Corbyn

  • A che punto è la Brexit?

    I negoziati tra Conservatori e Laburisti continuano. Dopo i primi incontri, avvenuti in un clima di collaborazione e di fiducia, nessun passo avanti concreto era stato fatto. Sembrava che le cose andassero per le lunghe e il timore di avvicinarsi alla scadenza della proroga dell’art.50 senza accordi, impauriva i contrari, politici, imprese, o semplici cittadini, ad un’uscita no deal. Tanto più che la premier Theresa May è nuovamente sotto il tiro del fuoco amico, cioè del suo tesso partito. Dopo aver superato il voto di sfiducia del Parlamento nel dicembre scorso, deve ora affrontare il giudizio dei leader locali del suo partito e di altri membri, in una riunione speciale a margine della Convenzione nazionale dei Conservatori. Il presidente della stessa Convenzione, Andrew Sharpe, ha dichiarato che oltre il 10 per cento dei membri dei partiti locali hanno firmato una petizione che chiede le dimissioni della May, responsabile, secondo loro, della cattiva conduzione della Brexit, facendo finta di dimenticare che il Parlamento stesso è stato incapace, in numerose votazioni, di darsi una maggioranza risolutiva. Questi contestatori vorrebbero rimuoverla dall’incarico ed in più di 70 hanno sottoscritto una petizione nella quale affermano che la signora May “non è la persona giusta per continuare come primo ministro a guidare i negoziati” e quindi chiedono che essa “consideri la sua posizione e si dimetta”.

    Il suo portavoce, tuttavia, cerca di minimizzare, affermando che qualsiasi voto non sarebbe vincolante e che in ogni caso, non c’è nessuna certezza che esso riesca a passare. Se tra i Conservatori si nota sconcerto e disimpegno, non si può dire che tra gli oppositori  Laburisti alberghi un clima di fiducia e di concordia. Il loro leader, Jeremy Corbyn, è sotto pressione, perché il suo no ad un nuovo referendum sulla Brexit, sta inducendo alcuni membri a lasciare il partito. Corbyn infatti ritiene possibile un secondo referendum, ma solo come ultimo tentativo per evitare un no deal. Ma il suo vice, Tom Watson, invece, a nome di una buona parte di militanti e di deputati del partito, sostiene la richiesta di un nuovo voto popolare senza se e senza ma.

    A questo scollamento interno dei due partiti, nelle ultime ore, fa riscontro una buona notizia. Pare, infatti, che le trattative tra Conservatori e Laburisti, stiano facendo passi avanti significativi. Lo riferisce il quotidiano “The Guardian”, citando le dichiarazioni  del “ministro ombra” per l’Ambiente del Labour, Sue Hayman, rese alla chiusura della riunione dei negoziatori, secondo il quale si è tenuta una discussione davvero costruttiva, che è entrata anche nei minimi dettagli, dimostrando che il governo è deciso ad andare avanti. E’ un buon segnale!

