debito

  • Il debito pubblico e il Covid

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 16 febbraio 2021.

    La pandemia e il 2020 hanno cambiato in modo profondo, forse definitivo, alcune idee di un certo liberismo economico, che è stato dominante nei passati quattro decenni.

    Per far fronte all’emergenza, si è dovuto mettere da parte l’approccio del rigore a tutti i costi e dell’austerità come toccasana dei bilanci. Si è riscoperto, invece, il ruolo centrale e fondante dell’economia reale e del credito produttivo, quale motore di sviluppo, di avanzamento tecnologico e anche di ampliamento dell’occupazione.

    Molte annose questioni, come quella riguardante il debito pubblico degli Stati, dovranno, quindi, essere rivisitate e affrontate con metodologie e programmi diversi. Ciò dovrebbe essere ovvio per tutti. Particolarmente dopo che nel 2020 l’emergenza sanitaria, economica e finanziaria ha dettato l’agenda ai governi costringendoli a mettere in campo aiuti e stimoli fiscali per 12.000 miliardi di dollari. E le stesse banche centrali sono state costrette a creare almeno 8.000 miliardi di nuova liquidità. Ovviamente, sono tutte risorse create contraendo nuovi debiti.

    Secondo l’Istituto di finanza internazionale di Washington, il debito aggregato, pubblico e privato, che era già tre volte il Pil mondiale, nel 2021 dovrebbe mediamente aumentare del 20% nelle cosiddette economie avanzate e in quelle di altri Paesi emergenti.

    Mario Draghi, sorprendendo molti, in verità anche noi, è stato forse l’economista che, avendo avuto ruoli istituzionali assai rilevanti a livello mondiale, per primo ha riconosciuto il cambiamento di paradigma.

    Al Meeting di Rimini, tenutosi il 18 agosto dello scorso anno, in merito al debito disse: «La ricostruzione, in cui gli obiettivi di lungo periodo sono intimamente connessi con quelli di breve, è essenziale per ridare certezza a famiglie e imprese, ma sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo. Questo debito, sottoscritto da Paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori, sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi, ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc. se è cioè debito buono. La sua sostenibilità verrà meno se, invece, verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato debito cattivo».

    A dire il vero, Draghi su questo tema era già intervenuto all’inizio del lockdown. Nella sua lettera, pubblicata il 25 marzo dal Financial Times, affermava: «I diversi paesi europei hanno strutture finanziarie e industriali diverse, l’unico modo efficace per rispondere immediatamente a un crack dell’economia è quello di mobilitare completamente i loro interi sistemi finanziari. E deve essere fatto immediatamente, evitando ritardi burocratici… I livelli del debito pubblico saranno aumentati. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia ed eventualmente per il credito pubblico».

    Giustamente, egli ha sollecitato un modo differente di pensare e di intervenire. «Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempo di guerra», ha affermato, aggiungendo che «ci deve essere di ispirazione l’esempio di coloro che ricostruirono il mondo, l’Europa, l’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Si pensi ai leader che, ispirati da J.M. Keynes, si riunirono a Bretton Woods nel 1944 per la creazione del Fondo Monetario Internazionale».

    Questa è la ragione e l’inudibile necessità di riflettere in modo nuovo e innovativo anche sulla gestione e su una possibile riduzione, se non cancellazione, di almeno parte del debito pubblico. Nei mesi scorsi, in verità, ci sono state delle proposte rilevanti.

    Recentemente oltre 100 economisti, soprattutto francesi, italiani e spagnoli, hanno scritto un manifesto in cui si sostiene che «Il debito detenuto dalla Bce si può e si deve annullare». Il 25% del debito pubblico europeo è detenuto dalla Banca centrale europea, cioè una quota di debiti pari a circa 2.500 miliardi di euro, che i cittadini europei devono a loro stessi.

    Nella storia, la cancellazione del debito non è sempre stata un tabù: alla Conferenza di Londra del 1953, per esempio, i partecipanti, guidati dagli Stati Uniti, decisero la cancellazione di due terzi del debito pubblico della Germania, che iniziò così il suo percorso di ripresa e di prosperità.

    La loro proposta è chiara. I paesi europei e la Bce siglano un accordo in cui quest’ultima si impegna a cancellare il debito pubblico che detiene (o a trasformarlo in debito perpetuo senza interessi), mentre gli Stati si dovrebbero impegnare a investire lo stesso importo nella ricostruzione ambientale e sociale. Ricetta semplice, impegnativa ed efficace.

    Vi sono anche altre proposte simili, come quella che prevede che i debiti accesi per far fronte alla crisi attuale siano nella forma di titoli irredimibili, senza scadenza e senza interessi, garantiti dalla Bce.

    Del resto, anche un grande paese come il Giappone ha dovuto e deve fare i conti con la sua situazione debitoria. Pur essendo un paese avanzato e tecnologizzato forse più dell’Europa, ha il più grosso debito pubblico al mondo, pari a 252% del suo Pil. Nel 2020 ha aumentato il suo bilancio del 20% attraverso l’emissione di nuovi titoli di Stato. Ma in Giappone oltre il 40% di tutto il debito pubblico è in mano alla Banca centrale e il resto, in maggioranza, è posseduto dalle banche e dalle famiglie giapponesi. Non è in una situazione idilliaca, ma controllando il suo debito, il Giappone non è soggetto a pressioni esterne o a speculazioni da parte dei mercati internazionali.

