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  • Transizione energetica, un grande prato verde dove nascono speranze che costano care

    Il tempo passa ma i problemi sembrano rimanere gli stessi, per questo vi proponiamo quanto l’On. Dario Rivolta aveva già scritto

    Chi non sarebbe contento di vivere in un mondo con l’aria pulita, senza drastico sfruttamento di risorse non rinnovabili e senza la minaccia dell’aumento delle temperature? Evidentemente nessuno.

    Arrivare a questa situazione certamente idilliaca sembra essere finalmente diventata la meta comune di tutti i governi di quei Paesi che si sono riuniti prima a Roma e poi a Glasgow, concordando (chi più, chi meno) sul progetto di “Transizione Verde”.

    L’obiettivo è sicuramente molto ambizioso, ma sembrerebbe che oramai la strada sia stata imboccata e tutti dovremmo esserne contenti.

    Purtroppo, i saggi decisori, che si aspettano comunque di essere applauditi, ci hanno taciuto (o forse hanno considerato poco importante dircelo) che questa bellissima transizione dall’energia derivante dai fossili a quella basata soltanto su fonti rinnovabili non è quel paradiso che molti di noi sognano.

    Il lato oscuro del “verde”

    Il percosso verso la decarbonizzazione, in effetti, sarà molto più industriale ed energivoro di quanto gli ottimisti sembrano credere. Per realizzarla servono infatti molti minerali complicati da estrarre e sarà necessaria la creazione di nuove strutture a latere.

    Per dare qualche esempio, la costruzione di un parco eolico da 100 megawatt richiede trentamila tonnellate di minerali ferrosi, cinquantamila tonnellate di cemento e almeno novecento tonnellate di plastica e resina.

    In un impianto solare della stessa potenza il ferro e l’acciaio necessari sono tre volte tanto e solo il cemento sarà impiegato in quantità minore che nell’eolico.

    Nel progetto lanciato dall’Unione Europea la produzione di energia elettrica derivante da questi impianti dovrebbe passare dai 1500 gigawatt di oggi ad 8000 GW entro il 2030. Il calcolo dei materiali necessari che bisognerà estrarre dalla terra è presto fatto. E lo si dovrà fare con i vecchi metodi industriali.

    Inoltre, molti dei componenti che dovranno essere utilizzati appartengono al gruppo di quei minerali che vanno sotto il nome di “terre rare”.

    Alcune di loro portano nomi sconosciuti come i lantanidi, lo scambio, l’ittrio, l’eurobio, il lutezio ecc.

    Di altri minerali abbiamo forse già sentito parlare: niobio, tantalio, tungsteno, litio, tellurio, selenio,  indio, gallio.

    Oltre a queste, per creare l’elettricità e stoccarla nelle batterie occorrono anche grandi quantità di cobalto, manganese, nickel, stagno, grafite, rame ecc.

    Nella maggior parte dei casi, nonostante l’aggettivo (rare) attribuito ad alcune di queste materie, non si tratta di presenze scarse sul nostro pianeta ma sono minerali dispersi all’interno di rocce che devono essere estratte e lavorate.

    Che spreco!

    Per dare degli esempi: per ottenere un chilo di vanadio bisogna lavorare otto tonnellate di rocce; per un chilo di gallio ne occorrono cinquanta mentre per ottenere il lutezio in eguale quantità bisogna raffinarne ben duecento tonnellate.

    Tutte queste lavorazioni si fanno con l’impiego di grandi quantità di acqua e di solventi.

    La lavorazione necessaria è così deleteria per l’ambiente circostante che si spiega perché la maggior parte dei Paesi del mondo ha rinunciato ad estrarli, lasciando che sia la Cina ad occuparsi della produzione (e relativa fornitura) di almeno due terzi della domanda mondiale.

    Auto elettrica, quanto mi costi

    Un altro esempio: in una macchina a propulsione elettrica circa duecento chili di quanto pesa in totale sono indispensabili per il funzionamento della batteria e per la sua protezione.

    Si tratta di un quantitativo corrispondente a sei volte quello presente nelle auto tradizionali.

    I suddetti minerali non sono usati solo per le centrali elettriche ecc. o per le auto ma sono sempre più fondamentali per il funzionamento di tutti i prodotti elettronici (smartphone, computer ecc.), negli elettrodomestici, nelle pompe di calore e nelle reti di distribuzione dell’elettricità.

    Alle complicazioni di quanto sopra si deve aggiungere che per la trasmissione dell’elettricità derivante dagli impianti solari, eolici e dall’idrogeno, le reti di distribuzione oggi esistenti saranno riutilizzabili solo in parte.

    Serviranno enormi quantità extra di rame per gli elettrodotti e migliaia di tonnellate di acciaio per le nuove tubature necessarie al trasporto dell’idrogeno.

