cura

  • La pet therapy entra nelle RSA

    Tutti i cani sono i benvenuti negli spazi comuni delle strutture socio-sanitarie Korian Italia, leader nei servizi dalla prevenzione alla cura. Il progetto si inserisce nel più ampio percorso con gli animali che Korian dal 2015 ha attivato con un Dog Camp nella residenza Heliopolis di Binasco dove, dallo scorso anno, educatori cinofili, istruttori, addestratori, dog sitter, operatori Pet Therapy dell’associazione P.E.T.S., oltre a offrire i propri corsi e un servizio di Dog Sitting, danno vita anche a una serie di eventi cinofili dedicati agli ospiti.

    La pet therapy, integrata a supporto delle terapie tradizionali, porta numerosi benefici tra cui la socializzazione e il superamento del senso di solitudine, la riattivazione motoria e la stimolazione delle abilità cognitive. Alla fine di ogni incontro, gli amici a quattro zampe sfilano tra i pazienti e le carrozzine per farsi accarezzare.

    Il Dog Camp di Binasco è un grande spazio dotato di casette per ospitare i cani e di aree verdi attrezzate per lo sgambo degli animali e per corsi realizzati ad hoc, aperti anche alla cittadinanza.

    Quest’anno gli incontri sono previsti in 15 strutture su tutto il territorio nazionale.

  • Sempre più diffusa la pratica dell’alterazione fisica degli animali

    Mentre da tempo in Europa è stato sancito per  legge che deve essere preservata l’integrità fisica degli animali, riconoscendoli come esseri senzienti, in altre parti del mondo persone senza scrupoli, incapaci di comprendere i rischi di continuare a modificare la natura, continuano ad eseguire violenze sugli animali per modificare il loro aspetto fisico sia per seguire le mode correnti che per renderli più idonei a determinati scopi quali la caccia, le competizioni di bellezza o l’attività di difesa.

    Recentemente il World Small Animal Veterinary Association ha pubblicato una condanna ad ogni intervento di alterazione fisica degli animali denunciando che la pratica di effettuare alterazioni fisiche è diventata sempre più frequente così come il tentativo di controllare e modificare le doti naturali delle razze.

    La presa di posizione della WEAVA, facendosi portavoce di 116 associazioni veterinarie di tutto il mondo, ha espresso la sua preoccupazione per il non riconoscimento del valore intrinseco degli animali e ha invitato tutte le associazioni veterinari e gli allevatori di cani a prendere  una iniziativa analoga spiegando, ai proprietari ed agli allevatori, in modo inequivocabile come siano negativi gli standard di razza che comportino alterazioni fisiche come il taglio della coda o delle orecchie o altri interventi chirurgici estetici che non corrispondano a risolvere  patologie accertate.

    Ci auguriamo che l’invito sia accolto da tutti e che oltre ad impedire operazioni chirurgiche per modificare l’aspetto dei cani si vieti anche l’uso di nocivi coloranti per modificare il colore del pelo, come avviene in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, dove si vedono barboncini colorati di rosa, azzurro ed altro.

  • L’aumento dei casi di morbillo richiede una risposta coordinata della sanità pubblica

    Nel contesto delle epidemie di morbillo in diversi paesi dell’UE, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) ha pubblicato un compendio sulla valutazione della minaccia (Threat Assessment Brief). Secondo la relazione, il numero crescente di casi in Europa desta particolare preoccupazione nelle zone a basso livello di copertura vaccinale, con gruppi di persone non vaccinate. I bambini di età inferiore a 12 mesi, troppo giovani per essere immunizzati, costituiscono il gruppo a maggior rischio, insieme ai bambini non vaccinati di età inferiore a 5 anni, ai bambini immunocompromessi e agli adulti con un rischio più elevato di malattia grave e di aumento della mortalità.

    Per interrompere la trasmissione di questa malattia altamente contagiosa è necessario vaccinare almeno il 95% della popolazione con due dosi. Il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie incoraggia le autorità sanitarie pubbliche a mantenere un’alta copertura vaccinale, a garantire le capacità di monitoraggio, rilevamento precoce, diagnosi e controllo delle epidemie, e a sensibilizzare maggiormente gli operatori sanitari e il pubblico.

