Dazi

  • Riso nell’Unione Europea: finalmente i dazi

    L’economia reale molto spesso supera quella teorica ed accademica attraverso le sue molteplici applicazioni, anche perché la prima valuta gli effetti e la realtà oggettiva mentre  la seconda spesso  non li conosce arrivando persino a negarli.

    Da anni considero “l’ideologia economica” con i propri dogmi applicati al libero mercato come un’utopia indicatrice non solo di una scelta strategica ma anche del distacco con le realtà oggettive di un mercato complesso. Un mix di schemi politico economici rigidi che non tengono in nessun conto, per esempio, dei diversi quadri normativi delle diverse espressioni statali che operano nel libero mercato in materia di sicurezza per i lavoratori e dei processi di produzione fino al prodotto finito, per esempio per le norme  igienico sanitarie come espressione dello sviluppo dei paesi.

    Per anni, anzi per troppi anni, abbiamo assistito allo scempio delle strutture industriali italiane quasi azzerate dalla invasione  di prodotti a basso costo, espressione di civiltà e complessi normativi incompatibili con il nostro livello di sviluppo e di considerazione per il consumatore finale ed il prodotto stesso.

    Finalmente la scelta dell’Unione Europea di introdurre i dazi sul riso proveniente dalla Cambogia e dal  Myanmar sembra  offrire l’espressione di una valutazione reale del  diverso complesso normativo alla base del settore agroalimentare italiano ed europeo nei confronti di quelli dei paesi dell’estremo oriente.

    L’importazione di riso tax free ha portato il valore della tonnellata del prezioso alimento di cui l’Italia detiene il primato mondiale della qualità da 700 a 300 euro alla tonnellata. Una riduzione che ha di fatto (considerati i costi incomprimibili delle filiera italiana) estromesso dal mercato molti  produttori italiani. Sopratutto però tale riduzione  di oltre il 60%del costo del riso/tonnellata non ha prodotto alcun vantaggio per i consumatori sia italiani che europei.

    Questa mancata traduzione sul prezzo finale a causa della “maggiore concorrenza” della riduzione del costo per tonnellata annienta la teoria economica tanto cara ai vari Alesina e Giavazzi i quali indicano nel semplice aumento della produttività la risposta alla invasione tax free di prodotti a basso costo. In più, come principio, ogni schema o teoria economica devono trovare una specifica caratteristica per ogni mercato di riferimento (saturo/maturo/in via di sviluppo etc.), per cui la semplice declinazione di qualsiasi principio economico privo di aggiornamento  in tempo reale e senza una specifica taratura per il mercato di riferimento risulta possedere il valore di una recita scolastica. Dimenticando, poi, come un prodotto attualmente  rappresenti la sintesi culturale di un sistema economico e normativo in un determinato momento storico.

    Quindi a fronte di un “vantaggio normativo ed economico” che i paesi in via di sviluppo ( soprattutto a scapito  di tutela del lavoro e sanitaria) offrono,  risulta impossibile attraverso il solo parametro dell’aumento della produttività rispondere a prodotti sintesi di “lacune normative inaccettabili nella nostra cultura contemporanea”.

    In una parola, si passa in questo modo dal prodotto  espressione di una filiera complessa ed articolata (per esempio il Made in Italy) ad un prodotto espressione della applicazione del principio speculativo di origine finanziaria applicato al mondo della produzione.

    In questo senso e contesto  l’introduzione dei dazi sul riso delle due nazioni  destituisce di ogni fondamento reale, finalmente e definitivamente, l’illusione che il libero mercato senza un adeguamento normativo comune  di base per tutti gli attori  possa trovare una applicazione ed un via di sviluppo propria.

    Il mercato libero e basato sulla concorrenza non può che scaturire da una precedente condivisione di normative base di tutela del diritto dei lavoratori e di condizioni igienico sanitarie valide fino al prodotto finale: SOLO da questa condivisione si possono creare le basi per un mercato concorrenziale che spinga le aziende ad aumentare la competitività e la produttività. Tutto il resto riamane un semplice concetto  speculativo di derivazione finanziaria applicato al mondo dell’industria e dell’agro-alimentare.

    Una Unione Europea peraltro,  va ricordato, piuttosto ondivaga che ha molto criticato i dazi della amministrazione statunitense di Trump sull’alluminio cinese dimenticandosi di averli applicati mesi prima.

    Si spera ora che una linea coerente venga intrapresa e seguita finalmente a tutela delle attività  produttive del settore agroalimentare ed industriale le quali devono venire poste nelle condizioni di competere  ad armi pari con i concorrenti internazionali (https://www.ilpattosociale.it/2018/09/10/libero-scambio-quale-modello/).

    Certamente l’utilizzo dei dazi rappresenta un passaggio di un percorso molto più completo ed articolato che dovrebbe portare i diversi sistemi economici espressione degli Stati sovrani  come anticipato alla condivisione di un quadro normativo di base dal quale poi  tutti gli attori del mercato globale possano esprimere le proprie peculiarità e porre le basi per un mercato concorrenziale e competitivo. Anche in questo senso l’amministrazione statunitense dimostra la propria centralità e visione nella gestione delle diverse problematiche concedendo nell’accordo con il Canada il tax free per quei prodotti del settore automotive espressione al 75% di realtà industriali con una remunerazione minima di 14 dollari all’ora per le maestranze (https://www.ilpattosociale.it/2018/10/08/the-one-and-only-way-to-development/).

    Per fortuna dopo molti tentennamenti  e cambi di direzione improvvisi la Ue comprende la necessità di rendere proprie le esigenze di un mercato come quello della risicoltura italiana che rappresenta il 50% della produzione europea  e detiene il primato in qualità come la migliore a livello mondiale.

    L’introduzione di dazi (si daranno pace i grandi economisti italiani) non significa un tradimento del libero mercato concorrenziale ma semplicemente la presa di coscienza del fatto che le differenze normative si traducono  in termini di costi rendendo impossibile la creazione di un mercato libero senza l’imposizione di dazi che permettano salvaguardia dalle produzione stessa.

    Certamente  i dazi rappresentano un passaggio di un percorso più ampio ed articolato che la nomenklatura economica vorrebbe risolvere attraverso il solo parametro dell’aumento della produttività e quindi della concorrenza sbilanciata e speculativa: cioè speculatrice di fattori economici impropri come il basso costo della manodopera, espressione non solo del livello economico ma soprattutto della lacunosa normativa applicata al mondo del lavoro.