    C’è allora da aspettarsi che il prezzo dei materiali necessari per affrontare in soli trent’anni (questa è l’intenzione della Commissione europea) una così grande trasformazione diventi oggetto di una forte pressione inflattiva dovuta all’enorme quantità di domanda, ristretta su tempi relativamente brevi in relazione alle capacità dei rifornimenti.

    In altre parole, è molto probabile che i prezzi schizzeranno alle stelle, causando una nuova e lunga inflazione anche su tutti i prodotti a valle.

    Al nuovo ingente (e tuttavia necessario) sfruttamento delle risorse naturali per procedere verso la “transizione verde” vanno aggiunte le conseguenze socio-economiche all’interno delle nostre società. L’Europa (così come- forse- gli Stati Uniti) si è data l’obiettivo di passare ai nuovi sistemi entro il 2035 e completare il processo entro il 2050, mentre la Cina ha dichiarato che raggiungerà il picco delle proprie emissioni di CO2 solo nel 2030 e raggiungerà l’obiettivo finale non prima del 2060. Per l’India il passaggio richiederà ancora più tempo.

    È allora evidente che, negli anni che faranno la differenza, si creerà un divario crescente nei costi di produzione industriali tra i due mondi e certo non a vantaggio delle imprese europee. Con conseguenti crisi che colpiranno molti lavoratori e molte aziende.

    Dalla padella alla brace

    Sotto l’aspetto politico va anche aggiunto che, pur riuscendo a liberarci dall’oligopolio dei produttori di gas e petrolio, ci metteremmo, noi europei, totalmente nelle mani dei nostri nuovi fornitori di minerali rari e materie prime.

    Secondo Larry Fink amministratore di Blackrock (un grande fondo di investimenti che sta già facendo profitti di milioni di dollari proprio sulla “transizione Verde”): “Se la nostra unica soluzione sarà creare un mondo green avremo un’inflazione ancora più grande perché non abbiamo ancora tutte le tecnologie. A un certo punto diventerà una questione politica: accetteremo una maggiore inflazione per accelerare la trasformazione energetica?”

    La risposta dovremmo chiederla a tutti quelli che dovranno sostituire le loro caldaie per il riscaldamento, tuttora a gas o gasolio, con pompe di calore azionate dall’energia elettrica da fonti rinnovabili.

    E anche a tutti quegli automobilisti che dovranno rottamare i loro veicoli a benzina, a gasolio o ibridi per sostituirli con autovetture solo elettriche che però, con la tecnologia attuale, non consentiranno loro di andare da Milano a Roma senza fermarsi qualche ora per ricaricare le batterie.

    Il mondo verde del futuro è molto bello e desiderabile e, poiché tutti i grandi del mondo lo vogliono, non sarò certo io a poterlo ostacolare.

    Tuttavia, sarebbe bene che i vari ambientalisti, esultanti come lo siamo noi, si rendano conto che nella vita nulla è gratuito e che ogni paradiso presuppone anche un proprio inferno.

    Va bene comunque?

  • I costi energetici della “democrazia”

    Non passa giorno nel quale le più alte cariche istituzionali nazionali ed europee non intervengano sul pericolo derivante dalle fake news considerate in grado, attraverso la forza dei social media, di condizionare l’opinione pubblica e, di conseguenza, sembrerebbe addirittura le elezioni.

    A questo appello comune tanto alla maggioranza che all’opposizione ovviamente fa riscontro una volontà di creare una sorta di controllo dell’universo mediatico attraverso istituti che applicherebbero un protocollo creando un controllo molto simile ad una sorta di censura.

    All’interno di questo contesto, quindi, con un presunto attacco alla democrazia, l’Italia si sta dilaniando a causa della contrapposizione squisitamente ideologica sulla riforma del Premierato e dell’Autonomia differenziata. Due involucri ancora vuoti al loro interno in quanto la prima non indica neppure il sistema elettorale attraverso il quale i cittadini potrebbero esprimere il proprio eventuale consenso, mentre la seconda rappresenta solo una cornice all’interno della quale non sono ancora chiaramente definiti non solo gli attori che dipingeranno la tela ma neppure i colori.

    Facendo un passo indietro rispetto all’attuale confusione istituzionale, nel maggio 2023 feci presente i pericoli ai quali sarebbe andato incontro il nostro Paese in relazione alla politica energetica adottata dal governo in carica, confrontandola con quella francese (*).

    Dopo poco più di un solo anno, nel giugno 2024, emergono evidenti gli effetti di quella disastrosa strategia energetica, confermata ancora oggi dall’intenzione di cedere altre quota delle principali società energetiche partecipate dal governo (**).

    In buona sostanza, dal 2023 al 2024 il differenziale pagato in più per l’energia elettrica dalle imprese quanto dalle famiglie italiane è passato, rispetto alla Francia, da un +27% (2023) ad un +71% (2024). Contemporaneamente lo stesso differenziale con la Spagna si è innalzato da un + 30% (2023) ad un +68% (2024) e con la Germania si passa da un +23% ad un +29% tra il 2023/24.

