Crisi

  • Le medie imprese battono la crisi e corrono più del Pil

    Le imprese industriali di medie dimensioni si confermano la spina dorsale del capitalismo familiare italiano: hanno risultati decisamente migliori di quelle di grandi dimensioni, sono al passo (se non migliori) delle loro omologhe straniere, e dal 1996 hanno performato decisamente meglio del Pil. Oggi poi, pur avendo di fronte importanti sfide in termini di governance e correlate con gli effetti delle guerra in Ucraina, si stanno aprendo sempre di più al mondo del green e del digitale. E’ quanto emerge dal XXI Rapporto di Unioncamere, Area Studi Mediobanca e Centro Studi Tagliacarne, secondo cui dopo il rimbalzo del fatturato dello scorso anno le prospettive per il giro d’affari delle medie imprese italiane nel 2022 sono molto favorevoli.

    Secondo un indicatore di performance, dal 1996 le medie imprese italiane hanno maturato rispetto al Pil un vantaggio del 34,1%, la maggior parte del quale sviluppato dal 2009. Nel confronto con le grandi imprese manifatturiere, nello stesso periodo, le medie hanno ottenuto una crescita dei ricavi più che doppia (+108,8% contro un +64,4%), centrato un maggiore aumento della produttività (+53% rispetto al +38,6%) e garantito una migliore remunerazione del lavoro (+62,4% le medie, +57% le grandi). Inoltre, i successi sono stati ottenuti con un significativo ampliamento della base occupazionale (+39,8% contro un -12,5%) che ne ha fatto un modello capitalistico inclusivo e partecipativo attraente anche per gli stranieri. La loro produttività è superiore del 21,5% anche a quella delle omologhe tedesche e francesi, un risultato fuori dall’ordinario se si pensa che la nostra manifattura nella sua interezza accusa invece un ritardo del 17,9% rispetto agli stessi Paesi. Non è quindi un caso che negli ultimi 10 anni 210 medie aziende italiane sono state comprate da stranieri.

    Il rapporto osserva che le migliori performance delle imprese medie rispetto alle grandi sono state conseguite anche in un contesto non particolarmente favorevole. Basti pensare al nodo fiscale: il tax rate effettivo delle medie imprese è oggi attorno al 21,5% contro il 17,5% delle grandi e si valuta che se nell’ultimo decennio le medie imprese avessero avuto la medesima pressione fiscale delle grandi avrebbero ottenuto maggiori risorse per 6,5 miliardi di euro.

    Per quello che riguarda i risultati, lo scorso anno hanno conseguito un rimbalzo del fatturato pari al 19% e si attendono prospettive di crescita anche per il 2022 (+6,3%). Più del 60% delle medie imprese, inoltre, intende investire entro il prossimo triennio nelle tecnologie 4.0 e nel green e quel 52% che l’ha già fatto conto di superare i livelli produttivi pre-Covid entro quest’anno. Si tratta nel complesso di un universo di 3.174 imprese leader del cambiamento che, sottolinea lo studio, è pronto a cogliere anche le opportunità di crescita derivanti dal PNRR: il 59% delle medie imprese si è già attivato o si appresta a farlo. Altro aspetto rilevante da tenere in considerazione è che ricchezza e occupazione delle medie imprese sono prodotte prevalentemente in Italia. L’88,2%, infatti, non ha una sede produttiva all’estero e solo il 3% realizza in stabilimenti stranieri oltre il 50% dell’output. Il tema del re-shoring appare quindi di poca rilevanza per queste aziende che, invece, partecipano attivamente alle catene globali del valore: l’88,8% si avvale infatti di fornitori stranieri, ottenendo in media il 25% delle proprie forniture. Inoltre, la quota di vendite destinata all’estero è pari al 43,2% del fatturato.

    Guardando al futuro, tuttavia, le sfide non mancano e una tra tutte, la staffetta generazionale, rischia di rallentarne il cammino: per 1 impresa su 4 infatti il passaggio o non è perfezionato o rappresenta un vero ostacolo.

  • Le vere ragioni dell’inflazione. Il bilancio della Fed è più che raddoppiato in due anni

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 10 giugno 2022

    Che la pandemia e la guerra in Ucraina abbiano causato grandi turbolenze economiche globali non è in discussione. Non è vero, però, che siano le sole cause dell’inflazione nel mondo e dell’incipiente recessione economica. Non si può nascondere sotto il «tappeto» della pandemia e della guerra tutta «l’immondizia speculativa finanziaria» che ci trasciniamo da decenni.