    Mai come in questo caso la via più semplice risulta anche quella peggiore e comunque sbagliata.

  • Battuta di arresto per la manifattura cinese

    Per il secondo mese consecutivo rallenta la crescita dell’attività manifatturiera cinese per effetto della disputa commerciale con gli Stati Uniti. Lo rileva l’indice Pmi manifatturiero che, nel mese di ottobre, si è attestato infatti a 50,2 da 50,8 del mese precedente, risultando inferiore alle attese degli economisti, che prospettavano una lettura a 50,6.

  • Ue, Trump, Made in: la tutela alternata

    Mentre il mondo economico internazionale e soprattutto nazionale si interroga sugli scenari futuri come digitalizzazione o settore terziario avanzato, la trattativa commerciale che vede contrapposti Stati Uniti e Unione Europea potrebbe trovare una interessante soluzione partendo dalla carne, cioè da un prodotto espressione del settore primario.

    Nel terzo millennio infatti è ancora la carne il primo argomento o, meglio, il primo fattore economico attraverso il quale il neo presidente Donald Trump dichiarò, giustamente, di voler riequilibrare gli scambi commerciali tra gli Stati Uniti e l’Europa. Ad una ferrea opposizione dell’Europa, giustificata dalla presenza di ormoni negli allevamenti statunitensi, il presidente statunitense avviò una politica di forte avversione nei confronti del blocco europeo all’importazione della carne Made in Usa, minacciando di introdurre dazi sui principali flussi commerciale provenienti dall’Unione Europea.

    Contemporaneamente però, nell’ottobre 2017, l’Unione introdusse (sua sponte) i dazi tra il 23-43% sull’alluminio e l’acciaio cinese. Una scelta strategica che si ripeté nel marzo del 2018 con l’introduzione di dazi sulle importazioni di pneumatici cinesi.

    Viceversa, quando gli Stati Uniti, avviando una politica di forte rinegoziazione nei confronti dei flussi commerciali anche con la Cina, introdussero i dazi, sempre sull’alluminio e sull’acciaio cinesi (esattamente come la Ue), l’Unione stessa gridò “all’attentato al libero mercato” dimostrando una doppiezza valoriale francamente imbarazzante. Pur avendo connotazioni differenti, la trattativa o, meglio, il contrasto tra Stati Uniti e Cina, caratterizzato in buona parte da prodotti ad alto contenuto tecnologico, si sviluppò e si mantiene più o meno con medesime scelte strategiche.

    Nel frattempo l’Unione Europea, grazie alla politica del presidente Trump, ha ottenuto una riduzione dei dazi sull’importazione di auto da parte della Cina dal 25 al 15%. Un obiettivo che la stessa Unione non si sognava di porsi neppure tra quelli più avveniristici. Contemporaneamente, per quanto riguarda i rapporti con l’Europa, Donald Trump continuò a minacciare di introdurre i dazi sulle importazioni ampliando recentemente la possibilità di questa opzione anche alle importazioni di auto europee.

    Come d’incanto, ecco l’Unione Europea proporre agli Stati Uniti la possibilità di importare 45.000 tonnellate di carne Made in Usa purché priva di estrogeni. Una quota aggiuntiva in quanto precedentemente comprendeva quella consentita alle carni neozelandesi ed argentine.

    Emergono quindi evidenti due considerazioni.

    Quando ad essere minacciati di nuovi dazi dagli Stati Uniti sui flussi commerciali sono i prodotti delle filiere del tessile-abbigliamento o del settore agroalimentare (in buona parte quindi espressione del made in Italy) l’Unione Europea ha mantenuto la posizione senza cercare neppure un punto d’accordo ed addirittura minacciando ritorsioni a sua volta. Ora che a venire minacciata è l’esportazione delle automobili europee, delle quali i gruppi Mercedes, Volkswagen e  BMW  rappresentano la quasi totalità dei flussi commerciali per ogni segmento di auto, in particolare nella fascia Premium, improvvisamente nell’Unione Europea si elabora una nuova strategia con l’obiettivo evidente di salvaguardare i legittimi interessi dell’industria tedesca ed in particolare automobilistica.

    La prima considerazione evidente è rappresentata dal fatto che in Europa le ragioni economiche della Germania rappresentano la ragione e le motivazioni che influenzano, se non addirittura determinano, la politica commerciale, come quella estera, dell’Unione Europea stessa.

    In altre parole la Germania, per merito proprio ma soprattutto per demerito degli altri paesi europei tra i quali l’Italia, riesce ad imporre i propri interessi attraverso politiche e soprattutto funzionari europei e politici di livello che rendono ridicoli tutti gli altri componenti, anche il Parlamento Europeo, ed in particolare quelli italiani.

    Ancora una volta quindi emerge l’inconsistenza assoluta della classe politica italiana in Europa che occupa  senza competenze delle posizioni chiave che dovrebbero invece essere utilizzate per la tutela degli interessi italiani. Infatti, di fronte a questa ennesima prova di forza della Germania e dell’industria tedesca, in particolare automobilistica, come non ricordare il voto favorevole dei parlamentari europei italiani all’importazione di olio tunisino come sostegno alla democrazia di paese nordafricano? Una decisione tanto scellerata da mettere ulteriormente in ginocchio le colture dell’olio italiano, già in forte difficoltà per il caso xylella, dimostrando, ancora una volta, lo spessore culturale ridicolo di una classe che si considera internazionale solo perché tutela l’interesse di altre nazioni a discapito della propria.

    Tutto questo è la logica conseguenza della inettitudine, come della incompetenza, dei parlamentari e dei funzionari europei italiani nel valorizzare le prerogative e le aspettative di crescita economica del nostro Paese.

    In secondo luogo, ed arriviamo alla seconda ed ultima considerazione, questa offerta relativa alle nuove importazione di carne proposta dalla Unione Europea dimostra ancora una volta la capacità negoziale come strategia vincente del presidente Trump e ridicolizza, ancora una volta, le professionalità poste in campo dall’Unione stessa ed in particolare italiane.

  • Sull’acciaio Trump fa scuola alla Ue

    La Commissione europea ha pubblicato un regolamento che istituisce misure di salvaguardia provvisorie sulle importazioni di prodotti di acciaio, che riguarderanno la diversione dell’acciaio da altri Paesi verso il mercato dell’Ue a seguito dei dazi recentemente imposti dagli Stati Uniti. Le misure di salvaguardia, che non interessano le importazioni tradizionali di prodotti di acciaio, sono entrate in vigore il 19 luglio.