    Andrebbe, poi, ricordato come nel medesimo anno il costo dell’energia elettrica sia scesa in Italia del -10%, mentre in Germania si è ridotta del -18%, in Spagna del -59%, infine in Francia del -69%.

    All’interno di un contesto internazionale difficile e articolato, caratterizzato ancora dagli effetti della pandemia e da due conflitti in corso, questi numeri dimostrano come il futuro del nostro Paese sia fortemente compromesso da una scellerata politica energetica, basata sul principio speculativo nel quale i fondi privati esercitano un ruolo attivo acquisendo sempre maggiori quote delle principali società energetiche italiane.

    Risulta inevitabile e giustificata, allora, la flessione di 15 mesi consecutivi della produzione industriale e soprattutto la mancanza di uno scenario futuro proprio a causa di simili costi energetici rispetto alla stessa concorrenza europea.

    Mentre la politica si fronteggia su embrionali riforme costituzionali, contemporaneamente dimostra il proprio disinteresse rispetto ai disastrosi effetti causati dalla propria politica energetica, perfettamente in linea con quella dei governi precedenti, dimostrando, ancora una volta, di operare per il solo  rafforzamento del proprio potere i cui oneri ricadranno sulle spalle dei cittadini come costi aggiuntivi nelle bollette, i quali indeboliranno ancora di più il potere d’acquisto e, di conseguenza, la domanda interna, diventando così  la stessa politica energetica un elemento di stagnazione economica. Mentre le imprese italiane dovranno subire un ulteriore indebolimento della propria capacità competitiva all’interno di un mercato globale ed ovviamente una minore attrattività per gli investimenti esteri nel territorio italiano.

    Questo è il modello di “fake democracy”, intesa come una sorta di moto perpetuo, all’interno della quale la classe politica opera solo ed esclusivamente per il mantenimento delle proprie posizioni con costi sempre più insostenibili.

    (*) https://www.ilpattosociale.it/attualita/il-diverso-destino-di-italia-e-francia/

    (**) https://www.ilnordestquotidiano.it/2024/06/19/energia-elettrica-il-costo-italiano-tra-i-piu-alti-deuropa/

  • Alert di A2a: per l’emergenza idrica servono 48 miliardi in 10 anni

    All’Italia serve un pacchetto d’investimenti da 48 miliardi in dieci anni per superare l’emergenza idrica, recuperare acqua per le esigenze di famiglie, agricoltura, industria e idroelettrico. “Il 2022 è stato un anno orribile, con la minore quantità d’acqua degli ultimi 60 anni. Ed è un trend che continua”. A lanciare l’allarme è l’amministratore delegato di A2a, Renato Mazzoncini, alla luce dei dati che emergono da uno studio realizzato con The European House-Ambrosetti e presentato durante il Forum di Cernobbio.

    La siccità record del 2022 ha ridotto la disponibilità di risorsa idrica naturale di 36 miliardi di metri cubi (-31% sul 2021), un volume comparabile a 60 volte il Lago Trasimeno. Di questi, 7,1 miliardi di metri cubi sono di acqua consumabile (-34%), pari al consumo di 14 milioni di cittadini. La siccità ha inoltre ridotto la produzione idroelettrica a un valore che non si vedeva dal 1954 (30,3 TWh rispetto alla media del decennio 2012-2021 di 48,4 TWh), ma con una potenza installata di 3 volte inferiore a quella attuale.

    I dati mostrano che siamo “vicini a un punto di non ritorno” per una risorsa che contribuisce al 18% del Pil Italiano, pari a 320 miliardi di euro l’anno, e senza la quale “non c’è futuro”. Ma in futuro, avverte Mazzoncini, “avremo sempre meno acqua” perché  “i cambiamenti climatici, gli sprechi e una gestione poco oculata hanno messo a rischio questa risorsa, come denunciato anche dall’Onu”. E se il 2022 ha visto picchi di anomalie termiche e una crescita della frequenza di eventi estremi, dalle piogge intense agli allagamenti, nella prima metà del 2023 gli eventi idrici estremi sono più che raddoppiati.

    In questo scenario, è necessaria “un’azione congiunta tra istituzioni, industria e cittadini” mettendo in campo investimenti sia sul ciclo idrico che sull’idroelettrico. In particolare, bisogna destinare risorse alle infrastrutture, agli acquedotti, per ridurre le perdite di acqua nella distribuzione, visto che oggi “l’Italia è il quarto paese europeo per perdite idriche: il 41,2% contro una media del 25%”, spiega il ceo, sottolineando che “dobbiamo scendere a una quota intorno al 20%”. Questo è possibile e, dal canto suo, A2a investirà quel che serve per salvaguardare questa risorsa. “Abbiamo un piano al 2030 che prevede 16 miliardi di investimenti, che non potranno essere tutti sull’acqua, ma penso che potremo investire 1 miliardo sull’idroelettrico e uno o anche di più sull’idrico”, assicura il numero dell’utility lombarda.

