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  • I costi di questa guerra per noi

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Dario Rivolta

    Quali siano le ragioni che abbiano spinto gli americani e gli europei a decidere che l’Ucraina dovesse diventare membro della NATO e dell’Unione Europea è bene cominciare a valutarne il prezzo per le tasche dei contribuenti occidentali. Lasciamo da parte i costi indiretti sulle economie europee che sono già sotto gli occhi di tutti e guardiamo a quelli messi a bilancio. È bene, tuttavia, ricordare che molti dei soldi usati per aiutare in vario modo l’Ucraina in questa guerra non sono rubricati in quanto tali ma sono presi da altre voci di bilancio ed è quasi impossibile quantificarli tutti.

    Già dal 2008, su iniziativa di polacchi e svedesi, Bruxelles aveva cominciato a lavorare per portare Kiev nell’orbita occidentale attraverso il Programma Eastern Partnership (Partenariato Orientale). Il progetto fu avviato dalla Polonia e successivamente fu elaborata una proposta più dettagliata in collaborazione con la Svezia. Il meccanismo fu fatto proprio da tutta la Commissione e fu inaugurato a Praga, nel maggio 2009. Lo scopo ufficiale dichiarato era di costruire nuove relazioni con gli Stati post-sovietici: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia e Ucraina. Si parlava di democrazia, prosperità e stabilità ma, in realtà, erano già previsti interventi nel settore della difesa. Il tutto rientrava in un piano pensato da americani e polacchi e britannici per “isolare” la Russia. Furono subito stanziati 600 milioni di Euro per il periodo 2010-2013. Quando il Presidente ucraino Yanukovich, che in un primo momento aveva accettato di dialogare, decise di ritirarsi da quel programma partirono subito le manifestazioni di Piazza Maidan fino al colpo di Stato che realizzò il cambiamento di regime.

    Per quanto riguarda gli USA, per capire il loro ruolo è sufficiente ricordare che, durante le manifestazioni sulla piazza Maidan a Kiev e quando sembrava poter funzionare l’accordo mediato da Francia e Germania con Yanukovich e con i manifestanti, la Sottosegretaria agli esteri americana Victoria Nuland disse al suo ambasciatore in Ucraina che quell’accordo doveva saltare perché “noi non abbiamo investito più di 5 miliardi di dollari” per lasciar finire tutto così. E sulla piazza cominciarono gli spari. Il nuovo primo ministro che assunse la carica fu scelto proprio dagli stessi americani (a questo proposito, chi dubita che quanto sto riferendo sia frutto di fantasia o ingigantito vada ad ascoltarsi la registrazione della telefonata citata che si può trovare in internet. Senza dubbio la registrazione è stata fatta in modo fraudolento dai servizi russi, ma così succede).

    Gli aiuti “particolari”, militari e finanziari, a favore dell’Ucraina cominciarono subito dopo l’annessione russa della Crimea e la ribellione delle regioni secessioniste russofone del Donbass. Da allora è stato un continuo crescendo di impegni finanziari dell’Occidente.

    Le cifre individuate dal The Ucraine Support Tracker di Kiel – Germania (riportate dalla rivista americana Geopolitical Future) sono impressionanti anche se riguardano soltanto il periodo che va dal 24 gennaio 2022 al 29 febbraio 2024. A quella data gli aiuti ufficiali complessivi erano di 87,28 miliardi di dollari in armamenti, 68,28 miliardi in mezzi finanziari, 14,28 miliardi per ragioni umanitarie e 92,68 per l’assistenza ai rifugiati. In totale in circa due anni sono stati “regalati” da EU e USA all’Ucraina più di 262 miliardi di dollari. Va bene inteso il termine “regalati” perché tutti sanno che l’Ucraina è in bancarotta e il suo debito che ammonta a più di un trilione di Euro non sarà mai ripagato

    Se vogliamo scendere nei dettagli, il Paese europeo che più ha “investito” sui nuovi governi di Kiev è la Germania, con circa 38 miliardi di dollari (altre fonti parlano di 43 miliardi di Euro). Segue la Commissione Europea con 30 miliardi, la Polonia (soprattutto per i costi dovuti all’ospitalità dei rifugiati) con 26 miliardi, la Gran Bretagna con 11 miliardi e così via. L’Italia, da par suo e senza contare quanto di sua competenza pagato attraverso Bruxelles, ha “investito” “solamente” 5 miliardi (sono esclusi gli armamenti che vanno rimpiazzati).