    La Commissaria per il Commercio Cecilia Malmström ha dichiarato: «I dazi statunitensi sui prodotti di acciaio sono all’origine della deviazione degli scambi, che può danneggiare gravemente i produttori siderurgici dell’Ue e i lavoratori del settore. Non abbiamo altra scelta se non istituire misure di salvaguardia provvisorie per proteggere l’industria dell’Ue dall’aumento delle importazioni. Misure che tuttavia garantiscono che il mercato dell’Ue rimanga aperto e che manterranno i flussi commerciali tradizionali. Sono convinta che assicurino il giusto equilibrio tra gli interessi dei produttori dell’Ue e quelli degli utilizzatori dell’acciaio, come l’industria automobilistica e il settore edilizio, che dipendono dalle importazioni. Continueremo a monitorare le importazioni di acciaio al fine di prendere una decisione definitiva entro l’inizio del prossimo anno».

    Le misure provvisorie riguardano 23 categorie di prodotti di acciaio e sono istituite sotto forma di contingente tariffario. Le tariffe del 25% saranno applicate solo quando le importazioni supereranno la media delle importazioni degli ultimi tre anni. In linea con le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio, le misure riguardano le importazioni da tutti i paesi. Sono previste deroghe per alcuni paesi in via di sviluppo e per i paesi dello Spazio economico europeo: Norvegia, Islanda e Liechtenstein. Le misure provvisorie possono rimanere in vigore per un massimo di 200 giorni. A seguito di ulteriori indagini, che continueranno fino alla fine del 2018, potranno essere istituite misure di salvaguardia definitive.

  • Ritorna la bolla dei derivati, ma questa volta è off-shore

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso sul ItaliaOggi il 19 luglio 2018.

    Per porre rimedio al mercato dei derivati otc non regolamentati, che sono stati la vera causa del collasso del 2007, nel luglio 2010 fu votata l’importante legge Dodd-Frank. Essa limitava la quantità di dette operazioni speculative e imponeva norme di trasparenza, di garanzia e di coperture alle banche too big to fail coinvolte.

    Tre anni dopo, nel luglio 2013, ad adiuvandum, la Commodity Futures Trading Commission (Cftc), l’agenzia governativa americana preposta alla disciplina dei mercati dei derivati, preparò un documento di 80 pagine per specificare che le banche americane non avrebbero potuto bypassare la suddetta legge, valida per il territorio americano, e continuare a fare contratti otc fuori dei confini nazionali. In esso vi erano ben 662 dettagliatissime note che chiarivano tutti i possibili aspetti riguardanti l’uso di tali derivati.

    Ma come sempre, «fatta la legge trovato l’inganno». Anche in questo caso, l’International Swaps and Derivatives Association (Isda), l’agenzia privata degli operatori di otc, già un mese dopo individuò nella fatidica nota 563 la scappatoia. Infatti, mandò un’informativa alle banche per spiegare loro che avrebbero potuto legalmente evitare i limiti e i controlli della Dodd-Frank, semplicemente togliendo le garanzie e le coperture della «casa madre americana» alle loro filiali estere, in caso di sottoscrizioni di contratti otc.

    In pratica la semplice noticina «senza garanzia» permetteva alle filiali estere di non essere più soggette alla legge degli Stati Uniti. Del resto, un anno prima, la Goldman Sachs, sempre all’avanguardia nella finanza speculativa, aveva già cominciato a chiedere ai propri clienti, interessati a stipulare contratti in derivati, l’autorizzazione di operare attraverso le sue filiali estere.

    Così, purtroppo, le grandi banche americane hanno spostato all’estero quasi tutte le operazioni otc, anche se la maggior parte dei contratti, di fatto, veniva e viene «confezionata» nei quartier generali delle banche sul territorio americano, con esperti finanziari americani, e poi «assegnati» alle filiali estere «senza la garanzia Usa».

    La giostra della speculazione ripartiva alla grande. La lezione della grande crisi finanziaria del 2007-8 aveva e ha solo insegnato che la finanza speculativa si toglie dai guai con i soldi dello stato e dei cittadini. Non è un caso che il presidente Donald Trump abbia subito chiarito che la legge Dodd-Frank, fatta durante l’amministrazione Obama, verrà smantellata. I dati, del resto, sono chiari: alla fine del 2017 il totale nozionale dei derivati otc era di oltre 530 trilioni di dollari! Gli stessi livelli della vigilia della Grande Crisi.

    In merito, il Wall Street Journal rivela che la parte della bolla composta da derivati-swaps sui tassi di interesse è cresciuta enormemente. Ogni giorno ne sono scambiati per un valore di ben 1,28 trilioni di dollari.

    Anche il professor Michael Greenberger, già direttore della divisione «Trading and Market» della Cftc, ha recentemente pubblicato il report «Too big to fail U.S. banks’ regulatory alchemy», spiegando l’alchimia delle grandi banche per sabotare le regole e continuare con le speculazioni. Per gli speculatori la «pacchia non è finita». Secondo Greenberger, inoltre, starebbero riaffiorando molti rischi legati alle varie bolle. Si ricordi che nel 2007 non furono solo i mutui subprime a mandare in tilt il sistema. Anche la rivista Fortune riporta che negli Usa i crediti dei consumatori (senza quelli legati alle ipoteche) registrano un aumento del 45% rispetto al 2008. Sono circa 4 trilioni di dollari.

    E, allo stesso tempo, il debito sulle carte di credito ha raggiunto il trilione di dollari, il picco più alto dei passati 7 anni. Anche il cosiddetto debito corporate, delle imprese non finanziarie, è aumentato in modo straordinario dal 2011, tanto che alla fine del 2017 era pari al 96% del pil nazionale.

    Non ultimo, secondo il Wall Street Journal anche il debito degli studenti, fatto per finanziare gli studi e che dovrà essere ripagato durante la vita lavorativa, in 10 anni è aumentato del 170% raggiungendo il livello di 1, 4 trilioni di dollari. Lo stesso dicasi per i debiti relativi all’acquisto di auto. Pertanto negli Usa non pochi paventano il rischio di una nuova crisi sistemica.