    In conclusione, la cosa decisiva è che il «debito buono» venga utilizzato per la crescita economica. In tal modo aumentando il denominatore, il tasso debito/Pil inevitabilmente si abbassa. Ma non è la frazione matematica che interessa. Con la ripresa economica si possono finalmente affrontare i problemi reali delle famiglie e delle imprese.

    Il fatto che Draghi, nel frattempo, sia diventato capo del governo del nostro paese, ci fa ben sperare. Certo, anche noi, come cittadini e come singoli, dovremmo modificare i nostri comportamenti, ispirandoli al rispetto delle leggi e dei valori costituzionali.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Per le banche il 2021 potrebbe essere l’anno peggiore dal 2009

    Per le banche a livello globale il 2021 potrebbe essere l’anno peggiore dal 2009, più difficile di questo 2020. Potrebbe accadere nonostante gli istituti di credito siano in condizioni migliori rispetto al 2009 per resistere allo stress. E pur con le misure di sostegno in atto e le prospettive di vaccini contro il Covid 19. Lo sostiene un’analisi di S&P Global Ratings, in cui viene stimato che il ritorno ai livelli pre-pandemia non possa arrivare prima del 2023, ma anche oltre. Un ripristino “lento, incerto e altamente variabile a seconda delle aree geografiche”, secondo l’analista, Emmanuel Volland.

    La spiegazione viene individuata in quattro fattori di rischio, a partire dal peggioramento e dalla lunghezza della crisi da Covid 19. Secondo fattore, la durata finita delle misure di sostegno che hanno stabilizzato le banche. “Non possono durare per sempre e il progressivo previsto ritiro nel 2021 rivelerà un quadro più fedele della qualità delle attività bancarie” spiega l’analista Gavin Gunning. Altri due fattori sono indicati in un probabile aumento della leva finanziaria e prevedibili maggiori insolvenze societarie, insieme a un indebolimento nella proprietà e dunque nella qualità del credito bancario. Promettente per una ripresa l’annuncio di uno o più vaccini in approvazione per fine anno e disponibili per la metà del prossimo. Ma sarebbe solo un primo passo verso un ritorno alla normalità.

    Nello specifico delle banche europee ci sono analisti che stimano che il successo del lancio di un vaccino anti-Covid potrebbe aumentare i guadagni di 9 miliardi di euro (14%), con SocGen e UniCredit che potrebbero trarne vantaggio. Nei numeri d’altra parte S&P testimonia la prospettiva di difficoltà col fatto di avere intrapreso dall’inizio della pandemia 236 azioni di rating negativo, relative al coronavirus, allo shock sul prezzo del greggio e ad altri fattori di stress sulle banche a livello globale.

    Spostando lo sguardo sull’Italia, un quadro viene fornito dalla recente analisi del centro studi Orietta Guerra della Uilca sui conti economici del terzo trimestre 2020 degli 8 maggiori istituti di credito. Si evidenzia una contrazione complessiva dell’utile contabile di 8,5 miliardi di euro (5,3 miliardi col goodwill negativo dell’incorporazione di Ubi in Intesa Sanpaolo). Un calo (-93,2%) dovuto all’impatto degli oneri d’integrazione del piano industriale e ad altre operazioni straordinarie di Unicredit e all’aumento delle rettifiche di valore (3.036 milioni), di cui una parte per fronteggiare il deterioramento del credito, causa l’incidenza del Covid 19 sull’economica nazionale e internazionale. Ritenuto soddisfacente (-7,2%) il livello medio del margine operativo, oltre al fatto che nei primi nove mesi del 2020 le maggiori banche italiane abbiano ridotto i crediti deteriorati netti di 2,9 miliardi e che secondo operazioni di derisking non ancora contabilizzate, si arriverebbe a una riduzione di oltre i 6 miliardi. Per contro preoccupano le 2,7 milioni di domande di moratoria sui prestiti concesse dal sistema bancario per circa 294 miliardi, che alla scadenza, con un lockdown di cui non si conosce la durata, potrebbero trasformarsi in parte in npl.

  • L’illusione di un pasto gratis

    Uno degli argomenti che contrappone le diverse visioni politiche ed economiche espresse nel Parlamento è relativo all’utilizzo del Mes, a maggior ragione ora che i titoli del debito pubblico presentano un rendimento negativo come logica espressione di una fortissima politica monetaria espansiva della Bce.

    Nessuno, tuttavia, sembra in grado di cogliere i costi di questa politica monetaria espansiva, in particolare gli schieramenti politici con i propri economisti i quali addirittura chiedono, o meglio pretenderebbero, delle emissione di titoli del nostro debito senza limiti, a maggior ragione adesso, con tassi negativi.

    Un debito pubblico, come i suoi costi complessivi del servizio, per sua stessa natura ricade sulle generazioni future. La storia italiana dimostra come per tutte le emissioni di debito pubblico nessuno dei responsabili governativi risulti chiamato a risponderne.

