Bruxelles.

    In ogni caso, per la prima potenza dell’Ue, che per sei mesi avrà la presidenza della Commissione e del Consiglio insieme, la “priorità” sarà “combattere la pandemia” di Covid-19 e le sue conseguenze economiche. Il successo o il fallimento della presidenza della Germania si misurerà su due dossier, che hanno la precedenza su tutti gli altri. Anzitutto, il pacchetto costituito dal Recovery Plan da 750 miliardi di euro e dall’Mff 2021-27, il bilancio pluriennale dell’Ue da 1.100 miliardi. E poi la Brexit che, anche se il Regno Unito è ormai uscito dall’Ue, continua a pendere come una spada di Damocle sul Vecchio Continente, perché alla crisi nera provocata dalla pandemia si aggiunge il rischio di una Brexit dura sul piano economico il 31 dicembre 2020, senza un accordo sulla relazione futura.

    Anche se è la premier più longeva del Continente e anche se la risposta alla pandemia le ha dato nuova forza politica, neppure Angela Merkel ha la bacchetta magica: “Ci sono troppe aspettative per la presidenza tedesca – spiega il diplomatico – se durante la presidenza avremo un accordo sul Recovery Plan e sull’Mff, questo per noi sarà un successo fantastico”. E “se avessimo anche un accordo” sulla relazione futura con il Regno Unito, sarebbe “magnifico”, ma anche in questo caso “bisogna essere in due per ballare il tango”. Per arrivare ad un accordo con Londra “serve maggiore realismo da parte britannica. Se avremo queste due cose, sarà un successo enorme”. Arrivare ad un accordo sul Recovery Plan e sull’Mff 2021-27 “è possibile”, ma “non sarà facile”, spiega il diplomatico. Le principali discussioni, che sono in corso, vertono sulla proporzione di trasferimenti e prestiti, con i Paesi Frugali (Olanda, Austria, Danimarca e Svezia) contrari ai primi, oppure inclini a ridurne l’entità (nella proposta sono 500 mld i trasferimenti e 250 miliardi i prestiti), ma anche sui criteri di allocazione delle risorse che, anche se suonano “tecnici”, determinano “quanto ciascuno prende dalla torta”.

    Si discute anche della condizionalità, cioè sul fatto che “se prendi i soldi fai le riforme”. Il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel dovrebbe proporre presto una “negobox”, un pacchetto negoziale, dopodiché si discuterà “intensamente” fino al Consiglio Europeo del 17-18 luglio, quando la palla sarà nelle mani dei leader. “Speriamo che sia possibile” arrivare ad un accordo “al più tardi entro la fine del mese”, dice la fonte. Per il diplomatico “ci sono buone possibilità di avere un accordo già il 17-18 luglio. Forse occorrerà arrivare a domenica mattina, ma è possibile. Siamo ottimisti”. Un accordo entro luglio è necessario, perché poi occorre negoziare con il Parlamento, che può bocciare il bilancio. Oggi il presidente della commissione Bilanci del Parlamento Johann van Overtveldt ha avvertito che l’Aula non si lascerà schiacciare da una fretta dovuta ai ritardi del Consiglio.

    Per quanto riguarda invece la Brexit, o meglio l’accordo sulla relazione futura tra Ue e Regno Unito, che a fine anno uscirà da mercato unico e unione doganale, gli scogli sono il “level playing field”, cioè la concorrenza leale, ossia le condizioni alle quali le imprese britanniche potranno accedere al mercato unico, la pesca e la governance, incluso il ruolo della Corte di Giustizia Ue.

    Questi sono i punti “più difficili”, spiega il diplomatico. Ma non dipende tutto dall’Ue, né dalla Germania: per arrivare ad un accordo occorrerà “un approccio più pragmatico e meno ideologico” da parte del Regno Unito. Un’intesa deve essere trovata entro il Consiglio Europeo di ottobre, al più tardi entro l’inizio di novembre, per permettere le ratifiche parlamentari.

    Sul dossier migrazioni, che è diventato “tossico”, è inutile aspettarsi miracoli: “Non riusciremo a chiudere il file – prevede il diplomatico – se riusciremo a mettere un po’ di movimento nella discussione” sarà già un successo, “vista la situazione”.

    Bene ha fatto la Commissione, con una mossa “intelligente”, a rimandare la presentazione della riforma del sistema Ue di asilo a dopo l’accordo sul Recovery Plan. Una volta incassata l’intesa, allora “daremo un’occhiata al dossier, ma non mi aspetto che saremo in grado di chiuderlo”, dice la fonte.

    Mentre si sono già fatti grandi “progressi” sulla legge europea sul clima, sarà più complicato, anche a causa della pandemia, organizzare la conferenza sul futuro dell’Europa. Si pensa ad una soluzione mista, in parte conferenza fisica in parte on line, “forse a Bruxelles e a Strasburgo, forse negli Stati membri”. La conferenza si dovrebbe tenere, ma “quando è difficile da dire”. Se non arriverà una vera “seconda ondata” di Covid-19, potrebbe svolgersi nella “seconda metà della presidenza tedesca, cioè tra ottobre e dicembre. Un altro “tema complicato” che emergerà sarà la digital tax, anche se in vista delle elezioni presidenziali Usa non ci si aspetta una guerra commerciale.