    Altro che dazi. Il presidente Trump dovrebbe affrontare queste emergenze, magari insieme all’Europa, che ha tutto da perdere da una nuova crisi finanziaria.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Dazi, un’arma a doppio taglio

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su Italia Oggi il 6 luglio 2018

    È un grave errore cercare di semplificare le grandi questioni internazionali, quali quelle economiche, finanziarie, commerciali o quelle riguardanti i flussi migratori. Spesso si pensa che isolare una questione importante dal resto renda più facile affrontarla. Purtroppo non è così. Si vorrebbe che le cose fossero semplici e poco complicate e quindi risolvibili. Invece spesso sono complesse, intrecciate con altre, tanto da esigere approfondite e multiple analisi.

    Lo è senz’altro il caso delle guerre commerciali in corso. Trump e altri credono che, aumentando i dazi sui prodotti importati dalla Cina e dall’Unione europea, l’industria e l’occupazione americane ne gioverebbero, incidendo positivamente anche sulla bilancia dei pagamenti degli Usa. In verità il commercio americano è da decenni fortemente squilibrato. Di certo non per comportamenti truffaldini dei partner ma per le decisioni interne che hanno favorito, ad esempio, l’outsourcing. Ciò ha determinato lo spostamento di molte imprese americane verso mercati poco regolamentati e a bassissimo costo del lavoro.

    Le multinazionali e le banche Usa hanno sfruttato questo sistema facendo profitti straordinari ed evitando di pagare le tasse dovute. Non è quindi sorprendente sapere che il deficit della bilancia commerciale Usa, da decenni è, ogni anno, di centinaia di miliardi di dollari. Così dicasi per il bilancio statale. Nel 2017, ad esempio, il deficit commerciale è stato di 568 miliardi di dollari (811 miliardi, se si considerano solo le merci senza i servizi) e, a sua volta, il deficit del bilancio federale ha raggiunto i 665 miliardi.

    La guerra commerciale non produrrà soltanto ritorsioni da parte dei paesi colpiti dai dazi. C’è già un’escalation di per sé foriera di gravissime instabilità. Essa rischia di mettere in moto effetti destabilizzanti anche sui mercati delle monete e su quelli finanziari. Pertanto, di conseguenza, la Banca nazionale cinese ha deciso di emettere 700 miliardi di yuan sul mercato, pari a oltre 100 miliardi di dollari, con l’evidente intento di svalutare la propria moneta.

    Si tratta di una contromisura per contenere i danni provocati dalle misure protezionistiche Usa. Con il deprezzamento dello yuan, gli esportatori cinesi livellerebbero così l’aumento dei dazi americani d’importazione, mantenendo in un certo senso i loro guadagni ai livelli precedenti alle decisioni Usa.

    Internamente alla Cina il deprezzamento della moneta non avrebbe grandi effetti negativi. Soltanto le sue importazioni diventerebbero più costose. Ma la Cina, da quasi 10 anni, ha cambiato la rotta della sua economia, sviluppando di più il mercato interno. I dazi, pertanto, possono diventare un ulteriore stimolo a sviluppare i settori industriali colpiti. Si tenga conto, inoltre, che la Cina ,da qualche tempo, promuove accordi commerciali in yuan, soprattutto con molti paesi emergenti, bypassando così la mediazione del dollaro.

    Per il suo sistema politico, economico e monetario e per le storiche alleanze internazionali, l’Unione europea, purtroppo, non può adottare decisioni simili. Anche se Washington starebbe per imporre una tassa del 20% su 1,3 milioni di veicoli importati dall’Europa, di cui più della metà dalla Germania. Quanto intrapreso in Cina, anche se in modi differenti per intensità e settori, com’era prevedibile, è avvenuto anche in Russia soprattutto per effetto dell’isolamento commerciale provocato dalle sanzioni.

    Sul fronte finanziario, una delle conseguenze determinata dall’instabilità, a seguito dell’aumento del debito globale e delle minacce di guerre commerciali, è stata la crescita della bolla dei credit default swap (cds). I derivati usati per le cosiddette coperture del rischio d’insolvenza. Essi misurano anche le fibrillazioni emerse a Wall Street dove Standard & Poor’s 500 (l’indice delle maggiori imprese americane), dal picco di gennaio a oggi, ha perso il 5%.

    Secondo varie analisi, anche dell’ultimo rapporto trimestrale della Banca dei Regolamenti Internazionali, il volume dei cds è di circa diecimila miliardi di dollari. Certo ancora lontano dai livelli del 2007, ma già preoccupante in previsione delle insolvenze del debito delle imprese e di altre categorie private. È appena il caso di sottolineare che oggi quattro banche americane (Citigroup, Bank of America, JP Morgan Chase e Goldman Sachs) gestiscono il 90% del commercio mondiale dei cds! Ancora una volta le autorità di controllo purtroppo stanno a guardare mentre la bolla cresce.

    Il commercio e i mercati non hanno bisogno di dazi ma di regole che valgano per tutti.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • I dazi: a monte o a valle

    Viviamo di analisi che hanno la capacità retrospettiva al massimo di quarantotto ore.

    Durante la presidenza Obama venne introdotta negli Stati Uniti la certificazione della filiera della carne nella quale venivano indicati tutti i passaggi, dall’allevamento alla macellazione fino al banco del supermercato. Questa iniziativa normativa ovviamente risultò molto apprezzata dal consumatore statunitense e provocò un aumento delle vendite di carne prodotta negli Stati Uniti a scapito di quelli importata dal Messico e dal Canada, dimostrando innanzitutto come anche i consumatori statunitensi risultino molto attenti alla certificazione della filiera di ogni alimento e quindi all’aspetto qualitativo. Contemporaneamente l’iniziativa conferma l’importanza della conoscenza nello specifico della certificazione della filiera che rappresenta la vera soluzione per un consumo consapevole di prodotti di alto di gamma, come risultano quelli del made in Italy.

    I due stati (Canada e Messico) chiamarono in causa il Wto e ottennero di aprire una procedura contro gli Stati Uniti accusandoli di concorrenza sleale che avrebbe provocato una diminuzione delle proprie esportazioni di carne verso il mercato statunitense. All’inizio della propria presidenza Trump affermò come il mercato americano non potesse più rappresentare il punto di arrivo delle esportazioni di tutti i paesi (in particolare cinesi ed europee) ma che l’amministrazione statunitense aveva intenzione di riequilibrare il traffico commerciale in entrata come in uscita con gli altri paesi partner ed attori del mercato globale.

    Fedele a queste impostazioni economico-politiche infatti l’amministrazione statunitense provò ad esportare in Europa la carne statunitense (la stessa certificata dall’amministrazione Obama) che venne bloccata in quanto non rispondeva a determinate specifiche presenti in Europa. Ebbero medesima sorte i prodotti agricoli in quanto sospettati di essere OGM.