  • Il diverso destino di Italia e Francia

    Un qualsiasi paese europeo, ormai stremato da tre anni terribili segnati dalle conseguenze umane, sanitarie, sociali ed economiche della pandemia e della guerra in corso, dovrebbe ora dimostrarsi in grado di elaborare le scelte fondamentali per la propria rinascita. La stessa recessione della Germania dovrebbe allarmare i paesi come l’Italia, esportatrice di componenti della filiera industriale e di beni di consumo alto di gamma.

    Una corretta volontà politica potrebbe manifestarsi attraverso la elaborazione di strategie la cui attivazione possa accrescere, solo per cominciare, la propria capacità energetica in grado porla nelle condizioni di affrontare un’altra situazione imprevista. La logica conseguenza potrebbe delinearsi con l’attivazione di investimenti quasi interamente dirottati verso la realizzazione di infrastrutture di valenza nazionale.

    Le uniche in grado di esprimere il proprio apporto a favore dell’intero sistema economico industriale nazionale: di certo lontane anni luce rispetto alle scelte italiane caratterizzate invece da politiche settoriali (bonus 110%) e generatrici di inflazione.

    In questo senso, allora, da un semplice raffronto tra i due paesi limitrofi si delinea un acquarello inquietante.

    Nel nostro Paese si continua ad aumentare la spesa pubblica con bonus imbarazzanti (zanzariere, occhiali etc.) o finanziando ciclopiche infrastrutture come il ponte sullo stretto di Messina.

    Contemporaneamente la Francia, dopo l’assenso ottenuto dal tribunale, ha avviato la procedura di nazionalizzane di Edf (la società di produzione e distribuzione dell’energia elettrica). L’obiettivo ambizioso che ha determinato la realizzazione del progetto è quello di assicurare il minore costo possibile dell’energia elettrica all’utenza sia industriale che familiare. Questa scelta politica francese, in più, raggiungerà i propri obiettivi anche con investimenti persino inferiori del 33,3% rispetto a quelli necessari per la realizzazione del solo Ponte (*).

    Una scelta, quindi, con un grado di sostenibilità economica maggiore e che si delinea come un fattore strategico determinante ma anche come un importante elemento di sostegno sociale alle famiglie e alle piccole imprese. Diventa, in altre parole, il raggiungimento di questo obiettivo del minore costo energetico, non solo un fattore competitivo per un sistema economico industriale, ma anche un importante strumento di pacificazione sociale per i cittadini. Gli effetti di queste due diverse strategie di politica economica espresse dalla Francia e dall’Italia emergeranno evidenti in soli pochi anni.

    Il sistema industriale ed economico francese, usufruendo dei minori costi energetici, risulterà assolutamente più competitivo nello scenario internazionale ma soprattutto nei confronti del maggiore concorrente cioè quello italiano. Viceversa il mondo industriale italiano pagherà una crescente emarginazione dal contesto economico internazionale proprio a causa delle diverse strategie espresse dalle due classi politiche nazionali (risultato 1). Contemporaneamente il costo sociale pagato dalle famiglie italiane (2) diventerà sempre più gravoso e per due motivi. Va ricordato, infatti, come da giugno 2023 verranno mantenuti gli sconti sui costi impropri solo per i redditi inferiori ai 15.000 euro (il 21% del prezzo pagato dall’utenza) nelle bollette elettriche.

    Come se non bastasse, a partire dal 10 gennaio 2024 verrà annullato, nell’approvvigionamento energetico, il “mercato tutelato” per nove milioni di utenze familiari e di piccole imprese (2).  L’ennesima conseguenza di quelle fasulle “liberalizzazioni e privatizzazioni” le quali hanno determinato l’aumento negli ultimi dieci anni delle tariffe elettriche del 240% del gas del 65% dell’acqua del 57% (fonte Il Sole 24 Ore).

    Nella medesima logica speculativa la privatizzazione delle infrastrutture autostradali non merita alcuna menzione in relazione a quanto sta emergendo dalle carte processuali in relazione al crollo del Ponte Morandi.

    Il nostro Paese, quindi, continua nelle strategie adottate alle fine degli anni ‘90 in assoluta antitesi rispetto alla strategia francese privilegiando la logica speculativa privata a quella dell’interesse nazionale.

    Già da ora, quindi, si delinea chiaramente il diverso destino al quale sono indirizzati i due Paesi. Un quadro le cui tinte fosche esprimono, nel nostro italiano, la inadeguatezza delle strategie adottate.