  • La Brexit fa vittime e crea un nuovo movimento

    Sono otto i deputati che hanno dato le dimissioni dal partito laburista e tre dal partito conservatore, tutti insoddisfatti di come i loro partiti hanno trattato la questione dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. I laburisti accusano anche il loro leader Corbyn di essere stato ambiguo nel corso delle procedure parlamentari per l’approvazione dell’accordo del governo May con l’UE e per non aver mai definito una posizione precisa sulla Brexit. I tre conservatori sono insoddisfatti del modo usato dalla May in parlamento per avere il consenso sull’accordo ottenuto con l’UE. Gli undici in sostanza sono contro la Brexit e l’unico modo per esercitare una pressione per combatterla, ritengono sia l’uscita dai loro rispettivi partiti e la formazione di un nuovo movimento, che sta prendendo forma e che si chiama “Independent Group”.  Con quali prospettive? La situazione è veramente caotica e l’incapacità del parlamento di trovare una posizione maggioritaria che definisse la sua linea definitiva sull’uscita, ha contribuito a creare questo caos e a far correre il rischio di un’uscita senza nessun accordo. In realtà il parlamento, più che a darsi da fare per evitare il peggio, è sembrato più interessato a sfruttare le difficoltà della Brexit per malmenare la May: Corbyn per farla dimettere e giungere a nuove elezioni, buona parte dei conservatori per toglierle la leadership del partito. Di fronte a questa realtà parlamentare surreale, gli undici dissidenti, con la formazione di un nuovo movimento, sperano di rompere la rete delle imboscate parlamentari per mescolare le carte e giungere a un secondo referendum, e comunque a evitare un’uscita “no deal”. Sperano inoltre di far saltare le priorità che ora sono in mano all’Erg, il gruppo che riunisce i falchi della Brexit, e al Dup, il partito nordirlandese che garantisce ai Tory la maggioranza ai Comuni. Theresa May ha detto di essere molto dispiaciuta per la partenza dei suoi tre deputati, nel Labour si dice che bisogna capire chi se ne va e che bisogna curare le insofferenze. Molti tuttavia ritengono che la vendetta non si farà attendere e che si potrebbero preparare delle elezioni suppletive nei collegi dei dissidenti, per farli punire direttamente dagli elettori. Ma per ora i ribelli non sembrano preoccupati delle conseguenze della loro uscita e nella foto di gruppo che li ritrae sorridenti, sembrano invitare altri colleghi a venire con loro. Per quelli che non sopportano più Corbyn, per il suo antisemitismo ed il suo marxismo radicale, e per quelli che non possono più accettare la May, come i liberaldemocratici e molti conservatori, potrebbe forse essere giunto il momento di creare quel partito del 48% (la percentuale anti Brexit al referendum del 2016) di cui si parla da due anni a questa parte senza aver mai fatto niente di concreto. Nel frattempo, quasi a sostegno degli indipendenti, sono arrivati, puntuali come sempre, alcuni sondaggi rassicuranti. Quello del Times indica i Conservatori al 38%, i Laburisti al 28%, misurando in questo modo l’opposizione a Corbyn, e l’Independent Groupe al 14%. I Liberaldemocratici seguono al 7%. Sono sondaggi, non voti, e ai sondaggi molti non credono più. Tuttavia quel 14 per cento veniva sussurrato da molte labbra, accompagnato da complici sorrisi. Nel frattempo la May a Bruxelles faceva gli ultimi tentativi di modificare certe parti dell’accordo con l’UE per evitare il “no deal”. Non è detto che ci riesca, ma alcune modifiche potrebbero servirle per sopravvivere al nuovo voto dei Comuni previsto per il 27 febbraio. Intanto il 29 marzo s’avvicina e niente è certo o scontato. Il 23 marzo, organizzata dal People’s Vote, ci sarà una grande manifestazione a sostegno di un secondo referendum. Ma se il nuovo movimento non riuscirà a imporsi ora, anche la manifestazione potrebbe risultare improduttiva. Staremo a vedere. La Brexit può riservare sempre nuove sorprese.