    Una voce a parte riguarda gli Stati Uniti. Formalmente questo Paese è il maggiore donatore avendo speso circa 67 miliardi di dollari di cui più del 90% in armamenti. Tuttavia non va dimenticato che anche le armi “donate” dai Paesi europei sono principalmente di fabbricazione americana e vanno rimpiazzate, facendo così la gioia dei produttori USA di materiale bellico Un esempio del modo di fare dei nostri alleati lo si ricava dall’ultimo stanziamento voluto da Biden e approvato dal Congresso. Si tratta di ben 61 miliardi aggiuntivi a quelli precedenti ma l’80% di questa cifra non arriverà direttamente in Ucraina poiché sarà destinato alle industrie americane per produrre nuove armi che serviranno a rimpiazzare quelle già mandate in Ucraina.

    Inoltre, si deve ricordare che il dopo-guerra è già stato ipotecato da Blackrock e J.P. Morgan tramite gli accordi sottoscritti con loro da Zelensky pochi mesi dopo l’inizio del conflitto. Infine, secondo alcune fonti, Washington avrebbe garantito, almeno in parte, i prestiti concessi a Kiev attraverso la possibilità di disporre alla fine della guerra di due terzi delle terre coltivabili ucraine.

    Un aspetto positivo(sic!) di tutto questo è che la maggior parte dei Paesi europei ha mandato in Ucraina armi considerate quasi obsolete e queste saranno rimpiazzate con armi di ultima generazione. Un altro aspetto positivo (altro sic!) è che da Washington hanno ben pensato, convincendo gli europei a fare altrettanto, che si dovrebbero sequestrare tutti i beni russi, statali e privati, attualmente presenti in USA e in Europa per usarli come “aiuto per l’Ucraina”. Purtroppo, si fa finta di non sapere che rompere le regole dei diritti di proprietà nella comunità economica mondiale oltre a violare il tanto invocato “diritto internazionale” uccide la fiducia degli investitori internazionali e incide negativamente, di conseguenza, anche sul commercio globale.

  • L’Anaao batte cassa per la sanità pubblica

    Il Servizio sanitario nazionale più che curare va curato, secondo quanto lamenta l’Anaao Assomed, il sindacato più rappresentativo di medici e dirigenti del Ssn.

    Sulla base di una ricerca condotta a giugno 2023, il sindacato avverte che la sanità pubblica è l’unico modo per evitare che un ricovero possa costare da 422 a 1.278 euro al giorno, come succederebbe se si ricorresse alla sanità privata. Senza strutture pubbliche, la sala operatoria – proseguente il sindacato fornendo altri esempi – costerebbe 1.200 euro l’ora, la degenza 600 euro al giorno in un reparto chirurgico e 400 euro al giorno in un reparto di medicina, un ricovero ordinario post acuzie 165 euro al giorno.

    Sulla base di questi dati, il sindaco batte cassa, lamentando che il finanziamento della sanità pubblica italiana patisce una carenza significativa di risorse. Secondo il 18° Rapporto del Crea Sanità, uscito a gennaio 2023, per raggiungere un’incidenza media sul Pil simile agli altri paesi dell’Unione Europea, sarebbero necessari almeno 50 miliardi di euro aggiuntivi (al minimo). Attualmente, la spesa sanitaria del nostro Paese presenta una forbice del -38% circa rispetto agli altri paesi della Ue, con una diminuzione sia della spesa privata (-12%) che della spesa pubblica (-44%) nel 2021. Tuttavia, tale calcolo è sottostimato. Dal 2000 al 2021, la spesa sanitaria in Italia è cresciuta con un tasso medio annuo del 2,8%, circa il 50% in meno rispetto agli altri Paesi della Ue di riferimento. Inoltre, anche durante la pandemia, la crescita della spesa è stata meno dinamica rispetto agli altri paesi.

    Secondo il Rapporto, nel 2021 il finanziamento pubblico si ferma al 75,6% della spesa contro una media europea dell’82,9%. La spesa privata ha raggiunto 41 miliardi di euro (il 2,3% del PIL, contro una media europea del 2%): oltre 1.700 euro a nucleo familiare (5,7% dei consumi).

    D’altronde, la sanità pubblica è tutt’altro che sana, sotto il profilo della gestione dei conti, come ampiamente evidenziato dalla Corte dei conti nel suo ultimo rapporto di maggio sul coordinamento della finanza pubblica.

  • Le librerie indipendenti tengono duro ma è allarme liquidità

    Tengono le librerie indipendenti nel 2022, in un clima di fiducia in miglioramento in vista delle festività natalizie. Sono stabili i ricavi e l’occupazione, ma l’aumento dei costi, l’impatto dell’inflazione e lo scenario economico incerto si riflettono sulla carenza di liquidità – in calo l’indicatore che si assesta a 38 punti contro i 43 di dicembre 2021 – e sulla necessità di far fronte al fabbisogno finanziario per il 77% delle librerie che accedono al credito.

