Crescita

  • Pil ed inflazione: chi paga il differenziale

    Sembra incredibile come ancora oggi troppi esponenti, diretta espressione della linea politica economica dei partiti, continuino imperterriti a parlare di crescita economica italiana unita al raggiungimento degli obiettivi prefissati dagli ultimi governi successivi al 2013 (quindi dal governo Monti), quando i dati consuntivi, soprattutto i numeri negativi uniti alle prospettive di crescita, delineano un quadro assolutamente diverso. Uno scenario talmente fosco da assumere le tinte di una vera e propria recessione.

    I dati relativi alla crescita economica per il 2018 parlano di una crescita del PIL pari a 1,5 % (a tal proposito si ricorda che, come sempre da oltre vent’anni,a settembre si assiste ad un ritocco decimale al ribasso). Assolombarda prevede invece la crescita dell’inflazione, sempre per l’anno 2018, pari al 1,7%. Il differenziale, cioè lo 0,2%, indica chiaramente ed inequivocabilmente la decrescita reale del potere d’acquisto dei cittadini, quindi da una vera e propria recessione del valore nominale nella capacità di acquisto, espressione forse impropria ma reale di una recessione economica. Il tutto frutto di una crescita inferiore persino al tasso di inflazione, quindi essa stessa espressione di una domanda interna e conseguentemente di una frenata anche dell’export.

    La risultante dell’incrocio di questi dati delinea una situazione paradossale se confrontata con le  teorie economiche che negli ultimi anni hanno assunto la centralità della discussione economica e politica italiana.

    Il risultato di tale aumento dell’inflazione superiore al PIL viene determinato dall’importazione dell’inflazione stessa attraverso l’aumento delle materie prime, in particolare i prodotti petroliferi, come delle tariffe pubbliche, soprattutto quelle legate ai servizi offerti dalle aziende partecipate e dagli enti locali, espressione della mancanza di concorrenza ed ancora oggi di rendite di posizione. Come non ricordare la posizione favorevole all’aumento dell’IVA dei ministri Padoan e Calenda i quali si illudevano, attraverso l’impostazione dell’IVA, di ottenere l’obiettivo di ridurre il peso del debito pubblico.

    Un’opinione questa condivisa anche dal presidente della BCE Draghi il quale, nonostante la politica monetaria fortemente espansiva, non riuscì a ottenere un sostanziale aumento dell’inflazione, addirittura dirottando  la speranza nell’aumento del prezzo del greggio e dimostrando, ancora una volta, come tanto i politici italiani quanto i presidenti europei non si siano mai posti il problema di chi avrebbe pagato differenziale tra un aumento del PIL inferiore al tasso di inflazione.

    Dall’altra parte di questa contesa politica ed economica ci sono i sostenitori dell’inflazione legata magari  ad una moneta debole la quale darebbe impulso all’esportazione rendendo competitivi i prodotti italiani. In questo senso ecco allora i sostenitori del ritorno alla liretta, visionari ma soprattutto pericolosi in quanto l’inflazione provoca una sostanziale perdita del potere d’acquisto dei cittadini a reddito fisso e, di conseguenza, la nuova competitività andrebbe tutta a carico dei cittadini stessi. Agli smemorati sostenitori di questa dottrina si ricorda come negli anni ‘70 venne introdotta la scala mobile la quale a sua volta generò  nuova inflazione tanto da dover essere abolita all’inizio degli anni ‘80 per fermare la spirale inflattiva che in pratica impoveriva il ceto medio. Senza dimenticare la problematica relativa al Fiscal Drag, cioè all’aumento del prelievo fiscale allegato all’aumento dei valori nominali delle retribuzioni.

    Per quanto riguarda invece le previsioni del 2019, il grafico nella foto riporta come la nostra decrescita economica risulterà ancora maggiore in quanto il PIL crescerà solo del +1.2% (quindi con un – 0,3% di crescita economica) al quale contemporaneamente seguirà un aumento dell’inflazione pari al +1,4%.

    Il terribile combinato di frenata della crescita del PIL, unito comunque ad una infrazione che risulta superiore dello 0,2% al PIL stesso, determinerà ancora, una volta, una perdita del potere d’acquisto dei cittadini, quindi una ulteriore flessione della domanda interna che rappresenta una delle motivazioni per la quale non si riesce a trovare una crescita stabile dell’economia del nostro Paese.

