debito

  • Novembre 2011/2018

    A differenza del resto del mondo, il picco di crisi del nostro Paese si manifestò nel novembre 2011, quando lo spread andò ampiamente oltre i 550 punti a causa della perdita di credibilità del governo Berlusconi in relazione alle strategie di rientro del debito pubblico, come della sua politica economica di sviluppo. Da allora si sono susseguiti cinque nuovi governi fino all’attuale in carica.

    Al di là delle dichiarazioni pubbliche rilasciate dai vari presidenti del Consiglio e dai relativi ministri dell’economia, che vantavano tutti risultati stupefacenti attraverso le loro scelte di politica economica, risulterebbe opportuno, oltre che istruttivo, rivedere tali strategie e soprattutto i risultati conseguiti.

    Il governo Monti si attribuì il merito di aver riportato lo spread sotto quota cento quando tale ottimo risultato va attribuito interamente all’azione del Presidente della Bce Draghi il quale acquistò al mercato secondario tutti i titoli del nostro debito: di fatto sottraendo lo stesso governo Monti alle valutazioni che avevano fatto esplodere lo spread stesso con il precedente governo Berlusconi. A tal proposito va ricordato come tale azione fosse stata FORTEMENTE  criticata dalla Germania che gli dedicò persino delle giornate di discussione al parlamento tedesco.

    Per il resto il Governo Monti non fece altro che aumentare la pressione fiscale esattamente come tutti i governi precedenti, non introducendo alcuna nuova strategia e tanto meno competenza aggiuntiva. L’aumento tra l’altro dell’imposizione nel settore nautico portò alla perdita di ben 22.000 posti di lavoro. Dimostrando, ancora una volta, come non sia sufficiente aumentare la pressione fiscale per ritrovare un equilibrio economico finanziario senza creare danni permanenti, anche se coniati da un rappresentante della Bocconi.

    Successivamente il governo Letta con il ministro Saccomanni all’economia non riuscì assolutamente ad invertire il trend di calo della crescita economica, anche se il ministro nel febbraio 2015 affermò senza pudore che si diceva convinto di una crescita del Pil di oltre 1%, amaramente smentito poi dalla realtà.

    Fino a questo momento il debito pubblico continuava a crescere ad un ritmo di  circa 2223 euro/secondo.

    Contemporaneamente all’avvento del Governo Renzi, il 22 gennaio 2015  il presidente della BCE avviò la politica finanziaria del Quantitative Easing il quale permise di fatto la sospensione dalla realtà e soprattutto della valutazione dei fondamentali economici del nostro paese come della nostra economia per i governi Renzi e Gentiloni e fino al governo attuale in relazione alla emissione di nuovo debito pubblico. In questo senso va ricordato come le scelte del governo Renzi relative agli 80 euro, come l’introduzione della riforma del Jobs Act, abbiano di fatto raddoppiato la  velocità di crescita del debito portandola a 4463 euro/secondo.

    A queste manovre assolutamente a debito va aggiunta la scellerata iniziativa legislativa definita Investiment Compact la quale, come elemento distintivo, introduceva, per attrarre gli investimenti esteri, la non retroattività fiscale per gli investimenti superiori 500 milioni, escludendo così il 95% delle PMI italiane e  dimostrando contemporaneamente l’assoluta mancanza di conoscenza dell’asset  industriale italiano.

    L’azzeramento poi dei tassi di interesse sulle nuove emissioni di debito pubblico, conseguenza inevitabile  della nuova liquidità messa a disposizione dalla BCE, portarono un risparmio di oltre trenta miliardi sui costi al servizio del debito pubblico e rappresentò un”occasione unica dal dopoguerra ad oggi potendo infatti ridurre per un fattore positivo esterno al bilancio italiano il debito pubblico.

    Una scelta persa la cui responsabilità va attribuita interamente alla scellerata politica economica del governo Renzi e dei ministri Padoan e Calenda.

    Successivamente al referendum costituzionale che aveva di fatto distolto l’attenzione dalle reali problematiche di crescita italiana, il governo Gentiloni introdusse persino la cedolare fissa per le rendite finanziarie al 26% penalizzando, ancora una volta, i piccoli risparmiatori già violentati dagli scandali come dai default  bancari della Popolare di Venezia,  Banca Etruria, Veneto Banca e molte altre.

    Non sazio di simili iniziative che continuavano a penalizzare la gran massa dei risparmiatori come dei cittadini italiani introdusse anche la cedolare fissa fiscale di 100.000 al fine di attirare  milionari che volessero porre la propria residenza fiscale in Italia: di fatto portando l’aliquota del prelievo fiscale da un massimo del 10% per un reddito di 1.000.000 ad 1% per redditi di 10 milioni.

    Anche questa scelta strategica è espressione di una evidente disonestà intellettuale che accomuna il presidente del Consiglio al ministro dell’Economia in quanto tutte le altre nazioni facenti parte dell’Unione Europea elaborarono, e successivamente legiferarono,  delle politiche fiscali “incentivanti e di vantaggio”  finalizzate ad attirare aziende come investimenti produttivi sul proprio territorio al fine di creare Pil  aggiuntivo e nuova occupazione.