    Rispetto, quindi, alla vita quotidiana dei cittadini italiani la classe politica vive in una sorta di assoluta irresponsabilità relativamente agli effetti delle proprie scelte politiche ed economiche.

    Viceversa, un atteggiamento prudenziale, in particolar modo in un periodo di grande incertezza come quello attuale, dovrebbe riportare entrambe le visioni economiche ad una maggiore consapevolezza e responsabilità in relazione al nuovo debito sia sotto forma di Mes che di nuove emissioni di titoli del debito stesso, anche se a tassi negativi.

    Sembra sfuggire incredibilmente ad entrambi gli schieramenti il costo reale per i contribuenti rappresentato dalla “depatrimonializzazione nel risparmio privato” (https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-politica-monetaria-e-la-depatrimonializzazione-del-risparmio/).

    Ancora oggi buona parte degli schieramenti politici si illude che un debito negativo non abbia costi ma solo vantaggi invitando di conseguenza ad una proliferazione di emissioni di titoli del debito italiano.

    All’interno di un ciclo economico con tassi negativi che avvantaggia la spesa pubblica contemporaneamente il loro peso (ed in forma positiva quindi come un costo) viene trasferito ed assume forma e peso attraverso la depatrimonializzazione del risparmio il cui peso grava sulle spalle dei contribuenti, soprattutto per i risparmiatori.

    Una ulteriore insostenibile forma di irresponsabilità della politica la quale si aggiunge al debito odierno con effetti per il futuro in forma di costi immediati del servizio allo stesso ma scaricati sul risparmio privato.

    Non capirlo è grave ed indice di una superficialità imbarazzante perché potrebbe contribuire alla illusione di un debito a costo negativo come la Panacea per ogni problema.

    Sembra incredibile come nessuno abbia ancora compreso il valore del principio che in economia “Nessun pasto è gratis…” di Milton Friedman.

    Non conoscere, o peggio, ignorare le conseguenze a medio e lungo termine di queste politiche monetarie espansive rappresenta un’altra forma del nostro declino culturale.

    Inserire nuova liquidità in un sistema che la disperde, tanto da non essere neppure in grado di utilizzarla, come dimostrano i 20 miliardi da 10 mesi bloccati ed inutilizzati nel fondo infrastrutturale, non produce alcun effetto anticiclico.

    La politica monetaria espansiva nel nostro Paese, quindi, con la irresponsabile emissione di ulteriore debito pubblico senza alcuna ricalibratura della spesa pubblica produrrà come uno unico effetto scaricare i vantaggi dei tassi negativi per lo Stato in forma di costi aggiuntivi per i risparmiatori.

  • Sofferenze bancaria a quota 385 miliardi nel 2021

    Una nuova ondata di crediti deteriorati è in arrivo nel 2021 per effetto del Covid, ma non sarà una tempesta come nella crisi dei mutui subprime del 2011. Dai 338 miliardi previsti per l”anno in corso si salirà del 5% a quota 385 miliardi secondo l’amministratore delegato di Banca Ifis Luciano Colombini, che ha fatto il punto al tradizionale convegno d’autunno sul settore, che si è tenuto quest’anno nell’incantevole cornice di Villa Erba a Cernobbio (Como).

    Una previsione confermata dalla stessa Abi, il cui direttore generale Giovanni Sabatini non ha negato l’incremento in arrivo dovuto agli effetti della “grave crisi economica, conseguenza della pandemia, i cui effetti sono da determinare”. Una scure che si abbatte nonostante lo “sforzo enorme per ridurre l’accumulo dei crediti deteriorati che si erano determinati negli anni della grande crisi finanziaria”.  Sforzo che Bankitalia ha quantificato oggi in 170 miliardi di euro dal 2016 a fine anno, prevedendo anche per il 2020 cessioni per circa 20 miliardi.

    Quanto alle stime di Banca Ifis, il tasso di deterioramento dei crediti salirà dall’1,3% del 2020 al 2,8% del 2021, mentre il rapporto tra Npe (l’insieme dei crediti deteriorati, che comprende le sofferenze, gli incagli e i crediti scaduti) e il totale dei crediti erogati salirà dall’attuale 6,2% al 7,3% del 2021.

    Per Colombini “l’onda si sta gonfiando, ma Venezia non è ancora allagata”. “L’acqua alta – ha detto il banchiere – arriverà l’anno prossimo, quando il default rate sarà raddoppiato”. Una situazione comunque migliore rispetto alla crisi del 2011. Secondo l’Ad di Banca Ifis “i risultati negativi di questa crisi sono inferiori alla crisi precedente, quando il default rate fu al 4,5%”. “In questa crisi – ha sottolineato – ci sono stati interventi importanti da parte dei Governi e delle Banche centrali”. Non tutto funziona come dovrebbe però. L’incaglio in questo caso si chiama Amco, il gestore pubblico dei crediti deteriorati. “La vediamo bene – ha puntualizzato Colombini – ma con una condizione imprescindibile, che sia un operatore di mercato e dai primi segnali che abbiamo non sembrerebbe che sia proprio così”. “L’industria degli Npl servicer, che ha superato gli 8mila dipendenti con operazioni effettuate per diversi miliardi di euro va tutelata”, ha precisato sottolineando che Amco dovrebbe intervenire nei salvataggi, mentre, se opera sul mercato “i miliardi di intervento pubblico avrebbero un effetto distorsivo e graverebbero sulle spalle del contribuente”.

