Crisi

  • Far rinascere la speranza delusa e offesa

    La speranza degli infelici rinasce sempre.

    Ignazio Silone

    “L’inferno è lo stato di chi ha cessato di sperare” scriveva tempo fa il noto scrittore scozzese Archibald Joseph Cronin. E proprio un inferno sta diventando, ogni giorno che passa, la situazione in Albania e la vita della maggior parte degli albanesi. Essi si sentono profondamente delusi e offesi da tutti coloro che avrebbero dovuto gestire gli interessi del paese e dei cittadini. Ragion per cui, negli ultimi anni, è cresciuto in modo allarmante il numero degli albanesi che stanno cessando di sperare in un futuro migliore nel loro Paese. Il che li sta spingendo ad una scelta sofferta ma obbligatoria: quella dell’emigrazione. Dagli studi fatti risulterebbe che nel 2018 era circa del 78% il numero dei giovani albanesi che volevano lasciare il paese. Numero che per i primi mesi di quest’anno è ulteriormente aumentato, raggiungendo il livello di circa 84%. Il crescente flusso dei richiedenti asilo e/o di coloro che stanno andando via per una vita migliore si sente anche nelle scuole. Le classi, in tutto il Paese, si stanno chiudendo per mancanza di allievi. Quel flusso si sente ormai sempre più spesso nelle istituzioni pubbliche. Ma si sta sentendo purtroppo anche negli ospedali, con tutte le preoccupanti conseguenze per il futuro. Adesso stanno lasciando il Paese sempre più professionisti, i quali, non avendo diretti problemi di sopravvivenza, si allontanano perché non si sentono sicuri e perché stanno perdendo sempre più la speranza.

    Ed è proprio l’aumento continuo delle richieste d’asilo in diversi paesi europei uno dei più significativi indicatori della grave situazione nella quale si trovano adesso gli albanesi nella loro madrepatria. Realtà che ormai non riescono a nascondere e/o “addolcire” neanche la potente propaganda governativa e i discorsi logorroici del primo ministro. Perché non si possono nascondere e manipolare più i dati eloquenti pubblicati recentemente dalle istituzioni internazionali specializzate, quali l’Eurostat (l’Ufficio statistico dell’Unione europea), l’EASO (European Asylum Support Office – l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo) e la Banca Mondiale. Secondo l’elaborazione comparativa di questi dati risulterebbe che soltanto nei primi sei mesi di quest’anno, richiedendo asilo, hanno lasciato l’Albania mediamente 55 albanesi per ogni 1000 abitanti. Rappresentando così il numero più alto, paragonato con altri paesi che, come valore assoluto, sono tra i primi come richiedenti asilo. Per rendere meglio l’idea della gravità della situazione, sempre secondo i sopracitati dati, nello stesso periodo, i siriani richiedenti asilo sono stati 29 per ogni 1000 abitanti. Poi venivano, rispettivamente, i georgiani, i venezuelani e gli afgani con 15, 10 e 10 richiedenti asilo per ogni 1000 abitanti. Mentre, secondo il numero assoluto degli richiedenti asilo, i primi risultavano i siriani, seguiti dai venezuelani e gli afgani. Gli albanesi erano, comunque, tra i primi cinque. E formalmente in Albania non ci sono guerre e scontri armati come in Siria e in Afganistan!

    Riferendosi alla vissuta realtà quotidiana, risulterebbe sempre più credibile l’idea che, da alcuni anni, si stiano  attuando due diaboliche e complementari strategie in Albania. E tutte e due, come consapevolmente voluto obiettivo finale, cercano di spingere gli albanesi a scappare e chiedere asilo altrove. Si tratta sia della strategia che mira ad impoverire sistematicamente la popolazione, sia di quella che punta ad indebolire il sistema dell’istruzione pubblica. L’autore di queste righe è tra coloro che hanno delle buone ragioni per essere convinti di questo. Gli evidenti risultati e le preoccupanti conseguenze dell’attuazione di queste strategie si possono verificare facilmente. Si tratterebbe di scelte strategiche le quali, a lungo andare, potrebbero portare a gravi sviluppi demografici e allarmanti realtà. Sempre secondo le sopracitate fonti, risulterebbe che la popolazione in Albania stia invecchiando in fretta, mentre il numero delle nascite stia significativamente diminuendo, portando verso lo zero l’incremento naturale della popolazione.

    Nel frattempo, e mentre gli albanesi stanno andando via, recentemente il governo ha presentato una proposta di legge per agevolare le procedure, per i cittadini stranieri, ad avere un passaporto albanese. In questo modo si potrebbe sostituire la mancante manodopera con altri profughi. Tra qualche decina d’anni perciò, malauguratamente, l’Albania potrebbe non essere più il paese dove vivranno gli albanesi, ma altri cittadini venuti da altri paesi. Da lì dove, adesso o negli anni prossimi, altri disperati cittadini scapperanno dalle guerre e da altre carestie.

    Non c’è di meglio, come scelta strategica, come sembrerebbe essere, per annientare una nazione! E non bisogna dimenticare anche che, da alcuni decenni ormai, partendo dall’inizio del secolo passato, ci sono delle dottrine sviluppate da alcuni “strateghi” nei paesi confinanti che puntano proprio a questo. Proprio a questo, e si tratta di fatti di dominio pubblico. In più, e oltre a quelle dottrine, ma sempre puntando allo stesso risultato finale, sembrerebbe siano elaborate anche altre, più recenti. Le cattive lingue, che non smettono mai di borbottare e parlare, dicono convinte che dietro quelle recenti strategie ci sia un multimiliardario e speculatore di borsa di oltreoceano. Le cattive lingue dicono anche che a lui servirebbe l’Albania come paese dove “fare i cavoli suoi”. Secondo le stesse cattive lingue, questo significherebbe riciclare denaro sporco, smistare stupefacenti e altri traffici illeciti e ben altro. Esse sono convinte che si tratti di una strategia per la quale stanno lavorando sia i dirigenti attuali del governo che altre strutture occulte locali e internazionali. Strutture che avrebbero preso tutte le dovute e necessarie misure per garantire che l’attuale stato delle cose continuasse anche dopo eventuali sviluppi politici. Ragion per cui diventa imperativo, dovere civile e patriottico, che tutti i cittadini responsabili e altrettanti rappresentanti politici debbano contrastare, decisi e immediatamente, simili lugubri strategie, sia quelle precedenti che queste recenti. Il tempo, da eterno gentiluomo, dimostrerà cosa accadrà.