  • Lotta alla Psa: la Veterinaria chiede sostegno

    Riceviamo e pubblichiamo un comunicato dell’ANMVI (Associazione Nazionale Medici Veterinari Italiani)

    L’ANMVI (Associazione Nazionale Medici Veterinari Italiani) esprime pieno sostegno alle richieste di rinforzo e di tutela espresse in questi giorni dai Veterinari di Sanità pubblica, impegnati in tutta Italia, e in particolare nel pavese, a fronteggiare una delle emergenze di sanità animale tra le più gravi e difficili degli ultimi vent’anni: la peste suina africana.

    Nonostante non sia un pericolo sanitario per l’uomo, la Psa è una malattia animale categorizzata, in tutta l’Europa, ai massimi livelli di diffusività e letalità, tale da poter distruggere un intero comparto produttivo, economico e occupazionale. Per l’Italia, il settore suinicolo corrisponde, senza esagerazioni, a produzioni di inestimabile valore mondiale.

    La Psa è una malattia classificata dalle nuove disposizioni europee (cat. A Animal Health Law) ai massimi gradi di pericolosità, nonostante non sia assolutamente un pericolo per l’uomo, per la sua diffusività e la resistenza in ambiente del virus responsabile. Il settore suinicolo italiano, eccellenza produttiva con un grande sviluppo di export, sta affrontando l’emergenza per scongiurare una minaccia che potrebbe avere conseguenze inimmaginabili.

    La Psa corre veloce e richiede misure straordinarie tempestive e nette, tanto nei suidi selvatici che nei domestici, senza ritardi e senza interruzioni, come peraltro prescritto dalle direttive comunitarie e nazionali su solide basi scientifiche ed epidemiologiche.

    I veterinari del Sistema Sanitario Nazionale e i veterinari liberi professionisti stanno dando il massimo del loro impegno: devono essere ascoltati, supportati e tutelati da autorità competenti, dagli operatori e dalla opinione pubblica, attraverso un’opera di informazione puntuale.

    Se ancora il nostro Paese non ha compreso la portata straordinaria di questi interventi di sanità veterinaria è arrivato il momento che dal Ministro della Salute e dal Sottosegretario alla veterinaria arrivino messaggi di continuativa

  • Monito dell’Oms: il rischio polio insidia anche i Paesi ricchi

    Ci sono segnali di miglioramento, ma la guerra contro la poliomielite nel mondo non è ancora vinta e, anzi, si aprono fronti nuovi. Per esempio la possibilità che il virus responsabile della malattia riesca a farsi largo nei Paesi ad alto reddito, come nei mesi scorsi è avvenuto in Israele, Regno Unito, Stati Uniti, Canada. È una delle ragioni per cui il Comitato deputato alle emergenze dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha deciso di confermare il virus della poliomielite quale Emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale (PHEIC), uno status che si protrae ininterrottamente dal 2014.

    Il contrasto alla polio nell’ultimo anno ha seguito due trend divergenti. Da un lato sembra raggiungibile l’obiettivo di eradicare il poliovirus selvaggio. Dopo che nel 2015 e nel 2019 sono stati eradicati i ceppi di tipo 2 e 3, al momento resta solo la variante di tipo 1 ancora in circolazione. I 2 unici Paesi in cui è endemica sono Afghanistan e Pakistan, dove nello scorso anno sono stati registrati rispettivamente 22 e 20 infezioni. “La trasmissione nei due Paesi endemici è ora molto bassa e limitata geograficamente”, illustra l’Oms. Il virus selvaggio nell’ultimo anno è stato rilevato anche in Mozambico (4 episodi); si trattava tuttavia di casi importati dal Pakistan. Per questo, “i prossimi 6 mesi saranno un’opportunità fondamentale per interrompere definitivamente la trasmissione endemica”, prosegue l’Oms.