    Gli ha replicato Giuseppe De Martino, consulente del Mes, socio unico di Amco. A suo avviso i timori espressi a Cernobbio dagli operatori privati del settore “non hanno forti ragioni di esistere”. “Il punto di forza di Amco – ha sottolineato – è avere un azionista paziente che non vuole ritorni a doppia cifra sul breve periodo”, cosa che “consente di conciliare obiettivi di profitto nell’ambito di logiche di mercato con profili di interesse pubblico”.

  • Caccia grossa dimenticando Einaudi

    Quando l’attuale presidente della BCE era al vertice del Fondo Monetario Internazionale, in un’intervista ad un media internazionale avanzò l’ipotesi di una patrimoniale o prelievo forzoso sui conti correnti del 20%. Il ministro delle finanze tedesco individua oggi una patrimoniale del 14% sul monte risparmi complessivo privato italiano. Per fornire un semplice termine di paragone il prelievo forzoso del 1992 del governo Amato fu del 6x1000.

    Ora la medesima idea viene appoggiata dalla Germania anche grazie alla assoluta incompetenza e al ridicolo spessore internazionale del nostro Paese. Del resto anche sul fronte interno ricomincia ad avviarsi quel bombardamento mediatico da parte sia di esponenti del centrodestra che del centrosinistra per un impegno dei risparmi italiani nella sottoscrizione di nuovi titoli di debito pubblico e magari, secondo qualche stordito, pure perpetui.

    Contemporaneamente nessuna menzione viene dedicata all’insopportabile spreco di denaro pubblico che ogni anno ammonta ad oltre 200 miliardi. In altre parole, è cominciata la caccia grossa ai 10.200 miliardi del risparmio italiano frutto di sacrifici dei cittadini di questo povero Paese. Un risparmio che, va ricordato, rappresenta sostanzialmente la sfiducia nei confronti dell’intera classe politica italiana come dimostrano i dati relativi agli ultimi dieci anni (https://www.ilpattosociale.it/2018/12/03/la-crescita-dei-depositi-bancari-in-dieci-anni-75/).

    Non solo l’Europa, quindi, ma anche la stessa classe politica italiana responsabile di questo disastro unanimemente hanno cominciato a prendere le misure per appropriarsi in forme diverse e più o meno eleganti dei risparmi degli italiani. Mai come adesso gli interessi e le visioni strategiche delle classi politiche europee ed italiana nella propria completezza risultano coincidenti a differenza delle dichiarazioni di contrapposizione radicale.

    Al tempo stesso entrambe ignoranti delle condizioni previste dal pensiero di Luigi Einaudi relativo alla adozione di una tassa patrimoniale che si sarebbe potuta attuare temporaneamente ad una riduzione reale della pressione fiscale e fosse una tantum, cioè non ripetibile.

    Mai come oggi il pensiero liberale di Einaudi risulta così lontano alla politica massimalista statalista espressione di ideologie anche contrapposte ed ignorato dalle classi politiche tanto europee quanto nazionali.

  • La vera epidemia? La crescita ulteriore della spesa pubblica

    Dal 2015 ad oggi ogni governo che si sia succeduto alla guida del nostro Paese ha avuto l’accondiscendenza dell’Unione Europea in relazione alla tenuta dei nostri conti in cambio di qualcosa o sfruttando una situazione.

    Il governo Renzi ebbe anche la fortuna di ottenere il semestre di presidenza della Unione europea ma si distinse per non proporre una legge europea a tutela del made in Italy ed accettò in più di offrire rifugio a tutti i flussi migratori verso l’Europa con il fine di ottenere come contropartita qualche decimale di deficit.

    Assieme al successivo primo ministro Gentiloni i due governi ebbero pure la fortuna di sfruttare un trend internazionale fortemente espansivo arrogandosi persino il merito di una crescita economica esterovestita, quindi indipendente dalla politica governativa italiana.

    Il governo Conte, assolutamente incapace di gestire le problematiche dell’economia italiana sia nella versione con la Lega che con il PD, all’interno di una fase recessiva internazionale, pur avendo adottato il reddito di cittadinanza e quota 100, potrà godere dei “benefici” effetti della crisi economica e finanziaria legata al coronavirus. Non è difficile immaginare, infatti, come tutte le autorità monetarie internazionali per evitare delle ricadute ancor più negative per l’economia globale si vedranno costrette a mantenere delle politiche monetarie fortemente espansive.

    Esattamente come con il governo Renzi e Gentiloni con il Quantitative Easing varato dalla Bce per smuovere un’economia stagnante anche per cercare di invertire l’impatto regressivo del coronavirus i tassi di interesse dovrebbero scendere grazie a nuove iniezioni di liquidità. L’effetto combinato renderebbe il costo del servizio al debito pubblico in graduale discesa pur essendo vicino alla soglia 2500 miliardi.

    Ed esattamente come con i governi Renzi e Gentiloni l’attuale governo in carica avrà la possibilità di utilizzare i risparmi per la gestione del debito pubblico con il solito fine di accrescere la spesa pubblica improduttiva, forte anche della accondiscendenza dell’Unione Europea la quale ha già affermato che potrà mantenere un atteggiamento più accomodante in relazione al precario equilibrio del bilancio pubblico italiano.