    Riferendosi all’attuale situazione in Albania viene naturale la domanda: perché scappano via gli albanesi? L’attuale grave e allarmante situazione in Albania è il diretto risultato e la derivante conseguenza del malgoverno e degli enormi abusi della cosa pubblica. Non poteva portare altrove la connivenza con la criminalità organizzata, la collaborazione occulta con pochi oligarchi avidi e il controllo di quasi tutti i poteri dello Stato.

    La speranza, in una simile realtà, lo potrebbe dare soltanto l’opposizione politica. Una seria e responsabile opposizione però. Ma purtroppo anche l’opposizione ha deluso e offeso tutte le aspettative e le speranze dei cittadini, con le sue ripetute promesse, regolarmente, però, mai mantenute. Soprattutto dal 18 maggio 2017 ad oggi. E così facendo ha “annientato” anche lo spirito di protesta dei cittadini contro il malgoverno e le tante ingiustizie. Il nostro lettore è stato informato a tempo debito anche di tutto ciò.

    Chi scrive queste righe è convinto della gravità della situazione, dovuta al crescente flusso degli albanesi che stanno lasciando la madrepatria, delusi e offesi nelle loro speranze. Egli è convinto però che delle persone responsabili e oneste faranno rinascere la speranza per gli albanesi delusi e offesi. Credendo anche a quanto scriveva Ignazio Silone, e cioè che la speranza degli infelici rinasce sempre.

     

  • La Cina affronta la crescita più lenta in una generazione

    Il secondo trimestre del 2019 ha visto il tasso di crescita della Cina più lento dal 1990. Nei tre mesi fino a giugno, l’economia cinese è cresciuta del 6,2%, anno dopo anno, in gran parte in linea con le previsioni ufficiali. La crescita industriale è proseguita del 6,3%, mentre il commercio al dettaglio è aumentato del 9,8%. La continua crescita è in gran parte determinata da investimenti pubblici, tagli significativi delle imposte e riduzione dei buffer di capitale richiesti dai prestatori cinesi. Questo pacchetto di stimoli cumulativi sembra funzionare, anche nel mezzo della grande guerra commerciale sino-americana e delle esportazioni in declino.

    Tuttavia, secondo l’ufficio di servizi statistici della Cina, l’economia sta affrontando una pressione al ribasso nella seconda metà del 2019. Gli analisti di mercato prevedono un rallentamento del 6-6,1% per il 2019, in calo rispetto a un obiettivo ufficiale del 6,5%. Il rallentamento della crescita nella seconda più grande economia del mondo sta sollevando preoccupazioni per una potenziale ricaduta sull’economia globale. E’ lecito pensare che il governo cinese si a attiverà per introdurre nuove misure di stimolo.

    Prospettando la più lenta crescita economica della Cina, Wang Tao, capo economista di UBS China, ha dichiarato all’emittente pubblica tedesca DW che la crescita rimane in linea con le aspettative, che è soddisfacente dato lo shock esterno, innescato dalla guerra commerciale con gli USA. Considerando l’economia cinese da 13 trilioni di dollari, la crescita del 6,2% contribuisce ancora per un terzo alla crescita globale.

  • En NY: se reúne el GCI sobre Venezuela y del Grupo de Lima

    Los Ministros de Relaciones Exteriores de Canadá, Chile y el Perú, miembros del Grupo de Lima, junto con la Alta Representante de la UE y los Ministros de Relaciones Exteriores de Portugal y Uruguay, miembros del Grupo Internacional de Contacto, se reunieron hoy en las Naciones Unidas, en Nueva York, para abordar la situación de Venezuela.

    La reunión reflejó la decisión de ambos grupos de aumentar los contactos a efectos de contribuir a una solución política, pacífica y democrática a la crisis venezolana. Ellos acordaron que si bien la solución requiere que sea venezolana, el impacto regional de la crisis demanda que la región y la comunidad internacional jueguen un rol más activo en apoyar un pronto retorno de la democracia en Venezuela.

    Ambos grupos confirmaron su compromiso para una transición pacífica dirigida a elecciones libres y justas. A este respecto, expresaron su apoyo a todos los esfuerzos en curso hacia este objetivo. Ellos reiteraron su apoyo a la Asamblea Nacional democráticamente electa y afirmaron la necesidad de restaurar y respetar plenamente sus poderes, así como la liberación de todos los prisioneros políticos.

    Acordaron continuar una estrecha coordinación, incluyendo el acercamiento a otros actores internacionales relevantes. Ambos grupos continuarán asimismo trabajando juntos denunciado las violaciones de derechos humanos en el país, en el marco del Consejo de Derechos Humanos y otros organismos multilaterales.