    A fronte di tali rifiuti nel 2017 il presidente Trump criticò aspramente queste decisioni europee definendole assolutamente inaccettabili e che avrebbe avviato, di fronte al perdurare di tali decisioni, una politica dei dazi relativa anche ai prodotti europei.

    Nel medesimo periodo, cioè nell’ottobre 2017, l’Unione Europea unilateralmente decise l’introduzione dei dazi sull’alluminio e sul’acciaio cinese per un valore percentuale dal 23 al 52%.

    Quando la medesima decisione venne presa solo cinque mesi più tardi dall’amministrazione statunitense l’Unione Europea criticò aspramente bollandola come un ulteriore attacco al mercato globale. Contemporaneamente la stessa Unione Europea introdusse dei dazi per i pneumatici cinesi da 43 fino a 82 dollari a pneumatico, omettendo così, ancora una volta, di essere stata la prima a introdurre questa politica dei dazi al fine di favorire le produzioni nazionali o continentali.

    Successivamente, di fronte alla incapacità ed impossibilità per l’amministrazione statunitense di aumentare le proprie esportazioni verso l’Unione Europea, la pressione politica esercitata dagli Usa ha tuttavia permesso e negoziato un accordo con la Cina la quale si impegna ad acquistare circa 300 miliardi di nuovi prodotti agricoli.

    Tornando all’Europa, sempre il presidente Trump ha introdotto, fronte al muro di gomma europeo, i dazi relativi all’alluminio e all’acciaio europeo. Contemporaneamente la pressione politica esercitata dall’amministrazione Trump ha indotto l’amministrazione cinese ad abbassare i dazi sulle auto straniere (sia europee che statunitensi) dal 25 al 15%. Verrebbe poi da chiedersi come mai la Ue abbia considerato un attacco al libero mercato l’azione del presidente Trump quando poi accettava dazi cinesi del 25% sulle proprie esportazioni di auto! Ora, dimenticando in più di essere stata la prima ad aver inaugurato questo tipo di strategia, l’Unione Europea ha deciso, o perlomeno sta decidendo, di introdurre una serie di dazi sui prodotti finiti come Levi’s o il Whisky Bourbon e le Harley-Davidson in risposta all’iniziativa dell’amministrazione americana, offrendo quindi una deriva pericolosa alle contromosse statunitensi. L’Unione Europea perciò prima ed unica responsabile per quanto riguarda l’inizio di questa tipologia di politica dei dazi in risposta all’amministrazione Trump impone dei dazi sui “prodotti finiti” mentre quelli imposti dall’amministrazione Trump riguardano le “materie prime“, per ora.

    I dazi (va specificato) rappresentano certamente l’estrema ratio per quanto riguarda la politica economica. Tuttavia questi possono rappresentare anche una modalità, certamente temporanea, per salvaguardare le produzioni in attesa di un piano strutturale di sviluppo completo, come per esempio l’introduzione di una organizzazione aziendale più consona ad un mercato globale.

    Questi inoltre hanno ragione di essere utilizzati quando le aziende si trovano ad operare in un mercato globale ma con regole profondamente diverse (per quanto riguarda le normative sul lavoro sui protocolli sanitari degli stessi prodotti), tanto da rendere i fattori di tutela dei lavoratori come quelli dei consumatori antieconomici, impossibili da annullare anche con qualsivoglia aumento della produttività. Soprattutto però dovrebbero essere imposti sulle materie prime e non sui prodotti finiti, perlomeno nelle prime stagioni di utilizzo di questa leva fiscale.

    I dazi imposti sui prodotti finiti colpiscono infatti l’intera filiera a monte della stessa rendendo impossibile qualsiasi tipo di adeguamento produttivo che possa assorbire il valore anti-competitivo del dazio e di conseguenza penalizzando il consumatore. In questo senso si ricorda che il vantaggio per il consumatore viene considerato la ragione principale proposta dai fautori del mercato globale senza regole. Gli stessi che ora vogliono imporre i dazi sul prodotto finale, penalizzando così il consumatore, manifestano una netta contraddizione in termini.

    Viceversa il dazio imposto a monte della filiera, quindi sulle materie prime, permette alle diverse industrie di trasformazione che partecipano alla complessa filiera, attraverso la ricerca di una maggiore produttività come di sinergie anche digitali più evolute ed un conseguente aumento della produttività, di assorbire il valore del dazio in modo da rendere minimo l’impatto per il consumatore.

    Ancora una volta l’Unione Europea ha dimostrato di avere una posizione ideologica ed assolutamente irresponsabile attraverso la scelta di imporre dei dazi sui prodotti finiti che coinvolgono figure professionali che rappresentano la forza lavoro e professionale delle diverse aziende che contribuiscono alla filiera complessa di un prodotto.

    La posizione europea, sia che venga dettata da una questione ideologica o semplicemente da una miope visione economica, rappresenta l’ennesima conferma di un declino culturale che investe l’intero vecchio continente. Una Europa che si dimostra e si conferma incapace di gestire un mercato complesso ignorando o annullando i problemi che la complessità inevitabilmente comporta.

  • Unilateralismo ideologico

    Al di là delle singole posizioni, tutte ovviamente legittime, sulle ultime iniziative politiche ma soprattutto economiche dell’amministrazione statunitense emerge un allarmante quadro relativo alle politiche di sviluppo che si intendono seguire all’interno dei cosiddetti mercati evoluti come quello occidentale, in particolare europeo ed  italiano, da parte di quegli esponenti politici e del mondo economico che vedono in Trump il male assoluto.

    La decisione infatti di introdurre da parte dell’amministrazione americana i dazi sull’alluminio e sull’acciaio cinese (i cui prezzi in ribasso rappresentano la sovracapacità produttiva cinese) ha scatenato l’intera nomenclatura economica europea ed italiana nel suo complesso portando addirittura premi Nobel a scrivere all’interno di quotidiani italiani interventi stilisticamente indegni  di un premio Nobel ma anche nella sostanza intolleranti (in quanto veniva sbeffeggiato anche  l’aspetto fisico e la “stupidità” dell’attuale presidente degli Stati Uniti), come se questa mancanza di stile potesse rafforzare la propria critica alla decisione dell’amministrazione statunitense e nel quale si arrivava persino ad offendere il presidente degli USA. Tutto questo avveniva con la compiacenza della redazione e di un direttore  di un quotidiano italiano espressione di una delle più grandi associazioni di categoria.