    (*) La nazionalizzazione di Edf costerà allo stato francese dieci (10) miliardi di euro, il 33,3% in meno del ponte sullo Stretto di Messina il cui costo ai valori attuali è di quindici (15) miliardi

  • Le norme dell’Unione per le chiamate intra-UE proteggono efficacemente da prezzi eccessivi

    La relazione di valutazione della Commissione e i risultati di un’indagine Eurobarometro sull’impatto delle norme che garantiscono comunicazioni intra-UE a prezzi accessibili mostrano che le misure dell’UE si sono dimostrate efficaci: dal 2019 gli europei beneficiano di prezzi al dettaglio più bassi per le chiamate provenienti da uno Stato membro e dirette in altri paesi dell’UE.

    Queste misure, in vigore dal maggio 2019, consentono ai cittadini dell’UE di rimanere più facilmente in contatto con i loro familiari e amici in un altro Stato membro, contribuendo in tal modo alla realizzazione di un mercato unico europeo efficace. Secondo l’indagine, i consumatori beneficiano in media di una riduzione dei prezzi superiore al 60%. Il 27% dei consumatori comunica inoltre con persone di altri paesi dell’UE più volte al mese mediante telefono, SMS o Internet.

    La Commissione ha valutato l’impatto delle misure sulle chiamate intra-UE sulla base degli scambi con le parti interessate e del monitoraggio continuo dell’attuazione delle norme, nonché tenendo conto del parere del BEREC sulla regolamentazione delle comunicazioni intra-UE. La Commissione continuerà a raccogliere informazioni per analizzare l’uso e l’evoluzione delle misure.

  • Il diritto allo studio ed il desiderio abitativo

    La fortuna si manifesta in diverse forme, e durante il periodo studentesco sicuramente la vicinanza della propria abitazione al proprio liceo o all’università rappresentata una di quelle più gradite in quanto assolutamente gratuite.

    Il pendolarismo studentesco rappresenta una delle domande più importanti nella movimentazione delle persone, alla quale il sistema pubblico si trova con grande difficoltà a dovere rispondere, per di più con risorse sempre più limitate. In questo contesto le disponibilità economiche familiari rappresentano un plus fondamentale non solo nell’opera di finanziare i viaggi studenteschi, ma soprattutto prima ancora nella scelta della facoltà desiderata anche in location universitarie distanti dal luogo di residenza.

    In altre parole, una volta individuata la facoltà successivamente la sede universitaria viene scelta anche tenendo conto dei costi da sostenere. Questa è la prassi nel mondo familiare quotidiano.

    Viceversa il desiderio, anche se legittimo, di ottenere una residenza nella città di studio rappresenta per molte famiglie degli universitari una soluzione economicamente insostenibile e quindi viene esclusa. Le limitate risorse familiari si traducono nella scelta di un’altra sede universitaria alla quale sia possibile accedere attraverso il fenomeno del pendolarismo giornaliero.

    La pretesa, ora, di ottenere degli alloggi per gli studenti fuori sede a dei costi “amministrati” rappresenta semplicemente un legittimo desiderio ma altrettanto impossibile da esaudire e soprattutto un ribaltamento delle priorità cittadine.

    Andrebbe innanzitutto evidenziato, infatti, in primo luogo che dovrebbero essere i sindaci di queste città ed i vertici accademici i quali, più del governo in carica, rappresentano i veri destinatari di tali proteste e pretese per una situazione come quella attuale in quanto frutto di sottovalutazione dei desideri studenteschi.

    Del resto la pretesa di una assoluta autonomia accademica non può né deve escludere la presa di coscienza da parte dei medesimi vertici della difficile congiuntura di molte famiglie in Italia e conseguentemente avviare delle strategie adeguate.

    In secondo luogo andrebbe ricordato a questi studenti come l’emergenza abitativa rappresenti uno degli allarmi sociali più drammatici all’interno delle realtà urbane. Senza nulla togliere alle istanze studentesche, nella priorità di sindaci e governo le aspettative di queste famiglie in difficoltà, e dei loro figli, rappresentano sicuramente un problema molto più incalzante e che richiede una attenzione ma soprattutto una risposta più immediata.

    Andrebbe poi ricordato come un desiderio, anche se legittimo, non sempre si può trasformare in un diritto riconosciuto.

    Quindi, in considerazione che tutto sommato la vita del pendolare non è poi così terribile, risulta sacrosanto riconoscere la priorità alle aspettative delle famiglie colpite dall’emergenza abitativa anche per la crisi economica, rispetto ai desideri delle “tendine” studentesche.

  • Bruxelles rimane scettica sull’idea di un prezzo amministrato per il gas

    La proposta di fissare un tetto al prezzo del gas potrebbe rompere il mercato unico. Il dubbio, difficile da dissipare, frena Bruxelles dal concedere a Spagna e Portogallo il via libera a procedere con la loro ‘eccezione iberica’ di limitare il prezzo del gas in via temporanea e straordinaria. Tenendo con il fiato sospeso anche l’Italia che vorrebbe procedere sulla strada aperta da Madrid e Lisbona per intervenire contro il caro-energia acutizzato dalla guerra in Ucraina. E, nel frattempo, ha chiuso l’intesa sul gas con l’Algeria e procede a grande velocità per ridurre la dipendenza dalla Russia.