    El Grupo de Lima y el Grupo Internacional de Contacto coincidieron en la gravedad de la situación humanitaria, incluyendo la crisis migratoria, y se comprometieron a continuar proporcionando asistencia humanitaria a la población venezolana y a los países vecinos afectados, en consonancia con principios internacionalmente aceptados. Expresaron su apoyo a la respuesta coordinada de las Naciones Unidas y subrayaron la necesidad de incrementar el apoyo internacional, garantizando que los agentes humanitarios son capaces de llevar su asistencia sin restricciones ni interferencias

    Por su parte la Alta Representante de la UE y los Ministros de Relaciones Exteriores de Portugal y Uruguay, en representación del Grupo Internacional de Contacto (ICG), reiteraron que se reunieron en Nueva York con los Ministros de Relaciones Exteriores de Canadá, Perú y Chile, en representación del grupo de Lima, para discutir el situación en venezuela. Esto es parte de la decisión del ICG de intensificar el compromiso diplomático con los actores relevantes de la comunidad internacional. Discutieron la situación en Venezuela como parte de la decisión del ICG de intensificar el compromiso diplomático con los actores relevantes comunidad internacional.

    El intercambio fue precedido por una reunión preparatoria entre los miembros del Grupo de Contacto Internacional. También asistió el recientemente nombrado Asesor Especial del Alto Representante para Venezuela, Enrique Iglesias.

    Las discusiones se centraron en los esfuerzos en curso para contribuir a una solución política, pacífica y democrática, a través de elecciones libres y justas; así como en formas de ampliar la asistencia para enfrentar la grave situación humanitaria que afecta a la población venezolana.

    En este sentido, el Alto Representante Mogherini también tuvo una reunión con el Secretario General Adjunto de las Naciones Unidas y el Coordinador de Ayuda de Emergencia, Mark Lowcock.

    El Grupo de Contacto Internacional continuará su divulgación con jugadores internacionales. Un encuentro con la Comunidad del Caribe (Caricom) se llevará a cabo en un futuro próximo.

     

  • Venezuelan scavengers vie with vultures for Brazilian trash

    PACARAIMA, Brazil (Reuters) – Surrounded by vultures perched on trees awaiting their turn, Venezuelan migrants scrape out a living scavenging for metal, plastic, cardboard and food in a Brazilian border town’s rubbish dump.

    Trapped in a wasteland limbo, they barely make enough to feed their families and cannot afford a bus ticket to get away and find regular work in Brazilian cities to the south. They blame leftist President Nicolas Maduro for mismanaging their oil-producing nation’s economy and causing the deep crisis that has driven several million Venezuelans to emigrate across Latin America.

    “I left because I was dying of hunger. We are trying to get ahead looking through this rubbish. Every night I pray to God to take me out of here,” said Rosemary Tovar, a 23-year-old mother from Caracas.

    Tens of thousands of Venezuelans have fled the political and economic upheaval in their country through Pacaraima, the only road crossing to Brazil, overloading social services and causing tension in the northern border state of Roraima. More than 40,000 Venezuelans have swollen the population of state capital Boa Vista by 11 percent, Mayor Tereza Surita told Reuters. The influx has also been a headache for Brazil’s new, far-right government of President Jair Bolsonaro, who has so far resisted U.S. pressure to take a more forceful attitude against Maduro. About 3.7 million people have left Venezuela in recent years, mostly via its western neighbour Colombia, according to the World Bank. A dozen Venezuelans scramble to grab bags of rubbish that tumble from the Pacaraima trash truck twice a day. They then sift through the piles as fetid plumes of smoke rise from the smouldering landfill. Sometimes they scavenge at night using headlamps.

    “We are looking for copper and cans, and hopefully something valuable, even food,” said Astrid Prado, who is eight months pregnant. “My goal is to get out of here. Nobody wants to spend their life going through garbage.”

    Charly Sanchez, 42, arrived in Brazil a year ago and has not been able to get to Boa Vista to get his work papers so that he can find employment.

    “We live off this. We make enough to buy rice, maybe some sausage, but not enough to buy a ticket to Boa Vista,” he said.

    Copper pays best, 13 reais (£2.53) a kilo, but it takes Sanchez a whole week to gather that much “wire by wire.”

    On a lucky day he said he had found a discarded cellphone, but not today. Some spaghetti, a small jar of sugar and a bit of cooking oil was Sanchez’s pickings for the day.

    Samuel Esteban, using a breathing mask for the smoke, stuffed cardboard into a large sack. For 50 kilos he will earn five reais, one third of the minimum monthly wage in Venezuela but just enough to buy a litre of milk in Brazil and some bread.

    Tovar criticized Maduro for denying that Venezuela is facing a humanitarian crisis.

    “He is so wrong. Look at us here in this dump,” she said. “If Maduro does not leave Venezuela, I will never return there.”

  • È un effetto dei tassi a zero

    Pubblichiamo di seguito un articolo di Mario Lettieri* e  Paolo Raimondi** apparso su ItaliaOggi l’1 marzo 2019

    Nonostante i dati statistici indichino una presunta positiva ed effervescente crescita economica e occupazionale americana, non sono pochi gli esperti che paventano nuovi rischi finanziari negli Usa. Lo afferma anche la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea ai suoi più alti livelli.

    Dopo la Grande Crisi del 2007-8, il debito delle imprese, il cosiddetto corporate debt, nel suo insieme è cresciuto enormemente. Si è passati dai 4.900 miliardi di dollari del 2007 ai 9.100 miliardi a fine 2018. Di questi, circa 5 miliardi sono sotto forma di obbligazioni. In aggiunta a ciò, la grande parte di esse, pari a circa 2.300 miliardi, gode di un rating molto basso, la tripla BBB, appena sopra lo status di junk, di obbligazioni spazzatura. Tecnicamente, a questo livello, sono ancora considerate degne d’investimento, anche se devono offrire interessi alti per trovare acquirenti sul mercato. In questa situazione limite gli investitori istituzionali di solito ritengono di tenerle ancora nei loro bilanci.