    Sempre più critica la situazione della scolastica. Sono i dati dell’Osservatorio sulle librerie 2022 realizzato da Ali, l’Associazione Librai Italiani aderente a Confcommercio, in collaborazione con Format Research. La ricerca è stata presentata all’incontro “Nuove chiavi di lettura sul mondo delle librerie: numeri prospettive e tendenze”, il 29 novembre nella sede di Confcommercio a Roma, con gli interventi del vicepresidente vicario di Confcommercio Lino Enrico Stoppani e dei presidenti di Ali Confcommercio, Paolo Ambrosini e di Impresa-Cultura Italia-Confcommerci, Carlo Fontana.

    Secondo i dati, quasi 8 librerie su 10 lamentano un aumento abnorme dei prezzi praticati dai propri fornitori e, di queste, circa la metà registra un aumento dei prezzi superiore al 20%. Il 54% delle librerie segnala una crescita di clienti e il 55% un aumento dei libri venduti, anche in valore, rispetto al 2021. Confermate le difficoltà sul fronte della scolastica: 9 librerie indipendenti su 10 che distribuiscono testi scolastici hanno avuto problemi nell’approvvigionamento e ritengono inadeguato il margine riconosciuto dagli editori sia per i libri scolastici sulle nuove edizioni che sui titoli a catalogo, mentre oltre l’80% è insoddisfatto delle case editrici.

    La distribuzione di libri scolastici e universitari costa molto alle librerie, anche per importanti investimenti aggiuntivi e produce margini esigui o addirittura inesistenti. Concorrenza dei megastore online per l’81,4% e bassi margini di guadagno riconosciuti dagli editori per l’80% sono i principali ostacoli allo sviluppo delle librerie che trattano testi universitari. In particolare, per la concorrenza dei megastore online oltre il 60% di queste librerie ha perso negli ultimi due anni una quota di fatturato compresa tra il 20% e il 50%, mentre una su 10 ha perso addirittura più del 50% del fatturato. “Le nostre imprese stanno attraversando una tempesta senza eguali prima per via del Covid e ora per l’aumento delle materie prime, la guerra e l’inflazione. Ciò nonostante nel complesso le librerie reggono salvo alcuni comparti specifici, come scolastica e universitaria, per i quali è urgente un intervento delle Istituzioni che risolva i forti squilibri che sono presenti nell’editoria scolastica e il vantaggio competitivo che, anche a causa di un sistema distributivo ancora inadeguato, consente agli operatori online, e tra questi al principale operatore mondiale, di schiacciare le librerie universitarie che garantiscono professionalità, contribuiscono al presidio socio-economico delle nostre città e favoriscono la diffusione dei saperi fondamentali per lo sviluppo e il benessere del Paese”.

    Sono 3.640 le librerie in Italia, di cui 2.405 indipendenti, e occupano oltre diecimila e 700 addetti. In otto anni (2012-2020) si sono ridotte di 261 unità. Il 59% sono ditte individuali, il 24% sono società di persone, il 15% sono società di capitali, solo il 2% sono cooperative. Al Sud le librerie rappresentano il 33,3% dell’intero comparto, mentre il Nord Est ha la quota più bassa (17,3%). Lombardia, Lazio e Campania sono le prime 3 Regioni per numero di librerie, mentre oltre 3 addetti su 5 operano nelle librerie del Nord Ovest (39,6%) e del Centro (23,7%).

  • Prezzi delle case a livelli record: nel primo trimestre 2022 sono cresciuti del 4,&%

    Da oltre un decennio i prezzi delle case non salivano così. L’Istat registra un aumento dell’indice relativo alle abitazioni acquistate dalle famiglie dell’1,7%, nel primo trimestre, rispetto al trimestre precedente, e del 4,6% rispetto a un anno prima. Non aveva mai rilevato un incremento dei prezzi annuo così ampio a partire dall’inizio di queste serie storiche, nel 2010.

    Segnano un record anche i prezzi delle abitazioni esistenti (+4,5% annuo), mentre per quelle nuove il rialzo è del 5%, sull’onda dei rincari dei costi di costruzione. Tutto il territorio nazionale, secondo i dati preliminari, è coinvolto in questi rialzi.

    La voglia di casa emersa con la pandemia sembra così continuare. Istat sottolinea che “nonostante il clima di incertezza e preoccupazione dovuto al conflitto in Ucraina, si conferma e si consolida il trend di crescita dei prezzi delle abitazioni avviatosi nel terzo trimestre 2019”.