  • Niente si muove per la Brexit

    Nessuna strategia credibile emerge dalla situazione creatasi nel Regno Unito dopo il voto contrario del 15 gennaio e il voto a favore della May del giorno dopo. I 432 “no” all’accordo ottenuto con l’UE non sono una bazzecola. Sono 230 voti in più del “sì”, una differenza enorme, che non lascia dubbi sull’atteggiamento del parlamento in ordine alle regole negoziate dalla May con l’UE per normalizzare l’uscita del Regno Unito dalle istituzioni europee. “Queste regole non ci convengono e bisogna cambiarle!” L’hanno detto gli oppositori del governo, ma anche più di un centinaio di deputati facenti parte della maggioranza governativa. Nessuno però ha fatto proposte specifiche di emendamento al testo dell’accordo. C’è quindi il rischio che si arrivi al 29 marzo, giorno previsto per l’uscita, senza nessun accordo. Che fare allora? Il parlamento ha invitato la May a presentare una mozione emendabile entro il 29 gennaio, cioè fra quattro giorni. Ma a che punto è la preparazione di questa nuova mozione? Essa dovrebbe contenere norme per garantire l’assenza di una frontiera fra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda e permettere eventualmente al Regno Unito di usufruire dei vantaggi d’appartenenza all’Unione doganale con l’UE. Ma come sarà possibile ottenere nello stesso tempo una botte piena e una moglie ubriaca? Sarà la grande considerazione che si ha di se stessi di poter giungere a questo risultato contro ogni possibilità reale? O sarà che ai politicanti di lungo corso sarà permesso di raggiungere l’impossibile? Comunque sia, in tutti questo tempo che ci separa dal voto negativo del 15 gennaio non è emerso nulla che possa far pensare a una nuova strategia della May. Verrebbe da dire che anche prima del voto, le scelte della Premier hanno dato l’impressione di essere state subite. Era la situazione di fatto che le determinava, giustificate a posteriori come indicative della volontà di non deludere le aspettative degli elettori che si erano pronunciati in maggioranza a favore della Brexit. Il lungo e defatigante lavoro del negoziato con i rappresentanti dell’UE sembrava l’accettazione di un sacrificio per giungere al risultato voluto dagli elettori, senza tener conto degli interessi reali del RU. Mancano quattro giorni, dicevamo, e non si vede l’ombra di un piano B. I conservatori continuano a litigare. Una minoranza non lascia passare giorno senza scagliarsi contro la leader del loro governo e del loro partito. A che cosa mirino non si sa esattamente. Si sa che disturbano, che intorpidiscono le acque, che creano confusione. Mentre si sa invece che Corbyn, il leader dei laburisti, vuole la caduta del governo per andare ad elezioni anticipate, pensando di mettere a frutto per il suo partito le incongruenze, le incertezze, le divisioni dei conservatori. Sul fronte della Brexit tergiversa. Non vuole un’uscita senza accordo, ma non dice quale accordo vuole esattamente: con l’unione doganale o senza? Con la frontiera libera all’Irlanda del Nord o chiusa? Vuole una zona di libero scambio, o meno? Il silenzio su questi temi, che sono poi quelli dl negoziato con l’UE, è di regola. Nemmeno sulla possibilità di un nuovo referendum, come è stato chiesto da deputati del suo stesso partito, si è mai pronunciato. Che vuole, allora, effettivamente? I suoi critici lamentano che sia ancora legato ai miti ottocenteschi del marxismo continentale e che la sua visione della modernità sia bloccata da questi ceppi. Comunque sia, c’è poco da espettarsi anche da lui, perché senza una visione strategica anche il socialismo inglese non va molto lontano. E allora? C’è chi ha alzato grida di gioia per le dichiarazioni fatte dalla Regina Elisabetta, in occasione del pranzo di gala offerto ai Sovrani olandesi a Buckingham Palace, con le quali ha esortato a trovare un “terreno comune” e a “non perdere mai di vista lo scenario più ampio”. Parole interpretate come un velato riferimento all’uscita del RU dall’UE e al dibattito in corso nel Paese. Nessun riferimento diretto alla Brexit, ma questo discorso è stato letto come un monito nemmeno troppo velato, all’attuale situazione politica del Reno Unito, come un appello a scegliere la strasa dell’unità, del dialogo e del superamento delle divisioni, come valori guida consigliabili a tutti. Come sempre, anche su questo intervento, il primo dopo il risultato del referendum, le opinioni divergono e cercano di portare acqua al mulino di chi le esprime. Altro che unità! Su tutto ormai ci si divide! Figurarsi su un’opinione espressa dalla Sovrana, dopo che il suo equilibrato silenzio, aveva caratterizzato questi lunghi mesi di dibattito e di divergenze! E allora? Lo ripetiamo. Siamo ansiosi  di conoscere come andrà a finire. Ci sconcerta la mancanza di strategia su entrambi i fronti. Vorremmo sperare che fosse soltanto apparente questa mancanza e che invece i contendenti avessero un asso nella manica: rinvio della data d’uscita e nuove prospettive per il negoziato, senza escludere un nuovo referendum. Che prendano tempo i britannici. Se la Brexit è un problema loro, come abbiamo affermato in altre occasioni, se la risolvano in casa. Soltanto dopo potranno dirci, con certezza, se vogliono uscire o se vogliono restare. E sarà più semplice, eventualmente, un nuovo negoziato.

  • Jeremy Corbyn non ha cambiato idea su niente

    L’Assemblea ha avuto luogo la settimana scorsa e gli osservatori s’aspettavano che Corbyn si pronunciasse finalmente sulla Brexit: è contro, o condivide l’opinione di una larga parte del suo partito che vi è favorevole e che addirittura propone un secondo referendum prima di decidere definitivamente? La risposta è l’ambiguità. Prima bisogna tenere le elezioni politiche interne, poi si vedrà! La sua leadership, nonostante l’ambiguità, rimane indiscussa. Ne è una conferma l’accoglienza calorosa riservata al suo discorso di chiusura dell’Assemblea, discorso applauditissimo a più riprese che ha concluso i lavori in modo entusiastico. Eppure!!!