    Preoccupante è notare che, all’interno della bolla del corporate debt, i prestiti alle imprese già altamente indebitate siano fortemente aumentati, fino a raggiungere un ammontare stimato in 1.300 miliardi di dollari.

    Oggi si teme che anche una limitata recessione economica, provocata, per esempio, dalla tensione sui dazi o da qualche riduzione nella crescita in una parte del globo, possa innescare una grave crisi in questo settore. Di conseguenza, se fosse ulteriormente abbassato il rating, molte imprese dovrebbero pagare interessi ancora più alti e molte altre non avrebbero più accesso al mercato del credito. A quel punto, anche gli investitori istituzionali dovrebbero disfarsi di detti bond, determinando un’esacerbazione della dinamica recessiva.

    Questa situazione è stata resa possibile dal lungo periodo di tassi vicini allo zero, che hanno convinto molti ad avventurarsi in zone di maggiore rischio. I tassi bassi hanno anche spinto le corporation americane a chiedere grandi prestiti che sono stati utilizzati per riacquistare le proprie azioni sul mercato. Ciò ha contribuito al boom delle quotazioni di Wall Street e, di conseguenza, ha giustificato anche la distribuzione di lauti dividendi.

    Chiaramente il problema non è limitato agli Usa. Anche in Cina il corporate debt è esploso in modo prepotente e potrebbe presto presentare il conto. Lo stesso dicasi per l’Europa dove è cresciuto fortemente, anche se in quantità inferiore di quello americano.

    Il problema vero è che il livello del debito, che è stato al centro della crisi finanziaria, è cresciuto. Secondo la Bri, il debito globale, quello privato, quello dei governi e quello delle imprese non finanziarie, nel 2007 era pari al 210% del pil, oggi supera il 240%.

    Basilea afferma che la politica monetaria espansiva è stata necessaria per portare le economie dei maggiori paesi industrializzati fuori dalla crisi. Adesso però le banche centrali, in caso di un peggioramento della situazione economica, avrebbero pochi strumenti d’intervento. In particolare esse temono la crescita dell’inflazione. Per contenerla si dovrebbe aumentare i tassi d’interesse, mandando, però, in tilt un sistema economico già molto stressato, in particolare il settore delle corporate bond.

    La Bri reputa che un salvataggio da parte delle banche centrali potrebbe non essere sufficiente poiché negli ultimi 40 anni sono cambiati drasticamente i parametri di intervento. Oggi le cause di una recessione sono più legate al settore finanziario, in particolare quando esso si rende protagonista di un’espansione non sostenibile. Qualora vi fosse un aumento dell’inflazione, le banche centrali dovrebbero mettere dei freni alla politica monetaria, proprio mentre il settore finanziario si sta indebolendo. A quel punto, l’effetto sul debito globale sarebbe difficilmente gestibile. Molti temono, quindi, il rischio di un crac. Secondo la Bri neanche un eventuale crac risolverebbe il problema perché provocherebbe un automatico successivo aumento del debito.

    Per l’istituto di Basilea vi sarebbero solo tre modi per ridurre il debito. Il primo sarebbe di favorire la crescita dell’inflazione mantenendo i bassi i tassi d’interesse, svalutando così anche il valore del debito. Però, la storia ci insegna che tale processo porta a un crollo della crescita economica. Il secondo è la ristrutturazione del debito, cosa che comporterebbe dei sacrifici per gli investitori-possessori dello stesso. Il terzo e unico modo positivo è il sostegno dei settori dell’economia reale che fa aumentare la ricchezza prodotta e diminuire il rapporto debito/pil.

    Non ci riteniamo di parte, ma è auspicabile che dalle prossime elezioni europee esca una governance più consapevole di dover superare la politica di austerità e sostenere, invece, investimenti e attuare anche una guida fiscale ed economica unica e autorevole.

    Si tratta di una prospettiva tanto semplice quanto razionale. Purtroppo, però, per quanto ci riguarda in Europa continua a dominare la politica ossessiva dell’austerità prima di tutto. È sorprendente e poco incoraggiante vedere ancora una volta che certi banchieri siano più consapevoli dei governi.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Il debito Usa più che raddoppiato

    Il decennale anniversario del fallimento della banca d’affari americana Lehman Brothers, che ha dato il via alla più grande crisi finanziaria ed economica della storia, è appena stato celebrato come un semplice «fatto del passato». Per molti è un evento da dimenticare, per alcuni qualcosa su cui riflettere e da cui imparare.

    Secondo noi, invece, dovrebbe essere il momento per guardare con maggiore attenzione alla realtà odierna. Sono troppi i segnali, purtroppo ignorati nelle sedi competenti, dei crescenti rischi di una nuova e più grave crisi globale. E che proprio ieri sono esplosi un po’ ovunque nel mondo. Non si tratta di pessimismo. Occorre avere la lucidità di capire quanto sta accadendo e la volontà di non ripetere gli stessi errori di omissione del passato. L’attenta e precisa analisi del The New York Post, pubblicata il 23 settembre scorso, ci rivela che il debito aggregato mondiale ha raggiunto la vetta di 247 mila miliardi di dollari. Nel 2008 era di 177 miliardi di dollari. Già il titolo dell’importante giornale è eloquente e preoccupante: «Ci potrebbe essere un crac finanziario prima della fine del mandato di Trump».

    L’analisi evidenzia in particolare la situazione degli Usa. In dieci anni il debito pubblico americano è più che raddoppiato. Ha raggiunto il picco di 21 mila miliardi e potrebbe determinare una brusca frenata dell’attuale pretesa ripresa economica. Secondo il Congressional Budget Office, quest’anno Washington dovrà sborsare 390 miliardi di dollari soltanto per pagare gli interessi sul debito pubblico. Si stima che in un decennio tale quota annuale potrebbe essere di 900 miliardi di dollari, superando l’enorme budget militare. Il debito delle famiglie americane ha raggiunto i 13.300 miliardi di dollari. Ciò è dovuto al fatto che le ipoteche immobiliari sono pari a 9.000 miliardi, superando il livello del 2008.