    Mai come in un’economia globale i focolai di crisi ed infettivi possono creare le condizioni ideali per gli speculatori finanziari fornendo loro strumenti legati alle politiche monetarie espansive. Al tempo stesso ne traggono immeritati benefici tutti i governi dal 2015 ad oggi i quali invece di risanare e ridurre il rapporto debito PIL solo contabilizzando il minor costo in interessi del debito pubblico utilizzano invece tali economie per finanziare la spesa pubblica.

    L’effetto paradossale del coronavirus quindi risulta essere una ulteriore globale accondiscendenza di fronte ad una irresponsabile politica governativa di crescita della spesa pubblica improduttiva che permetterà ancora una volta al governo in carica, come in passato, di accrescerla. Aumentando conseguentemente il debito senza fornire, viceversa, alcun supporto economico e finanziario all’Italia produttiva.

    In altre parole, in passato il Quantitative Esasing e ora il coronavirus permettono la sospensione della responsabilità dei governi che si sono succeduti fino ad oggi alla guida del nostro Paese i quali continuano con politiche scellerate di crescita della spesa pubblica e del debito pubblico.

  • Paesi emergenti: esplode il debito

    Riceviamo e pubblichiamo di seguito l’articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi, uscito su ItaliaOggi del 3 gennaio 2020

    Ancora una volta suona l’allarme debito. Questa volta riguarda i paesi emergenti e in via di sviluppo. Secondo il rapporto della Banca Mondiale, Global wave of debt (L’onda globale del debito), pubblicato a dicembre, il debito pubblico e privato di questi paesi a fine 2018 ha raggiunto il record di 55 mila miliardi di dollari. Dal 2010 il loro rapporto debito/pil è aumentato del 54% fino a raggiungere il 168%.

    In questi otto anni, relativamente ai paesi oggetto dello studio, si è verificata la crescita più grande, più veloce e diffusa del debito degli ultimi 5 decenni. In media il 7% annuo, tre volte più veloce di quanto avvenne durante la crisi del debito dell’America Latina negli anni ottanta. Nel cinquantennio scorso, quella dei paesi emergenti sarebbe l’ultima delle quattro grandi crisi debitorie. Si è potuto evidenziare che la crescita elevata del debito è combinata con veri e propri sconquassi finanziari che hanno determinato crolli nella produzione, nei consumi e negli investimenti.

    La crescita del debito in questione è stata guidata dalla Cina che ne detiene 20 mila miliardi di dollari. Nel periodo di riferimento, Pechino ha visto crescere del 72% il rapporto debito/pil portandolo a 255%. Un dato preoccupante. La pericolosità della bolla debitoria è aggravata dai rilevanti cambiamenti realizzati rispetto al passato. Non si tratta solo di debito pubblico e di quello estero ma anche di debito privato, in particolare delle imprese.

    Rispetto al 2007, oggi questi paesi sono più deboli. Il 75% di loro ha deficit di bilancio e i deficit delle partite correnti (la differenza tra la spesa per le importazioni e gli introiti dalle esportazioni) sono 4 volte più grandi. Inoltre, sono coinvolte nuove categorie di creditori. In passato erano i governi e le organizzazioni internazionali, adesso i debiti sono soprattutto in mano ai vari tipi di fondi d’investimento e a settori non bancari. In aggiunta, sono negoziati nei mercati di capitali, tanto che oltre il 50% dei debiti pubblici sono in mano a operatori stranieri.

    Tali debiti sono anche fuori dal Club di Parigi, cioè fuori dall’accordo che garantisce interessi moderati, eventuali sospensioni dei pagamenti e riorganizzazioni debitorie non punitive. Spesso sono denominati, non in moneta nazionale, ma in dollari ed espongono i paesi a fluttuazioni e crisi generate fuori dal loro controllo.

    La crescita del loro debito aggregato è stata favorita, se non sollecitata, dalla politica del tasso d’interesse zero della Federal Reserve, della Bce e delle altre banche centrali. Anche la liquidità dei Quantitative easing, non utilizzata in investimenti nei settori dell’economia reale dei paesi industrializzati, è spesso confluita verso le economie emergenti in cerca di rendimenti maggiori. Quando il denaro non costa più, si avallano anche le propensioni a rischi elevati e al cosiddetto azzardo morale, che nel medio periodo minano le fondamenta di qualsiasi sistema economico.

    Adesso un improvviso choc globale, quale l’aumento dei tassi d’interesse o dei premi per il rischio di mercato, potrebbe generare un pericoloso stress finanziario difficilmente sostenibile. Si ricordi che, in merito al debito, la Banca Mondiale afferma che è la dose che può diventare veleno. Inoltre, si ritiene che il debito non sia un male in sé, se è usato per promuovere lo sviluppo di lungo termine. Se finisce, invece, in varie operazioni non produttive o addirittura speculative, allora diventa non sostenibile.