    La presidenza tedesca sarà segnata da difficoltà operative dovute alla pandemia di Covid-19, come già quella croata. Il Consiglio Europeo del 17-18 luglio dovrebbe essere il “primo incontro fisico” nel Consiglio da marzo. Al massimo, gli incontri fisici nel Consiglio potranno essere portati al 30% del livello normale, ma non oltre, a causa del distanziamento sociale. Si rimedia con le videoconferenze che però, per il lavoro diplomatico, non sono l’ideale. “Abbiamo calcolato che sono efficienti il 20% di un incontro fisico”, spiega il diplomatico, perché non è possibile negoziare faccia a faccia, cosa indispensabile per arrivare ad un vero compromesso. Inoltre, “c’è un problema di riservatezza”, dato che la confidenzialità è difficile da garantire nel formato digitale. Persino a livello di capi di Stato e di governo “vediamo che le cose escono sulla stampa in tempo reale”. E questo “è un problema”. Senza contare le difficoltà che tutti hanno sperimentato durante il lockdown, cioè i problemi tecnici, con le disconnessioni, le difficoltà di comunicazione audio, i microfoni che non funzionano, i “can you hear me?”. In ogni caso, “dovremo convivere con tutto questo”. Senza contare che, Dio non voglia, potrebbe arrivare “una vera seconda ondata” e, in quel caso, si dovrebbe ritornare “al punto di partenza”, cioè al formato 100% digitale.

  • Un segnale forte per evitare l’agonia

    All’inizio di questa tragedia che ha colpito il mondo e ha visto, e vede, l’Italia detenere in Europa, e non solo, il triste record di morti e contagiati avevamo pensato che dal pericolo comune del virus  potesse nascere quella Unione europea che fino ad ora non ha realizzato i veri obiettivi per i quali era nata. Ancora una volta ci siamo illusi, dopo avere per 25 anni cercato di dare un contributo di impegno, studio, proposte e attività parlamentare per aiutare, finalmente, a dare concretezza, dopo tante parole e promesse spese negli anni, ad azioni comuni quali la realizzazione di una politica comune, dal terrorismo all’immigrazione, dalla lotta all’emarginazione alle nuove malattie, dalla divisione del sistema bancario ed alla sua maggiore trasparenza alla tutela degli interessi produttivi dei paesi dell’Unione.

    In verità nulla è stato raggiunto, da un lato l’Europa si è allargata in tempi troppi rapidi, dall’altro sono  aumentate divisioni che hanno portato o all’immobilismo o a scelte riduttive se non addirittura sbagliate. Il Regno Unito se ne è andato e cittadini di molti paesi europei hanno dimostrato crescente indifferenza, addirittura repulsione in certi casi, verso il gigante con il paraocchi, l’Europa. E la sua principale istituzione, il Consiglio europeo, ha dimostrato tutti i limiti di un organismo superato e teso a difendere interessi di alcuni rispetto all’interesse complessivo. In queste ultime settimane purtroppo, mentre la crisi sanitaria, economica e politica ha cominciato a travolgere tutti e tutto ci eravamo, una volta ancora, illusi che da tanto dolore e davanti ad un così grave pericolo le Istituzioni europee potessero essere capaci di quel colpo di reni necessario a dare vita, da subito, ad azioni comuni sia per sostenere gli Stati, cominciando dai più colpiti, sia per creare una task force comune per l’assistenza alle urgenze sanitarie e per la ricerca di cure e vaccini, mettendo insieme tutte le risorse per andare sul campo ed agire concretamente. Salvando il Parlamento europeo, che ha fatto quello che era in suo potere, un potere troppo debole rispetto alla rappresentanza  dei cittadini che lo hanno eletto, Commissione e Consiglio hanno una volta ancora perduto l’occasione, forse l’ultima, di salvare l’Unione dall’implosione che parte  dal suo stesso cuore.

    Anche le dimissione dal CER (Centro europeo ricerche) del prof Ferrari, lo scienziato italiano che da gennaio ne era responsabile, sono un altro significativo esempio del “cupio dissolvi” che anima da tempo l’Unione. Il prof. Ferrari si è dimesso perché è stata rifiutata, dall’ente di governo del CER, e senza neppure discuterla, la proposta di un programma scientifico comune che consentisse ai migliori scienziati di lavorare insieme per combattere il virus. Certo una scelta diversa dalle funzioni normali dell’ente ma in emergenze globali o si ha il coraggio di uscire dagli schemi della burocratica quotidianità o si rischia di morire e di lasciar morire tanti altri. Senza  una cabina di regia unica non di può sperare di trovare soluzioni comuni che ci mettano al riparo dal continuo e futuro espandersi del virus e la Commissione europea, con il commissario alla sanità, ha dimostrato di non poter o di non voler essere il polo unificante e propulsivo. Gli Stati sono andati in ordine sparso sia sui modi per contrastare l’epidemia che nelle scelte necessarie, dalla chiusura delle frontiere nazionali al sostegno alle vittime. Sotto gli occhi di tutti sono le scelte e le non scelte in tema di economia, lavoro, welfare. Siamo all’ultimo appello, all’ultimo segnale, se ancora nelle prossime ore non vi saranno adeguate e comuni decisioni per combattere e curare il covid l’Europa avrà decretato la sua agonia, non sappiamo quanto lenta, infatti se alcuni paesi non prenderanno le misure necessarie sarà inevitabile che chi le ha prese non si fidi ad avere contatti con altri, ad aprire le sue frontiere, a contribuire e lavorare con chi invece che aiutare ha fatto distingui ingiustificabili mentre si perdeva tempo prezioso al prezzo di vite umane.