    I debiti fatti per finanziare i prestiti agli studenti sono passati dai 611 miliardi del 2008 ai 1.500 di oggi. Quelli per l’acquisto di auto sono cresciuti moltissimo fino a 1.250 miliardi. Anche il debito totale sulle carte di credito è ritornato ai livelli di dieci anni fa. Si teme che il finanziamento dei prestiti per gli studenti, che in tre anni dovrebbero raggiungere i 2.000 miliardi di dollari, possa diventare il detonatore della prossima crisi. Si ricordi che la bolla dei mutui subprime, che fu una delle principali cause del crac, nel marzo 2007 era pari a circa 1.300 miliardi di dollari.

    L’aumento del debito aggregato negli Usa è l’inevitabile conseguenza della politica dei tassi d’interesse zero e dell’immissione di massiccia liquidità attraverso il quantitative easing. Adesso la Federal Reserve sta cambiando rotta e aumenta i tassi. Occorrerà vedere gli effetti sul mercato azionario di Wall Street, che è nel frattempo cresciuto a dismisura. Anche nelle economie emergenti gli effetti sono, purtroppo, già visibili e hanno generato fughe di capitali che stanno destabilizzando vari paesi, tra cui l’Argentina, l’Indonesia e la Turchia.

    Anche lo shadow banking è cresciuto enormemente: si è passati dai 28mila miliardi del 2010 ai 45mila di oggi. Sheila Bair, ex presidente della Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’importantissima agenzia governativa che fornisce la garanzia pubblica ai risparmi dei cittadini, torna a paventare rischi di nuove crisi. «Siamo in una bolla», e aggiunge che in una tale situazione è assurdo che le regole e i requisiti di capitale delle banche siano stati annacquati. Non è vero, afferma, che le bolle sono riconoscibili soltanto in retrospettiva, cioè dopo che sono scoppiate. Non è possibile indicare solo il momento dello scoppio. Ma la politica della Fed ha fatto di tutto per sostenere la crescita della bolla finanziaria. Altri moniti sono venuti da ex capi di governo, come l’inglese Gordon Brown, al potere a Londra allo scoppio della grande crisi, che evidenziano che si sta camminando ciecamente verso un futuro crac. Anche Jean-Claude Trichet, governatore della Bce dal 2003 al 2011, vede nella crescita del debito il pericolo di una nuova grande crisi.

    Ancora una volta riteniamo che non si possa sfuggire all’impellente necessità di sedersi intorno al tavolo per definire una nuova Bretton Woods, una nuova architettura condivisa che regoli il sistema economico, finanziario e monetario internazionale

    *già sottosegretario all’Economia **economista

    Da ItaliaOggi del 13 ottobre 2018

  • Un debito insostenibile e il rischio di un nuovo crac finanziario

    William White, ex capo economista della Banca per i Regolamenti Internazionali (BRI) ha dichiarato al settimanale Der Spiegel del 7 settembre scorso che “il problema di fondo della crisi della Lehman Brothers (la più grossa banca d’affari degli Stati Uniti che dichiarò bancarotta il 15 settembre 2008 scatenando la crisi finanziaria non ancora risolta del tutto) non è mai stato affrontato. Al contrario – afferma White – è stato esacerbato e il debito è più alto che mai” ed il sistema finanziario “è giunto al limite”. Affermazioni gravi, se corrispondono al vero, che dovrebbero impensierire i politici di ogni colore. Allo scoppio della crisi del 2007/2008 tutti gli esperti hanno dichiarato che quel che stava accadendo era causato dal sistema finanziario esistente. La crisi è sistemica – dicevano – non congiunturale e momentanea. Ma tutti gli espedienti utilizzati per far fronte alla crisi non hanno mai intaccato il sistema, non lo hanno mai riformato, come inizialmente gli esperti chiedevano. Anzi, le banche speculative, invece, non solo furono salvate, ma fu loro permesso di riscrivere le regole. Bilioni di denaro a costo zero sono stati regalati alle banche e alle istituzioni finanziarie ombra, sotto l’egida del “Quantitative Easing” e questi soldi sono andati ai mercati azionari, producendo una finta ripresa e rilanciando lo smercio dei derivati. L’effetto è stato che il volume di debito a bassa qualità dei Paesi emergenti, come pure il debito sovrano di molti Paesi transatlantici, unito al livello insostenibile raggiunto dal debito societario, dal debito privato (carte di credito), dai prestiti studenteschi e via dicendo, ha raggiunto livelli pericolosi. In effetti le economie emergenti sono oggi esposte per oltre 8.000 miliardi di dollari di debito sovrano e societario, 249 miliardi dei quali scadranno l’anno prossimo. L’aumento dei tassi d’interesse e un dollaro più forte rendono più costosi i rimborsi, con la conseguenza che si va verso l’insolvenza. Ancora più esposto è il debito societario americano. Nel 2007 gli USA avevano 17.700 miliardi di dollari di debito societario. Oggi quel dato è 15.900 miliardi, gran parte del quale di bassa qualità, inclusi i cosiddetti titoli spazzatura. Nel 2008 furono emesse obbligazioni societarie per 700 miliardi di dollari. Questa cifra è aumentata di 2,5 volte nel 2017, con un’afta percentuale di debito sub-prime. Raghuram Rajan, ex capo economista del Fondo monetario internazionale, ha messo in guardia dall’effetto domino che potrebbe essere scatenato da un default, e sottolineando che il settore più a rischio della finanza consiste oggi nel “sistema bancario ombra” in cui non v’è trasparenza. Nonostante le rassicurazioni di politici e istituzioni finanziarie, il sistema bancario non è affatto più forte rispetto al crac del 2008. Gran parte del debito creato dalle banche centrali per stimolare la ripresa, è di dubbia qualità e i piani di riduzione della leva finanziaria ideati dalle banche centrali, insieme all’aumento dei tassi d’interesse in corso o in programma, aumenteranno la volatilità fino a raggiungere un punto pericoloso. Non c’è alcun dubbio: il rischio che si corre è dato da un debito insostenibile, che minaccia di scatenare il prossimo crac finanziario. Per evitarlo, c’è chi propone di ripristinare la legge Glass-Steagall, cioè la netta separazione tra banche d’affari e banche ordinarie, costringendo le prime ad accollarsi le perdite aggiustando il valore dei derivati ai prezzi reali e tutelando invece le banche ordinarie e i risparmiatori. L’appello più importante è contenuto in un “libro bianco” pubblicato dall’associazione nazionale delle banche cooperative, la National Association of Federally Insured Credit Unions (NAFCU), dal titolo Modernizing Financial Services: The Glass Steagall Act Revisited (“Ammodernare i servizi finanziari: il Glass Steagall Act rivisitato”), seguito da un editoriale su The Hill dell’11 settembre a firma di Carrie Hunt, vicepresidente esecutiva e consulente legale dell’associazione. Anche se sottovaluta il pericolo di un crac finanziario oggi, la Hunt fa notare che il ripristino della legge Glass-Steagall contribuirebbe a tutelare i consumatori dagli effetti di “un’assunzione di rischi sfrenata ed eccessiva” e impedirebbe che le banche cosiddette “too big to fail” (troppo grandi per esser lasciate fallire) dovessero essere sovvenzionate dai contribuenti. Appelli simili sono stati lanciati in Germania. E in Italia?