    Anche i recenti avvisi di crisi fatti da alcuni esponenti della finanza non devono trarre in inganno. Jamie Dimon, amministratore delegato di JP Morgan, si aspetta «un uragano economico» provocato dalla riduzione del bilancio della Fed e dalla guerra in Ucraina.

    Lorsignori sono preoccupati della bolla finanziaria che hanno creato più che delle sorti dell’economia. È come il grido di un drogato che non ha più accesso alla droga.

    Basta analizzare il bilancio della Federal Reserve per comprendere meglio il problema. Dai 900 miliardi di dollari precrollo della Lehman Brothers, esso era arrivato a 4.500 miliardi nel 2014. C’è stata un’imponente immissione di liquidità per salvare il sistema. Poi, dall’inizio della pandemia si è passati da 4.100 agli attuali 9.000 miliardi di dollari. Più del doppio in due anni!

    Questo comportamento è stato replicato dalla Bce e dalle altre banche centrali.

    Negli Usa una parte rilevante è andata a sostenere «artificialmente» le quotazioni di Wall Street e i corporate debt, cioè i debiti delle imprese spesso vicini ai livelli «spazzatura».

    A ciò si aggiunga la politica del tasso zero e negativo che ha favorito l’accensione spregiudicata di nuovi debiti, con il rischioso allargamento del cosiddetto «effetto leva», e ha generato titoli, pubblici e privati, per decine di migliaia di miliardi a tasso d’interesse negativo.

    Di fatto la Fed, e in misura minore le altre banche centrali, è diventata una vera «bad bank». L’impennata dell’inflazione ha reso il loro accomodante modus operandi non più sostenibile.

    L’aumento del tasso d’interesse e la riduzione dei quantitative easing stanno facendo saltare il banco.

    Anche la narrazione della crescita dell’inflazione non regge. Non basta sostenere che sia l’effetto degli squilibri generati dalla ripresa economica e dalla guerra. Sarebbe stupido negarne l’effetto. La narrazione, però, fa sempre perno sul meccanismo «imparziale e oggettivo» della domanda e dell’offerta. Cosa che però non si è pienamente manifestata con la diminuzione dei prezzi quando la domanda era scesa all’inizio del Covid.

    Nei mesi della pandemia non c’è stata una smobilitazione industriale mondiale tanto grande da giustificare le forti pulsioni inflattive generate da una modesta ripresa economica e dei consumi. Anche il rallentamento delle «catene di approvvigionamento» è stato esagerato da una certa propaganda interessata.

    Occorre mettere in conto l’effetto dell’enorme liquidità in circolazione e la necessità per il sistema finanziario di generare a tutti i costi dei profitti, anche con la speculazione. Ecco alcuni dati per una più corretta valutazione dell’inflazione.

    Riguardo all’indice dei Global Prices of Agriculture Raw Materials, le derrate alimentari, la Fed di St Louis riporta che mediamente era di 91 punti ad aprile 2020, 114 un anno dopo e 123 ad aprile 2022. Il prezzo del petrolio Wti, che era 18 $ al barile ad aprile 2020, aveva già raggiunto i 65 $ un anno dopo. A maggio 2022 superava i 114 dollari.

    Simili andamenti sono riportati dal Fmi per l’indice delle commodity primarie che sale progressivamente dai 60 punti del 2020 per poi crescere vertiginosamente negli ultimi mesi fino a raggiungere i 150 punti. Evidentemente gli effetti della guerra e delle sanzioni incidono non poco sull’impennata dei prezzi di detti prodotti.

    L’indice dei prezzi dei fertilizzanti della Banca mondiale, che nell’aprile 2020 era 66,24 a dicembre 2021 era esploso a 208,01. L’aumento del 60% negli ultimi due mesi del 2021 ha devastato gli agricoltori di tutto il mondo.