    Un quadro a dir poco allarmante per non dire disastroso che evidentemente non riesce a suscitare alcuna reazione nel mondo politico come in quello economico, entrambi rivolti verso teorie  e strategie economiche  espressione di un asset economico ormai superato dal mercato globale. Si guarda al passato per non dimostrare l’incapacità di comprendere il presente e di delineare uno scenario futuro.

  • Commissione europea: l’espansione prosegue nonostante nuovi rischi

     L’espansione economica in Europa dovrebbe proseguire a ritmo sostenuto quest’anno e l’anno prossimo, favorendo la creazione di più posti di lavoro. Tuttavia vediamo anche maggiori rischi all’orizzonte. Per questo occorre sfruttare l’attuale congiuntura favorevole per rendere le nostre economie più resilienti. Ciò significa creare riserve di bilancio, riformare le nostre economie per stimolare la produttività e gli investimenti e far sì che il nostro modello di crescita diventi più inclusivo. Inoltre è necessario rafforzare le basi della nostra Unione economica e monetaria”. E’ una dichiarazione di Valdis Dombrovskis, lettone, vice presidente della Commissione europea, responsabile per l’Euro e il dialogo sociale, nonché per la stabilità e i servizi finanziari e l’Unione dei mercati dei capitali. E Pierre Moscovici, francese, Commissario per gli Affari economici e finanziari, la fiscalità e le dogane, ha aggiunto: “L’Europa continua a godere di una crescita sostenuta, che ha contribuito a far scendere la disoccupazione al livello più basso degli ultimi dieci anni. Crescono gli investimenti e migliorano le finanze pubbliche, e il disavanzo nella zona euro dovrebbe scendere ad appena lo 0,7% del PIL quest’anno. In questo scenario roseo il rischio più importante è rappresentato dal protezionismo, che non deve diventare la nuova normalità, poiché non farebbe che danneggiare quella parte dei nostri cittadini che ha più bisogno di essere tutelata”.

    Le due dichiarazioni sintetizzano bene le previsioni economiche di primavera per il 2018, confermando che l’espansione prosegue, nonostante nuovi rischi. I tassi di crescita dell’UE e della zona euro, infatti,  superano le aspettative nel 2017 e si attestano al 2,4%, il livello più elevato degli ultimi 10 anni. La crescita dovrebbe rimanere forte nel 2018 e rallentare solo lievemente nel 2019, con tassi rispettivamente del 2,3% e del 2,0% sia nell’UE che nella zona euro. I consumi privati sono ancora forti e nel contempo le esportazioni e gli investimenti hanno registrato un aumento. La disoccupazione continua a calare e si attesta attualmente attorno ai livelli precedenti alla crisi. Tuttavia l’economia è più esposta a fattori di rischio esterni, che sono divenuti più incisivi e più sfavorevoli. La crescita robusta, tuttavia, favorisce un’ulteriore riduzione dei livelli di disavanzo e di debito pubblico. E’ degno di nota, considerato il dibattito polemico che si svolge anche nel nostro Paese sull’argomento (Fornero si, Fornero no) il miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro. Alla crescita del 2,4% hanno contribuito un elevato livello di fiducia dei consumatori e delle imprese, una crescita globale più forte, bassi costi di finanziamento, bilanci più sani nel settore privato e migliori condizioni del mercato del lavoro. Anche il rallentamento dell’attività evidenziato dagli indicatori congiunturali all’inizio del 2018 dovrebbe essere in parte temporaneo. La disoccupazione continua a calare e si attesta attualmente attorno ai livelli precedenti alla crisi. Nell’UE la disoccupazione dovrebbe continuare a diminuire, passando dal 7,6% nel 2017 al 7,1% nel 2018 e al 6,7% nel 2019. La disoccupazione nella zona euro dovrebbe scendere dal 9,1% nel 2017 all’8,4% nel 2018 e al 7,9% nel 2019. Nel complesso, l’inflazione nella zona euro nel 2018 dovrebbe rimanere invariata rispetto al 2017 (1,5%) per poi salire all’1,6% nel 2019. Nell’UE l’inflazione dovrebbe seguire lo stesso andamento, rimanendo all’1,7% quest’anno per poi salire all’1,8% nel 2019. Migliora la situazione delle finanze pubbliche. Nessun paese, infatti, ha un disavanzo superiore al 3% del PIL, come indicato dal trattato; il che dimostra che una certa disciplina è ormai patrimonio comune, nonostante le polemiche che di tanto in tanto si manifestano da parte di alcuni governi, Si polemizza contro l’austerità, ma poi si comprende che l’allineamento finanziario è un bene necessario e comune. Se le previsioni finanziarie sono favorevole, quelle economiche, invece, lasciano a desiderare. I rischi sono aumentati, con la possibilità di un peggioramento. Inoltre, un aumento del protezionismo commerciale presenta un rischio chiaramente negativo per le prospettive economiche mondiali. A causa della sua apertura, la zona euro sarebbe particolarmente vulnerabile qualora questi rischi si materializzassero. Le previsioni della Commissione riguardano tutti i 28 Stati membri, compreso il Regno Unito. Tuttavia, dati i negoziati in corso sui termini del recesso del Regno Unito dall’UE, le proiezioni della Commissione per il periodo post-Brexit si fondano sull’ipotesi puramente tecnica dello status quo in termini di relazioni commerciali tra l’UE a 27 e il Regno Unito. Si tratta di un’ipotesi adottata unicamente a fini di previsione che non ha alcuna incidenza sui negoziati in corso nell’ambito della procedura prevista dall’articolo 50. Le prossime previsioni della Commissione europea saranno le previsioni economiche intermedie d’estate 2018, pubblicate a luglio.