    Fonte: Agenzia EIR Strategic Alert n. 38 del 18.09.18

  • Chi ritiene negativa la globalizzazione si goda lo spettacolo della Turchia

    Di seguito l’analisi che il giurista Sabino Cassese ha pubblicato sul Corriere della Sera alcuni giorni fa per spiegare perché il sovranismo non possa pretendere di sconfiggere la globalizzazione e possa solo rappresentare un problema, come dimostra la Turchia, non solo per i Paesi i cui governi scelgono quella via ma anche per chi a quei governi non soggiace e non li ha eletti.

    ‘Perché Erdogan è messo in difficoltà dalla crisi che ha quasi dimezzato il valore di scambio della lira turca? A quale titolo l’Unione Europea ha stabilito nel 2014, e successivamente ampliato, sanzioni contro la Russia? Perché Polonia e Ungheria debbono dar conto all’Unione Europea delle loro leggi sull’ordinamento giudiziario? Perché l’Italia deve sottostare ai criteri dell’Unione Europea sul deficit e sul debito pubblico? Questi vincoli hanno origini e ragioni diverse e discendono da fonti diverse, da regole del diritto internazionale, da accordi tra Stati, dai mercati.

    L’Unione Europea ha un accordo di associazione e uno di libero scambio con l’Ucraina e ha introdotto sanzioni (restrizioni economiche e individuali) contro la Russia, colpevole di aver annesso illegalmente la Crimea e di aver destabilizzato l’Ucraina. Vuole, quindi, punire una evidente violazione del diritto internazionale. I mercati (risparmiatori e investitori, possessori di lire turche) hanno scarsa fiducia sia nei programmi politici ed economici del governo turco, sia nella qualità dell’«équipe» che li gestisce. Chi possiede una valuta vuole aver assicurazioni sull’affidamento che dà l’emittente.

    I Paesi membri dell’Unione hanno sottoscritto trattati in cui si impegnano a rispettare alcuni principi giuridici (indipendenza dei giudici) ed economici (equilibrio di finanza pubblica.

    Essi debbono quindi dar conto all’Unione del rispetto di tali principi, se limitano l’indipendenza dei giudici o hanno un alto debito pubblico con bassa crescita economica (lo spread sale e la borsa scende).

    Pur provenendo da fonti diverse, questi vincoli hanno un tratto in comune. Discendono dalla interdipendenza che lega gli Stati nel mondo. Essi non sono più isole separate. Si influenzano reciprocamente. Le sorti dell’uno sono legate alle sorti dell’altro. Un vicino aggressivo può domani essere un pericolo. La politica economica allegra di un «partner» deve preoccupare gli Stati che sono associati ad esso. A dispetto dei «sovranisti», quindi, gli Stati non sono interamente sovrani, devono godere anche della fiducia dei propri vicini e dei mercati. Quelli che chiamiamo mercati sono anche loro, in ultima istanza, composti di risparmiatori-investitori, quindi di «popolo». Se, per un verso, gli Stati controllano i mercati, per altro verso sono i mercati a controllare gli Stati. Tra gli studiosi della globalizzazione, questa viene chiamata «horizontal accountability», per dire che i governi non debbono rispondere solo ai propri elettorati, ma anche, orizzontalmente, ad altri governi e ad altri popoli. Non basta godere della fiducia dei propri elettorati, bisogna anche rassicurare i mercati e dare affidamento ai propri vicini. È bene che questo accada? Se le sorti sono comuni, se la crisi di un Paese può trascinare altri nella caduta, è certamente utile che tutti vengano richiamati al rispetto delle regole condivise. I «sovranisti» lamenteranno l’invasione di altri protagonisti nella vita degli Stati, una diminuzione dei poteri del popolo. Ma questo perché hanno un concetto troppo elementare della democrazia, intesa come un rapporto esclusivo, stretto soltanto tra un popolo e il suo governo’.