    Ancora una volta la fa da padrone la speculazione. È singolare che si chieda l’immediata sospensione delle attività belliche e non s’intervenga contro la speculazione i cui effetti devastanti si riverberano a livello globale.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La migliore Italia

    In un periodo di crisi completa, assoluta espressione di una sintesi nefasta tra i postumi della pandemia, e del perseverare del covid, e la terribile guerra voluta da Putin ed ancora in assenza di una strategia diplomatica europea la situazione economica volge drammaticamente verso una recessione figlia anche della infantile illusione di una ripresa nel 2021 legata, invece, quasi esclusivamente ai bonus ed alla esplosione della spesa pubblica ben oltre i mille (1.000) miliardi.

    In questo contesto l’Italia, quella vera, cioè del lavoro e delle imprese dalla cui unione nasce la possibilità di creare una vera crescita del Pil, con l’obiettivo di superare l’impasse dell’intero mondo politico italiano, dimostra la propria capacità di reazione alle avversità.

    Questa Italia della concretezza opposta a quella della politica si espone per la sopravvivenza della propria azienda e dei posti di lavoro assicurati sul territorio e dimostra di non attendere le vuote dinamiche politiche, troppo prese dagli accordi di lista in vista delle prossime elezioni di giugno, i cui vertici non si dimostrano neppure in grado di comprendere come senza ordini dei mercati esteri, e quindi anche di quello russo, il fatturato non possa crescere e tanto meno possono venire assicurati i posti di lavoro*.

    La distonia del mondo politico viene poi confermata dalle “iniziative politiche” di alcuni leader privi di un minimo senso del ridicolo e della tempistica i quali blaterano di un necessario aumento delle retribuzioni non ponendosi in alcun modo nell’ottica del primo obiettivo odierno rappresentato dalla sopravvivenza del tessuto industriale minato dalla recessione.

    Questa è la vera ed unica Italia di cui essere fieri, composta da persone intraprendenti e capaci di affrontare anche le terribili conseguenze di una economia di guerra e lontana anni luce dall’imbarazzante atteggiamento della politica ad ogni livello, comunale, regionale e nazionale, la quale sembra giocare anche in questo terribile momento (oltre due anni!) con la sopravvivenza di un sistema economico e quindi con le prospettive di vita dei cittadini solo ed esclusivamente per un vantaggio personale sia esso professionale, economico, narcisistico o ideologico.

    Solo pochi anni fa venni premiato proprio a Fermo, capitale del distretto calzaturiero marchigiano, per la mia attività a favore del Made in Italy, del quale il distretto calzaturiero marchigiano ne rappresenta un valido esempio, e posso assicurare come già dal 2014 questo importante distretto industriale soffrisse gli effetti delle sanzioni nei confronti di uno dei principali mercati di riferimento come la Russia.

    Ora, dopo otto anni di estrema difficoltà, ha deciso invece di reagire per la propria stessa sopravvivenza: a loro dovrebbe andare il più convinto appoggio come a tutte le famiglie il cui futuro dipende dalla continuazione dell’attività produttiva della aziende e dalla decisione degli imprenditori marchigiani di affrontare le conseguenze di una terribile guerra senza attendere i vuoti tempi della politica.

    Questa è l’unica Italia nella quale ci si dovrebbe riconoscere con orgoglio e speranza contrapposta alla mediocrità nella quale siamo immersi.

    *https://www.corriereadriatico.it/fermo/fermo_sfidano_europa_sanzioni_guerra_ucraina_calzaturieri_partono_fiera_mosca_ultime_notizie-6646537.html

  • La Commissione adotta un quadro temporaneo di crisi per sostenere l’economia nel contesto dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia

    Il 23 marzo la Commissione europea ha adottato un quadro temporaneo di crisi per consentire agli Stati membri di avvalersi pienamente della flessibilità prevista dalle norme sugli aiuti di Stato al fine di sostenere l’economia nel contesto dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.

    Il quadro temporaneo di crisi per misure di aiuto di Stato a sostegno dell’economia nel contesto dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, fondato sull’articolo 107, paragrafo 3, lettera b), del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), constata che tutta l’economia dell’UE sta subendo un grave turbamento. Per porre rimedio a questa situazione, il quadro temporaneo prevede tre tipi di aiuti:

    Aiuti di importo limitato: gli Stati membri potranno introdurre regimi per concedere fino a 35 000 € per le imprese colpite dalla crisi che operano nel settore agricolo, della pesca e dell’acquacoltura e fino a 400 000 € per le imprese colpite dalla crisi che operano negli altri settori. Non è necessario che tale aiuto sia collegato a un aumento dei prezzi dell’energia, in quanto la crisi e le misure restrittive nei confronti della Russia colpiscono l’economia in vari modi, ad esempio provocando una perturbazione delle catene di approvvigionamento fisiche. Tale sostegno può essere concesso in qualsiasi forma, comprese le sovvenzioni dirette.