    Viceversa, non si era sentita nessuna protesta né tanto meno pensiero contrario inneggiante alla preservazione del libero mercato quando invece nell’ottobre 2017 l’Unione Europea aveva introdotto i dazi dal 23,4 al 53,2% sempre contro le importazioni dell’alluminio dell’acciaio cinese, espressione di un’economia che di fronte ad una sovracapacità produttiva non ristruttura le imprese ma inonda il mercato dei propri prodotti. Una scelta, quella europea, perfettamente in linea con la politica dell’Unione dimostrata tra l’altro dal livello medio di dazi europeo al 5,3%, superiore a quello degli Stati Uniti che risulta al 3,5%. Una strategia europea assolutamente simile a quella statunitense anticipata solo di pochi mesi rispetto all’amministrazione Usa.

    Scelte strategiche dell’amministrazione Trump logica conseguenza del precedente divieto di esportazione delle carni statunitensi verso i mercati europei: anche in questo caso risulta evidente il silenzio complice della  nomenclatura economica in quanto tale decisione di fatto annullava da parte europea l’esistenza stessa di un mercato globale ed aperto e che dimostra anche chi abbia veramente cominciato la guerra commerciale della quale ora sembrano tutti lamentarsi. Anche in questo ennesimo e specifico caso emerge evidente una disparità di atteggiamento culturale ed economico  da parte della classe politica, come di quella dirigente, europea nei confronti della medesima azione di politica economica ma con differenti soggetti politici.

    Contemporaneamente nessuno di questi dotti esponenti dell’economia evoluta e della realtà accademica occidentale aveva trovato nulla di contrario al libero commercio e quindi all’affermazione del mercato globale nell’applicazione imposta dallo Stato Senese del dazio del 25% sull’importazione di auto estere all’interno del mercato proprio. Come nessuno, sempre di questa nomenclatura, ha avuto l’onestà intellettuale di comprendere che l’attuale apertura della Cina ad un possibile futuro abbassamento dei dazi (a partire dalle auto importate come ad acquisizione di pacchetti azionari superiore del 50% di aziende cinesi) risulti semplicemente l’effetto della pressione politica ma sopratutto economica che gli Stati Uniti sono riusciti ad imporre al colosso cinese con la semplice decisione di apporre dei dazi espressione di un modificato atteggiamento nei confronti delle proprie strategie economiche di sviluppo.

    In questo senso va ricordato come nel febbraio 2018 l’economia statunitense abbia creato 213.000 nuovi posti di lavoro mentre la crescita trimestrale risulti superiore rispetto alle più rosee previsioni degli analisti (2,3 % rispetto al 2% previsto). Risultati complessi ed articolati che da soli ridicolizzano tutte le teorie relative ai possibili disastri economici dalle elezioni Trump ad oggi.

    Probabilmente lo stesso riavvicinamento della Corea del Nord a quella del Sud nasce da un indebolimento della posizione politica ed economica cinese da sempre a sostegno della Corea del Nord. Un modificato atteggiamento della Repubblica cinese, frutto della nuova e sicuramente più pressante politica economica del colosso statunitense.

    Tornando Tuttavia alle problematiche economiche europee e soprattutto italiane francamente si rimane esterrefatti di fronte a questo atteggiamento dimostrato in molteplici occasioni da parte delle nomenclature economiche come delle classi dirigenti europea ed italiana nei confronti delle dinamiche economiche internazionali in un mercato sempre più complesso ed articolato che proprio per questo meriterebbe posizioni in continua e rapida evoluzione.

    Non trova infatti una ragione, e tantomeno una motivazione razionale, la continua e costante posizione a favore e nei confronti delle economie dei paesi in via di sviluppo come prossimamente avverrà anche attraverso la futura eliminazione dei dazi sul riso che l’Unione europea ha intenzione di azzerare. Un’altra scelta appoggiata dal gotha economico europeo che va contro lo sviluppo della risicoltura europea ed italiana in particolare, quest’ultima già esposta ad un dumping economico a causa delle importazioni di riso vietnamita privo di dazi grazie ad una scellerata scelta del governo Renzi per favorire la realizzazione di uno stabilimento Piaggio in Vietnam.

    Non si riesce a comprendere quale possa essere il pensiero economico di questi stessi esponenti che si dichiarano apertamente a favore della Gig Economy e che avevano individuato nel candidato alla presidenza degli Stati Uniti Hillary Clinton il proprio esponente di riferimento quando invece le economie che registrano i maggiori tassi di crescita (che si ricordano risultano in sintesi espressione di tre fattor: 1.aumento delle esportazioni, 2. Importazioni, 3. rivalutazione della valuta), come quella Svizzera, sono quelle in cui vengono tutelate, anche sotto il profilo economico collocandole all’interno delle dieci professioni più retribuite, figure professionali come la maestra d’asilo e delle elementari e l’ostetrica assieme alla professione del falegname. Riconoscendo in questo modo il valore storico e formativo di figure che invece da trent’anni anni vengono sempre più derise e penalizzate proprio dalla classe politica dirigente ed economica italiana come espressione di una cultura, o meglio di una vetero cultura, da contrapporre alla New Economy, alla Gig Economy e alla Sharing Economy.

    Non si riesce a capire come questo unilateralismo politico ed economico posso assicurare un qualche tipo di sviluppo all’interno di un mercato sempre più competitivo quando vengono a mancare i paradigmi normativi che potrebbero, proprio partendo dal mercato stesso, assicurare successo alle filiere industriali europee ed italiane in particolare semplicemente attraverso una loro puntuale tutela normativa. Sembra incredibile come questa nomenclatura economica che ha bollato fino a pochi anni fa l’economia industriale come Old Economy a favore della propria posizione  favorevole alla New Economy, che non ha portato nessun tipo di sviluppo in Italia a livello occupazionale, ora individui nel semplice fattore di ammodernamento tecnologico e digitale  “industria 4.0” (passaggio ineludibile ma non per questo portatore di nuova occupazione) l’unico fattore di sviluppo economico italiano. Un passaggio sicuramente fondamentale ma i cui effetti andrebbero considerati per cercare di anticiparne le ricadute sociali.