  • Il deficit durevole, la fiscalità e l’evasione

    E’ opinione comune che il deficit sia la conseguenza dell’evasione fiscale. Combattere quest’ultima con tutti i mezzi corrisponderebbe a eliminare il deficit con le entrate ricavate dalla frode. E’ un leitmotiv corrente. Non c’è opposizione che non imputi alla maggioranza governativa la responsabilità di non contrastare convenientemente l’evasione. Contrasto che va effettuato non solo per il rispetto della legge, ma soprattutto per eliminare il deficit. Ebbene, questa credenza è falsa – afferma Nicolas Marques, ricercatore associato dell’Istituto economico Molinari di Parigi, in un articolo pubblicato il 9 maggio su “La Tribune” e che riproduciamo. “Una pressione fiscale più misurata e un’economia più sviluppata” sarebbe la ricetta migliore per eliminare il deficit.

    La fraude fiscale en France est estimée à 60 milliards d’euros, l’exact montant du déficit public. Pour certains, c’est simple il suffirait de renforcer la lutte contre la fraude pour faire disparaître le déficit. Une évidence qui est loin d’être une solution, au contraire.

    Il existe une croyance répandue. En France, la persistance des déficits s’expliquerait pour partie par la fraude fiscale. Sans rien changer à nos habitudes, nous pourrions assainir nos comptes. Il est vrai que les ordres de grandeur semblent correspondre : plus de 60 milliards pour la fraude fiscale selon certaines estimations, pour un déficit public de 60 milliards l’an passé. Mais peut-on vraiment en conclure que faire disparaître la fraude fiscale ramènerait les finances publiques à l’équilibre ? Certainement pas.

    Un sophisme

    On sait que plus la fiscalité est significative, plus la fraude est tentante. En France, les recettes des administrations publiques représentent 53,9% du PIB, le record de l’Union européenne. Prétendre résorber les déficits (2,6% du PIB) en réduisant d’autant la fraude relève du sophisme pour toute une série de raisons. D’une part, les comportements individuels ne vont pas changer du jour au lendemain. D’autre part, la lutte contre la fraude est coûteuse. Mais surtout, l’espoir de réduire significativement la fraude sans obérer l’activité économique est illusoire. Les dépenses collectives à financer sont très significatives (56,5% du PIB). Très peu de pays ont réussi à atteindre un tel niveau de recettes publiques au cours des dernières années. Seules la Suède (1996 à 2000), l’Islande (2016), ou la Norvège (2005 à 2008) l’ont fait sur des périodes de temps très restreintes. On sait que ces niveaux de recettes publiques, associés à des prélèvements obligatoires massifs, découragent l’activité et affaiblissent significativement le développement économique à long terme.

    Des effets pervers de deux ordres

    Penser qu’on pourrait atteindre ces niveaux sur la longue période en France relève de la pure croyance et génère des effets pervers de deux ordres. A court terme, cela nous conduit à relativiser l’importance d’un rééquilibrage des comptes publics articulé autour d’une baisse des dépenses, contrairement à ce qui a réussi chez nos voisins. A long terme, cela nourrit un débat politique construit autour d’une alternative caricaturale et anxiogène pour l’opinion publique : accepter de maintenir la pression fiscale à des niveaux très élevés ou se résoudre à une remise en cause du « modèle social » français.

    Or, les comparaisons avec nos voisins montrent que l’enjeu est différent. Elles attestent qu’il est possible de financer un niveau significatif de dépenses publiques (19.300 euros par habitant en France) sans multiplier les déficits (900 euros par habitant en France). L’Autriche ou la Belgique ont des dépenses publiques supérieures aux nôtres (de l’ordre de 21.000 euros par habitant) avec des déficits moindres (de l’ordre de 300 euros par personne). Le Danemark et la Suède ont des dépenses collectives bien supérieures (de l’ordre de 25.000 euros par habitant) avec des excédents (500 euros par personne ou plus). Ces pays financent des dépenses publiques significatives, avec des déficits moindres ou inexistants. Leur recette : une pression fiscale plus mesurée et une économie plus développée. L’écart de production de richesse par habitant est conséquent, il va de 4.400 euros par an en faveur de nos voisins Belges à 15.900 euros en faveur des Danois.

    Des contextes plus favorables à la création de richesses

    Ces écarts ne sont pas le fruit du hasard. Ils découlent de contextes plus favorables à la création de richesses et à la préservation des patrimoines. Ces approches pragmatiques, loin de profiter à une minorité nantie, irriguent en profondeur ces sociétés caractérisées par plus de libertés économiques et des prélèvements obligatoires plus cléments.

    Aussi, au lieu de rester dans le déni et de continuer à tabler sur une hypothétique réduction des déficits lié à une augmentation de la pression fiscale, nous gagnerions à nous inspirer de ces voisins. Ils ont compris qu’une fiscalité trop élevée nuisait à l’activité et fragilisait le financement des dépenses collectives. Cela leur a permis de mieux développer leurs économies et donc de financer des niveaux significatifs de dépenses publiques, sans multiplier les dettes. Pour les Français, souvent enclins à penser l’économie comme un jeu d’antagonismes, l’enjeu est de taille. Il est temps d’accepter qu’un enrichissement significatif est le préalable à tout développement soutenable de la dépense publique. Il y a 350 ans, Jean de la Fontaine nous y invitait déjà, en s’élevant contre ceux qui, sacrifiant la Poule aux œufs d’or, transformaient la richesse en pauvreté.