    Il governo in carica attuale, viceversa, incapace di comprendere come al 31 dicembre finirà il Quantitative Easing e di conseguenza l’assoluta sospensione della realtà relativa alla valutazione di fondamentali economici italiani, dopo aver negato l’impatto di un Def che portasse ad un aumento del deficit e parallelamente avendo sottostimato l’effetto nefasto sulla fiducia del mercato finanziario con relativa esplosione dello spread, continua a  sperare in un sostegno, quindi in una garanzia della BCE. Il combinato di simili comportamenti e strategie dettate da semplice impreparazione di economia di base provocano  l’esplosione dello Spread ad oltre 300 punti.

    La risultante di tutti questi governi – Monti, Letta, Gentilon,i Renzi e Conte – come il coacervo dei vari ministri dell’Economia, risulta quello di essere riusciti a riportare l’intero Paese esattamente nella medesima situazione economica e con simili, se non uguali, prospettive di crescita del novembre 2011.

    In questo in senso infatti  le ultime rilevazioni statistiche indicano un calo dei consumi del -2,5% unito  ad un calo del – 0,6 dei consumi alimentari (non accadeva dal 2012), con una crescita trimestrale del Pil pari a +0,0% il quale, in prospettiva, non potrà nella rilevazione annuale portare  una crescita del +0,8/1,0%,  con  uno scostamento rispetto alle previsioni del PIL varato dal Def del governo Gentiloni dello 0,6/0,4% .

    Contemporaneamente, tra il settembre 2017/2018, si sono persi 183.000 contratti a tempo indeterminato a favore di 363.000 contratti a tempo determinato dimostrando come, ancora una volta, il  Jobs Act abbia un vizio di partenza individuabile nella sua applicazione, cioè valere solo per i  nuovi posti di lavoro e non permettere invece la riconversione di contratti già in essere.

    Il disastroso combinato di queste rilevazioni statistiche  unite al sentiment delle PMI, che viene indicato al di sotto dei cinquanta punti (livello che generalmente viene associato ad una fase di prossima recessione), dimostra ancora una volta come il risultato delle diverse politiche economiche dei diversi governi che si sono susseguiti dal 2011 al 2018 alla guida del nostro paese lo hanno riportato esattamente al punto di partenza.

    I primi quattro (Monti, Letta, Renzi e Gentiloni), godendo della sospensione dalla realtà nella valutazione delle irresponsabili emissioni di nuovo debito pubblico,  invece di ridurlo, approfittando di un’occasione più unica che rara, cioè l’abbassamento dei tassi d’interesse allegati al quantitative easing (responsabilità imputabile soprattutto ai governi  Renzi e Gentiloni), lo hanno aumentato a dismisura  mentre il governo in carica deve ancora rendersi conto di come la bocciatura della Ue del Def nasca proprio dalla modificazione del contesto internazionale che non prevede, ad oggi, nessun riacquisto dei nostri titoli del debito pubblico.

    L’unica differenza alla quale si è precedentemente accennato tra il novembre 2011 e 2018  è facilmente individuabile nei trecentosessanta (360!) miliardi di nuovo debito interamente attribuibili ai governi che dal 2011 ad oggi si sono succeduti alla guida del Paese per riportarlo nella medesima situazione di quando si era partiti.

    Mai prima in Italia il senso di irresponsabilità come di assoluta impunità ha permesso ad una serie di governi di agire in un modo così nefasto per il nostro Paese.

  • Il debito Usa più che raddoppiato

    Il decennale anniversario del fallimento della banca d’affari americana Lehman Brothers, che ha dato il via alla più grande crisi finanziaria ed economica della storia, è appena stato celebrato come un semplice «fatto del passato». Per molti è un evento da dimenticare, per alcuni qualcosa su cui riflettere e da cui imparare.

    Secondo noi, invece, dovrebbe essere il momento per guardare con maggiore attenzione alla realtà odierna. Sono troppi i segnali, purtroppo ignorati nelle sedi competenti, dei crescenti rischi di una nuova e più grave crisi globale. E che proprio ieri sono esplosi un po’ ovunque nel mondo. Non si tratta di pessimismo. Occorre avere la lucidità di capire quanto sta accadendo e la volontà di non ripetere gli stessi errori di omissione del passato. L’attenta e precisa analisi del The New York Post, pubblicata il 23 settembre scorso, ci rivela che il debito aggregato mondiale ha raggiunto la vetta di 247 mila miliardi di dollari. Nel 2008 era di 177 miliardi di dollari. Già il titolo dell’importante giornale è eloquente e preoccupante: «Ci potrebbe essere un crac finanziario prima della fine del mandato di Trump».

