credito

  • Credito al consumo: riscontrate potenziali irregolarità in oltre un terzo dei siti di prestiti online

    La Commissione europea e le autorità nazionali per la tutela dei consumatori hanno pubblicato i risultati di una revisione a livello dell’UE di 118 siti online di credito al consumo.

    L’obiettivo della revisione era verificare le offerte su dispositivi quali tablet o smartphone e verificare se gli operatori rispettino le norme dell’UE in materia di protezione dei consumatori per quanto riguarda le informazioni standard nel settore della pubblicità online per il credito al consumo. È emerso che più di un terzo (36%) dei siti web oggetto dell’indagine violava potenzialmente il diritto dei consumatori dell’UE. Mancavano o non erano chiare informazioni fondamentali quali il costo del credito, i tassi di interesse o l’obbligo di assicurazione. Inoltre, i siti web non sempre menzionano eventuali misure straordinarie nel quadro della pandemia di COVID-19 che possono sortire un impatto sul credito al consumo (ad esempio, la possibilità di richiedere un periodo di rimborso per gli anticipi). Le autorità nazionali responsabili della tutela dei consumatori daranno seguito ai casi di potenziali irregolarità segnalati.

    Nell’ambito della nuova agenda per i consumatori, la Commissione sta lavorando alla revisione della direttiva sul credito al consumo, già oggetto di una valutazione nel novembre 2020.

    Maggiori informazioni sulla revisione a livello dell’UE delle offerte di credito online e dati recenti sulla valutazione dei mercati del credito al consumo da parte dei consumatori sono disponibili online.

  • Per le banche il 2021 potrebbe essere l’anno peggiore dal 2009

    Per le banche a livello globale il 2021 potrebbe essere l’anno peggiore dal 2009, più difficile di questo 2020. Potrebbe accadere nonostante gli istituti di credito siano in condizioni migliori rispetto al 2009 per resistere allo stress. E pur con le misure di sostegno in atto e le prospettive di vaccini contro il Covid 19. Lo sostiene un’analisi di S&P Global Ratings, in cui viene stimato che il ritorno ai livelli pre-pandemia non possa arrivare prima del 2023, ma anche oltre. Un ripristino “lento, incerto e altamente variabile a seconda delle aree geografiche”, secondo l’analista, Emmanuel Volland.

    La spiegazione viene individuata in quattro fattori di rischio, a partire dal peggioramento e dalla lunghezza della crisi da Covid 19. Secondo fattore, la durata finita delle misure di sostegno che hanno stabilizzato le banche. “Non possono durare per sempre e il progressivo previsto ritiro nel 2021 rivelerà un quadro più fedele della qualità delle attività bancarie” spiega l’analista Gavin Gunning. Altri due fattori sono indicati in un probabile aumento della leva finanziaria e prevedibili maggiori insolvenze societarie, insieme a un indebolimento nella proprietà e dunque nella qualità del credito bancario. Promettente per una ripresa l’annuncio di uno o più vaccini in approvazione per fine anno e disponibili per la metà del prossimo. Ma sarebbe solo un primo passo verso un ritorno alla normalità.

    Nello specifico delle banche europee ci sono analisti che stimano che il successo del lancio di un vaccino anti-Covid potrebbe aumentare i guadagni di 9 miliardi di euro (14%), con SocGen e UniCredit che potrebbero trarne vantaggio. Nei numeri d’altra parte S&P testimonia la prospettiva di difficoltà col fatto di avere intrapreso dall’inizio della pandemia 236 azioni di rating negativo, relative al coronavirus, allo shock sul prezzo del greggio e ad altri fattori di stress sulle banche a livello globale.