    Sostegno alla liquidità sotto forma di garanzie statali e prestiti agevolati: gli Stati membri potranno fornire i) garanzie statali agevolate per permettere alle banche di continuare a erogare prestiti a tutte le imprese colpite dalla crisi; e ii) prestiti pubblici e privati a tassi di interesse agevolati.

    Gli Stati membri possono concedere garanzie statali o istituire regimi di garanzia a sostegno dei prestiti bancari contratti dalle imprese. Tali garanzie e regimi beneficeranno di premi agevolati caratterizzati da una riduzione rispetto al tasso di mercato stimato per i premi annuali applicati ai nuovi prestiti per le piccole e medie imprese (PMI) e per le altre imprese.

    Gli Stati membri possono autorizzare prestiti pubblici e privati alle imprese con tassi d’interesse agevolati. Tali prestiti devono essere concessi a un tasso d’interesse che sia almeno pari al tasso di base privo di rischio maggiorato dei premi specifici per il rischio di credito applicabili alle PMI e alle altre imprese.

    Per entrambi i tipi di sostegno sono previsti limiti all’importo massimo dei prestiti, che dipendono dalle esigenze operative delle imprese, determinate sulla base del fatturato, dei costi energetici e del fabbisogno di liquidità. I prestiti possono riguardare sia il fabbisogno relativo agli investimenti che quello relativo al capitale di esercizio.

    Aiuti destinati a compensare i prezzi elevati dell’energia: Gli Stati membri potranno compensare parzialmente le imprese, in particolare gli utenti a forte consumo di energia, per i costi aggiuntivi dovuti ad aumenti eccezionali dei prezzi del gas e dell’elettricità. Tale sostegno può essere concesso in qualsiasi forma, comprese le sovvenzioni dirette. L’aiuto complessivo per beneficiario non può superare il 30 % dei costi ammissibili, fino a un massimo di 2 milioni di € in un dato momento. Quando l’impresa subisce perdite di esercizio, possono essere necessari ulteriori aiuti per garantire il proseguimento di un’attività economica. A tal fine gli Stati membri possono concedere aiuti superiori a tali massimali, fino a 25 milioni di € per gli utenti a forte consumo di energia e fino a 50 milioni di € per le imprese attive in settori specifici, quali la produzione di alluminio e di altri metalli, fibre di vetro, pasta di legno, fertilizzanti o idrogeno e molti prodotti chimici di base.

    Il quadro temporaneo di crisi contribuirà a orientare il sostegno all’economia, limitando al contempo l’impatto negativo sulle condizioni di parità nel mercato unico.

    Il quadro prevede pertanto una serie di garanzie:

    metodologia proporzionale: dovrebbe esistere un nesso tra l’importo dell’aiuto che può essere concesso alle imprese e la portata della loro attività economica e dell’esposizione agli effetti economici della crisi, che tenga conto del fatturato e dei costi energetici che devono sostenere;

    condizioni di ammissibilità: la definizione di utenti a forte consumo di energia figura all’articolo 17, paragrafo 1, lettera a), della direttiva sulla tassazione dell’energia, che fa riferimento alle imprese per le quali l’acquisto dei prodotti energetici è pari ad almeno il 3 % del loro valore produttivo;

    requisiti di sostenibilità: quando concedono aiuti per ovviare ai costi aggiuntivi sostenuti a causa dei prezzi eccezionalmente elevati del gas e dell’energia elettrica, gli Stati membri sono invitati a considerare, in modo non discriminatorio, la fissazione di requisiti relativi alla protezione dell’ambiente o alla sicurezza dell’approvvigionamento. Gli aiuti dovrebbero pertanto aiutare le imprese ad affrontare la crisi attuale, ponendo nel contempo le basi per una ripresa sostenibile.