  • Idee per dare forma alla conferenza sul futuro dell’Europa

    La Commissione europea ha presentato le sue idee per dare forma alla conferenza sul futuro dell’Europa, che dovrebbe essere avviata il 9 maggio 2020, festa dell’Europa (a 70 anni dalla firma della dichiarazione Schuman e 75 dalla fine della seconda guerra mondiale), e avere una durata di due anni. La comunicazione adottata costituisce il contributo della Commissione al già acceso dibattito sulla conferenza sul futuro dell’Europa – un progetto annunciato dalla Presidente Ursula von der Leyen nei suoi orientamenti politici per dare agli europei maggiore voce in capitolo su ciò che l’Unione fa e su cosa fa per loro.

    La conferenza attingerà a esperienze passate, come i dialoghi con i cittadini, ma introdurrà al contempo una serie di nuovi elementi per estenderne la portata e rafforzare le modalità con cui le persone contribuiscono a plasmare il futuro dell’Europa. La conferenza consentirà un dibattito aperto, inclusivo, trasparente e strutturato con cittadini aventi background diversi e di ogni estrazione sociale.

    La Commissione, che si è impegnata a dare seguito ai risultati della conferenza, propone di strutturare i dibattiti su due filoni paralleli. Il primo incentrato sulle priorità dell’UE e sugli obiettivi che l’Unione dovrebbe perseguire: tra essi figurano la lotta ai cambiamenti climatici e ai problemi ambientali, un’economia al servizio delle persone, l’equità sociale e l’uguaglianza, la trasformazione digitale dell’Europa, la promozione dei valori europei, il rafforzamento della voce dell’UE nel mondo e il consolidamento delle fondamenta democratiche dell’Unione. Il secondo filone dovrebbe riguardare tematiche più specificamente correlate al processo democratico e alle questioni istituzionali: in particolare il sistema dei candidati capilista e le liste transnazionali per l’elezione dei parlamentari europei.

    La Commissione considera la conferenza un forum che parte “dal basso”, accessibile alle persone di ogni parte dell’Unione e che non resta circoscritto alle capitali europee. Sono invitate a partecipare anche le altre istituzioni dell’UE, i parlamenti nazionali, le parti sociali, le autorità regionali e locali e la società civile. Una piattaforma online multilingue garantirà la trasparenza del dibattito e favorirà una più ampia partecipazione. La Commissione si è impegnata ad adottare le misure più efficaci, di concerto con le altre istituzioni dell’UE, per integrare le idee e il feedback dei cittadini nel processo decisionale dell’UE.

    Il Parlamento europeo e il Consiglio stanno attualmente definendo i rispettivi contributi alla conferenza sul futuro dell’Europa. La risoluzione del Parlamento europeo del 15 gennaio 2020 ha invitato ad adottare un approccio inclusivo, partecipativo ed equilibrato nei confronti dei cittadini e dei portatori di interessi. In precedenza le conclusioni del Consiglio europeo del 12 dicembre 2019 avevano invitato la presidenza croata ad avviare i lavori sulla posizione del Consiglio. La presidenza croata ha inserito, da parte sua, la conferenza tra le sue priorità.

    A questo punto è di fondamentale importanza che le tre istituzioni elaborino una dichiarazione comune per definire il concetto, la struttura, la portata e il calendario della conferenza sul futuro dell’Europa e che stabiliscano principi e obiettivi concordati.

    Fonte: Comunicato stampa della Commissione europea del 22 gennaio 2020

  • Il Presidente del PE al Consiglio europeo: necessarie un’Europa più partecipata e attenzione al clima, migrazione, allargamento, Brexit e Turchia