    Spostando lo sguardo sull’Italia, un quadro viene fornito dalla recente analisi del centro studi Orietta Guerra della Uilca sui conti economici del terzo trimestre 2020 degli 8 maggiori istituti di credito. Si evidenzia una contrazione complessiva dell’utile contabile di 8,5 miliardi di euro (5,3 miliardi col goodwill negativo dell’incorporazione di Ubi in Intesa Sanpaolo). Un calo (-93,2%) dovuto all’impatto degli oneri d’integrazione del piano industriale e ad altre operazioni straordinarie di Unicredit e all’aumento delle rettifiche di valore (3.036 milioni), di cui una parte per fronteggiare il deterioramento del credito, causa l’incidenza del Covid 19 sull’economica nazionale e internazionale. Ritenuto soddisfacente (-7,2%) il livello medio del margine operativo, oltre al fatto che nei primi nove mesi del 2020 le maggiori banche italiane abbiano ridotto i crediti deteriorati netti di 2,9 miliardi e che secondo operazioni di derisking non ancora contabilizzate, si arriverebbe a una riduzione di oltre i 6 miliardi. Per contro preoccupano le 2,7 milioni di domande di moratoria sui prestiti concesse dal sistema bancario per circa 294 miliardi, che alla scadenza, con un lockdown di cui non si conosce la durata, potrebbero trasformarsi in parte in npl.

  • Cdp italiana come la KfW tedesca

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘Italia Oggi’ il 3 aprile 2020.

    Il coronavirus, con la sua diffusione planetaria e i suoi effetti devastanti, condiziona tutti i Paesi, a partire dall’Italia. La sfida del rilancio economico sarà epocale, per tutti. È evidente che anche il futuro dell’Unione europea passa inevitabilmente attraverso il finanziamento di un programma unitario di investimenti e di sostegni all’occupazione imperniato sull’efficienza e sulla solidarietà. Ovviamente è opportuno che vi siano anche risorse finanziarie nazionali e degli interventi più mirati alle necessità di stabilità sociale e di ripresa economica.

    La decisione del governo tedesco di mettere in campo 550 miliardi di euro di investimenti nei settori dell’economia reale, attraverso la mediazione della Kreditanstalt fuer Wiederaufbau (KfW) potrebbe essere un esempio virtuoso da seguire. Si tratta di investimenti veri destinati all’economia, senza inutili mediazioni del sistema bancario privato.

    La KfW è una banca di sviluppo pubblica, controllata dal governo federale per l’80% e dai Laender (l’equivalente delle nostre regioni ma con un potere rafforzato) per il 20%. Fu creata nell’immediato dopo guerra per emettere credito e sostenere progetti per la ricostruzione. Era un tassello del Piano Marshall dedicato alla Germania. Ottenne presto la possibilità di trasformare gli interessi dovuti agli Stati Uniti in aumenti di capitale proprio, e di ampliare così la sua capacità d’investimento.

    Nei decenni passati è stata uno dei principali motori dello sviluppo industriale, infrastrutturale, tecnologico e sociale della Germania fino a diventare un colosso economico. Oggi ha un capitale (equity) di 30 miliardi di euro e investimenti pari a 610 miliardi. La KfW affianca sempre anche le grandi corporation tedesche, come la Siemens, la Daimler o la Mercedes, nella stipulazione di importanti contratti di cooperazione internazionale, siano essi in Cina, in Russia, negli Usa o in altre parti del mondo.

    Raccoglie capitali sui mercati finanziari con l’emissione di obbligazioni, che dal 1998, per legge, sono garantite dallo Stato tedesco. Li trasforma poi in crediti per investimenti in vari settori produttivi, infrastrutture, edilizia sociale, innovazione, nuove tecnologie e in sostegno forte alle imprese. Lo fa attraverso una rete di enti che ha creato e che controlla, come il fondo per le Pmi, quelli per l’export, per lo sviluppo regionale e locale, per le nuove fonti di energia, per l’ambiente, per la cooperazione internazionale, ecc.

    Nel 2008 ha creato anche la Ipex Bank che sostiene le imprese tedesche ed europee in progetti internazionali e nelle loro operazioni di export. Oggi ha un volume di business superiore agli 80 miliardi di euro. La KfW, inoltre, è esentata dai requisiti di capitale e dalle regole dell’Unione bancaria, così come lo sono le banche tedesche di sviluppo regionale, le Landesbank.

    In verità, in Italia, anche il Medio Credito Centrale (Mcc) nel 1953 fu creato su questo modello ma con molti meno poteri e meno autonomia. Oggi, com’è noto, realizza e integra le politiche pubbliche a sostegno del sistema produttivo, in particolare delle pmi. Una mission molto importante che, purtroppo, è rimasta confinata entro dimensioni troppo limitate.