    Il quadro temporaneo di crisi sarà operativo fino al 31 dicembre 2022. Al fine di garantire la certezza del diritto, la Commissione valuterà prima di tale data se il quadro debba essere prorogato. Inoltre durante il periodo di applicazione la Commissione valuterà il contenuto e la portata del quadro alla luce degli sviluppi sui mercati dell’energia, sugli altri mercati dei fattori di produzione e della situazione economica generale.

    Fonte: Commissione europea

  • Afghanistan crisis: Taliban expands ‘food for work’ programme

    The Taliban has said it is expanding its “food for work” programme, in which donated wheat is used to pay tens of thousands of public sector workers.

    It comes as the United Nations (UN) has appealed for $4.4bn (£3.2bn) in humanitarian aid for Afghanistan.

    The UN says the funds are needed this year as more than half the country’s population is in need.

    Afghanistan’s economic and humanitarian crisis has deepened since the Taliban took control in August.

    The Taliban’s latest announcement underlined the financial crisis engulfing the country.

    It could also raise questions among donors over the Taliban using humanitarian aid to fund their government, even as strict rules remain in place over money going into Afghanistan.

    Still, some humanitarian aid has continued after the Taliban takeover as foreign governments attempt to prevent millions of people from starving.

    However, the aid is meant to bypass the Afghan government and is mostly distributed by international organisations.

    Now, wheat which was mostly donated by India to the previous US-backed Afghan government is being used by the Taliban to pay around 40,000 workers 10kg of wheat a day, the country’s agriculture officials said.

    The programme, which had mostly been used to pay labourers in the capital Kabul, will be expanded around the country, they added.

    The Taliban has already taken delivery of 18 tonnes of wheat from Pakistan with a promise of another 37 tonnes and is in talks with India over 55 tonnes more, according to Fazel Bari Fazli, the deputy minister of administration and finance at Afghanistan’s Ministry of Agriculture.

    He did not say how much of the newly-donated wheat may be used to pay workers and how much would be distributed as humanitarian aid.

    In recent months, the country’s finances have been hit hard by a number of major issues such as sanctions being placed on members of the Taliban, the central bank’s assets being frozen, and the suspension of foreign aid, which until last year supported the economy.

    Also on Tuesday, the UN launched an appeal for $4.4bn of humanitarian aid for Afghanistan.

    “We go into 2022 with unprecedented levels of need amongst ordinary women, men and children of Afghanistan. 24.4 million people are in humanitarian need – more than half the population,” the UN Office for the Coordination of Humanitarian Affairs said.

    The UN highlighted that, on top of a series of crises the country has suffered, Afghanistan is now in the midst of one of its worst droughts in decades.

    Meanwhile, the Biden administration said it would provide another $308m in humanitarian assistance to the people of Afghanistan.

    It brings the total amount of US aid for Afghanistan and Afghan refugees in the region to almost $782m since October.

    The White House said the aid was aimed to alleviate suffering caused by the pandemic as well as “drought, malnutrition, and the winter season”.

  • Archegos: un altro fondo a picco

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 22 aprile 2021

    La morte in carcere dello speculatore americano Madoff, non chiude un ciclo. Anzi, il susseguirsi di continui fallimenti e di sconquassi finanziari dimostra che dopo la Grande Crisi non sia cambiato proprio niente. Aveva orchestrato il più grande «schema Ponzi», la piramide finanziaria truffaldina, che pagava i primi investitori con i nuovi capitali raccolti. Un’operazione di almeno 50-60 miliardi di dollari!

    La vicenda di Madoff, con la sua condanna a 150 anni di prigione, sembra la classica esagerazione americana: punire un singolo, con il massimo della pena e della pubblicità mediatica, e lasciare i meccanismi e il potere della finanza pressoché intatti.

    Il più recente caso è quello del fondo hedge Archegos, fondato dallo speculatore Bill Hwang. Com’è noto, i fondi hedge gestiscono i capitali degli investitori con l’intento di evitare loro rischi e volatilità dei titoli. Il problema, però, è come lo fanno.

    Il suo primo fondo, il Tiger Asia Management, fu investito dal crollo della Lehman Brothers. In seguito, fu accusato dalla Security Exchange Commission di insider trading in operazioni di vendita allo scoperto, anche con titoli cinesi. Se la cavò con una multa soft di 44 milioni di dollari. Però, per quattro anni non poté operare sul mercato di Hong Kong.