    Fonte: Comunicato Commissione europea del 3 maggio 2018

  • Il paradigma della crescita

    L’innovazione tecnologica e le sue applicazioni dividono in modo piuttosto netto gli schieramenti tra favorevoli e contrari in relazione agli effetti nella prospettiva di una crescita economica futura, intesa nella sua accezione più ampia e quindi non solo economica ma anche occupazionale. Una divisione che risponde purtroppo  più a logiche politiche e ideologiche che non ad un pensiero economico espressione dell’applicazione di parametri oggettivi .

    I favorevoli alla corrente di pensiero economica, individuabile in “industria 4.0”, e all’innovazione tecnologica nel suo complesso affermano giustamente come questa rappresenti l’unico fattore competitivo applicabile a tutte le imprese nazionali che competono nel mercato globale al netto delle diseconomie nazionali (ogni riferimento alla situazione italiana è voluto). All’interno di questa posizione però non vengono tenuti nella debita considerazione gli effetti sociali che l’applicazione di tale paradigma inevitabilmente concorre a determinare. La digitalizzazione nel mondo industriale infatti comporta, proprio come espressione del fattore competitivo, una minore incidenza della manodopera per milione di fatturato con i bassi tassi di crescita attuali e di conseguenza con una diminuzione dell’occupazione complessiva.

    Viceversa nel settore dei servizi annulla o rende minimale l’intermediazione nella creazione del valore, di conseguenza diminuisce anche in questo settore l’occupazione di fronte ad anni di bassa crescita economica.

    In contrapposizione a queste posizioni la compagine che individua nell’innovazione tecnologica un fattore fortemente negativo (legato sostanzialmente  al calo dell’occupazione) rappresenta una posizione ideologica, più che economica, ancorata ad un concetto di mercato  immobile (una vera e propria contraddizione in termini). Tale radicata convinzione trova la sua massima espressione addirittura nella obsoleta idea di introdurre una tassazione aggiuntiva relativa all’innovazione tecnologica che risultasse destinata ad un fondo per i lavoratori disagiati. Una visione assolutamente antistorica ed anti economica che presenta il doppio svantaggio di aumentare la tassazione e di diminuire la competitività delle imprese che operano nel proprio specifico settore di competenza in un mercato globale caratterizzata da una fortissima concorrenza. Una visione poi che non tiene conto come questa innovazione, nelle sue molteplici applicazioni, rappresenti l’unico fattore reale che possa aumentare la competitività delle imprese italiane di fronte al continuo regresso del livello dei servizi forniti dalla pubblica amministrazione.

    Il voler inserire una nuova tassa sull’innovazione rappresenta una contraddizione culturale ed economica senza precedenti e sostanzialmente dimostra la mancanza di conoscenza delle dinamiche economiche da parte di chi sostiene questa posizione ideologica.