    Anche l’italiana Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) è molto simile alla struttura della KfW. A confronto, però, è anch’essa molto più limitata nelle sue attività. Entrambe sono attive in parecchie operazioni congiunte, per esempio, nel Long Term Investors Club (Ltic). Quest’ultimo, si ricordi, dopo la Grande Crisi del 2008 è stato creato proprio con il compito di promuovere investimenti produttivi e infrastrutturali di lungo periodo in alternativa alla disastrosa finanza «mordi e fuggi».

    Per statuto la nostra Cdp, che gestisce ingenti capitali generati dalla raccolta di risparmio popolare (un totale di 386 miliardi di euro), in particolare attraverso i buoni fruttiferi e i libretti emessi dalle Poste Italiane, è ingessata su operazioni specifiche relative agli investimenti locali. Da qualche anno ha creato anche un fondo di sostegno agli investimenti nelle pmi e ha dovuto cambiare lo statuto per avere la possibilità di operare anche nell’internazionalizzazione dei mercati a sostegno delle imprese italiane che esportano e operano all’estero. Prima non era consentito.

    L’emergenza economica provocata dal coronavirus, con la sospensione del Patto di stabilità europeo, potrebbe diventare l’opportunità, la classica window of opportunity, per ripensare e rimodellare certi enti italiani. Senza inventare cose nuove si potrebbe “copiare” ciò che la Germania ha fatto e dare alla nostra Cdp gli stessi poteri e le stesse prerogative della KfW.

    Certo non si risolverebbero i gravi problemi storici dell’Italia, quali un debito pubblico troppo elevato, un’evasione fiscale sproporzionata, una corruzione intollerabile, una burocrazia inefficiente e tasse elevate su produzione e lavoro. Questi sono problemi e sfide ineludibili per lo Stato italiano. Ma, almeno, avremmo un ente, una sorta di banca nazionale per lo sviluppo, certamente più controllata e più efficiente.

    Si tenga presente, inoltre, che i 550 miliardi di euro di investimenti annunciati dal governo tedesco non vanno a incrementare il debito pubblico nazionale. Saranno gestiti dalla KfW che, in quanto ente indipendente, non entra nel computo del bilancio nazionale. Lo stesso avverrebbe con l’utilizzo della Cdp rafforzata. Qualsiasi aumento della spesa pubblica da parte del nostro governo, sia per l’emergenza sia per altre esigenze, andrà, invece, ad aumentare direttamente il nostro debito pubblico. Non si tratterebbe di una furbizia ma di un semplice ritorno all’idea della «banca nazionale per lo sviluppo».

    Guardando oltre l’attuale emergenza, il presidente Mattarella giustamente ha detto che «per rinascere ci è richiesta la stessa unità del dopoguerra». E noi, più modestamente, riteniamo siano necessari anche istituzioni, tempi e programmi economici simili.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Assopopolari e il futuro del credito

    Pubblichiamo di seguito la lettera del Presidente di Assopopolari, Dott. Corrado Sforza Fogliani, apparsa su Il Sole 24 Ore il 10 marzo 2020

    Caro Direttore,

    mi riferisco alla lettera a firma Ettore Prandini pubblicata sul Suo giornale.

    Non mi interessa entrare nel merito del discorso del presidente dei Coltivatori diretti a riguardo della possibile incorporazione dell’Ubi da parte di Banca Intesa San Paolo. Così pure, non discuto del concetti di banca di territorio che Prandini ha, dato che ricomprende in questa categoria di banche (se non ho capito male) persino quella che diventerebbe, addirittura e sempre secondo Prandini, la seconda banca d’Europa.

    Quello che voglio osservare è che il Presidente di Coldiretti forse non considera che andando di questo passo ci avviciniamo vieppiù ad un oligopolio bancario italiano: nel nostro paese finiremmo per avere due o tre grosse banche in tutto, per di più a capitale straniero. Non credo che sarà l’ideale per le piccole e medie aziende.

    Ma non è neanche tutto.