    L’istituto di statistica vede inoltre una “persistente e vivace crescita dei volumi di compravendita” e cita l’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate che ha registrato un aumento degli scambi del 12% nel primo trimestre, dopo il +15,7% del trimestre precedente.

    I dati si riferiscono ancora ai primi tre mesi dell’anno, prima della stretta sui tassi di interesse annunciata per luglio dalla Banca centrale europea che sta rendendo l’accesso ai mutui più costoso. Già a maggio, secondo gli ultimi dati dell’Abi-Associazione bancaria italiana, i tassi dei nuovi mutui hanno raggiunto i massimi da tre anni, a partire da febbraio 2019, attestandosi in media poco sotto il 2% (1,93%). Un anno prima erano pari all’1,4%.

    A sostenere il mercato, sono soprattutto i più giovani, con l’aiuto delle agevolazioni del governo per la prima casa. Secondo l’analisi del Barometro Crif, a maggio, le richieste di mutui immobiliari da parte dei ragazzi under 35 sono salite al 35,4% del totale in un contesto in cui la domanda complessiva è calata del 16,8% rispetto all’anno precedente. La flessione è marcata soprattutto per surroghe, viste le condizioni di mercato meno convenienti.

    L’Istat calcola che la crescita acquisita dei prezzi delle abitazioni per il 2022, ovvero quella che si avrebbe in caso di variazioni nulle nel resto dell’anno, è del 2,8%. Ma l’incertezza è elevata e un primo allarme sul mattone è arrivato dalla presidente della Bce, Christine Lagarde, la settimana scorsa. Con gli aumenti dei tassi di interesse e l’erosione del reddito reale delle famiglie per l’inflazione, “il rischio di una correzione dei prezzi degli immobili sta aumentando”, ha detto Lagarde in un’audizione al Parlamento europeo.

  • Tel Aviv named as world’s most expensive city to live in

    Tel Aviv has been named as the most expensive city in the world to live in, as soaring inflation and supply-chain problems push up prices globally.

    The Israeli city came top for the first time in a survey by the Economist Intelligence Unit (EIU), climbing from fifth place last year and pushing Paris down to joint second with Singapore.

    Damascus, in war-torn Syria, retained its place as the cheapest in the world.

    The survey compares costs in US dollars for goods and services in 173 cities.

    The EIU said the data it collected in August and September showed that on average prices had risen 3.5% in local currency terms – the fastest inflation rate recorded over the past five years.

    Transport has seen the biggest price increases, with the cost of a litre of petrol up by 21% on average in the cities studied.

    Tel Aviv’s climb to the top of the EIU’s World Cost of Living rankings mainly reflected the soaring value of Israel’s currency, the shekel, against the dollar. The local prices of around 10% of goods also increased significantly, especially for groceries.

    The survey found Tel Aviv was the second most expensive city for alcohol and transport, fifth for personal care items, and sixth for recreation.

    Tel Aviv’s mayor, Ron Huldai, warned in an interview with the Haaretz newspaper that rising property prices – not included in the EIU’s calculations – meant the city was heading towards an “explosion”.

    “Tel Aviv will become increasingly more expensive, just as the entire country is becoming more expensive,” he said.

    “The fundamental problem is that in Israel there is no alternative metropolitan centre. In the United States, there is New York, Chicago, Miami and so on. In Britain, there’s Greater London, Manchester and Liverpool. There you can move to another city if the cost of living is too onerous.”

    Last year, Paris, Zurich and Hong Kong shared joint first place in the EIU’s survey. Zurich and Hong Kong were fourth and fifth this year, followed by New York, Geneva, Copenhagen, Los Angeles and Osaka.

    Tehran climbed the most in the rankings, jumping from 79th to 29th, as US economic sanctions continued to cause shortages of goods and rising import prices in Iran.

    The EIU said the rankings continued to be sensitive to shifts brought about by the coronavirus pandemic.

    “Although most economies are now recovering as Covid-19 vaccines are rolled out, the world’s major cities still experience frequent surges in cases, prompting renewed social restrictions. In many cities this has disrupted the supply of goods, leading to shortages and higher prices.”

    It added: “Fluctuating consumer demand has also influenced purchasing habits, while investor confidence has affected currencies, further fuelling price rises.”

    ìThe EIU said it expected price rises to moderate over the coming year as central banks cautiously increased interest rates to stem inflation.

    The five most expensive cities

    1 Tel Aviv

    2 Paris and Singapore in joint place

    3 Zurich

    4 Hong Kong

    The five cheapest cities

    1 Damascus

    2 Tripoli

    3 Tashkent

    4 Tunis

    5 Almaty

    Source: EIU’s World Cost of Living index

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