    Entrambi gli schieramenti tuttavia (ed in questo le distanze risultano ben evidente) assumono delle posizioni espressione di parametri ideologici e non economici in quanto la loro contrapposizione risulta frutto più dell’applicazione di visioni politiche e non tanto dell’osservazione dei dati economici che provengono  in quantità notevoli  dal mondo dell’economia reale.

    L’ultima rivelazione statistica realizzata in Germania dimostra come per 767.000 nuovi posti di lavoro oltre centomila (104.000) vengano attribuiti al settore industriale legato alla produzione mentre tutti gli altri appartengano al settore di servizi (247.000 al netto del settore legato al sociale). Questi termini della ricerca o, meglio, della rilevazione statistica, la quale fornisce numeri per l’interpretazione (senza fornirne una propria interpretazione come invece avviene in Italia), apre la possibilità ad un’analisi approfondita in relazione all’individuazione  delle scelte strategiche finalizzate ad uno sviluppo economico nel medio lungo termine.

    I 104.000 nuovi posti di lavoro creati (ma il termine corretto sarebbe ricercati e successivamente ricoperti) nel settore della produzione risultano espressione ma soprattutto essere legati ad una maggiore domanda di beni industriali generale. Questo incremento determina  inevitabilmente l’esigenza di un incremento della capacità produttiva. Sempre a causa di questa maggiore domanda di beni industriali si determina quindi non solo l’aumento di occupazione nel settore della produzione ma, come logica conseguenza, si manifesta anche l’aumento  della richiesta di servizi da parte del sistema industriale stesso e, naturalmente,  si registra un ulteriore aumento dell’occupazione nel settore dei servizi all’industria stessa.

    La tempistica come l’articolazione temporale risultano fondamentali per la comprensione di questi dati che vengono dall’economia tedesca perché è evidente come in un mercato articolato globale e complesso basato sulla concorrenza sia la domanda a determinare l’offerta di beni di servizi o e quindi sia sempre la domanda a determinare gli andamenti relativi all’occupazione.

    Partendo dal presupposto ancora non troppo chiaro al mondo dell’economia italiano ed europeo in particolar modo che tutte le aziende operano all’interno di un mercato “saturo” come quello delle economie occidentali logica conseguenza dimostra come sia la domanda nella sua articolata espressione ad  influenzare l’offerta e non viceversa.

    E’ evidente che il maggiore incremento dei posti di lavoro nel settore dei servizi risulti legato ad un progressivo  aumento della richiesta da parte del settore industriale. Dal momento che l’economia tedesca rappresenta “uno dei  modelli manifatturieri” di maggior successo nel mondo assieme a quello elvetico le classi politica e dirigente italiana dovrebbero finalmente comprendere le regole, come le dinamiche, dello sviluppo che questa ricerca pone in evidenza. I numeri infatti indicano come per ogni posto creato all’interno del settore industriale manifatturiero ne vengono a caduta creati 2,7 nel settore dei servizi come logica conseguenza della maggior domanda di servizi imputabile proprio al settore industriale (94.000 al settore manutenzione, 74.000 logistica, 74.000 formazione).

    Tornando quindi al modello di sviluppo economico  italiano, entrambi gli schieramenti “ciecamente” (che nello specifico potrebbe risultare sinonimo di  “ideologicamente”) favorevoli o contrari all’innovazione e quindi ad “industria 4.0” dimostrano di non aver compreso come la tecnologia porti un valore quando questa venga applicata al settore industriale e manifatturiero il quale a fronte di ricerca ed innovazione nei prodotti per ogni posto di lavoro creato in più ne induce altri 2,7 nel settore dei servizi.

    Questa statistica, che non per caso è espressione della competenza tedesca, ancora una volta pone in rilievo l’importanza e la centralità dell’Industria come volano di creazione di valore non solo economico ma anche occupazionale. L’industria rappresenta il fattore principale nella creazione di sviluppo in quanto risulta l’unico settore che abbia l’effetto moltiplicatore sia valoriale che occupazionale. I dati della ricerca tedesca dimostrano essenzialmente questa verità. Non capirlo rappresenterebbe un errore clamoroso.

    Perfettamente in linea tuttavia con le scelte strategiche passate e odierne della nostra classe politica e dirigente.