    Parla di un’Europa più partecipata il Presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, nel suo messaggio al Consiglio europeo che si è svolto a Bruxelles il 17 e il 18 ottobre. Pur sottolineando come i cittadini europei abbiano votato a maggio per partiti e movimenti che si riconoscono nei grandi principi del progetto europeo, limitando il dilagare delle forze populiste e nazionaliste, ciò non vuol dire che bisogna abbassare la guardia.I cittadini chiedono un’Europa nuova, più vicina alle loro esigenze, più verde, più severa nella difesa dello Stato di diritto, più attenta ai diritti sociali, più efficiente e trasparente nel suo processo decisionale. “Oggi nel Parlamento europeo – dichiara Sassoli – vi è davvero la possibilità di aumentare il grado di consapevolezza delle forze europeiste nel ricercare le convergenze possibili per rispondere alle domande di cambiamento. Il Parlamento è la base della legittimità del sistema democratico europeo”. Partendo dalla richiesta del Consiglio europeo di non tenere conto per l’elezione del Presidente della Commissione europea degli “Spitzenkandidaten” Sassoli parla della necessità della convocazione di una Conferenza sugli strumenti della democrazia in Europa per rimarginare questa ‘ferita’ che era invece uno dei capisaldi dei Trattati dell’istituzione dell’Ue. E rimarca il ruolo del Parlamento europeo che deve “affermarsi come un attore del processo decisionale europeo. Lo farà certamente in maniera costruttiva, lavorando fianco a fianco con il Consiglio e la Commissione, ma rivendicando anche il suo ruolo e le sue prerogative”. Per questo sono necessarie anche risorse adeguate, il Parlamento europeo ha fissato le sue ambizioni sul Quadro finanziario pluriennale 2021-2027 con largo anticipo, già nel novembre 2018 e da allora è pronto a negoziare. “Dal lato delle entrate – continua il Presidente – è necessario introdurre un paniere di nuove risorse proprie che siano meglio allineate alle principali priorità politiche dell’UE e ne incentivino i progressi. Lavoreremo per un bilancio trasparente e riteniamo sia giunto il momento di abolire l’intero sistema dei ‘rebates’. Dal lato della spesa, invece, il Parlamento ritiene fondamentale dare impulso ai programmi di maggior successo – ad esempio nei settori della gioventù, della ricerca e dell’innovazione, dell’ambiente e della transizione climatica, delle infrastrutture, delle PMI, della digitalizzazione e dei diritti sociali – mantenendo al tempo stesso inalterato in termini reali l’impegno finanziario per le politiche tradizionali dell’UE, in particolare coesione, agricoltura e pesca. Servirà assicurare risorse sufficienti per le nuove sfide, quali la migrazione, l’azione esterna e la difesa. Dobbiamo poi rispondere al disagio e alle difficoltà economiche di tanti cittadini e per questo siamo convinti che sia necessario rafforzare il modello sociale europeo. Reddito minimo europeo, assicurazione europea contro la disoccupazione, misure contro la povertà infantile, garanzia giovani, fondo di aiuto agli indigenti sono misure che devono essere finanziate adeguatamente”.

    Anche le problematiche legate al clima sono una prerogativa del nuovo Parlamento formatosi a maggio, per questo “la lotta al cambiamento climatico dovrà essere inclusa in tutte le politiche dell’Unione”, motivo per il quale è attesa la proposta della Commissione sul Green Deal europeo. “Abbiamo apprezzato molto le indicazioni, avanzate dalla Presidente von der Leyen, che riprendono le posizioni espresse dal Parlamento. La scorsa primavera, abbiamo chiesto di arrivare ad un obbiettivo di neutralità per le emissioni di carbonio nel 2050. Purtroppo, l’Unione europea non è stata in grado di farlo proprio. Tuttavia riconosciamo che sono stati compiuti progressi, soprattutto per quanto riguarda i finanziamenti e gli impegni del settore privato. Chiediamo agli Stati membri, che non l’hanno ancora fatto, di aumentare i loro contributi al Fondo Verde per il Clima e di sostenere la formazione di una Banca europea per il Clima. Queste politiche comportano profondi cambiamenti nelle nostre società e nelle nostre economie. Per questo è necessario adottare un piano di investimenti adeguato e finanziare la transizione ecologica in modo equo”.

    Non manca un accenno allo spinosa questione della Brexit, della quale il Parlamento affronterà con tutta l’attenzione del caso gli ultimi sviluppi per verificarne la conformità all’interesse dell’Unione europea e dei suoi cittadini.

    E per uno Stato che lascia l’Ue altri potrebbero accedervi, sempre che le condizioni siano conformi a quanto l’Europa chiede. Sassoli affronta, infatti, anche il tema dell’allargamento ai paesi del vicinato. “Quando a paesi vicini si chiedono sforzi straordinari di cambiamento e questi sforzi vengono compiuti è nostro dovere corrispondere. Per questo sosteniamo la necessità di aprire adesso i negoziati di adesione con la Macedonia del Nord e l’Albania. Il giudizio della Commissione europea è favorevole e i cittadini di quei paesi non comprenderebbero rinvii. Certo, resta ancora molto da fare e i negoziati di adesione sono un lungo cammino. Non accadrà da un giorno all’altro. La stabilizzazione dei Balcani Occidentali è fondamentale anche per la nostra sicurezza e per evitare che ingerenze esterne condizionino il loro e il nostro futuro”. E a proposito di paesi limitrofi che con l’area balcanica hanno da sempre avuto molto a che fare, non poteva mancare un riferimento a quanto sta compiendo in questi giorni la Turchia con le discutibili iniziative militari del suo Presidente Erdogan nella Siria nord orientale. “La popolazione curda nel Nord-est della Siria ha combattuto con coraggio i terroristi dello Stato islamico e ora è oggetto di un’aggressione da parte di un Paese membro della NATO. Non è un mistero che i nostri cittadini nutrano un forte senso di riconoscenza per quelle comunità. La battaglia contro l’ISIS, d’altronde, è stata fondamentale per la nostra sicurezza. Per tali motivi condanniamo fermamente e senza riserve l’azione militare della Turchia nella Siria nord-orientale che costituisce una grave violazione del diritto internazionale e compromette la stabilità e la sicurezza dell’intera regione, causando sofferenze ad una popolazione già colpita dalla guerra ed ostacolando l’accesso all’assistenza umanitaria. Accogliamo con favore la decisione di operare un coordinamento delle misure nazionali di embargo sulla futura vendita di armi alla Turchia, ma lo consideriamo un primo passo e non sufficiente. Abbiamo il dovere di dare un segnale unitario, promuovendo un embargo comune a livello dell’Unione europea che riguardi non solo le future forniture di armi, ma anche quelle correnti. È positiva la decisione dell’Unione europea di sanzionare la Turchia per un fatto grave come le trivellazioni al largo di Cipro, ma risulta meno comprensibile che non si faccia altrettanto in merito all’aggressione militare nella Siria Nord-orientale. Dobbiamo mettere sul tavolo ogni ipotesi di sanzioni economiche nei confronti del governo turco che devono colpire persone fisiche e giuridiche e non la società civile già provata dalla crisi economica”.