    Diverso il caso delle forme di virus derivate da vaccino, la cui diffusione è legata a basse coperture vaccinali. “Nonostante il continuo calo del numero di casi di poliovirus di derivazione vaccinale di tipo 2 e del numero di lignaggi circolanti, il rischio di diffusione internazionale rimane elevato”, sentenzia l’Oms. Particolarmente preoccupante è la situazione in Africa: è documentata un’elevata trasmissione nella Repubblica Democratica del Congo; da qui il virus si diffonde nei Paesi vicini. “Gran parte del rischio di epidemie di poliovirus derivato da vaccino può essere collegato a una combinazione di inaccessibilità, insicurezza, un’elevata concentrazione di bambini a dose zero e lo sfollamento della popolazione”, aggiunge l’Oms.

    Inoltre, nell’ultimo anno è emerso un nuovo fenomeno: la capacità del virus di raggiungere Paesi ad altro reddito, dove può incontrare sacche suscettibili nella popolazione: questo fenomeno è stato osservato a Gerusalemme, Londra, New York, Montreal e “sottolinea l’importanza di una sorveglianza, anche di tipo ambientale, attenta della poliomielite”, conclude l’Oms.

  • Aids in calo in Italia ma le diagnosi sono tardive

    Diminuiscono negli ultimi anni le infezioni da Hiv ed i casi di Aids conclamato in Italia, soprattutto grazie agli effetti delle terapie, ma le diagnosi arrivano troppo tardi ed in fase già avanzata di malattia per i due terzi dei pazienti. Un dato preoccupante che indica come sia in atto, soprattutto tra i giovani, un forte calo di attenzione con una pericolosa sottovalutazione dei rischi legati a questa malattia. A puntare i fari sul fenomeno il ministro della Salute, Orazio Schillaci, e gli esperti riuniti in occasione del convegno organizzato dal ministero per la Giornata mondiale contro l’Aids.

    I dati, ha spiegato Schillaci, “mostrano che l’incidenza delle diagnosi di Hiv in Italia è in calo dal 2012 e anche negli ultimi due anni, tuttavia la paura di accedere ai servizi sanitari durante l’epidemia di Covid ha comportato un ritardo nelle diagnosi. Non dobbiamo sottovalutare questa pandemia globale di Aids che resta una emergenza sanitaria nel mondo». Altro problema che sta emergendo, ha inoltre sottolineato, è «la scarsa conoscenza dell’Hiv e il ricorso limitato al test. La priorità è dunque facilitare l’accesso al test per far emergere i casi sommersi, oltre a continuare la lotta contro lo stigma». A preoccupare, ha commentato Barbara Suligoi, del Dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, è il fatto che “la percezione del rischio si è molto abbassata e c’è poca consapevolezza dei pericoli della trasmissione via sessuale”.

    Nel 2021 in Italia ci sono state 1770 nuove diagnosi da Hiv e 382 casi di Aids conclamato, con un’incidenza in diminuzione, ma siamo ancora ben lontani, hanno sottolineato gli esperti, dagli obiettivi dell’Oms di arrivare al 95% di persone a conoscenza della propria positività, il 95% di persone hiv positive che possono avere una terapia e il 95% che riesce ad avere una carica virale azzerata. A pesare sono anche gli effetti della pandemia di Covid, che gli esperti definiscono “devastanti”. I nuovi dati del report Unaids 2022 indicano infatti che i progressi fatti stanno vacillando, le risorse si sono ridotte e le disuguaglianze sono aumentate. Per questo, la lotta all’Hiv necessita di “nuovi impulsi” e se “anche prima del Covid-19 eravamo lontani dai nostri obiettivi di riduzione delle nuove infezioni e dei decessi, ora siamo decisamente fuori strada», affermano Peter Sands, direttore esecutivo del Global Fund per la lotta contro Aids, tubercolosi e malaria, e Winnie Byanyima, direttrice esecutiva di UnAids. Nel mondo, infatti, rileva l’infettivologo Stefano Vella, “l’Aids è ancora una pandemia globale con 38 milioni di persone con Hiv e 1,5 milioni di nuove infezioni nel 2021”. Ed ancora: “Ogni giorno 4.000 persone, di cui 1.100 giovani, si infettano: se le tendenze attuali continueranno, almeno 1,2 milioni persone saranno nuovamente infettate nel 2025 mentre nel 2021 – conclude Aldo Morrone, direttore scientifico dell’Istituto San Gallicano di Roma – 650.000 persone sono morte per cause legate all’Aids. Una al minuto”.