    Ferma ormai da due settimane sul tavolo dei tecnici della Commissione europea, la richiesta dei due premier Pedro Sanchez e Antonio Costa – vinte al tavolo del vertice europeo di fine marzo le resistenze politiche dei Paesi che difendono il libero mercato capeggiati dall’Olanda – si deve confrontare con le perplessità dell’esecutivo comunitario. Che non nega la legittimità dell’istanza e l’eccezionalità della condizione dei due Paesi mediterranei, ma vorrebbe più chiarezza sulle modalità di finanziamento. E si chiede se il meccanismo non apra un precedente pericoloso per il mercato unico. Se regolare il prezzo del gas nella sola Penisola iberica poco connessa con il resto dell’Ue, è il ragionamento, potrebbe già comportare ricadute sulla vicina Francia, che cosa succederebbe se a richiederlo fosse un Paese più interconnesso? Una questione su cui Bruxelles sta cercando di ragionare, stretta tra la sacralità della libera concorrenza, i costi da sostenere per la transizione climatica e la situazione di massima tensione con la Russia. L’urgenza dei rincari sempre più pesanti per le bollette di imprese e cittadini fa comunque aumentare il pressing anche da parte dell’Italia che, per bocca della vice ministra agli Affari esteri, Marina Sereni, dal Lussemburgo è tornata a spingere per un impegno dell’Europa su “misure regolatorie immediate anche temporanee”. Vale a dire il tetto temporaneo al prezzo del gas all’ingrosso – che potrebbe aggirarsi intorno agli 80 euro per megawattora per almeno tre mesi – e la riforma, voluta a gran voce anche dalla Francia, per disaccoppiare il prezzo del gas e quello dell’energia.

    Le proposte dell’Ue dovrà in ogni caso arrivare entro la fine del mese, dopo un’attenta lettura del rapporto tecnico dell’Agenzia per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia (Acer). Il dossier resta complesso e a frenare sono soprattutto la Germania e l’Olanda, che controlla il mercato internazionale Ttf. Quello che in gergo tecnico si chiama ‘decoupling’ per evitare il ‘contagio’ del caro-gas alle bollette dell’elettricità, potrebbe essere un ‘boomerang’ che, secondo L’Aja, potrebbe causare una distorsione della concorrenza e una riduzione degli investimenti nelle rinnovabili, facendo naufragare gli obiettivi climatici dell’Ue. Nel suo faccia a faccia con Mark Rutte, Mario Draghi ha cercato di fargli cambiare idea incassando un’apertura a studiare tutte le possibilità e a usare il ‘pragmatismo’. Il resto potrebbero farlo gli sviluppi sui prezzi provocati dalla guerra.

  • Alberghi in allarme per il caro energia “insostenibile”

    “Nel settore alberghiero, stiamo vivendo la tempesta perfetta. Prima è arrivata la pandemia, poi la guerra e con quella il rincaro energetico. Secondo le nostre stime il costo dell’energia passerà dal 5% al 20% nel fatturato delle imprese, ed è insostenibile”. Lo ha detto la presidente di Confindustria Alberghi Maria Carmela Colaiacovo, nella conferenza stampa alla Camera “Caro energia, è allarme per il settore alberghiero. La crisi energetica dopo due anni di pandemia, impatti sulle imprese alberghiere e sui servizi”, su iniziativa dell’onorevole Maria Teresa Baldini (Italia Viva) organizzata da Confindustria Alberghi e Assosistema Confindustria.

    “Speriamo che il governo inizi a strutturare gli interventi secondo una logica di filiera”, ha sottolineato il vicepresidente di Assosistema Confindustria Marco Marchetti. Tra le proposte congiunte di intervento all’esecutivo: l’innalzamento al 25% del credito di imposta previsto per l’acquisto di energia elettrica, analogamente a quanto stabilito per le imprese energivore; la proroga immediata almeno di un ulteriore trimestre dei crediti di imposta per l’acquisto di energia elettrica e gas, dell’Iva agevolata per l’acquisto di gas e delle misure di azzeramento/riduzione degli oneri di sistema; l’introduzione di maggiorazioni sui crediti di imposta per l’acquisto di energia elettrica e gas nel caso di imprese che hanno perdite di fatturato nel secondo trimestre 2021 superiori al 50% rispetto l’analogo periodo 2019.