    Parlando di Turchia non possono non tornare alla mente i costosissimi accordi fatti negli anni scorsi per le politiche di contenimento dei flussi migratori. E alla migrazione è dedicata l’ultima parte del messaggio di Sassoli, consapevole di quanto accade quotidianamente nel Mediteranno e sulle coste dei paesi che esso lambisce. “Restiamo convinti che la soluzione non possa che essere elaborata nel quadro comune dell’Unione europea, a partire dalla riforma del Regolamento di Dublino su cui il Parlamento europeo si è espresso da tempo. L’Unione europea ha il dovere di assicurare la protezione delle persone che ne hanno diritto anche attraverso la creazione di veri e propri corridoi umanitari europei che, su base volontaria, con l’aiuto delle competenti agenzie umanitarie, consentano a chi ne ha bisogno di arrivare in Europa senza doversi affidare ai trafficanti di esseri umani”.

     

  • Non certa la nomina di Ursula von der Leyen alla presidenza della commissione europea

    Martedì prossimo, 16 luglio, alle ore 18, il Parlamento europeo ha all’ordine del giorno la votazione per la presidenza della Commissione europea. Come è noto, il Consiglio europeo, cioè l’organo che riunisce i capi di stato o di governo dell’UE, ha proposto la candidatura del ministro tedesco della Difesa Ursula von der Leyen. Questa proposta, come prevedono i trattati, deve essere approvata a maggioranza dal Parlamento europeo. In caso contrario, il Consiglio europeo dovrà proporre un’altra candidatura. Il nome della Von der Leyen era stato accolto all’inizio con un sospiro di sollievo, dopo i ritiri di Manfred Weber, presidente del gruppo del Ppe, di Frans Timmermans, socialista olandese, già vice presidente della Commissione europea, e della liberale Margrethe Vestager, commissaria danese alla Concorrenza. Tutte e tre queste personalità erano spitzencandidaten, cioè “candidati di punta” dei tre più importanti gruppi politici del Parlamento. Fino a ieri, era tradizione che il candidato alla Commissione europea fosse lo spitzencandidat del gruppo più votato, in questo caso il bavarese Weber. Ma il presidente francese Macron ha posto un veto all’applicazione di questo metodo e dopo un negoziato abbastanza inconcludente, alla fine è improvvisamente spuntato il nome della Von der Leyen, accettato da tutto il Consiglio europeo. Se il nome del ministro della Difesa tedesco ha accontentato i capi di Stato e di Governo, altrettanto non si può dire dei parlamentari, che si sono visti sottrarre  il principio dello spitzencandidat, da loro scelto nel passato e che aveva dato buona prova, rendendo più facili e meno complicati i negoziati per l’assegnazione delle altre candidature, nel rispetto dell’equilibrio fra nazionalità e tendenze politiche. Secondo le opinioni emerse in questi ultimi giorni la nomina della Von Leyen non è data così sicura come sembrava in un primo momento. I motivi di questa incertezza sono rappresentati da almeno tre ostacoli. Il primo è appunto quello dei parlamentari che considerano negativo l’aver accantonato il meccanismo dello spitzencandidat da parte dai capi di Stato o di Governo, secondo il quale il nuovo presidente deve essere scelto fra i “candidati di punta” espressi dai partiti europei prima delle elezioni. Il secondo ostacolo è di natura istituzionale. Il compromesso su Von der Leyen è stato trovato in Consiglio dagli staff dei capi di stato e di governo, ma molti parlamentari europei si considerano indipendenti dai governi, soprattutto quelli eletti con partiti che non sostengono il governo del proprio Paese e rivendicano di votare come meglio credono. In più, pur sapendo che le scelte in Europa rimangono influenzate dai gruppi politici, non sempre tra le due istituzioni: Consiglio europeo e Parlamento, il coordinamento fra i membri della stessa tendenza  funziona perfettamente. I capi di governo dei Popolari, ad esempio, potrebbero su diverse questioni, avere un’opinione diversa dei parlamentari del Ppe. Nel caso in questione,  molti parlamentari, anche tedeschi, non hanno accettato che il loro presidente fosse sacrificato in modo così sbrigativo da Macron e soci. Il terzo ostacolo è di natura politica e riguarda il programma della nuova Commissione. Sono in corso da giorni gli incontri della candidata con le varie famiglie politiche per raggiungere accordi che permettano un voto favorevole. Il caso dei Verdi è emblematico. Avevano chiesto alla Von der Leyen la riduzione delle emissioni di gas serra del 55 per cento rispetto ai valori del 1990, come proposto dall’intero Parlamento europeo nel 2018. Ma la Von der Leyen è passata da un iniziale 40% a un 50%, non andando oltre. I Verdi non hanno ceduto, e per questa ragione le voteranno contro. I Popolari hanno invece dichiarato che la sosterranno, mentre le altre due principali famiglie politiche europee, quella dei socialisti e quella dei liberali, stanno ancora trattando e non hanno ancora raggiunto un compromesso. L’incontro con i socialisti non è andato troppo bene, tanto che la capogruppo spagnola Iratxe Gercia ha precisato che il suo gruppo ha avanzato proposte molto concrete, ma che non ha avuto risposte sufficienti. Anche i parlamentari italiani Calenda e Toia hanno spiegato che la candidata tedesca è sembrata piuttosto deludente su temi fondamentali come il superamento di Dublino, la flessibilità per gli investimenti, lo stato di diritto e migration compact. Una certa ostilità alla candidatura della von der Leyen è stata espressa anche tra i socialisti belgi, olandesi e greci. Molto critici i socialisti tedeschi che in un documento di due pagine spiegano perché a parere loro la candidata è inadeguata per l’incarico di presidente della Commissione europea. Anche i liberali europei, in una lettera resa pubblica, insistono sull’introduzione di un meccanismo di sanzioni per i paesi che non rispettano le leggi europee sulla stato di diritto e sulla nomina della loro ex candidata di punta Margrethe Vestager a vice presidente della Commissione.