    Eppure, afferma Andrew Sullivan sul New York Magazine del 6 agosto scorso, Corbyn non ha cambiato idea su niente, rimane “un eccentrico socialista di 69 anni che in vita sua non ha mai creduto di poter guidare un partito politico, figurarsi essere credibilmente menzionato come possibile futuro primo ministro del Regno Unito. Nato in una famiglia dell’alta borghesia, Corbyn era un classico “pannolino rosso”. I suoi erano socialisti e New Tree Manor, la tenuta di campagna seicentesca dove è cresciuto, era una dimora molto bohémien, piena di saloni ricolmi di libri di sinistra. Corbyn si diplomò con voti così tremendi che l’opzione universitaria fu scartata subito, per cui entrò nell’equivalente britannico dei Corpi di pace e fu stanziato in Giamaica per due anni, poi viaggiò in tutta l’America latina. Disgustato dalle enormi disuguaglianze che vide attorno a sé, si radicalizzò ulteriormente e quando tornò in Inghilterra si trasferì nella multirazziale Londra del Nord, dove abitano molti immigrati (gli inglesi bianchi sono una minoranza). Era una periferia da terzo mondo e Corbyn si sentiva a casa” –  dichiara Sullivan. Ma il suo radicalismo sinistrorso si è manifestato in altri settori. Simpatizzò per l’Esercito repubblicano irlandese (Ira), fu ostile alla monarchia e a favore dei movimenti rivoluzionari terzomondisti e si batteva per il disarmo nucleare unilaterale. Si oppose all’appartenenza britannica alla Nato e alla futura Unione europea. Disprezzava l’alleanza americana e la tendenza capitalistica dell’UE. Era un astemio contrario all’alcol e alle droghe. E’ un vegetariano. Non ha cambiato idea su nulla, anche se i suoi obiettivi sono stati tutti battuti dalla storia. E’ stato singolare il suo rapporto con il partito al quale apparteneva ed appartiene. Nei decenni che ha passato in parlamento, ad esempio, ha votato 428 volte contro le indicazioni del suo partito quando era al governo. Come deputato è sempre rimasto ai margini. E’ un convinto difensore dei palestinesi. Per questo, forse, ancora oggi, è antisemita e un convinto avversario di Israele. Ha invitato alla Camera dei Comuni i suoi “amici” di Hamas e Hezbollah, come alcuni membri dell’Ira, una volta persino due settimane dopo che un gruppo dell’Ira aveva quasi assassinato Margaret Thatcher, facendo scoppiare una bomba nel suo hotel nel 1984. Ha disprezzato la modernizzazione del partito attuata da Tony Blair. I corbynisti sono fermi agli anni settanta. Allora il modello socialdemocratico collassò in una mera difesa del potere dei sindacati contro un governo eletto, provocò la stagflazione e paralizzò i servizi pubblici essenziali con scioperi di massa. Le riserve di energia – continua Sullivan – erano talmente ridotte all’osso che, a un certo punto, il Regno Unito aveva elettricità soltanto per tre giorni lavorativi a settimana. Oggi i corbynisti vedono l’eredità neoliberale della Thatcher in uno stato di disastro e con la richiesta di elezioni sperano di approfittare della situazione per tornare al governo. La Brexit passa in secondo piano nelle loro priorità. Ma davvero il Regno unito è pronto a buttarsi nelle braccia di Corbyn, di questo vecchio arnese del socialismo radicale che negli ultimi cinquant’anni ha perso tutte le scommesse con la storia? Un Regno Unito fuori dall’UE sarebbe ancora più debole per poter resistere a questa prospettiva. Quello dei laburisti alla Corbyn sarebbe un sovranismo imperiale. Ci mancava anche questo, da affiancare ai sovranismi populisti, ahinoi!, senza impero, del Continente.

    Dopo l’assemblea dei Laburisti della settimana scorsa, è iniziata quella del Partito Conservatore, la premier May deve far fronte a due difficoltà: da un lato gli oppositori interni e dall’altro, la necessità di trovare una soluzione per l’accordo sull’uscita dall’UE. Il Consiglio di Salisburgo non gli era stato favorevole e l’UE aveva respinto le proposte inglesi. Si arriverà al fatidico 19 marzo 2019, data prevista per l’uscita dall’UE, senza accordo? Sarebbe un ulteriore indebolimento della May, con Corbyn che richiede le elezioni politiche. Ci sarà un ammorbidimento delle richieste inglesi all’Europa? I nemici della May hanno già cominciato a spararle contro in modo forsennato. Avrà una maggioranza per resistere alle pressioni contrarie?

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