    “Con oltre 32mila strutture e un milione di camere e due milioni di posti letto l’industria alberghiera italiana è fra le prime per capacità in Europa – ha ricordato Colaiacovo – Secondo l’Istat il settore prima della pandemia occupava 220mila lavoratori per un fatturato complessivo di 21 miliardi e secondo le nostre stime, le spese per l’acquisto di energia nel 2019 erano di 1,1 miliardi di euro, il 5% del fatturato”. Il Covid “ha falcidiato” il settore. Da un fatturato “di oltre 21 miliardi nel 2019 c’è stato un -54%, con un fatturato di 9,5 miliardi nel 2020”. Inoltre “già nel 2021 tra gennaio e dicembre per il gas aumentato del 400% a fronte di un fatturato ancora in contrazione”. Ora con l’ulteriore aumento di costi energetici, “non si possono aumentare i prezzi nelle nostre strutture, anche perché c’è ancora una bassissima domanda. Si devono trovare altre soluzioni” sottolinea.

    “Associo al grido d’allarme del settore alberghiero anche quello delle lavanderie industriali, sviluppate su tutto il territorio, che provvedono a reperire tutto il materiale tessile necessario per vestire le strutture alberghiere e gli hotel, anche con una manutenzione costante e quotidiana – sottolinea Marco Marchetti -. Stando all’Osservatorio di Assosistema Confindustria che ha periodicamente analizzato i numeri del settore, a dicembre 2021 ha registrato un calo dell’attività dell’85% con una previsione per i primi 3 mesi del 2022 di -65%”. Nel 2020 il settore delle lavanderie industriali per il turismo “ha registrato una perdita di 395 milioni di euro di fatturato, mentre nel 2021 una perdita di 350 milioni di euro”. A questa situazione già grave “si aggiungono i rincari delle bollette di gas ed energia ed i costi delle materie prime. I numeri parlano chiaro: sono circa 30.000 mila i lavoratori (di cui il 65% donne) a rischio. La situazione diventa decisamente drammatica se si considerano i valori del 2019 rispetto ai quali, nelle rilevazioni di energia e gas si registrano aumenti, rispettivamente, del +500% e, addirittura, del +800% per il gas (8 volte il corrispettivo del 2019)».

  • Circa 26 milioni gli italiani che usano carte prepagate

    Secondo un’indagine commissionata da Facile.it circa 26 milioni di italiani utilizzano regolarmente le carte prepagate, la cui diffusione in Italia, negli anni compresi fra il 2003 ed il 2017 (ultimo dato disponibile), è cresciuta mediamente del 30% anno su anno a fronte di un +0,5% delle carte di credito e un +4,5% di quelle di debito. Le carte prepagate sono addirittura più utilizzate di quelle di credito (preferite da 23,7 milioni di persone) e risultano seconde solo alle carte di debito (usate da 34,9 milioni di consumatori).

    Ad utilizzare le prepagate con più frequenza sono le donne (63% rispetto al 57% del campione maschile), i consumatori con età compresa tra i 18 e i 34 anni (67%) e i residenti in Sud Italia e Isole (65%). Oltre 4 milioni di italiani che dichiarano di avere avuta la prima carta prepagata a 18 anni.

    Esistono due macro-categorie di carte prepagate: le tradizionali, che offrono ai proprietari funzionalità base, e le cosiddette avanzate o carte conto, che a differenza delle prime sono dotate di un IBAN e quindi consentono di effettuare operazioni più complesse, come bonifici e addebito di utenze (nonostante la presenza dell’IBAN alcune prepagate potrebbero non essere abilitate al pagamento di bonifici). Il rilascio di una carta prepagata comporta normalmente una spesa una tantum che può variare dai 5 ai 10 euro, anche se sono sempre più numerosi gli istituti di credito che scelgono di azzerare questa voce. A volte, in aggiunta al costo di emissione, bisogna mettere in conto anche una prima ricarica obbligatoria; in questo caso l’impegno economico è nell’ordine di 5-10 euro, che vengono accreditati sulla prepagata e possono quindi essere spesi. Le carte prepagate tradizionali non hanno un canone annuale mentre quelle dotate di IBAN, soprattutto se abilitate ad effettuare bonifici, prevedono spesso un costo fisso; la spesa media varia tra i 10 e i 15 euro l’anno, ma in alcuni casi può addirittura arrivare a 24 euro. Tra i costi variabili più significativi vi è senza dubbio quello per la ricarica della carta. La soluzione più economica è ricaricare la prepagata attraverso gli strumenti messi a disposizione dall’istituto che l’ha emessa; può essere fatto utilizzando l’home banking (con addebito su c/c presso la banca emittente) o tramite gli ATM della banca (con carta di debito o credito dello stesso istituto) e, in questi casi, il costo varia, normalmente, tra 0 e 1 euro. Se invece la ricarica vien fatta tramite lo sportello ATM, ma servendosi di una carta di debito o credito emessa da un altro istituto, o presso una ricevitoria convenzionata il costo è generalmente compreso fra i 2 e i 3 euro. Se si sceglie di ricaricare la carta direttamente ad uno degli sportelli fisici delle filiali della banca emittente, la tariffa può triplicare rispetto alla ricarica tramite online o ATM, arrivando fino a 3 euro. La carta prepagata con IBAN può invece essere ricaricata anche tramite bonifico; il costo dell’operazione, in questo caso può essere notevolmente inferiore se non, addirittura, gratuito. Le tariffe di ricarica sono tendenzialmente inferiori per le carte con canone fisso; in questo caso gli istituti di credito tendono ad offrire condizioni più favorevoli sui costi variabili o a includere nel canone un numero di ricariche gratuite.