    Sono molti i punti non chiariti negli incontri di questa settimana. Ci sarà ancora tempo per giungere a compromessi che permettano un voto favorevole? Ne dubitiamo. Ma le ragioni politiche sono forti tanto nel senso di una approvazione della candidatura, quanto in quello contrario di un respingimento. Martedì sera sapremo come sarà andata a finire.

  • Accordo del Consiglio europeo sulle nomine

    Nel tardo pomeriggio di ieri l’accordo sulle nomine in seno al Consiglio europeo è stato faticosamente e felicemente raggiunto. Faticosamente, perché in fasi successive, sono state eliminate due candidature di “spitzencandidaten”, il democratico cristiano bavarese del PPE, Manfred Weber, e il socialista olandese Frans Timmermans. Ad entrambi i candidati erano collegate candidature per la presidenza del Consiglio europeo e per la banca Centrale europea, che erano state annullate a seguito della scomparsa delle due candidature di punta. Era stata chiusa inoltre la sessione del 30 giugno senza risultati. Felicemente perché, con le nuove candidature, il risultato è stato a portata di mano ed approvato dal Consiglio europeo. Ecco le nuove nomine:

    1. Ursula von der Leyen, attuale ministro tedesco della Difesa, alla presidenza della Commissione europea, al posto di Jean-Claude Juncker.
    2. Christine Lagarde, attuale direttore generale del Fondo Monetario internazionale, alla Banca Centrale europea, al posto di Mario Draghi.
    3. Josef Borrell, attuale ministro socialista per la Affari europei nel governo Spagnolo ed ex presidente del Parlamento europeo, è stato indicato come Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza, in sostituzione dell’italiana Federica Mogherini.
    4. Charles Michel, Primo ministro del Belgio, liberale, alla presidenza del Consiglio europeo, al posto del polacco Donald Tusk.

    Nella mattinata di oggi il Parlamento europeo ha eletto alla sua presidenza il socialista italiano David Sassoli, in sostituzione di Antonio Tajani. Tutto fatto, dunque? No, bisognerà aspettare che il Parlamento voti per l’approvazione della nomina della presidente della Commissione e per i Commissari. Non è vero che la Commissione – come affermano ad alta voce gli euroscettici nostrani – sia una istituzione antidemocratica perché composta da burocrati non eletti. A votarla in secondo grado sono i rappresentanti di più di mezzo miliardo di cittadini europei che sono stati eletti in primo grado nelle elezioni europee del 26 maggio scorso. Il Parlamento può votare contro certi candidati proposti, come è successo all’on. Rocco Buttiglione nel 2004. Allora il presidente del Parlamento europeo era Josef Borrell, lo spagnolo oggi indicato come Alto Rappresentante per la politica estera. La scelta di due donne per incarichi così prestigiosi ci fa bene sperare. La loro esperienza politica e la qualità del lavoro svolto fino ad ora ci rassicurano sul loro equilibrio e sul loro rifiuto per i giochi di corrente o della politica “politicante”. Chi sembra aver perduto peso in tutto questo lungo negoziato è il gruppo del PPE, il cui presidente è stato respinto come candidato alla presidenza della Commissione e come presidente del Parlamento europeo, al quale sembrava destinato dopo la prima fase dei negoziati. La Germania ha avuto in eredità la presidenza della Commissione, ma ha perso la BCE, alla quale da due anni sembrava fosse destinato il presidente della Bundesbank. Bisognerà vedere se alla presidenza del gruppo del PPE rimarrà Weber, o se sarà sostituito. Il gruppo nel suo insieme lo ha sostenuto nel corso dei negoziati, ma è stato un sostegno che non è servito a nulla. La Francia di Macron, alla fine, ha avuto partita vinta contro il principio dei “candidati di punta”, ma ha perso l’efficacia dell’esperienza di Michel Barnier, il capo negoziatore dell’UE per la Brexit. Dell’Italia è meglio non parlare. Dei tre posti di grande prestigio da noi detenuti nella legislatura appena terminata, ne è rimasto uno solo, quello della presidenza del Parlamento europeo. Ma il merito spetta al gruppo socialista europeo e non al governo italiano. Noi avremo, a detta di Tusk, una vicepresidenza della Commissione europea da lui perorata con insistenza, Ma per averne conferma bisognerà attendere le nomine dei Commissari. Così come attendiamo che il nostro governo proponga il nome del commissario che dovrà rappresentarci. Speriamo che tra una litigata e l’altra trovi il tempo di presentarlo in tempo utile, e non in prorogatio, come siamo abituati a chiedere.