    Le soluzioni proposte dalla Banca Mondiale sembrano, però, vaghe e astratte. Si suggeriscono priorità sociologiche più che economiche. Ad esempio si richiedono una maggiore trasparenza e una più attenta gestione del debito. Indubbiamente cose utili, che non fanno male. Ma le cause profonde sono nella progressiva degenerazione della finanza a livello globale e nella mancanza di regole cogenti e di controlli. Certamente i governi dei paesi emergenti hanno molte responsabilità. Essi, però, seguono i modelli dei paesi occidentali, degli Stati Uniti in primis, che di solito dettano le loro condizioni da applicare all’economia e alla finanza.

    Per la sostenibilità del debito e per ridurre il rischio di choc economici, i paesi emergenti e in via di sviluppo necessiterebbero, invece, di investimenti e di crediti mirati al loro sviluppo economico e sociale. Si dovrebbero creare meccanismi per facilitare la soluzione delle loro crisi debitorie, evitando gravi conseguenze sociali. Troppo spesso essi sono trattati soltanto come fornitori di materie prime, di prodotti e di mano d’opera a basso costo. Il neocolonialismo, anche se in forme moderne, depreda le ricchezze e mantiene la maggioranza delle popolazioni nella povertà e nel sottosviluppo.

    E augurabile che con il nuovo anno, soprattutto da parte dell’Unione europea, possa esserci un’azione nelle competenti sedi internazionali per una revisione profonda delle politiche di sostegno e collaborazione con i paesi emergenti.

  • Debito pubblico: l’ennesima strategia che confonde effetti e cause

    Risulta sicuramente interessante la proposta di Giulio Tremonti e Sabino Cassese circa l’utilizzo della Cassa depositi e prestiti come Market unit per privatizzare asset pubblici ed attraverso il ricorso al mercato diminuire di conseguenza il debito pubblico.

    Sarebbe altrettanto interessante ,tuttavia, comprendere quanto nella realtà effettiva la campagna di privatizzazione degli anni ‘90 abbia portato in termini di servizio agli utenti e consumatori e benefici stabili nella determinazione del rapporto debito/PIL. Ancora si odono, infatti, gli echi dell’ intera  schiera di politici, docenti ed economisti i quali affermavano all’unisono come la privatizzazione di asset pubblici non performanti rappresentasse una scelta finalizzata all’efficientamento della struttura oggetto di tale operazione.

    A distanza di vent’anni il disastroso stato delle infrastrutture autostradali italiane sembrerebbe dimostrare esattamente il contrario pur rimanendo valido il vero motivo di tale operazione, cioè la riduzione del debito pubblico. Al principio dell’efficientamento, va ricordato, è stato legittimamente preferito (come  ampiamente prevedibile) da parte degli investitori privati quello della massificazione della Roe mentre il modello di gestione pubblica delle infrastrutture autostradali tedesco e quello della “vignetta” svizzera rappresentano modelli lontani dalla realtà italiana così come per l’ammontare dello stesso rapporto debito/PIL. Quindi, nello specifico, la privatizzazione avrebbe l’importante ed unica funzione di ridurre il peso del debito pubblico anche se con disonestà intellettuale si invocava l’efficientamento, senza valutare l’inevitabile costo economico e sociale per l’utenza di queste operazioni finanziarie, come la situazione sistema autostradale italiano dimostra ampiamente.

    In altre parole, ancora oggi il nuovo progetto di privatizzazione viene giustificato essenzialmente dal reperimento  di risorse finanziarie per ridurre il debito ed in considerazione della crescita esponenziale del nostro debito presenta  un fondamento strategico condivisibile. Tuttavia, una parte delle risorse finanziarie ottenute attraverso queste operazioni andrebbe comunque destinata all’inevitabile impatto sociale in termini di peggioramento dei servizi, come la storia ci ha insegnato. In più, l’interessante proposta o meglio riproposta da parte dell’onorevole Tremonti e di Sabino Cassese relativa all’utilizzo della CdP per alleggerire il peso del debito pubblico debito pubblico non prende  in considerazione un vizio culturale e procedurale: la decontestualizzazione dall’ambito politico italiano.

    Il debito pubblico non rappresenta come nel Monopoli un’entità economica stabile e definita ma essenzialmente una grandezza relativa legata soprattutto alla esplosione della spesa pubblica ed in alcuni periodi all’accentuarsi della crisi economica. Per cui ogni progetto che valuti la gestione e l’eventuale riduzione del debito pubblico per offrire una visione di sviluppo nel medio e lungo termine alla nostra economia si troverebbe ad ottenere risultati marginali nel breve termine. La continua e costante esplosione negli ultimi vent’anni della spesa pubblica, che rappresenta la fonte del nostro debito pubblico, annienta ogni prospettiva di successo. In questo contesto, quindi, l’interessante proposta risulta già ora minimale negli effetti ed errata nella sua contestualizzazione in quanto l’intera classe politica che si succede al governo del nostro Paese continua ad utilizzare la spesa pubblica intesa come un vero e proprio strumento per ottenere il consenso politico (https://www.ilpattosociale.it/2018/11/26/la-vera-diarchia/).

    In altre parole, qualsiasi proposta relativa alla riduzione del debito pubblico che non tenga in considerazione il declino culturale che la classe politica ha dimostrato negli ultimi anni attraverso l’utilizzo irresponsabile della spesa pubblica rappresenta la motivazione del suo stesso fallimento progettuale e concettuale.