    L’analisi evidenzia in particolare la situazione degli Usa. In dieci anni il debito pubblico americano è più che raddoppiato. Ha raggiunto il picco di 21 mila miliardi e potrebbe determinare una brusca frenata dell’attuale pretesa ripresa economica. Secondo il Congressional Budget Office, quest’anno Washington dovrà sborsare 390 miliardi di dollari soltanto per pagare gli interessi sul debito pubblico. Si stima che in un decennio tale quota annuale potrebbe essere di 900 miliardi di dollari, superando l’enorme budget militare. Il debito delle famiglie americane ha raggiunto i 13.300 miliardi di dollari. Ciò è dovuto al fatto che le ipoteche immobiliari sono pari a 9.000 miliardi, superando il livello del 2008.

    I debiti fatti per finanziare i prestiti agli studenti sono passati dai 611 miliardi del 2008 ai 1.500 di oggi. Quelli per l’acquisto di auto sono cresciuti moltissimo fino a 1.250 miliardi. Anche il debito totale sulle carte di credito è ritornato ai livelli di dieci anni fa. Si teme che il finanziamento dei prestiti per gli studenti, che in tre anni dovrebbero raggiungere i 2.000 miliardi di dollari, possa diventare il detonatore della prossima crisi. Si ricordi che la bolla dei mutui subprime, che fu una delle principali cause del crac, nel marzo 2007 era pari a circa 1.300 miliardi di dollari.

    L’aumento del debito aggregato negli Usa è l’inevitabile conseguenza della politica dei tassi d’interesse zero e dell’immissione di massiccia liquidità attraverso il quantitative easing. Adesso la Federal Reserve sta cambiando rotta e aumenta i tassi. Occorrerà vedere gli effetti sul mercato azionario di Wall Street, che è nel frattempo cresciuto a dismisura. Anche nelle economie emergenti gli effetti sono, purtroppo, già visibili e hanno generato fughe di capitali che stanno destabilizzando vari paesi, tra cui l’Argentina, l’Indonesia e la Turchia.

    Anche lo shadow banking è cresciuto enormemente: si è passati dai 28mila miliardi del 2010 ai 45mila di oggi. Sheila Bair, ex presidente della Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’importantissima agenzia governativa che fornisce la garanzia pubblica ai risparmi dei cittadini, torna a paventare rischi di nuove crisi. «Siamo in una bolla», e aggiunge che in una tale situazione è assurdo che le regole e i requisiti di capitale delle banche siano stati annacquati. Non è vero, afferma, che le bolle sono riconoscibili soltanto in retrospettiva, cioè dopo che sono scoppiate. Non è possibile indicare solo il momento dello scoppio. Ma la politica della Fed ha fatto di tutto per sostenere la crescita della bolla finanziaria. Altri moniti sono venuti da ex capi di governo, come l’inglese Gordon Brown, al potere a Londra allo scoppio della grande crisi, che evidenziano che si sta camminando ciecamente verso un futuro crac. Anche Jean-Claude Trichet, governatore della Bce dal 2003 al 2011, vede nella crescita del debito il pericolo di una nuova grande crisi.

    Ancora una volta riteniamo che non si possa sfuggire all’impellente necessità di sedersi intorno al tavolo per definire una nuova Bretton Woods, una nuova architettura condivisa che regoli il sistema economico, finanziario e monetario internazionale

    *già sottosegretario all’Economia **economista

    Da ItaliaOggi del 13 ottobre 2018

  • Vent’anni di inutile storia

    Un arco di tempo di vent’anni può rappresentare un valido arco temporale per valutare i risultati ottenuti in rapporto alle dichiarazioni ed alle promesse elettorali dai vari governi. Più di vent’anni rappresentano anche l’arco di tempo scelto dalla Cgia di Mestre, dopo un’accurata analisi, per indicare in duecento (200) miliardi la pressione fiscale aggiuntiva. Negli ultimi vent’anni quindi risultano sottratti dalle tasche dei contribuenti duecento miliardi di euro a parziale copertura della ingovernabilità ed insostenibilità della spesa pubblica. A questa maggiore pressione fiscale fa riscontro, per di più, un livello dei servizi mediamente erogato dallo Stato o dagli enti locali qualitativamente di livello inferiore di anno in anno.

    Risulta allora interessante ricordare come nel 1998, quindi sempre vent’anni addietro, il debito pubblico risultasse di 1.731.058 miliardi di euro all’epoca del governo Prodi e D’Alema.

    Attualmente risulta già ampiamente raggiunta la soglia di 2349 miliardi di euro (fonte Istituto Bruno Leoni) di debito pubblico. Appare quindi imbarazzante la somma tra le nuove tasse unite alla crescita del debito pubblico.

    Sempre negli ultimi vent’anni ammonta ad oltre seicentoventi miliardi (620) il nuovo debito pubblico, +200 di maggiore di imposizione fiscale. Totale 820 miliardi “solo” in vent’anni utilizzati semplicemente a copertura della maggiore spesa corrente essendo la spesa in conto capitale praticamente azzerata. Una cifra assolutamente improponibile anche per un bilancio dello Stato e che rappresenta la fotografia del disastro economico, finanziario e gestionale che accomuna nella responsabilità l’intero arco costituzionale dei partiti che si sono succeduti alla guida del nostro Paese,  in particolare dalla seconda metà degli anni novanta fino ad oggi, come emerge evidente dal grafico in foto.