    All’estero convincono grosse banche e banche di territorio (negli Stati Uniti e in Canada come anche in Germania e Francia, la cui più grossa banca è addirittura una banca cooperativa, come cooperative sono le Banche italiane). Da noi, le grandi non diventano tali sviluppandosi e crescendo per linee interne ma facendo fuori le piccole (vicenda Ubi docet). Eppure, l’Italia è il Paese che dovrebbe tenere più di ogni altro alla convivenza di banche dato il sistema di medie e piccole imprese che ci caratterizza.

    La Coldiretti dovrebbe – a mio avviso – essere d’accordo.

    Le sarò grato, Signor Direttore, se vorrà ospitare questa lettera in omaggio al principio di biodiversità che sempre ha finora caratterizzato 24 Ore.

    Corrado Sforza Fogliani

    Presidente Assopopolari

  • Rivalutazione dei beni di impresa, qualche riflessione

    La legge di bilancio 2020 (L. 160/2019) ha riproposto la rivalutazione dei beni di impresa. Un’interessante opportunità che negli ultimi anni è stata più volte rivisitata, pur rifacendosi, in sostanza, al provvedimento originario del 2000 (L. 342/2000).

    La normativa si rivolge a tutte le società di capitali, alle società di persone a carattere commerciale, alle imprese individuali, alle società cooperative agli non commerciali, per i beni riconducibili all’attività di impresa e ai soggetti non residenti con stabili organizzazioni in Italia.

    Sono rivalutabili i beni risultanti dal bilancio al 31/12/2018 e deve effettuarsi nel bilancio dell’esercizio successivo (31/12/2019) di prossima approvazione. Ancora pochi giorni, quindi, per gli amministratori per valutare il provvedimento e, eventualmente, effettuare le opportune variazioni nel progetto di bilancio in fase di definizione.

    Potrà trattarsi di beni materiali o immateriali (con l‘eccezione dei meri costi pluriennali) e delle partecipazioni in società controllate e collegate, purché iscritte tra le immobilizzazioni finanziarie. Sono esclusi i beni al cui scambio o alla cui produzione è diretta l’attività di impresa (cosiddetti beni merce). La rivalutazione non può prescindere dalla corretta classificazione dei beni in categorie omogenee dovendo necessariamente riferirsi a tutti i beni appartenenti alla medesima categoria (unica eccezione per i beni immateriali che potrà riferirsi al singolo bene). Quest’ultima attività è tutt’altro che banale e va compiuta con estremo rigore e precisione potendo inficiare, a posteriori, la validità della rivalutazione stessa.

    Alla rivalutazione consegue il pagamento di un’imposta sostitutiva pari al 10% o al 12% dei maggiori valori, rispettivamente per i beni non ammortizzabili o per quelli ammortizzabili. Anche in questo caso, la suddivisione apparentemente semplice, è tutt’altro che banale soprattutto con riferimento ai fabbricati poiché, i nuovi principi contabili, non prevedono che gli stessi siano esclusi dal processo di ammortamento. A rigor di logica, i beni immobili patrimonio, essendo soggetti a limiti di indeducibilità dei costi anche con riferimento alle quote di ammortamento, dovrebbero essere ricompresi nella fascia con aliquota più bassa. Maggiori certezze si hanno invece con riferimento ai terreni esclusi per definizione dal processo di ammortamento.

    La norma non impone la redazione di perizie che sono tuttavia assolutamente consigliabili per contrastare rilievi futuri anche in considerazione del fatto che non si possono eccedere i valori correnti. Non è prevista la possibilità di dare valenza fiscale ad eventuali svalutazioni, nonostante il periodo storico di riferimento meriterebbe attenzione al fenomeno.

    A fronte dei maggiori valori va iscritta in bilancio una riserva “in sospensione di imposta” che può essere liberata dal vincolo con il versamento di un ulteriore 10%, portando il costo complessivo dell’operazione al 20% o al 22% rispetto al 27,9% della tassazione ordinaria. Nonostante le aliquote delle imposte sostitutive siano scese rispetto a quelle dell’ultimo provvedimento analogo, comportano comunque un costo complessivo non trascurabile, soprattutto in caso di affrancamento della riserva. Opzione, quest’ultima, che andrà attentamente ponderata in funzione dei piani aziendali prospettici disponibili.