  • La Lombardia ha le imprese più solide

    Quando si parla di imprese e di crescita, nell’ultimo decennio, ogni dato è alquanto relativo. Se si fa riferimento ai livelli pre-crisi, si capisce che i dati percentuali positivi sembrano apparentemente irrisori, ma c’è da sottolineare che la situazione in Lombardia è in costante crescita sia nei numeri che nella realtà. Nel secondo trimestre del 2017, le imprese lombarde hanno proseguito il proprio percorso di rafforzamento: le imprese sopravvissute alla crisi sono oggi più solide rispetto allo scorso anno.

    Questo trend viene confermato da un dato ancora più recente: secondo il Cerved Group Score, a settembre 2017 il 61,2% delle imprese lombarde presenta un grado di rischio di default molto basso (area sicurezza) o comunque contenuto (area solvibilità): una percentuale in ulteriore aumento rispetto al 59,8% di settembre 2016. Questo è lo scenario che emerge dalla nuova edizione dell’Osservatorio Credito e rischio delle imprese che tratta il tema “La Lombardia a confronto con Emilia Romagna, Veneto e Piemonte relativo al secondo trimestre 2017”. La Lombardia è al primo posto per la percentuale di upgrade (indice delle imprese che hanno migliorato la propria classe di rischio) pari al 29,1% e la più bassa percentuale di downgrade (imprese che invece hanno peggiorato la propria classe di rischio) pari al 25,7%. A livello settoriale, l’industria risulta essere il settore con una percentuale più alta di imprese in sicurezza mentre le costruzioni sono il settore con più imprese a rischio. Nonostante questi segnali positivi, accompagnati da un ulteriore calo registrato nel numero delle procedure fallimentari (1.327 nel primo semestre 2017, -13,4% rispetto allo stesso periodo del 2016), rimangono indicatori che evidenziano delle difficoltà non del tutto superate. Infatti, sebbene nel secondo trimestre del 2017 l’andamento dei prestiti alle imprese si confermi stabile (230,2 miliardi di euro), se rapportato allo stesso periodo dell’anno precedente mostra una contrazione del -2,1%, con la positiva eccezione del settore industria (+0,5%).
    “Dagli ultimi dati economici – sottolinea Renato Carli, presidente Gruppo Tecnico Credito e Finanza Assolombarda e delegato al Tavolo Banche – emerge un consolidamento dell’economia lombarda. Infatti, la fiducia del manifatturiero sale ai massimi dal pre-crisi a Milano, Lodi, Monza e Brianza; l’export lombardo cresce del +6,8% nel secondo trimestre del 2017 e, nel terzo, il tasso di occupazione sale al 66,7% in Lombardia e, in parallelo, quello di disoccupazione scende al 6,3%. In un contesto così favorevole, i prestiti alle imprese registrano una nuova contrazione del -2,1% del totale economia (industria, servizi e costruzioni), ritardando ulteriormente il recupero dei livelli pre-crisi. Se però guardiamo solo l’industria, la Lombardia risulta l’unica regione con segno positivo in termini di prestiti”.
    “La prima parte dell’anno – commenta Marco Nespolo, amministratore delegato di Cerved – ha visto la conferma e il consolidamento delle tendenze in atto, come la contrazione dei fallimenti, quella delle sofferenze e il rafforzamento dei profili di rischio delle imprese. Oggi la Lombardia è la regione con il tessuto imprenditoriale più solido. Nonostante i segnali positivi che mostrano come le imprese siano sulla strada giusta per capitalizzare ulteriormente l’uscita dalla crisi, alcuni indicatori continuano a mostrare segnali di debolezza”.

    Uno dei dati di maggior rilievo in Lombardia emerge dallo spaccato settoriale: è l’industria che, a differenza degli altri comparti economici, mostra una tendenza positiva (+0,5%) che conferma l’inversione di tendenza già registrata nel trimestre precedente. Restano ancora in territorio negativo i servizi (-0,9%) e le costruzioni (-10,9%), che registrano il calo più deciso degli ultimi anni. Questi dati fotografano una situazione in continua evoluzione, dove la Lombardia fa da traino per l’intero settore, ma resta da valutare una politica di interventi concreti che permetta una crescita più ampia ed organica tale da riuscire a far compiere un definitivo salto di qualità alle imprese italiane.

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