     

  • Il Bail in e i Mrel: il fattore temporale

    Nella primavera del 2015, gentilmente ospitato da Il Gazzettino, scrissi un breve intervento relativo ai pericoli per i piccoli risparmiatori che la legge in via di approvazione al Parlamento Europeo, conosciuta col nome di “bail-in”, avrebbe comportato. Ricordo perfettamente che il mio intervento fu oggetto di scherno da parte di molti dirigenti delle banche e persino dei sindacati i quali affermavano come non avessi compreso il contenuto della nuova normativa e che mai si sarebbero potuti coinvolgere i correntisti con depositi superiori ai 100.000 euro come i titolari di obbligazioni nel rischio d’impresa allegato ad un default di un istituto bancario.

    La storia poi ha insegnato come quella legge venne approvata con l’obiettivo di evitare l’intervento degli Stati sovrani, quindi attraverso il ricorso alle finanze pubbliche per risanare un istituto bancario in difficoltà ma solo coinvolgendo così clienti correntisti  e titolari di obbligazioni.

    Questa nuova normativa entrò in vigore successivamente ai pesanti interventi statali della Francia e della Germania le quali elargirono la prima alla BNL Paribas 92 miliardi di risorse pubbliche in quanto incagliata nei fondi subprime statunitensi mentre la seconda utilizzò sempre risorse pubbliche per riportare in equilibrio finanziario le Casse di Risparmio tedesche.

    La vicenda della approvazione  della legge che introduceva il Bail in dimostra essenzialmente quale sia il livello di preparazione della nostra classe dirigente e dei parlamentari italiani all’europarlamento i quali non capiscono, non conoscono e non hanno le competenze minime per valutare e comprendere gli effetti dell’approvazione di una legge tanto rivoluzionaria nel campo del risparmio. Un cambiamento epocale e portatore peraltro di un effetto immediato relativo al rapporto fiduciario tra risparmiatore ed istituto bancario. Senza poi dimenticare come le aziende debbano così aggiungere al rischio d’impresa legato alla propria attività anche quello bancario relativo ad un possibile dafault finanziario dell’istituto presso il quale si utilizzano i conti di servizio. Sembra paradossale come ora questo medesimo scenario proponga gli stessi protagonisti per quanto riguarda lo scenario europeo i quali, nel versante italiano (dove prende forma la nuova compagine governativa uscita dalle ultime elezioni), sono entrambi protagonisti di una situazione essenzialmente molto simile, sia nello svolgimento che negli effetti disastrosi, di quella relativa alla gestazione del Bail–in.

    Il Bail in, va ricordato, rappresenta ancora oggi un’anomalia economica e giuridica in quanto attraverso una norma europea vengono sostanzialmente modificati la forma ed il contenuto  dei  contratti per gli obbligazionisti e titolari di conti correnti sopra i 100.000 euro: da semplici contratti di servizio a veri e propri contratti di sottoscrizione di rischio. Una trasformazione che porta con se l’effetto paradossale che rispetto agli azionisti (quindi i veri sottoscrittori dei titoli di rischio) costoro non possano neppure intervenire all’interno della gestione come della scelta del management dell’istituto bancario stesso rispetto ad un azionista. In altre parole il cambiamento radicale del contratto rappresenta ancora oggi una violazione dei diritti dei consumatori i quali dovevano venire informati della modifica relativa alla tipologia di contratto ed eventualmente avere la possibilità di sottoscriverlo o meno. La rescissione del contratto rappresenta cioè una garanzia per i contraenti la quale nel caso specifico non viene neppure presa in considerazione da parte dell’autorità europea.

    Ora, in considerazione del nuovo programma del governo entrante, si intende modificare la struttura normativa del Bail in, dimenticando, tra l’altro, come le normative europee abbiano una forza di legge superiore rispetto a quelle nazionali, come le norme di ogni singolo Stato membro.

     

    Tornando invece ad uno scenario prossimo futuro, esattamente come nel 2015 questa ipotesi di modifica normativa viene presa in considerazione senza che la classe politica italiana, e ancor peggio la prossima classe governativa, valuti il significato e soprattutto il contenuto delle prossime scelte strategiche della BCE in relazione all’introduzione del Mrel (Minimum Requirement for own founds and eligible Liabilities). E’evidente come la BCE tema una grande e prossima situazione di default finanziario del sistema bancario nazionale ed internazionale. Partendo da una simile considerazione e mossa da tale timore intende obbligare tutti gli Istituti bancari ad emettere un titolo obbligazionario (il Mrel appunto) che possa venire incluso nella sottoscrizione dei rischi in caso di default per un valore pari al 8% del patrimonio generale. Quindi un titolo di risparmio da proporre anche alla clientela privata ma che rientri anche tra i titoli sottoposti al rischio d’impresa. Quindi, esattamente come nel 2015, “a loro insaputa”, i parlamentari italiani presenti all’interno del Parlamento Europeo assistono all’introduzione di una nuova normativa relativa al settore bancario senza valutarne gli effetti. Sempre “a loro insaputa” i prossimi governanti intendono cambiare una legge come quella del Bail–in, mentre il contesto relativo ai default bancari attraverso la BCE e la nuova introduzione del Mrel sta assumendo connotati decisamente più impegnativi e complessi.

    L’allargamento dei sottoscrittori di titoli di risparmio nel caso di un default finanziario offre l’immagine ma soprattutto la sostanza di una autorità finanziaria europea la quale opera al fine di allargare la platea di risparmiatori “responsabili” soprattutto attraverso i propri titoli, allargando così la platea dei sottoscrittori del rischio bancario ben oltre i singoli azionisti.

    Va ricordato come i Mrel vengano considerati, dalla autorità monetaria europea, il completamento di un quadro normativo iniziato con il Bail-in.

    Sembra incredibile come nella scena economica italiana la tempistica non venga considerata fondamentale nella elaborazione e preparazione dei piani strategici economici e normativi di sviluppo. Valutare le dinamiche economiche e finanziarie indipendentemente dal fattore temporale equivale a non comprenderle.

     

Pulsante per tornare all'inizio