    I maggiori valori acquistano valenza fiscale dal terzo anno successivo (2022) con riguardo alla deducibilità degli ammortamenti e alla disciplina sulle società di comodo, mentre dal quarto anno successivo per la determinazione di plusvalenze e minusvalenze. In caso di cessione nel periodo di sorveglianza, si terranno in considerazione i valori ante rivalutazione, emergerà un credito di imposta per il contribuente e si liberà la riserva in sospensione.

    Vorrei sollecitare nei destinatari del provvedimento alcuni ragionamenti per consentire una scelta consapevole.

    I maggiori valori acquisiranno rilevanza per il superamento del test di operatività ai sensi della normativa sulle società di comodo (art. 30 legge n. 724 del 1994) con impatti a volte complicati soprattutto se riferiti alle società operanti nel mercato immobiliare.

    Effettuare la rivalutazione senza affrancare la riserva implica un elevato costo futuro in caso di successiva distribuzione della stessa, occorrerà quindi aver ben presenti i piani prospettici dell’azienda, la politica dei dividendi nonché la redditività futura. In periodi di crisi, la rivalutazione dei maggiori valori latenti può contribuire a patrimonializzare l’azienda aumentandone la capacità di sopportare perdite future. Se questo fosse l’orizzonte, potrebbe risultare superfluo affrancare la riserva emergente. Analoghe conclusioni potrebbero essere tratte in caso di una politica di forte reinvestimento in azienda degli utili realizzati.

    Un’ultima questione sulle riserve in sospensione di imposta generatesi a seguito di precedenti rivalutazioni. Ci si potrebbe chiedere se fosse possibile affrancarle sfruttando il provvedimento legislativo odierno pagando l’imposta sostitutiva del 10%. Ebbene il testo normativa sembra far esplicito riferimento alla possibilità di affrancare esclusivamente la riserva generatasi in occasione della presente rivalutazione e in tal senso si era espressa l’Agenzia nel 2006 e nel 2013 con riferimento ai rispettivi provvedimenti normativi.

  • E’ esploso nel mondo il credito ai privati

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato sul ‘Italia Oggi’ del 7 agosto 2019.

    La banca delle banche centrali, la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, nel suo Rapporto economico annuale sostiene che «il rallentamento dell’economia mondiale sta peggiorando e si sta allargando». Questo giudizio ovviamente non farà piacere a Donald Trump che, invece, sostiene che l’economia americana non è mai andata così bene. Il presidente, in verità, più che limitarsi a considerare solo alcuni dati statistici favorevoli, dovrebbe soffermarsi su certi preoccupanti andamenti finanziari, quali il debito delle imprese.

    Non è un caso, infatti, se alcuni governatori della Federal Reserve e suoi presidenti regionali, tra cui quelli di New York e di St. Louis, abbiano chiesto che la banca centrale diminuisca il tasso di sconto. Secondo la Bri, «la decelerazione economica è più forte di quanto si aspettasse e sta creando tremori sui mercati finanziari». Sono quattro le ragioni identificate:

    1. le tensioni commerciali internazionali;
    2. il rallentamento della crescita in Cina, con Pechino concentrata sulla necessità non più procrastinabile della riduzione del debito;
    3. le politiche restrittive della Fed che influenzano, in particolare, i paesi emergenti dipendenti dai crediti e dai finanziamenti in dollari;
    4. la contrazione economica di molti paesi occidentali e anche di quelli emergenti.

    Il rallentamento si colloca all’interno di alcune tendenze in atto da più lungo periodo, quali l’inflazione più bassa delle aspettative, il ruolo sempre più imprevedibile della finanza globalizzata, la bassa produttività del lavoro, combinata con salari bloccati da tempo, e l’indebolimento dell’ordine economico del libero mercato a seguito delle misure protezionistiche.

    La preoccupazione della Bri, tuttavia, riguarda la crescita del debito, in particolare quello privato. La vulnerabilità maggiore è rappresentata dal «surriscaldamento del settore corporate, quello delle imprese, in molte economie avanzate».

    Il mercato dei leveraged loan, cioè dei crediti concessi a imprese già pesantemente indebitate e di bassa affidabilità, e, quindi, ad alto rischio, ha raggiunto i 3 mila miliardi di dollari. Ciò è paragonabile a quanto accadde con i crediti immobiliari subprime nella crisi del 2007-8. Sono aumentati i prodotti strutturati, titoli derivati, come i collateralized loan obligation (clo), che per il 60% sono detenuti dalle banche americane, per il 30% da quelle giapponesi e per il 10% da quelle europee.