    Questo dimostra inequivocabilmente come non sia mai diminuita la spesa pubblica e tantomeno la pressione fiscale seguite dal costante aumento del  debito pubblico: una strategia comune a tutti i governi di centro-destra come di centro sinistra. L’esplosione poi emerge evidente a partire dal 2015/2016, periodo nel quale il debito, con il governo Renzi e Gentiloni, aumenta di 2,5 volte più velocemente del PIL portandosi alla drammatica situazione attuale di un rapporto insostenibile di oltre il 130% tra debito e PIL.

    Tornando all’analisi dell’ultimo ventennio è evidente come a fronte di queste cifre iperboliche di nuova spesa pubblica (sostenuta e dall’aumento del debito pubblico e della pressione fiscale) non abbia mai fatto riscontro un aumento del livello dei servizio, dimostrando, ancora una volta, come siano gli enti pubblici nella loro erogazione dei servizi stessi il vero problema dell’ inefficienza della pubblica amministrazione. Questa responsabilità va ovviamente equamente condivisa tanto tra chi ipotizzava una diminuzione “di un giorno lavorativo” come la esemplificazione di una visione semplicistica ed impropria relativa all’ingresso nell’euro. Quando invece si sarebbero dovuti diversamente utilizzare i risparmi sui costi al servizio del  debito pubblico grazie alla riduzione dei tassi medi invece di finanziare nuova spesa pubblica.

    Una responsabilità che ovviamente coinvolge anche brillanti candidati al premio Nobel  per l’economia convinti di risolvere il problema della inefficienza della pubblica amministrazione attraverso l’introduzione dei tornelli, mentre invece si sarebbe semplicemente dovuto inserire su un parametro di efficienza che valutasse l’esito tra le pratiche presentate ed  evase per aumentare la produttività della stessa amministrazione.

    Un disastro talmente evidente dato dalla somma del maggiore debito pubblico e della maggiore pressione fiscale (820 mld) che emerge dal semplice confronto tra i dati dei consumi del 2010 in Germania che sono aumentati di oltre il 13%, in Francia di oltre 10% mentre in Italia risultano  inferiori ancora del 2%.

    L’incrocio tra i dati  relativi all’aumento del debito pubblico dalla seconda metà degli anni ‘90 fino ad oggi unito alla maggior pressione fiscale degli ultimi vent’anni dimostrano inequivocabilmente come la gestione della macchina amministrativa presenta delle falle incontenibili che mostrano un costo doppio per la collettività e soprattutto per le imprese e per i  lavoratori.

    Il primo viene indicato dalla mancanza di un servizio finanziato attraverso la pressione fiscale e il debito che si rivela di scarso livello e non certamente in linea con le aspettative che un mercato globale impone ad una nazione come l’Italia.

    In questo senso basti pensare a tutte le classifiche che ci vedono tra gli ultimi posti tanto in Europa quanto nel mondo come numero di laureati al quale il mondo accademico risponde attraverso l’adozione del numero chiuso. In più esiste un secondo costo che viene rappresentato dalla necessità per gli stessi cittadini come per le imprese obbligati a ricercare nel settore privato quei determinati servizi che la pubblica amministrazione non sa offrire ad un livello adeguato. Si pensi ai diversi tempi di attesa per una visita con lo stesso medico all’interno della medesima struttura ospedaliera a seconda che si vi si acceda attraverso la via pubblica o privata.

    Sempre nell’ultimo ventennio il PIL dell’Irlanda è cresciuto ad una velocità molto superiore rispetto a quello italiano tanto da passare in termini assoluti da 1/25 di quello italiano al livello attuale di 1/5. Sono gli effetti di una gestione della pubblica amministrazione e della finanza pubblica assolutamente insostenibili, come la Corte dei Conti ogni anno ammonisce senza ottenere mai una risposta dal mondo politico stesso e tantomeno da quello accademico che, in questo caso, risulta  legato a doppio filo con quello politico.

    Una situazione talmente grottesca da coinvolgere persino la classe politica attuale che si considera nuova e che vorrebbe portare o meglio riportare il nostro Paese ad una valuta debole (la lira) convinta che questo porterebbe ad una esplosione delle esportazioni. Anche in questo caso una imbarazzante analisi come visione semplicistica che ridicolizza le competenze in campo economico  in quanto il debito pubblico andrebbe comunque pagato in valuta pregiata e non soggetta ad una  continua svalutazione: il che provocherebbe una ulteriore spinta inflazionistica legata all’esplosione dei costi al servizio del debito stesso.

    La storia economica degli ultimi vent’anni insegna e dimostra i “risultati” ottenuti attraverso determinate politiche economiche e sociali. Oltre ottocentoventi miliardi di nuova spesa pubblica finanziata, 620 a debito e 200 con nuove tasse. Un aumento che i ministeri sono riusciti ad ottenere attraverso la “contabilizzazione extra bilancio”, già fortemente criticata dalla Corte dei Conti, tanto da accrescere la spesa dei ministeri negli ultimi cinque  anni di altri cento miliardi.