    Nel 2014 creò l’Archegos Capital Management. Si tratta di un fondo hedge ancora più ristretto e selezionato, un family fund, con cui gestisce i suoi capitali e quelli di pochi altri privilegiati. In questo modo sfugge ai controlli e alla vigilanza delle agenzie preposte. Fa parte, appunto, del cosiddetto shadow banking.

    Lo strumento più spregiudicato di Archegos è stato l’utilizzo della leva finanziaria, il leverage, per avere maggiori disponibilità finanziarie partendo da un piccolo capitale. È arrivato così a gestire tra 50 e 100 miliardi di dollari.

    Nell’operazione sono state coinvolte tutte le maggiori banche mondiali, tra cui la giapponese Nomura, le americane Goldman Sachs e Morgan Stanley, il Credit Suisse, la Deutsche Bank, ecc. Con i prestiti, Hwang ha investito, tra l’altro, in azioni americane e cinesi, dando i titoli in garanzia. L’accordo era che, qualora essi dovessero perdere di valore, le banche creditrici avrebbero potuto chiedere di reintegrare le garanzie, la cosiddetta margin call, o, in ultima istanza, vendere i titoli per contenere le perdite. È esattamente ciò che è successo. Il Credit Suisse, per la seconda volta in poche settimane, avrebbe perso circa 4 miliardi di euro.

    Le banche conoscono perfettamente i giochi, per cui la loro sorpresa non è invocabile. Esse usano, appunto, i cosiddetti fondi hedge, entità autonome e separate dalle stesse banche, per fare delle operazioni molto rischiose e incassare commissioni e guadagni consistenti. In una situazione anomala di tassi bassissimi e anche negativi, quando la leva finanziaria è molto alta, basta un piccolo cambiamento della politica monetaria o uno scossone negativo dei titoli messi a garanzia per far cadere il castello di carte. E i derivati emessi su detti titoli sono, ovviamente, i primi a risentirne.

    Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea nel 2019 il valore nozionale dei derivati finanziari otc ha raggiunto il picco di 640 mila miliardi di dollari. Come abbiamo più volte evidenziato, si tratta di operazioni molto rischiose che sono tenute solitamente fuori dei bilanci delle banche coinvolte e non sottoposti alle regole e alla vigilanza delle autorità preposte. Per esempio, non sono disciplinate dalle cosiddette stanze di compensazione, le clearing house, che garantiscono che le controparti siano in grado di portare a termine i contratti derivati.

    Gli esperti del settore e taluni economisti, anche molto noti, si affrettano sempre ad affermare che dovrebbe essere preso in considerazione il valore lordo di mercato (gross market value), quello che evidenzia il rischio e cosa sarebbe necessario per chiudere i contratti dei derivati in essere in un determinato momento. Naturalmente, si tratta sempre di parecchie migliaia di miliardi di dollari.

    Il caso del recente crac di Archegos dimostra, in verità, il contrario. Esso prova che, in caso di crisi, è il nozionale che entra in gioco. E può creare un enorme effetto valanga difficilmente arrestabile.

    Siamo alle solite. I grandi pescecani della finanza continuano a creare rischi sistemici. Manca, purtroppo, una legislazione stringente e globale.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Il Libano in crisi getta i fiori: nessuno li compra più

    Nel Libano alle prese con la peggiore crisi economica degli ultimi 30 anni, palesatasi prima della pandemia ma acuita dalle ripercussioni delle misure anti-covid, sono ormai poche le famiglie che possono permettersi di acquistare i fiori, un bene di lusso in un contesto di galoppante impoverimento di ampi settori della popolazione.

    Milioni di fiori sono stati gettati nelle immondizie perché non ci sono più clienti locali, si legge oggi sui media di Beirut. “Solo l’anno scorso abbiamo buttato circa 6 milioni di steli”, ha detto Rania Younes, agronoma e da circa 30 anni a capo di una delle più importanti aziende floricole del Libano.

    “A seguito del brutale lockdown totale del marzo 2020 – ha detto citata dal quotidiano L’Orient-Le Jour – mi sono ritrovata uno stock enorme di fiori che bisognava buttare… non potevamo nemmeno distribuirli né offrirli”, ricorda Younes, che gestisce vivai sul Monte Libano, a nord di Beirut.