  • La crisi d’identità dell’Europa

    In attesa che i leader europei raggiungano un accordo sulle nomine alle quattro più importanti e prestigiose cariche dell’Unione europea (Consiglio europeo, Commissione, Parlamento, Banca centrale), viene naturale chiedersi le ragioni del fallimento che ha incontrato fino ad ora il Consiglio europeo, l’istituzione incaricata di presentare i candidati. Siamo consapevoli della complessità dell’operazione e degli elementi che entrano in gioco per il raggiungimento di un equilibrio politico e di nazionalità. Per quanto riguarda il primo, da due legislature funzionava un metodo, detto dello “spitzencandidat”, che garantiva la presidenza della Commissione europea al partito che aveva raggiunto il maggior numero di seggi alle elezioni. Il metodo era stato scelto dal Parlamento e semplificava di parecchio le trattative per le altre tre presidenze. Ma con l’arrivo di Macron, il presidente francese, questo metodo è stato considerato obsoleto e non più rispondente alle esigenze dell’attualità. Per questo è stata rifiutata subito la candidatura del presidente del gruppo del PPE, il bavarese Manfred Weber, che con 179 deputati ha il maggior numero di seggi. Il principio democratico della vittoria elettorale doveva essere sacrificato all’esperienza di governo e alla notorietà, che non caratterizzavano la carriera politica di Weber. I fatti hanno dimostrato subito che il rifiuto del principio dello spitzencandidat era un pretesto, poiché Macron, con la Merkel, i socialisti e gli spagnoli hanno presentato la candidatura dello spitzencandidat socialista Frans Timmermans, olandese. Il che sta a dimostrare che Macron non voleva un democratico cristiano, non uno spitzencandidat. L’atteggiamento equivoco della Merkel che accetta il rifiuto di un candidato della sua parte politica e della sua nazionalità si spiega con la sua preferenza per la presidenza della Banca Centrale Europea da affidare a Jens Weidmann, attuale presidente della Deutsche Bundesbank. I giochi non sono ancora fatti. Circolano vari nomi, come è normale, ma il cerchio non è ancora chiuso e le divisioni tra i 28 governi possono riservare sorprese. Ma non ci meraviglia che i negoziati vadano per le lunghe. Gli equilibri da raggiungere sono delicati e toccano gli interessi di oltre 120 partiti nazionali rappresentati al Parlamento europeo e riuniti nei sette gruppi politici. E’ normale che ciascun gruppo cerchi il maggior spazio possibile. Quel che però non convince è il muoversi a vuoto, l’agitarsi per il posto da occupare, senza una visione generale da perseguire, senza un obiettivo chiaro e distinguibile che riguardi il bene comune e l’interesse di oltre mezzo miliardo di cittadini europei. Quale Europa? Quale suo posto nel mondo? In quali valori identificarsi? Tutti questi traguardi ci paiono assenti nelle trattative negoziali di questi giorni. Ecco, a noi pare che questa Europa, con la sua crisi attuale, sia il risultato di una mancanza di identità precisa, specifica, facilmente individuabile e perciò avvertita e vissuta dalla stragrande maggioranza degli europei. No, questa identità non c’è più, ammesso che ce ne fosse una con le Comunità europee, o non c’è ancora, se vogliamo partire da Maastricht e dalla fondazione dell’Unione europea. “Stiamo finalmente vivendo – scrive lo storico David Engels su l’European Conservative del maggio scorso – le conseguenze di un pericolo che Robert Schuman, il padre fondatore della Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, ha avvertito più di mezzo secolo fa – e cioè che un’Europa unificata non deve rimanere solo un’impresa economica e tecnocratica, ma ha bisogno di un’anima, di una consapevolezza delle sue radici storiche e dei suoi obblighi presenti e futuri”. Senza un’identità comune, nessuna solidarietà europea è possibile in tempi difficili come i nostri di oggi. Tale identità, tuttavia, deve basarsi non solo sull’idea di diritti umani universali, ma deve anche tener conto di ciò che l’Europa e gli europei hanno in comune: una visione occidentale dell’uomo profondamente radicata nella tradizione e nella storia. Se un tale sforzo dovesse fallire, ci sono solo due possibilità: ricadere negli stati nazionali, che saranno poi in balia di potenze come la Cina, la Russia, il mondo musulmano o gli Stati Uniti, o scendere ulteriormente in un centralismo burocratico e senza anima. Sono due rischi che Schuman aveva già avvertito quando scriveva: “La democrazia (europea) sarà cristiana o non sarà. Una democrazia anticristiana è destinata a diventare una caricatura che si disintegra in tirannia o in anarchia” (….) L’Europa è molto più della semplice somma delle persone che attualmente vivono nelle nostre terre. Deve rimanere fedele all’eredità dei suoi antenati assicurando un rapporto positivo con la tradizione classica e cristiana, proteggendo l’ideale occidentale della famiglia e favorendo un sano orgoglio per l’unicità della propria ricca eredità. Se deve esserci l’obbligo morale di affrontare i crimini della propria storia, allora c’è anche il dovere di commemorare le grandi conquiste e i grandi risultati della nostra civiltà”. Condividiamo le opinioni di Engels e ci chiediamo con apprensione se i leader europei stanno lavorando anche per ridefinire un’identità a questa Europa in crisi. Temiamo invece che questa crisi sia sistemica, non congiunturale, sia l’inizio di quanto temuto da Schuman sessant’anni fa. Se così è, i nomi scelti per le nomine ci dicono poco. La ricerca dell’identità deve diventare invece l’obiettivo massimo per chi sarà chiamato e presiedere le istituzioni europee.