    Questi numeri suggeriti dalla Cgia di Mestre incrociati con quelli dell’esplosione del debito pubblico e della spesa pubblica dimostrano come in Italia gli ultimi vent’anni di storia risultino  passati inutilmente e come la nostra crisi economica rappresenti solo un aspetto di una ben più grave crisi culturale. Appunto …Vent’anni di inutile storia.

  • Agenzie di rating non immacolate. Le loro scelte sono alla base della crisi del 2008-2009

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi del 4 settembre 2018.

    Arrivano le nuove pagelle delle agenzie di rating sull’Italia! La maggioranza dei media e tanti politici sono contenti come a Natale, sotto l’albero. Finalmente sapremo che i nostri titoli si avvicinano sempre più al livello di «spazzatura» e la cosa sembra consolare molti.

    In passato, abbiamo più volte messo in guardia da queste «incursioni». Lo abbiamo fatto quando al governo c’era Silvio Berlusconi e le opposizioni usavano i rating per provare che tutto andava male. Lo abbiamo fatto quando al governo c’erano i vari governi del centrosinistra e le opposizioni sventolavano le pagelle negative. Lo facciamo anche ora con il nuovo governo e le nuove opposizioni.

    I rating di Moody’s, Standard&Poor’s e Fitch non sono valutazioni fatte da enti indipendenti ed eticamente impeccabili. Le agenzie sono imprese private con base negli Usa che hanno la pretesa di giudicare le economie del resto del mondo. In America, invece, sono annualmente tenute d’occhio dalle istituzioni di controllo per scovare eventuali conflitti d’interesse e non sono per niente amate dalle autorità di governo. Il loro ruolo nefasto e corresponsabile nella Grande Crisi del 2007-8, i loro trascorsi e i legami con le grandi banche e con la finanza speculativa, non depongono bene.

    Fitch è posseduta dal colosso della comunicazione Hearst, che ha capitali e partecipazioni in centinaia di differenti business privati. Tra i suoi executive vanta dirigenti che hanno lavorato con banche e finanziarie come Merryl Linch, Lehman Brothers, Goldman Sachs , l’inglese Lloyd Bank, la Beneficial Corporation, ecc. Moody’s Corp. ha un fatturato di 4,2 miliardi di dollari per i suoi servizi finanziari e di rating. I suoi grandi azionisti sono fondi d’investimento e grandi banche. I suoi dirigenti si sono fatti le ossa nella Federal Reserve, nella City Group, nella JP Morgan Chase, nelle multinazionali della farmaceutica e del petrolio, come l’ExxonMobil.

    La S&P Global controlla anche l’omonima agenzia di rating. Prima era controllata dal conglomerato Mc Graw Hill Financial, una multinazionale dei servizi finanziari, che ha cambiato nome. I grandi azionisti sono i chiacchierati fondi d’investimento Black Rock e Vanguard. Vanta dirigenti che sono stati in posizioni di comando alla City Bank, alla JP Morgan Chase, alla banca olandese ING, al francese Credit Agricole, al Credit Suisse, e anche in grandi corporation tra cui la PepsiCo, la Lockeed Martin (tecnologia militare), ecc.

    Basterebbe una veloce occhiata ai loro siti internet per farsi un’idea precisa dei tanti passaggi dal mondo della grande finanza e della speculazione a quello delle grandi corporation che dominano i mercati e viceversa. È più che opportuno, quindi, ricordare quanto detto su di loro dalle massime autorità americane.

    Il documento «The financial crisis inquiry report», preparato da una Commissione bipartisan e pubblicato dal governo americano nel 2011, evidenzia in oltre 650 dettagliatissime pagine le nefandezze perpetrate prima e durante la Grande Crisi finanziaria del 2007-8. Così sintetizza: «Noi affermiamo che i fallimenti delle agenzie di rating sono stati delle cause essenziali della distruzione finanziaria. Le tre agenzie sono state le provocatrici chiave del meltdown finanziario. I titoli legati alle ipoteche immobiliari, centrali nello scatenamento della crisi, non potevano essere valutati e venduti senza il marchio di approvazione delle agenzie. Gli investitori, spesso in modo cieco, hanno fatto affidamento sui loro rating. In alcuni casi erano persino obbligati a comprare tali titoli, pena un aggravamento degli standard relativi alle regole sui capitali loro impostogli. La crisi non sarebbe potuta avvenire senza le dette agenzie. I loro rating, prima alle stelle e poi repentinamente abbassati, hanno mandato in tilt i mercati e le imprese».

    Anche il dossier del Senato americano «Wall Street and the financial crisis: anatomy of a financial collapse», pubblicato nel 2011, sulla base di approfondite indagini e di numerose audizioni, dettaglia il ruolo centrale e nefasto delle agenzie nel provocare la Grande Crisi. Evidenzia, in particolare, il loro ruolo fraudolento nel propinare titoli taroccati dai loro rating.