    Il prelievo di denaro fatto presso un ATM della banca che ha emesso la prepagata ha un costo tendenzialmente basso, tra 1 e 2 euro, e in alcuni casi è gratuito. La tariffa aumenta se il prelievo avviene presso un ATM di un altro operatore o presso uno sportello fisico; in questo caso i costi partono mediamente da 2 euro ma possono arrivare anche a 5 euro. Ancora una volta le carte prepagate con canone annuo tendono ad avere costi più contenuti rispetto a quelle gratuite.

    Per le carte prepagate il rendiconto viene normalmente inviato in formato elettronico e pertanto non è soggetto a costi aggiuntivi. Se invece è previsto l’invio cartaceo, o questo viene richiesto dal cliente, attenzione perché l’istituto di credito potrebbe addebitarvi dei costi aggiuntivi, che in alcuni casi raggiungono anche i 5 euro ad invio. In tema di rendiconto è necessario considerare che anche per le carte prepagate è prevista un’imposta di bollo nella misura di 2 euro se la giacenza di fine periodo è superiore a 77,47 euro; sono però molti gli istituti di credito che scelgono di accollarsi questo costo.

    I possessori di carte conto abilitate ad effettuare bonifici devono tenere in considerazione i costi per questo tipo di operazioni che, normalmente, sono allineati a quelli di un conto corrente tradizionale e quindi, possono indicativamente variare da 0 a 2 euro (se effettuati in area SEPA), mentre se si opera in valuta extra euro la spesa aumenta sensibilmente. Le carte conto più evolute consentono di pagare bollettini e domiciliare le utenze; anche in questo caso i costi sono in linea con quelli dei normali conti correnti.

    Nella maggior parte dei casi le carte prepagate possono essere utilizzate all’estero; la validità è legata ai circuiti internazionali a cui si appoggiano. Come avviene per le carte di debito, non sono previsti costi aggiuntivi se si paga in euro tramite POS; qualora invece il pagamento avvenga in una valuta estera, la banca potrebbe prevedere delle commissioni di conversione in valuta che si aggiungono a quelle eventualmente applicate dal circuito internazionale di pagamento. Attenzione, invece, se decidete di prelevare contanti all’estero perché le commissioni aggiuntive potrebbero essere salate e variare, in linea di massima, da 2 e a 5 euro. A questo costo vanno sommate le commissioni di conversione valuta se si preleva una moneta diversa dall’euro.

    Le carte prepagate, a differenza delle altre carte elettroniche, sono caratterizzate da limiti di natura operativa spesso abbastanza stringenti: importo massimo di ricarica e pagamento, numero di prelievi consentiti, somma prelevabile per ciascuna operazione e giornata, ecc. Il consiglio è quindi di leggere con attenzione i fogli informativi prima di scegliere la carta prepagata e assicurarsi che il numero di operazioni consentite corrisponda alle proprie esigenze.

    È importante considerare che, in linea generale, le carte prepagate base hanno limiti molto più stretti rispetto alle carte conto che, a fronte di un canone annuo, consentono un numero superiore di operazioni. Non a caso le carte conto, per via delle possibilità offerte, sono spesso una valida alternativa ai tradizionali conti correnti per coloro che sono iscritti nel registro protesti.

  • Aumentano i passeggeri delle compagnie aeree

    La domanda mondiale di passeggeri nel trasporto aereo ha registrato a luglio una “solida” crescita, secondo quanto rileva l’Associazione internazionale del trasporto aereo (Iata), osservando che i ricavi passeggero per chilometro sono cresciuti de 6,2% rispetto allo stesso mese dello scorso anno. Sono cresciute la capacità degli aeromobili (+5,5%) e il ‘load factor’ (fattore di riempimento), salito di 0,6 punti percentuali al dato record dell’85,2%. “Il settore registra un altro mese di solida crescita del traffico. E il record del load factor mostra che le compagnie aeree stanno diventando più efficienti in termini di sviluppo della capacità per far fronte alla domanda”, spiega il direttore generale e Ceo della Iata, Alexandre de Juniac. “Tuttavia, l’aumento dei costi, in particolare del carburante, probabilmente limiterà lo stimolo che ci si attende dal calo delle tariffe. Per questo ci aspettiamo di assistere ad un costante rallentamento della crescita rispetto al 2017».

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