    1. Apprendiamo ora che il ministro della Difesa tedesco, esponente di punta della CDU, Ursula von derLeyen, entra nella corsa per la presidenza della Commissione europea. Allieva della scuola europea di Bruxelles, madre di sette figli, a lei i nostri migliori auguri, con l’auspicio che i timori di Schuman possano rappresentare un impegno di lavoro.
  • Più potere agli Stati? Ci pensa già il Consiglio europeo

    I sovranisti invocano un’Europa nella quale gli Stati nazionali abbiano più potere. Non si sono accorti che è in questa Europa, nell’Europa attuale, che il massimo sovranismo si espleta all’interno del Consiglio europeo, là dove i capi di Stato e di governo, tra un veto incrociato ed un’alleanza tattica, decidono a maggioranza e spesso con l’obbligo dell’unanimità. La Commissione è un organo esecutivo, il Parlamento non ha ancora pieno potere legislativo ed il Consiglio, è solo il Consiglio, come più volte abbiamo detto e scritto, che decide il futuro di noi cittadini. E se all’interno del Consiglio alcuni Stati predominano ottenendo, tramite i loro governi, opzioni, imposte a tutti ma più vantaggiose per i loro  sistemi economici o sociali, questo è il risultato della capacità che si ha o meno di pesare, di intrecciare alleanze, di proporre iniziative, provvedimenti credibili. Non è alzando la voce o minacciando, specie quando si è deboli e non preparati, che si ottengono solidarietà ma dimostrando concretamente di conoscere quali sono i problemi da affrontare subito e quelli futuri che devono già da ora trovare proposte e soluzioni. Visione politica per cambiare l’attuale Europa sovranista è dare vita ad un’Europa confederata, come passo iniziale per arrivare un domani ad una possibile federazione, un’Europa che applichi il sistema comunitario per decidere all’interno del Consiglio, che sappia armonizzare i sistemi fiscali, doganali, giuridici almeno per i reati più gravi, che abbia una difesa comune ed un unica intelligence per combattere il terrorismo in tutte le sue forme criminali, in sintesi quell’Europa politica della quali si parla da troppo tempo inutilmente proprio perché gli Stati hanno preferito il sovranismo alla costruzione dell’Unione.

  • Il Parlamento europeo sollecita l’ammissione di Bulgaria e Romania nell’area Schengen

    La Bulgaria e la Romania devono entrare a far parte dell’area Schengen “il prima possibile” e “in modo pieno”, con una decisione univoca che riguardi tutte le frontiere, terrestri, aeree e marittime. E’ quanto chiede il Parlamento europeo in una risoluzione approvata alla plenaria di Strasburgo a larga maggioranza (514 voti a favore, 107 contrari e 38 astenuti), esortando gli stati Ue a rompere gli indugi. Sofia e Bucarest “soddisfano tutti i requisiti tecnici necessari” all’ingresso in Schengen “già dal 2011, ma il loro ingresso è bloccato dal Consiglio europeo per ragioni politiche”, scrivono gli eurodeputati, rammaricandosi che “a distanza di sette anni, il Consiglio non abbia adottato una decisione sulla piena applicazione dell’ ‘acquis’ di Schengen” nei due Paesi “nonostante i ripetuti inviti da parte della Commissione e del Parlamento Ue”.

    La plenaria chiede inoltre un accesso “pieno” dei due Paesi, ritenendo inadeguata la proposta di suddividere l’abolizione dei controlli alle frontiere interne in due atti giuridici, con scadenze diverse per le frontiere terrestri, marittime e aeree. “Abbiamo categoricamente respinto l’adesione parziale” perché “non solo manca di giustificazioni giuridicamente valide, ma comporta anche una serie di aspetti negativi economici, sociali e politici per l’intera Ue”, ha spiegato l’eurodeputato Sergei Stanishev (S&D), autore del rapporto.

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