  • Troppo grillismo fisico, gli obesi aumenteranno di oltre 500milioni entro il 2030

    Se non ti muovi ti ammali, e la voglia di non fare nulla, l’inattività motoria, una sorta di grillismo fisico si potrebbe dire per essere sintetici, sarà sempre di più responsabile di una pandemia di gravi condizioni mediche, dal diabete all’obesità, con costi sanitari elevatissimi: secondo un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), infatti, tra il 2020 e il 2030 quasi 500 milioni di persone a causa dell’inattività fisica svilupperanno malattie cardiache, obesità, diabete o altre malattie cosiddette non trasmissibili, con un costo annuo di 27 miliardi di dollari per l’assistenza sanitaria, se i governi non prenderanno provvedimenti urgenti per incoraggiare una maggiore attività fisica tra le loro popolazioni.

    Sono alcuni dei dati emersi dal Rapporto OMS sullo stato globale dell’attività fisica 2022, che misura il grado di azione dei governi per favorire un aumento dei livelli di attività fisica a tutte le età. La pandemia ha peraltro scoraggiato gli stati a organizzare eventi di attività fisica di massa.

    Dal Rapporto, che ha analizzato dati relativi a 194 paesi, è emerso che meno della metà delle nazioni ha una politica che favorisca l’attività fisica della popolazione adulta e pediatrica, e di questi meno del 40% sono veramente operativi per garantire che tutti svolgano un’adeguata quota di esercizio fisico. Inoltre dal rapporto emerge che solo il 30% dei Paesi ha linee guida nazionali sull’attività fisica per tutte le fasce d’età. Mentre quasi tutti i Paesi riportano un sistema di monitoraggio dell’attività fisica negli adulti, il 75% dei Paesi monitora l’attività fisica tra gli adolescenti e meno del 30% dei Paesi monitora l’attività fisica nei bambini al di sotto dei 5 anni. Il problema è che se un paese non è in grado di monitorare quanto si muovono i propri cittadini e quali sono i motivi della sedentarietà, difficilmente potrà adottare le politiche più idonee a favorire il movimento fisico.

    Considerando le azioni che potrebbero incoraggiare il trasporto attivo e sostenibile e quindi il movimento, dal rapporto Oms si vede che solo poco più del 40% dei Paesi ha standard di progettazione stradale che rendono più sicuri gli spostamenti a piedi e in bicicletta, incentivandoli. È importante supportare le persone affinché siano più attive attraverso gli spostamenti a piedi, in bicicletta, o attraverso la pratica di sport e altre attività fisiche. “I benefici sono enormi, non solo per la salute fisica e mentale degli individui, ma anche per le società, gli ambienti e le economie”, ha dichiarato Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore generale dell’OMS. “Ci auguriamo che i Paesi utilizzino questo rapporto per costruire società più attive, più sane e più giuste per tutti”.

    L’onere economico dell’inattività fisica è significativo e il costo delle cure per i nuovi casi prevenibili di malattie non trasmissibili raggiungerà quasi 300 miliardi di dollari entro il 2030, circa 27 miliardi di dollari all’anno. Ma i paesi fanno pochissimo per incentivare al movimento fisico, ad esempio dal rapporto emerge che solo poco più del 50% dei Paesi ha condotto una campagna di comunicazione nazionale o ha organizzato eventi di attività fisica di massa negli ultimi due anni. La pandemia di Covid-19 non solo ha bloccato queste iniziative, ma ha anche influenzato l’attuazione di altre politiche che hanno ampliato le disuguaglianze nell’accesso e nelle opportunità di praticare attività fisica per molte comunità.

    Per aiutare i Paesi ad aumentare l’attività fisica, il Piano d’azione globale sull’attività fisica 2018-2030 (Gappa) dell’Oms stabilisce 20 raccomandazioni politiche, tra cui la creazione di strade più sicure per incoraggiare un trasporto più attivo, l’offerta di un maggior numero di programmi e opportunità per l’attività fisica in contesti chiave come le scuole.