    Non si riesce a comprendere come si possa ancora giustificare una posizione comune anche ai dirigenti delle più grandi università italiane, tuttora arroccate sulla solita monotona quanto banale posizione che individua nel solo aumento della produttività (che nel 2017 risulta aumentata dello 0,9%) la via per far fronte ai dumping fiscale, economico e sociale dei paesi a basso costo di manodopera. Tra l’altro un incremento di produttività che nel 2017 non ha portato con sé alcun beneficio in termini di occupazione.

    E non si riesce a capire come la Gig Economy, che altro non è che una piattaforma nella quale una persona con la propria professionalità viene retribuita a chiamata (vera e propria estremizzazione del contratto a chiamata italiano il quale al confronto della Gig Economy figura come un contratto stabile), possa rappresentare una forma di sviluppo quando invece il riconoscimento delle professionalità e la loro tutela, esattamente come espressione individuale o come appartenente ad una filiera complessa industriale, arrivando ad un prodotto finito espressione del made in Italy, rappresenterebbe l’unica forma di creazione di valore e quindi di ricchezza per un paese.

    Sembra incredibile come un’articolata e variegata nomenclatura economica non abbia imparato nulla dalla storia. Quella stessa storia che ha valorizzato, una volta ancora, riportando al centro dello sviluppo italiano i distretti industriali, la loro evoluzione e la loro forte capacità di esportazione quando questi stessi parlavano, solo pochi anni fa, della necessità del superamento dei distretti produttivi a favore della grande industria.

    A questo punto è evidente che le questioni che si pongono di fronte alle motivazioni di questo atteggiamento interamente a favore delle economie emergenti, e comunque penalizzante nei confronti delle PMI e delle politiche di sviluppo, possano risultare motivate essenzialmente da due tipologie di ragioni. La prima parte dalla considerazione amara che anche questi esponenti risultino espressione di quel declino culturale che si basa essenzialmente su delle competenze invariate nel tempo ed assolutamente granitiche ma che impediscono quello che la cultura generalmente assicura, cioè l’apertura al nuovo come alla conoscenza delle evoluzioni ed alla capacità di sintonizzarsi con le stesse. La seconda, forse più ideologica, riguarda espressamente la competenza e la qualità dei singoli esponenti della nomenclatura economica, espressione di  persone scelte in base alla propria ideologia politica all’interno della quale hanno sviluppato delle competenze economiche ma dalla quale non riescono a liberarsi.

    Tuttavia questo unilateralismo sta costringendo il nostro Paese ancora oggi a non comprendere le ragioni della nostra crisi e tantomeno individuare le vie per lo sviluppo nei prossimi anni. Il mercato in questo senso rappresenta l’unica soluzione e soprattutto l’unica via per uno sviluppo compatibile e sostenibile che assicuri un buon livello occupazionale per il nostro paese come per l’Europa in generale. Un mercato che risulti espressione della moltitudine di  consumatori, ognuno dei quali venga messo nella condizione di apprendere e di conoscere la realtà produttiva quindi la filiera alle spalle di ogni prodotto espressione di un qualsiasi Made In.

    In altre parole, paradossalmente lo sviluppo economico parte essenzialmente dalla capacità degli organi politici internazionali, come l’Unione Europea, di fornire un quadro normativo di riferimento al fine di offrire l’opportunità al consumatore di valutare. In altre parole la CONOSCENZA  rappresenta il fattore di sviluppo economico ed in continua evoluzione la quale, viceversa, viene osteggiata e penalizzata dalle attività normativa dell’Unione Europea, forte del supporto della nomenclatura economica nel suo complesso attraverso quadri normativi che non offrono alcuna tutela alle filiere industriali o di qualsiasi altra tipologia di filiera complessa. Partendo dalla ridicola  considerazione che vede nell’abbassamento dei prezzi al consumo un fattore di maggiore ricchezza per i consumatori (mai percezione risulta così errata), quando invece la concorrenza senza vincoli di cui questi prezzi risultano l’espressione desertifica cent’anni di storia industriale del nostro Paese come di quella europea nel suo complesso.

  • La guerra dei dazi: il doppiopesismo europeo

    Nel 2017 gli Stati Uniti hanno presentato un saldo commerciale negativo per oltre 566 miliardi di dollari, di questi 375 miliardi solo con l’economia cinese. Al di là delle ragioni storiche legate soprattutto alla politica di delocalizzazione produttiva seguita in modo cieco e miope fin dagli anni settanta da tutte le amministrazioni precedenti a quella di Trump, risulta evidente che tale asset  economico statunitense non sia più sopportabile per l’amministrazione americana. Una delle strategie  adottate già all’inizio del 2017 venne individuata anche nelle politiche attive a sostegno di un incremento delle esportazioni. In questo contesto l’Unione Europea decise, sempre nel 2017, di bloccare le importazioni di carne statunitense. Tale blocco (al di là delle polemiche relative all’utilizzo di estrogeni o steroidi negli allevamenti americani) di fatto contraddice in modo evidente la politica tanto dichiarata di apertura dei mercati come dei flussi commerciali e finanziari da parte dell’intera classe dirigente ed economica europea.

    In quell’occasione Trump promise, o meglio minacciò, di introdurre dei dazi a seguito dell’impossibilità di esportare la propria carne all’interno dei mercati europei attraverso l’adozione di dazi ed in particolare per l’acqua minerale francese Perrier e l’italiana Vespa. In quel contesto Colaninno, patron della Piaggio, fece spallucce indicando  nella possibilità di esportare negli Stati Uniti la Vespa direttamente dal proprio stabilimento del Vietnam aggirando in questo modo i dazi imposti ai prodotti europei. A tal proposito è opportuno ricordare come lo stabilimento della Piaggio in Vietnam sia costato l’eliminazione dei dazi sul riso basmati vietnamita decisa dal governo Renzi nel 2015 per rendere possibile l’investimento in Vietnam. Un modo politico del governo in carica che ha fatto pagare all’eccellenza della risicoltura italiana un investimento di un privato imprenditore in terre straniere.

    Successivamente Trump, sempre per seguendo la politica di un riequilibrio dei flussi commerciali, all’inizio 2018 ha annunciato la possibilità di introdurre dei dati per l’alluminio cinese. In questo caso abbiamo assistito ad  un levare di scudi da parte del mondo accademico europeo come delle stesse massime autorità politiche dell’Unione e dei grandissimi economisti italiani i quali hanno visto in questa decisione un ulteriore attacco al mercato libero ed una esplicita applicazione della filosofia della nuova amministrazione americana definita con “American First”.