     

  • Meccanismo Europeo di Stabilità e sovranismo

    Riceviamo dall’On Nicola Bono un articolo che pubblichiamo con piacere

    Se il Meccanismo Europeo di Stabilità si chiama “salva stati” vuol dire che uno Stato si è messo in pericolo di dissesto con le sue politiche e quindi ha bisogno di essere aiutato con congrui aiuti finanziari, che naturalmente presuppongono un adeguato sistema di monitoraggio e controllo.

    La polemica sul nuovo trattato del MES è quindi strumentale ed esagerata, essendo le regole modificate solo per due aspetti e cioè per l’attribuzione a carico dello stesso MES della valutazione di salvataggio e per l’introduzione della misura di ristrutturazione del debito, con conseguente perdita di valore dei titoli pubblici del Paese richiedente l’intervento, detenuti da privati.

    Di fatto non cambiano le regole fondamentali del precedente trattato, perché l’accettazione di ogni singola ipotesi di salvataggio dipenderà dalla volontà politica degli stati membri creditori.

    Semmai c’è da preoccuparsi del possibile venir meno del diritto di veto per l’Italia, triste conseguenza non delle modifiche al trattato, ma delle politiche fallimentari dei nostri governi che hanno portato ad una progressiva riduzione del PIL italiano rispetto a quello dell’UE, con il rischio di scendere al di sotto della percentuale minima del 15% e vanificare ulteriormente le capacità di incidenza del nostro Paese.

    Ma allora qual è la motivazione di questa riforma? Perché gridare allo scandalo, aprire una polemica così graffiante e soprattutto accusare la Germania e l’UE dell’ennesimo attentato alla nostra sovranità, quando in realtà sono le nostre politiche che minano le economie altrui e mettono l’Euro a rischio di svalutazione?

    I nostri leader sovranisti che oggi protestano con veemenza, non ricordano i tempi del governo Giallo-Verde quando facevano i bulli e mostravano i muscoli e i denti con dichiarazioni di grande impatto emotivo contro le “regole dell’UE”, vantandosi di volere sfondare di proposito tutti i parametri di contenimento previsti dai trattati e, in particolare, quelli del debito pubblico, salvo poi quando stretti all’angolo sul tema di rischiare l’uscita dall’UE e dall’Euro, non disdegnavano di rilevare che “l’Italia è troppo grande per fallire”?

    Non gli è passata neanche per un attimo l’idea che questa riforma sia il frutto avvelenato di una politica velleitaria e provocatoria che, a fronte di un Paese che continua a fare lievitare il debito pubblico solo per finanziare le ripetute campagne elettorali, e approva leggi finanziarie senza uno straccio di prospettiva di sviluppo e di crescita occupazionale, le modifiche apportate al MES fossero il minimo sindacale per tutelarsi? O, al contrario, è proprio questo il vero motivo della polemica?

    Ecco perché il sovranismo non è la soluzione al problema, ma solo un’illusione avendo la pretesa di continuare ad alimentare una società di Peter Pan e spacciare politiche di accattonaggio dei consensi da comprare con l’incontenibile aumento del debito pubblico, presentate come pulsioni nobili ed alte di presunta difesa dei diritti di autogoverno degli italiani. Ma autogoverno per quali fini?

    Forse quello del diritto ad aumentare a dismisura l’indebitamento pubblico per distribuire mance e perpetuare quella che è stata brillantemente definita da Luca Ricolfi la “Società Signorile di Massa”?

    Come è possibile non capire che il punto non è essere liberi di fare debiti, ma come invertire un declino di deficit produttivo e incapacità competitiva che ci sta portando alla rovina?

    Cosa fare? Quello che avremmo dovuto fare da prima, a prescindere dai richiami UE, e cioè chiudere questa scellerata stagione del “Pensiero Unico della Spesa” che è l’unico principio ispiratore di tutti i partiti e seguire l’esempio di tutti gli altri Paesi Europei che non a caso hanno da decenni i PIL in crescita con valori più che doppi rispetto a noi, e lavorare per la libertà e l’indipendenza dei popoli europei, costruendo garanzie di difesa dei diritti di tutti attraverso l’istituzione della piena cittadinanza Europea e comune appartenenza ad una entità federale che unisca l’Europa, superando questa specie di circolo culturale che è l’Unione Europea, prima che i singoli stati siano del tutto fagocitati dai tre imperi di USA, Russia e Cina.

    *già Sottosegretario per i BB. e le AA. Culturali

  • Il denaro inerte: l’acqua che non macina

    Già precedentemente era stato affrontato, all’interno di una analisi delle dinamiche economiche e soprattutto in relazione alla mancanza del credito alle imprese, il tema su come fossero cresciuti i depositi in conto corrente degli italiani. Una rilevazione assolutamente allarmante se valutata in rapporto con la continua diminuzione del credito che il sistema bancario, nel suo complesso, ancora oggi destinata alle piccole e medie imprese (https://www.ilpattosociale.it/2018/12/03/la-crescita-dei-depositi-bancari-in-dieci-anni-75/). A distanza di pochi mesi i dati vengono confermati, amplificando ancora lo scenario anticipato precedentemente ed offrendo una visione più completa. Sempre in rapporto alla crescita dei depositi si rileva come il valore complessivo della ricchezza “parcheggiata” in conto corrente quasi inteso come “denaro inerte o inattivo” raggiunga  ormai nel nostro Paese l’80% del PIL  per circa 1400 miliardi. Un fenomeno comune, per altro, all’interno dell’Unione Europea, ad altre nazioni tanto è vero che in Germania le risorse economiche ferme sui conti correnti raggiungono il 90% del Pil (3.000 miliardi), mentre in Francia addirittura il 92% del Pil per oltre 2.200 miliardi.