    Naturalmente la somma citata rappresenta la parte evidente «in sofferenza» rispetto alla complessiva bolla di debiti corporate. Particolarmente interessati sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Non è un caso che anche la Bank of England abbia recentemente condiviso le preoccupazioni della Bri. Si teme che se la situazione dovesse deteriorare, l’impatto economico sarebbe di molto amplificato attraverso il sistema bancario. Del resto la Bri aggiunge che si dovrebbe essere preoccupati dei debiti corporate più che di quelli degli Stati sovrani.

    In questi anni la qualità dei crediti concessi alle imprese è andata sempre più peggiorando. Negli Usa il lowest investment grade rating, cioè la valutazione più bassa applicata agli investimenti, rappresentava il 29% di tutti i crediti concessi nel 2000 mentre oggi è il 36%. La situazione in Europa è peggiore, perché nello stesso periodo questo rating è passato dal 14% al 36%. Per quanto riguarda il settore specifico delle obbligazioni corporate, il rating più basso, che era del 22% in Europa e del 25% negli Usa, è salito al 45% per entrambi.

    Le preoccupazioni menzionate relative alle economie dei paesi emergenti sono confermate anche da un recente studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad), secondo il quale la passata politica di tasso zero della Fed li avrebbe indotti a indebitarsi in modo sproporzionato, soprattutto nei settori privati. Infatti, la percentuale del loro debito sul totale mondiale è passata dal 7% del 2007 al 26% del 2017. Nello stesso periodo il debito privato delle imprese e delle famiglie delle economie emergenti in rapporto al loro pil è passato dal 56 al 105%. I dati sono eloquenti.

    Com’è noto, i paesi in questione sono molto dipendenti dal dollaro e dalle sue evoluzioni valutarie per cui le politiche della Fed vi determinano forti ripercussioni. Vedesi l’instabilità dell’Argentina, del Brasile, dell’India, dell’Indonesia, della Turchia e del Sud Africa.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

     

  • La riforma delle Banche di Credito Cooperativo: l’autonomia tradita

    Uno dei lasciti più avvelenati ed indigesto del governo Renzi è sicuramente rappresentato dalla riforma del sistema delle banche del credito cooperativo. Questa tipologia di istituti di credito rappresentano il primo ed immediato braccio operativo economico e finanziario che agisce sul territorio specificatamente in rapporto alle peculiarità dello stesso.

    In altre parole, attraverso una singola forma associativa finalizzata all’unico obiettivo della mutualità il sistema degli istituti di credito cooperativo si articola in modelli operativi estremamente flessibili ma sempre all’interno del perimetro istituzionale in relazione alle caratteristiche tipiche del territorio nel quale operano. In questo senso è evidente che l’attività dell’Istituto possa diversificarsi a seconda che operi all’interno di un territorio caratterizzato da un’economia prevalentemente turistica o, viceversa, in un’altra realtà che trovi la propria peculiarità nella presenza di aziende artigianali e PMI in genere.

    La riforma voluta dal governo Renzi stravolge sostanzialmente l’impianto istituzionale come la mission specifica dei singoli istituti cooperativi per  inglobarli all’interno di una S.p.A. capogruppo la quale indica in modo univoco le direttive e, come da contratto, anche la selezione dei manager e dei vari direttori delle diverse “nuove agenzie”.

    Quindi, ad un originario modello estremamente flessibile in relazione alle esigenze del territorio, come il credito cooperativo si è dimostrato finora con la riforma imposta dal governo Renzi e dai ministri Padoan e Calenda, si passa ad una società per azioni centralizzata nella quale il margine di flessibilità risulta praticamente nullo per sintonizzarsi con le esigenze locali. In quanto alle singole BCC non viene riconosciuto nessun tipo di autonomia istituzionale gestionale ed amministrativa.

    Al tempo stesso si assiste anche alla modifica del principio istitutivo degli stessi istituti passando dal funzione principale della mutualità a quella della remunerazione del capitale tipica di una S.p.A. rendendola contemporaneamente anche soggetta a scalate esterne.