    Non deve quindi sorprendere se nel 2015 solo la S&P ha pagato 1,5 miliardi di dollari di multa per simili comportamenti fraudolenti. Una sanzione monetaria molto conveniente, sia per il modesto importo, sia perché l’agenzia ha evitato che le indagini andassero più a fondo, facendo eventualmente emergere risvolti più scabrosi e penalmente perseguibili.

    Evidenziamo tutto ciò certo non per occultare gli evidenti problemi economici del nostro paese. Ci sembra, però, insopportabile la mancanza di critiche nei confronti delle citate agenzie private di rating, che, dopo aver contribuito grandemente a provocare la crisi finanziaria più grande della storia, di cui il mondo e l’Italia soffrono ancora, imperterrite, e riverite, proseguono a dare pagelle a tutti, governi e imprese.

    Se i loro rating fossero degli esercizi innocui di dispensare giudizi non richiesti, si potrebbe lasciarle giocare. Purtroppo i rating sono presi in considerazione dai mercati per giudicare le varie economie nazionali e, di conseguenza, per definire anche i tassi d’interesse sul debito pubblico. Si rammenti, inoltre, che la Bce li usa per definire l’affidabilità delle obbligazioni pubbliche dei paesi membri dell’Ue e per decidere se accettare o no tali titoli in garanzia per operazioni di credito e di finanziamento.Ciò, in verità, ci sembra una cosa del tutto «indigesta».

    *già sottosegretario all’Economia **economista

     

  • Via libera dell’Esm a un miliardo di euro di aiuti alla Grecia

    Il board del fondo salva-Stati Esm ha dato il via libera al pagamento dell’ultimo miliardo di euro alla Grecia, ovvero l’importo residuo della quarta tranche del programma di assistenza. L’ok è arrivato dopo una valutazione positiva da parte delle istituzioni europee della liquidazione degli arretrati da parte del governo greco e dell’efficacia del sistema di aste elettroniche, come stabilito dal Memorandum.

    «Sono lieto di constatare che il governo greco ha compiuto sufficienti progressi nell’eliminare gli arretrati nel settore privato», ha detto il direttore generale dell’Esm Klaus Regling. «Se la Grecia rimane determinata nel mantenere lo slancio della riforma e nell’attuare le rimanenti riforme, sono ottimista sul fatto che possiamo completare la quarta revisione in corso del programma e che la Grecia possa uscire con successo ad agosto, come previsto», ha aggiunto.

    L’attuale programma di assistenza dovrebbe concludersi il 20 agosto 2018.

  • I tre campanelli e la sirena di allarme

    Sembra incredibile come all’interno di  uno scenario politico italiano caratterizzato, anche dopo le elezioni, da un continuo susseguirsi di insulti ed incertezze relative alle politiche di sviluppo e fiscali, come da mancanze di visioni complessive sia da parte della maggioranza che della opposizione, i campanelli le e sirene d’allarme passino giornalmente praticamente inosservati.

    I primi due dei tre campanelli riguardano due dati relativi alla produzione industriale. Nel primo trimestre del 2018, solo grazie al balzo del mese di marzo, la produzione industriale ha registrato una crescita del +0,0%! Una tendenza preoccupante confermata poi dal dato di aprile che registra invece un – 0,1%, sempre della medesima produzione industriale nazionale.

    Nell’assordante coro delle mille voci politiche questi due dati sarebbero dovuti diventare centrali nel dibattito ed avrebbero dovuto stimolare un confronto tra le diverse tesi per invertire questo trend molto pericoloso. Questi andamenti infatti risultano particolarmente gravi soprattutto se confrontati con quelli della vicina Spagna la quale nel mese di aprile segna un +1,9% di aumento della produzione industriale, il che dimostra e conferma il sorpasso avvenuto circa un mese fa per quanto riguarda il PIL nazionale spagnolo rispetto al nostro come per il reddito pro capite. Viceversa le due compagini politiche continuano a vomitarsi insulti dimostrando un livello di educazione assolutamente incompatibile con gli incarichi istituzionali che queste persone rivestono.

    Si aggiunge poi un terzo e veramente preoccupante indicatore (il terzo campanello) economico che dimostra come tutte le tesi relative alla crescita economica stabilizzata proposte dagli ultimi governi, da Monti in poi, risultino assolutamente prive di ogni fondamento economico se non addirittura menzognere. Nel mese di aprile infatti i consumi risultano in discesa del – 4,6%, una diminuzione che non si registrava da cinque anni. Questo dato dimostra il sentiment, cioè la disponibilità dei consumatori ad assumersi impegni finanziari per acquisire beni di consumo attraverso il credito e parallelamente la mancanza di una speranza di miglioramento della propria situazione economica che determina una conseguente diminuzione dei consumi stessi. Se poi questi dati relativi al calo dei consumi venissero confrontati con le trionfalistiche dichiarazioni del sistema bancario che invece afferma di assistere ad aumento del credito (+7,8%) al consumo è evidente come questo incremento (sempre in relazione al calo  dei consumi del – 4,6%) venga utilizzato  semplicemente per “finanziare” il pagamento di  tasse e bollette.