    I media ricordano che molte aziende e vivai hanno chiuso i battenti, soprattutto perché la crisi in Libano è cominciata a palesarsi in tutta la sua gravità dall’ottobre del 2019, diversi mesi prima lo scoppio della pandemia.

    La lira locale ha perso nell’ultimo anno e mezzo circa il 90% del suo valore e secondo dati dell’Onu aumenta a dismisura e di continuo il numero di libanesi che sono ora sotto la soglia di povertà.

    Negli ultimi giorni si sono registrati nuovi rincari di beni e servizi essenziali come il pane, la farina, la benzina, il gas per uso domestico utilizzato per cucinare, il combustibile per alimentare i generatori di corrente in un contesto di cronica mancanza di elettricità. In questo contesto, pensare di poter acquistare mazzi di fiori appare un lusso. Ecco perché alcune aziende, come quella guidata da Younes, si sono adattate e quest’anno hanno piantato fiori che possono essere essiccati e venduti all’interno di composizioni floreali. Younes non nasconde però l’amarezza e le difficoltà: “Siamo in un Paese dove non si ha più garanzia di vendere ciò che si coltiva… il Libano non si può più permettere di produrre fiori e questo riflette la desolazione che ci circonda”.

  • Per l’indicatore Buffet è di nuovo allarme bolle finanziarie

    Le Borse mondiali rischiano di crollare nei prossimi mesi. Lo indica “l’indicatore Buffett”, che con il 123% ha superato il precedente record del 121% prima dello scoppio della bolla delle dot-com all’inizio degli anni 2000. L’indicatore, dal nome dal suo ideatore, il finanziere americano Warren Buffett, a capo della Berkshire Hathaway, prende in considerazione la capitalizzazione di mercato combinata delle azioni quotate in borsa in tutto il mondo e le divide per il prodotto interno lordo globale. Come riporta Wall Street Italia “il livello elevato raggiunto dall’indicatore riflette anche il fatto che i lockdown legati alla pandemia, le chiusure di attività e le restrizioni sui viaggi hanno depresso la crescita economica. Tutto questo mentre gli interventi dei governi (vedi soprattutto gli Stati Uniti) hanno pompato artificialmente i prezzi delle azioni”.

    Nel 2001, quando lo presentò per la prima volta, Buffet definì l’indicatore, “la migliore misura in grado di valutare dove si trovano i mercati azionari in un dato momento”.

    Secondo alcuni osservatori, l’indice avrebbe però alcuni difetti tra i quali il confronto tra le valutazioni attuali delle azioni con i dati del PIL degli anni precedenti.

    Secondo Goldman Sachs, invece, il rischio non sarebbe imminente, anzi, in un nuovo report intitolato “Bubble Puzzle”, stilato proprio dalla banca americana, e che analizza alcuni esempi storici di bolle finanziarie, da quella dei tulipani del XVII secolo alla crisi dei mutui subprime del 2007, sembra addirittura che i rischi di una bolla imminente sono relativamente bassi.

  • La lira turca va a picco, Erdogan caccia il governatore della Banca centrale

    L’aveva messo a capo della Banca centrale di Turchia neppure un anno e mezzo fa perché seguisse i suoi dettami, abbattendo drasticamente i tassi d’interesse, definiti “la madre e il padre di tutti i mali”. E Murat Uysal, sino ad allora vice del rigorista Murat Cetinkaya, ha eseguito fedelmente. Ma di fronte alla peggiore crisi della lira turca da quando è al potere, Recep Tayyip Erdogan ha fatto fuori anche il suo uomo, ultimo capro espiatorio di un tracollo imputato di volta in volta a complotti internazionali e sabotaggi interni.