    Contemporaneamente si rileva come  da mesi le comunità finanziaria e politica continuino a proporre giustamente la necessità di una trasparenza finanziaria per fornire gli strumenti necessari ai risparmiatori e contemporaneamente promuovere ed agevolare gli investimenti con la positiva  conseguenza di movimentare la statica economia europea. E’ evidente, infatti, come questa ricchezza “che non macina” e che viene lasciata all’interno dei conti correnti non possa assolutamente trasformarsi in un veicolo di crescita in quanto non investita attraverso strumenti finanziari adeguati e trasparenti.

    Al tempo stesso, quando nemmeno una percentuale di tali risorse si trasforma in acquisti di beni di consumo (evidente ulteriore espressione di incertezza relativa al futuro), risulta impossibile, senza neppure il volano di una ripresa dei consumi, qualsiasi ripresa economica.

    In altre parole, mentre ci si preoccupa sempre più della necessità di reperire risorse da investire attraverso la cassa depositi e prestiti o attraverso un aumento della pressione fiscale per fornire i necessari supporti finanziari alla crescita del sistema economico, non si affronta invece il problema relativo al calo dei consumi che dimostra una forte e sempre maggiore diffidenza relativa al futuro prossimo per il  medio/lungo termine dei cittadini dei paesi europei, ed italiani in particolare.

    Nello specifico della situazione italiana, infatti, non risulta ancora assorbita la naturale e conseguente diffidenza nei confronti delle istituzioni bancarie dopo gli scandali delle banche di Ferrara ed Etruria ed il crac della Popolare di Vicenza e Veneto Banca i cui effetti sul rapporto fiduciario risultano drammaticamente catastrofici.

    In più – e questo va assolutamente imputato al sistema bancario, a fronte di questa grandissima liquidità la quale, di conseguenza, dovrebbe avviare un processo di aumento del credito alle imprese stesse che creano occupazione ed economia – il sistema bancario utilizza questa liquidità per acquistare titoli debito pubblico.

    I vari  governi di turno ricambiano attraverso l’imposizione delle transazioni elettroniche così come della  stessa moneta elettronica che rappresentano all’interno di un periodo di notevole liquidità, e quindi con denaro a costo zero o addirittura negativo, una delle principali e residuali fonti di marginalità del sistema bancario stesso. In questo senso, infatti, viene ripagata ed interpretata la pressione che i governi continuano ad esercitare a favore dell’utilizzo della moneta elettronica giustificandola con il progressivo contenimento dell’evasione fiscale (https://www.ilpattosociale.it/2019/01/10/il-falso-alibi-dellevasione-fiscale/) quando invece la stessa fatturazione elettronica si sta  rivelando un clamoroso bluff  https://www.ilpattosociale.it/2019/10/21/iva-il-fallimento-progettuale-ed-operativo-della-fatturazione-elettronica/).

    La crisi sistemica economica nasce dalla incapacità di valutare le articolate e complesse espressioni del ‘sentiment’ che emergono viceversa evidenti anche dalla crescita esponenziale di una minore  ricchezza prodotta ma tenuta bloccata nei conti correnti. Una scelta condizionata dalla incertezza che a fronte delle sempre minore disponibilità di risorse pubbliche destinate alle spese in conto capitale piuttosto che alla spesa corrente contribuisce alla stagnazione decennale del nostro Paese.

    Va ricordato, infatti, come per quanto riguarda soprattutto l’economia tedesca la crescita dei depositi bancari risulti avvenuta all’interno di un periodo di forte crescita economica, mentre la nostra economia da oltre dieci anni passa da una recessione ad una crescita decimale, di conseguenza l’aumento dei depositi bancari risulta esso stesso un fattore aggiuntivo di recessione economica.

    Il comportamento dei consumatori in una posizione fortemente conservativa dimostrata dal parcheggio sui conti correnti di sempre maggiori risorse economiche meriterebbe una semplificazione fiscale e finanziaria per offrire prodotti di investimento ma anche di semplice risparmio sempre più  chiari e sicuri: una aspettativa  ancora inevasa.

    Viceversa la classe politica governativa quanto il sistema creditizio (le vere cause di questo giustificato sentiment di sfiducia) sono molto attive nel mantenimento di questo duopolio che lega la gestione della sintesi malefica tra spesa pubblica e debito conseguente all’interno del quale interviene successivamente il sistema bancario.

    Come spesso succede viene indicata la luna ma ci si ostina a guardare il dito indicando la quantità di “denaro inerte che non macina” e non le complesse ed articolate cause di questa situazione.

     

    Francesco Pontelli

     

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