    Questi tre campanelli da soli dovrebbero imporre un comportamento ed un atteggiamento da parte della compagine governativa come dell’opposizione assolutamente più maturi e responsabili che invece non si registra dall’inizio della campagna elettorale. Inoltre questi indicatori nazionali, uniti all’inconsistenza delle ultime politiche economiche dal 2011 ad oggi, come alla assoluta mancanza di visione strategica dell’attuale compagine governativa, hanno portato il tasso dei nostri titoli di debito pubblico ad essere superiori a quelli della Grecia. In altre parole da venerdì 8 giugno 2018 l’Italia viene considerata più a rischio della Grecia e questo risultato non può venire attribuito semplicemente alla finanza speculativa ma è frutto di una responsabilità diffusa (ed ecco la sirena di allarme).

    In altre parole, mentre si ragiona di sovranismo o, peggio, di ritorno alla lira, unito a concetti infantili (e privi di ogni connotazione economica) come “padroni a casa nostra”, chi  dovrebbe finanziare  il nostro debito ci considera più inaffidabili della stessa Grecia. Ovviamente questo risultato non può essere imputabile solo ed esclusivamente all’incompetenza come all’inconsistenza dell’attuale governo sotto il profilo economico ma all’intera compagine politica che negli ultimi vent’anni ha distrutto la politica economica e strategica del nostro Paese, a cominciare dal settore industriale. Quello che risulta incredibile di questi dati è il confronto, per esempio, con l’economia spagnola a noi una volta molto simile come modello economico e di sviluppo. Invece di avviare un serio confronto economico e politico, tutto  passa sotto silenzio, probabilmente anche a causa dell’incapacità di leggere da parte degli attuali responsabili economici del governo come dell’opposizione le dinamiche come le conseguenze che risultano essere espressione di questi dati.

    Non va dimenticato infatti come la Spagna, che contava una disoccupazione al 21% dopo la crisi del 2008/2009, sia riuscita, attingendo alle finanze pubbliche, a invertire questo trend e a stabilizzare la propria crescita al doppio di quella italiana già da tre anni a questa parte. Questo è successo semplicemente perché il rapporto tra debito e PIL risultava, precedentemente alla crisi finanziaria del 2008/2009, al 50% mentre ora si attesta al 90%.

    Grazie quindi alla correttezza dei conti pubblici attribuibile all’ottima gestione governativa degli ultimi vent’anni il governo in carica (che ha lasciato il passo a una nuova compagine governativa la settimana scorsa) hapotuto attingere a risorse finanziarie grazie ad un equilibrio finanziario complessivo nazionale. Viceversa noi abbiamo utilizzato negli ultimi vent’anni la leva della spesa pubblica per finanziare fattori improduttivi, dimostrando ancora una volta come i conti pubblici in regola rappresentino una garanzia per affrontare momenti di difficoltà legati a crisi economiche, magari internazionali.

    Sempre incredibile, come in Italia si continui a parlare di flat tax come di una strategia innovativa con il fine di ricreare una domanda interna, o, peggio ancora, si continui a discutere inutilmente di una possibile uscita dall’euro per riportare l’Italia agli anni Ottanta, un periodo ormai inavvicinabile in quanto il mercato di allora è cambiato radicalmente. Credere di tornare agli anni ’80 solo adottando la valuta di allora rappresenta l’infantilità come l’inconsistenza economica di questa teoria.

    Il silenzio con il quale sono ignorati e probabilmente anche incompresi nella loro gravità questi tre campanelli d’allarme italiani assieme alla sirena relativa al declassamento dei nostri titoli del debito pubblico rispetto alla Grecia rivela il livello culturale come del  senso dello Stato tanto della maggioranza quanto dell’opposizione.

  • Sarebbe responsabile la Germania dei nostri mali economici?

    La crisi politica e istituzionale che sta attraversando l’Italia ha posto in primo piano l’accusa alla Germania di essere responsabile dei mali economici del resto d’Europa. La sua politica d’austerità non favorirebbe la crescita e porterebbe benefici soltanto al settore finanziario. Da qui le affermazioni accusatorie di Salvini e Di Maio: E’ la Germania a non volere il cambiamento che noi vogliamo effettuare per l’Europa – sottintendendo che la rigidità tedesca sui bilanci viene imposta perché conviene all’economia tedesca, senza tener conto delle esigenze degli altri Paesi.