    Dall’inizio dell’anno, la divisa di Ankara ha perso circa un terzo del suo valore, toccando i minimi storici contro il dollaro e scavallando nelle scorse ore l’ennesima soglia simbolica delle 10 lire per 1 euro. Una caduta progressiva accelerata dall’ultima riunione di politica monetaria, il mese scorso, che ha lasciato invariato al 10,25% il tasso di riferimento, infliggendo l’ennesimo schiaffo alle attese degli economisti, che puntavano su un credito meno facile in cambio di maggiore stabilità. La situazione si è fatta allarmante, con l’inflazione ufficiale all’11,89% e molte imprese fortemente indebitate in valuta estera a rischio bancarotta. Ma la coperta sempre più corta non ha convinto il presidente turco a rinunciare alla sua campagna contro il “triangolo del diavolo di tassi d’interesse, tassi di cambio e inflazione”. E così dopo appena 16 mesi è arrivato un nuovo ribaltone. Alla guida della Banca centrale andrà il responsabile strategico del budget presidenziale Naci Agbal 52 anni, già ministro delle Finanze tra il 2015 e il 2018. È a lui che Erdogan affida la missione che appare sempre più impossibile di coniugare crescita ed equilibrio finanziario, mentre cresce l’allarme per il deficit delle partite correnti e il crollo delle riserve in valuta forte. Al fianco del presidente resta intoccabile il genero e super-ministro del Tesoro Berat Albayrak, che insiste nel negare ogni difficoltà. Anzi, assicura, la Turchia – dove non c’è mai stato un lockdown totale e un blocco del sistema produttivo – ha già iniziato la ripresa e beneficerà di un vantaggio competitivo dopo la pandemia di Covid-19. Un’ennesima scommessa azzardata con le prossime elezioni nel mirino, previste nel 2023. Ma per il primo test basterà attendere il 19 novembre, con la prima riunione di politica monetaria guidata dal nuovo governatore. I mercati attendono inquieti.

  • Brutto anno per la cosmesi, il fatturato arretra dell’11,6%

    Nel 2019, prima dell’emergenza, la cosmesi Made in Italy aveva raggiunto un fatturato di 12 miliardi di euro. La pandemia avuto un impatto importante su una parte del settore, provocando una flessione del fatturato stimata attorno agli 11,6 punti percentuali. A condizionare questo risultato è stato il mercato interno, che perde il 9,3%, ma soprattutto l’export, che segna un calo del -15%: “con ogni probabilità”, dunque, il 2020 si chiuderà a 10,5 miliardi di euro. A illustrare i numeri del settore è stato il presidente di Cosmetica Italia Riccardo Ancorotti, nel suo discorso introduttivo all’assemblea pubblica ‘Un’industria che fa bene al Paese. La resilienza del comparto cosmetico nazionale: un nuovo paradigma per il rilancio del settore’.

    “Nel leggere questi dati caratterizzati da un segno negativo – ha commentato Ancorotti – dobbiamo innanzitutto comprendere le difficoltà che le nostre aziende hanno affrontato: dal lockdown alla chiusura di molti esercizi distributivi, dalle tensioni sui mercati esteri e nel reperire le materie prime al cambiamento delle abitudini di acquisto”. Per il presidente degli industriali del beauty, tuttavia, “queste stime, fortunatamente ben più contenute rispetto a quanto ci saremmo aspettati solo pochi mesi fa, testimoniano la decisiva capacità di reazione del nostro settore che, in un contesto di crisi, dà prova di solidità, capacità imprenditoriale e resilienza”. Dunque, l’assemblea di quest’anno, per la prima volta trasmessa in streaming, “è ancora più importante, perché vuole segnare, simbolicamente, un nuovo inizio. Siamo pronti per un nuovo Rinascimento. Con responsabilità e con prudenza, ma anche con decisione, ripartiamo”.

    L’industria della bellezza si dice pronta ad affrontare con determinazione le sfide del futuro, come digitalizzazione e e-commerce, ma senza dimenticare l’importanza delle fiere fisiche. “Le ‘fiere smart’ sono una misura ponte in vista della ripartenza delle iniziative in presenza che ci auguriamo possa avvenire nel 2021”, ha auspicato l’ambasciatore Lorenzo Angeloni, direttore generale per la promozione del Sistema Paese Maeci. Sul fronte del sostegno alle imprese, “bene i fondi Simest per l’internazionalizzazione. Le richieste sono state superiori al fondo e adesso noi abbiamo chiesto di continuare a erogarli”, ha commentato il vicepresidente di Confindustria Barbara Beltrame.

    Importanti anche le opportunità offerte dall’economia circolare. Per il presidente di Federchimica Paolo Lamberti, “in Europa con il New Green Deal la sostenibilità sarà centrale nelle strategie delle istituzioni. L’industria chimica e l’industria beauty dimostrano di essere all’avanguardia. Essere sostenibili vuol dire poter offrire occasioni di lavoro qualificato alle nuove generazioni e quindi contribuire allo sviluppo del Paese”.

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