  • In 6 anni le morti per tumori solo calate del 10% tra gli uomini e dell’8% tra le donne

    In 6 anni, dal 2015 al 2021, la mortalità per cancro in Italia è diminuita del 10% negli uomini e dell’8% nelle donne. Dai tumori del sangue a quelli della mammella e della prostata, molti progressi sono stati compiuti grazie alle campagne di prevenzione, alla diffusione degli screening oncologici e a nuove molecole che permettono di centrare sempre meglio il ‘bersaglio’ presente sulle cellule tumorali. Ma i pazienti si potrebbero curare ancora meglio se tutti coloro che possono beneficiarne avessero accesso ai test genetici in grado di individuare la presenza di mutazioni che rendono alcuni tumori rispondenti alle terapie.

    A fare il punto sulle terapie oncologiche è l’evento scientifico organizzato da AstraZeneca al Centro Congressi La Nuvola, a Roma, che vede riuniti i maggiori esperti in materia. Continuano a crescere di anno in anno, e sono oggi circa 3,6 milioni, i cittadini che vivono dopo la diagnosi di tumore. In particolare, 7 pazienti su 10 colpiti da tumori del sangue sono vivi a 10 anni dalla diagnosi o può essere considerato guarito. La leucemia linfatica cronica, che colpisce 3.400 persone ogni anno in Italia, è la più frequente fra le leucemie e, per trattarla, la tradizionale immuno-chemioterapia è efficace solo in alcuni casi. “Dopo la revisione delle linee guida europee, che ha ridotto i pazienti candidabili a questo approccio, le terapie mirate sono destinate a diventare sempre più lo standard di cura – spiega Armando Santoro, direttore dell’Humanitas Cancer Center all’Istituto Clinico Humanitas Irccs di Rozzano -. Nelle patologie dei linfociti B, gli inibitori della proteina BTK, che rientrano nella classe delle terapie mirate, permettono di controllare la malattia. In particolare, acalabrutinib ha evidenziato un beneficio significativo in termini di efficacia e tollerabilità a lungo termine”.

    A fare la differenza è, in molti casi, la possibilità di accedere a test per la ricerca di mutazioni genetiche: sapere se sono o meno presenti, infatti, è fondamentale nella scelta delle terapie migliori per alcuni tipi di tumore. Per quanto riguarda, ad esempio, i tumori della mammella ereditari in stadio precoce, in donne con mutazione dei geni Brca1 e 2, la terapia mirata olaparib colpisce le mutazioni di questi geni per ridurre il rischio di recidiva. Ma olaparib “ha aperto l’era della medicina di precisione anche nel tumore della prostata – spiega Romano Danesi, direttore del Dipartimento di Medicina di Laboratorio Aou Pisana -. La molecola ha più che triplicato la sopravvivenza libera da progressione di malattia, garantendo buona qualità di vita per pazienti con carcinoma prostatico metastatico resistente alla castrazione con mutazioni Brca1/2”. Le mutazioni genetiche sono in grado di guidare la scelta della terapia anche nel carcinoma del polmone, che in Italia ha causato 34mila decessi nel solo 2021. “Nei pazienti con tumore del polmone non a piccole cellule in stadio precoce – conclude Danesi – il trattamento post chirurgico con osimertinib, terapia mirata anti EGFR, ha intento curativo. Parlare di guarigione in questa malattia è un grande risultato, impensabile pochi anni fa”.

    “I test per le mutazioni genetiche dovrebbero, pertanto, – afferma Saverio Cinieri, presidente Associazione Italiana Oncologia Medica (Aiom) – essere effettuati al momento della diagnosi per indirizzare al meglio ‘terapie su misura’ e andrebbero garantiti a tutti i pazienti che ne possono avere beneficio, a prescindere dalla regione di provenienza. Speriamo arrivino presto i decreti attuativi della legge che lo prevede, affinché possano presto essere inseriti nei Livelli essenziali di assistenza”.

  • HIV: First woman in world believed to be cured of virus

    A US patient is believed to be the third person in the world, and first woman, to be cured of HIV.

    The patient was being treated for leukaemia when she received a stem cell transplant from someone with natural resistance to the Aids-causing virus.

    The woman has now been free of the virus for 14 months.

    But experts say the transplant method used, involving umbilical cord blood, is too risky to be suitable for most people with HIV.