    Immediatamente è stata avanzata l’ipotesi, con l’appoggio di tutto il sistema dei media e di tutti i giornali italiani e internazionali, di  adottare dei dazi i Levi’s o le moto Harley-Davidson come contromossa politica ed economica. Una reazione scomposta anche perché successiva

    all’introduzione di un dazio relativo ad un prodotto cinese che non ha nulla a che fare con l’economia europea. Tale reazione assolutamente fuori luogo dimostra essenzialmente l’incapacità di leggere l’economia globale come indicatrice di un delirio e di un declino culturale che investe la classe dirigente europea ed italiana in particolare.

    Il sistema industriale cinese, in particolare quello dell’alluminio come dell’acciaio, sta vivendo un prolungato periodo contrassegnato da una sovracapacità produttiva legata a un rallentamento del mercato interno cinese e alla lunga crisi internazionale. Questa sovracapacità produttiva all’interno di un’economia avanzata come quella europea o statunitense porterebbe ad una politica di riconversione industriale e chiusura dei centri produttivi obsoleti e non più strategici come viene spesso indicato per quel che riguarda la sovracapacità produttiva nel mondo automobilistico.

    Viceversa, l’economia cinese ha deciso di inondare il mercato occidentale con dei prodotti assolutamente sottocosto, quindi espressione di un dumping, con l’obiettivo esclusivo di assicurarsi i volumi che permettono il raggiungimento del break even point degli impianti cinesi.

    In altre parole, la propria sovracapacità produttiva cinese invece di essere oggetto di una riconversione industriale all’interno del mercato cinese viene scaricata e così fatta  pagare ai lavoratori delle imprese dell’alluminio e dell’acciaio i quali si vedono spiazzati da  questa concorrenza sleale da parte di una economia che scarica le proprie inefficienze sui mercati mondiali.

     

    La scelta dell’amministrazione statunitense risulta quindi assolutamente giustificata in quanto non possono risultare le aziende ed i lavoratori statunitensi a pagare la sovracapacità produttiva cinese.

    Tornando invece alla scomposta reazione europea le considerazioni conseguenti non possono che essere tristi ed amare e riguardano due aspetti sempre di questa reazione ridicola.

    La prima riguarda essenzialmente la miopia della stessa Unione la quale ad un’azione finalizzata alla tutela del lavoro statunitense nei confronti di una economia terza (cinese) si inserisce senza neppure risultare coinvolta, minacciando per di più l’introduzione di dazi sui prodotti finiti. Un’azione che penalizzerebbe l’intera filiera produttiva in quanto adottata a valle della stessa e che coinvolgerebbe tutto un sistema industriale che partecipa alla realizzazione di un prodotto complesso, come ormai risultano essere tutte le diverse tipologie di beni di consumo, arrecando perciò un danno economico diffuso ad un sistema industriale e non più ad un singolo settore.

    Infine, sempre in relazione all’attività dell’Unione europea, l’ultima considerazione risulta  sicuramente quella più grave e che ridicolizza la stessa posizione europea, dimostrandone l’assoluto doppiopesismo.

    Risulta sufficiente ricordare infatti come solo cinque (5) mesi fa l’Unione Europea abbia introdotto dei dazi dal 29,2 al 54,9% sull’acciaio cinese per gli stessi motivi che hanno spinto, o meglio stanno spingendo, l’amministrazione americana all’introduzione di dazi sull’alluminio cinese. Quella decisione nell’ottobre 2017 non suscitò alcuna reazione da parte di quei dotti economisti, come dei giornalisti economici o del mondo accademico a tutela dei principi del libero mercato, come invece si registra attualmente in occasione della scelta di Trump. Un comportamento assolutamente ambiguo che coinvolge l’intera classe dirigente politica ed economica europea ed evidenzia ancora una volta come la disonestà intellettuale alberghi tanto all’interno della Unione Europea quanto nella mente di accademici che non ricordano quanto successo solo cinque mesi addietro.

    Dazi e principi economici non possono venire  utilizzati a proprio uso e consumo e soprattutto per assecondare comportamenti e convenienze politiche. Tutto questo dimostra una disonestà intellettuale, libera espressione di un declino culturale ormai inarrestabile.

  • Trump fa scuola: la Ue rende definitivi i dazi sull’acciaio cinese

    La Commissione europea ha imposto dazi anti-dumping definitivi sull’acciaio anticorrosione originario della Cina dopo aver appurato che i produttori cinesi praticavano il dumping del prodotto sul mercato dell’Ue (conclusione che aveva già portato all’imposizione di dazi provvisori ad agosto 2017). I dazi che saranno applicati nei prossimi 5 anni variano dal 17,2% al 27,9%.

    L’acciaio anticorrosione è utilizzato principalmente nell’industria edilizia, per l’ingegneria meccanica, nella produzione di tubi saldati e nella fabbricazione di elettrodomestici. Il valore del mercato dell’Ue di questo prodotto è stimato in 4,6 miliardi di euro e la quota di prodotto originario della Cina è del 20%.

    Le misure adottate contrastano la pressione al ribasso sui prezzi di vendita, fonte di problemi finanziari per i produttori dell’Ue basati principalmente in Belgio, Francia, Polonia e Paesi Bassi. L’industria siderurgica è fondamentale per l’economia dell’Unione, occupa una posizione centrale nelle catene globali del valore e impiega centinaia di migliaia di cittadini europei. Negli ultimi anni l’eccedenza di capacità produttiva di acciaio a livello mondiale ha fatto calare i prezzi a livelli insostenibili, con ripercussioni dannose sul settore, sulle industrie collegate e sull’occupazione. L’Ue sta quindi sfruttando tutte le potenzialità dei suoi strumenti di difesa commerciale per garantire ai suoi produttori condizioni di parità e la capacità di mantenere posti di lavoro nel settore.

    Attualmente sono in vigore 53 misure sui prodotti siderurgici, di cui 27 su quelli originari della Cina. A marzo 2016 la Commissione ha pubblicato una comunicazione che illustrava le misure a sostegno della competitività dell’industria siderurgica dell’UE; un maggiore utilizzo degli strumenti di difesa commerciale era uno dei pilastri della strategia. La Commissione ha anche partecipato al Forum mondiale sull’eccesso di capacità produttiva di acciaio, che nel novembre scorso ha approvato un ambizioso pacchetto di soluzioni strategiche concrete per affrontare la pressante questione dell’eccesso di capacità produttiva globale del settore. Il regolamento è disponibile nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.

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