    Questa modifica implicita, o meglio questo tradimento, della funzione mutualistica costitutiva ed istituzionale operante in ambito locale a favore di una società di capitale e con una direzione generale manifesta una grandissima contraddizione con lo storytelling politico che le regioni del nord, Veneto e Lombardia in primis, ma anche Emilia Romagna e le stesse province autonome di Trento e Bolzano portano avanti con l’ottenimento dalle regioni e con il consolidamento dalle province di una propria autonomia da esercitare sul territorio.

    La declinazione politica ma ovviamente anche quella economica e finanziaria di un sistema caratterizzato da una forte autonomia regionale o provinciale rispetto all’istituzione statale centralista non può però venire rappresentata dalla semplicistica ed unica visione di una gestione regionale di una maggiore autonomia amministrativa basata su di una percentuale maggiore dei tributi prodotti localmente in opposizione ad una politica centralista.

    All’interno di un progetto di autonomia completo si dovrebbero tutelare i diversi e specifici soggetti pubblici politici privati, e quindi anche cooperativi, al fine di assicurare la qualità ma soprattutto la molteplicità degli stessi soggetti, i quali operando in autonomia (anche rispetto alla Regione ed alla provincia), possono assicurare la possibilità di generare qualità e sviluppo del proprio territorio attraverso la propria meritoria ed autonoma attività.

    Il silenzio complice delle regioni Lombardia,Veneto ed Emilia Romagna, come delle province autonome di Trento e Bolzano relativamente a questa riforma delle banche di Credito Cooperativo rappresenta la massima espressione invece di  una visione vetero-centralistica da parte delle istituzioni politiche declinate nelle istituzioni regionali o provinciali. Non risulta possibile infatti realizzare nessun tipo di autonomia completa senza le presenze contemporanee di istituti di credito che nascano dalle singole realtà locali i quali operino espressamente e con caratteristiche specifiche nel territorio di competenza, in questo caso regionale o provinciale, e non sotto il controllo di una S.p.a. nazionale.

    Il silenzio delle regioni invece dimostra come la maggiore autonomia richiesta da anni dalle regioni del nord risulti semplicemente di carattere politico e che si debba manifestare solo attraverso il desiderio da parte degli organi regionali stessi di una nuova propria nuova centralità semplicemente in sostituzione di quella statale che la regione assumerebbe all’interno del territorio di propria competenza, in particolare in ambito amministrativo e fiscale.

    Senza un sistema di istituti specifico del territorio operativo, indipendentemente dalle istituzioni politiche, siano esse statali, regionali o provinciali non fa nessuna differenza grazie alle quote di risparmio dei residenti si passerebbe da un centralismo statale ad un centralismo regionale il quale anche se più vicino al territorio di competenza non garantisce soprattutto politiche di sviluppo adeguate. In altre parole, la regione resterebbe l’unica in grado di produrre risorse da destinarsi alle opere del territorio operando quindi in una posizione di nuova centralità (termine incompatibile con il concetto autonomia) in sostituzione della centralità dello stato attuale. Quando invece il concetto di autonomia non possa prescindere dalla presenza di una molteplicità di soggetti autonomi ed appunto indipendenti per i medesimi fini di sviluppo economico del territorio stesso.

    In questo senso il silenzio delle Regioni interessate da questa nefasta rivoluzione degli istituti di credito cooperativo risulta veramente imbarazzante per gli stessi presidenti delle istituzioni regionali e provinciali i quali dimostrano con il proprio silenzio assenso di ricercare non una maggiore autonomia del proprio territorio ma il semplice desiderio di sostituirsi alla attuale centralità allo Stato. Questa conversione favorita dalla complicità degli organi regionali renderà possibile una rinnovata centralità della Regione a scapito di organi indipendenti ed autonomi come le banche di credito cooperativo hanno assicurato fino ad oggi.

    Mai come oggi il silenzio si rivela simbolo di un passaggio politico ambiguo che non mira all’autonomia estesa dei territori ma semplicemente alle nuova centralità delle istituzioni regionali.

    Una centralità classica degli istituti statali e che avrà le medesimi problematiche quando risulterà essere espressione di quelli regionali.

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