    The patient’s case was presented at a medical conference in Denver on Tuesday and is the first time that this method is known to have been used as a functional cure for HIV.

    The patient received a transplant of umbilical cord blood as part of her cancer treatment and has since not needed to take the antiretroviral therapy required to treat HIV.

    The case was part of a larger US study of people living with HIV who had received the same type of blood transplant to treat cancer and serious diseases.

    The transplanted cells that were selected have a specific genetic mutation which means they can’t be infected by the HIV virus.

    Scientists believe the immune system of recipients can develop resistance to HIV as a result.

    The woman’s treatment involved umbilical cord blood, unlike the two previous known cases where patients had received adult stem cells as part of bone marrow transplants.

    Umbilical cord blood is more widely available than the adult stem cells previously used and it does not require as close a match between donor and recipient.

    Sharon Lewin, president-elect of the International Aids Society, cautioned that the transplant method used in this case wouldn’t be a viable cure for most people living with HIV.

    But she added that the case “confirms that a cure for HIV is possible and further strengthens using gene therapy as a viable strategy for an HIV cure.”

    The findings around this most recent case study are yet to be published in a peer-reviewed journal, so wider scientific understanding is still limited.

  • Ipotesi scientifica: un batterio intestinale fa la differenza nella resistenza al Covid

    Il Giappone sembrerebbe fornire un modello da seguire nella lotta contro il coronavirus. Il paese del Sol Levante ha infatti avuto uno dei tassi di mortalità per Covid-19 più bassi del mondo. La spiegazione di questo incredibile risultato è in un recentissimo studio pubblicato sulla rivista scientifica PLOS One, un team giapponese guidato da  Masaaki Hirayama, professore associato alla Graduate School of Medicine della Nagoya University Graduate School of Medicine e di altri istituti giapponesi, ha suggerito che il batterio “Collinsella intestinale” può ridurre gli effetti delle infezioni da Covid-19 e quindi spiegare i differenti tassi di mortalità tra i diversi paesi asiatici ed Europei. Lo studio, basato su dati del febbraio 2021, prova che i Paesi come Corea del Sud, Giappone e Finlandia hanno una fetta della popolazione con la flora intestinale contenente il batterio Collinsella, tra il 34% al 61%, hanno anche i più bassi tassi di mortalità dovuta al coronavirus. Al contrario, Messico, Italia, Stati Uniti, Regno Unito e Belgio, che comprendono solo dal 4% al 18% delle popolazioni con Collinsella, hanno mostrato alcuni tra i tassi di mortalità più elevati dalla pandemia. La correlazione negativa scoperta dai ricercatori nipponici, collega una scarsa presenza nella flora intestinale del batterio Collinsella e le morti per Covid. Questo potrebbe essere attribuito alla capacità dei batteri di produrre ursodeossicolato, che inibirebbe il legame del virus e l’enzima di conversione dell’angiotensina 2 (ACE2), il principale punto di ingresso nelle cellule per molti coronavirus.

    È da sottolineare che lo studio in questione è stato sottoposto a una revisione paritaria completa ed è stato pubblicato sulla rivista americana di scienza e medicina ad accesso aperto su “Plos One”, tra le più importanti riviste medico scientifiche a fine novembre. Il professor Hirayama ha scoperto che l’azione del “batterio Collinsella” trasforma gli acidi biliari dell’intestino in “acido ursodeossicolico”, che ha la capacità di recedere il legame del coronavirus al suo recettore e inibire la risposta immunitaria potenzialmente mortale chiamata tempesta di citochine. L’importanza del cd “bioma intestinale” per il nostro sistema immunitario è studiata da anni e oggetto di centinaia di pubblicazioni scientifiche. Probabilmente è una delle manifestazioni più affascinanti della grande capacità di adattamento della nostra specie “Homo Sapiens” che in questo modo può adattarsi anche ad ambienti dove sono endemici virus e malattie mortali, acquisendo una sorta di “simbiosi” con questi batteri e microorganismi che si stabiliscono e riproducono nel nostro intestino.  Un approccio simile esiste nelle piante che da milioni di anni vivono in simbiosi con batteri e funghi micorrizici che le aiutano ad assorbire i diversi nutrienti e difendersi da malattie e predatori.

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