    Su questo argomento si è pronunciato recentemente l’Istituto economico Molinari di Parigi che già nel titolo del suo intervento si chiede se “l’egoismo economico della Germania sarebbe responsabile dei problemi incontrati da certi Paesi europei, dalla Francia in particolare”,  per rispondere subito che si tratta di un mito che si deve decifrare

    E’ infatti una credenza diffusa che il rigore finanziario sarebbe esclusivamente tedesco, al contrario di quanto accade nel resto d’Europa. La cancelliera tedesca al potere da 13 anni sarebbe le degna ereditiera dei suoi predecessori ordo-liberali, difensori del principio dell’ortodossia finanziaria. La sua ricerca sfrenata dell’equilibrio di bilancio renderebbe complessi i dati, quando si tratta in particolare di sviluppare la costruzione europea. Questo modo di vedere rientra nel mito, che va chiarito e decifrato

    Non esiste, innanzitutto, nessuna differenza teorica tra il corpus teorico tedesco e quello francese o italiano, in termini di spesa pubblica, siamo tutti adepti della teoria degli stabilizzatori automatici. I periodi di crisi devono permettere ai deficit anti-ciclici di svilupparsi, per favorire la ripresa economica. Inversamente, i periodi di calma sono messi a profitto per riequilibrare i conti. Da qui l’integrazione di un margine di manovra del 3% dei deficit pubblici nei criteri di Maastricht. Da qui, anche, l’integrazione nel trattato di una soglia di debito pubblico del 60% del PIL da non superare. Il debito, ipotecando i nostri margini di manovra e quelli delle generazioni future, è sempre considerato che deve restare sotto controllo. Queste regole comuni non cadono dal cielo. Non sono state imposte da nessuno e sono sempre state difese, anche se talvolta non praticate, dalla più alta amministrazione, oltre che da eccelsi economisti.

    In secondo luogo, questo impegno comune è rispettato da una proporzione non indifferente di Paesi dell’Unione europea. C’è evidentemente la Germania che in 20 anni ha conosciuto 7 anni di eccedenze pubbliche. Ma complessivamente il suo debito è sotto controllo e oggi ammonta allo stesso livello di prima dell’ultima crisi economica. Situazione radicalmente diversa in Francia e in Italia. In Francia per i deficit annuali e in Italia per il debito pubblico che ha continuato ad aumentare. Non sono mancati poi politici e specialisti che invitavano la Germania a disfarsi di un feticismo perpetuo per le eccedenze, come se la Germania fosse la sola in Europa a praticare questa politica di rigore.

    La realtà, invece, è ben diversa. Le ultime cifre mostrano che 12 altri Paesi arrivano a equilibrare i loro conti pubblici. Eccedenze notevoli si registrano, per esempio, in Svezia (+1,3%), nei Paesi Bassi (+1,1%) o in Danimarca (+!%). Passar sotto silenzio questa tendenza non aiuta certamente a fare la necessaria pedagogia sull’importanza del ritorno all’equilibrio di bilancio. I politici sono ambigui quando predicano la riduzione delle spese, senza farla mai, e nello stesso tempo il ritorno all’equilibrio dei conti.

    Il terzo aspetto consiste nell’opportunità di non veicolare visioni economiche disgreganti e senza fondamento. Invitare la Germania a disfarsi delle sue eccedenze di bilancio e commerciali, per il motivo che esse sarebbero fatte a spese di altri Paesi, è un amalgama senza fondamento. Se le eccedenze commerciali degli uni sono i deficit commerciali di altri è una logica che non si applica alle finanze pubbliche. Non c’è nessuna ragione che le eccedenze pubbliche degli uni impediscano agli altri di equilibrare i loro conti. Questo sofisma, contro-produttivo rispetto al lavoro di pedagogia da fare, è anche inutile e disgregante rispetto a un Paese, la Germania, da cui noi anche dipendiamo per gli scambi commerciali interconnessi e per quelli legati al debito pubblico. I tedeschi detengono 24,06 miliardi  di titoli di Stato italiani, la Francia 44,27, il Regno Unito 12,05 e il piccolo Belgio 20,24, all’Italia ne rimangono 188,76. Anche noi approfittiamo dunque della ricchezza e del risparmio dei nostri vicini. Ed è normale che si interessino alle nostre vicende interne, suscettibili di poter provocare disastri finanziari. Anche loro ne subirebbero le conseguenze. Considerare i tedeschi degli aguzzini che ci impongono ristrettezze per trarne un esclusivo vantaggio ci sembra una visione parziale delle cose, per non dire che prendersela con la Germania perché noi non siamo capaci o non vogliamo fare ciò che sarebbe necessario per il bene del nostro Paese, ci sembra una scappatoia dialettica un po’ misera, troppo facile e avulsa da ogni senso di responsabilità. Le eccedenze tedesche non spiegano i nostri deficit pubblici. Il mito della Germania responsabile dei nostri mali va sfatato con convinzione, se non vogliamo farci del male con le nostre stesse mani.

    Abbiamo dunque bisogno della fiducia e della comprensione degli acquirenti dei nostri titoli di Stato. Se la situazione non si migliorerà significativamente confermeremmo che la qualità del nostro debito si è deteriorata, con il rischio di sperimentare quanto è accaduto alla Grecia. Anche per questo ci sembra che le grida lanciate da Di Maio e Salvini contro il Presidente della Repubblica, colpevole di tener conto delle conseguenze che l’aumento del debito provocherebbero presso la Germania e presso gli altri detentori del nostro debito, siano frutto di irresponsabilità, se non di malafede o ignoranza. La favola di La Fontaine sulla cicala e la formica – conclude l’analisi dell’Istituto Molinari – descrive un rischio che non dovrebbe essere trascurato. Dipende solo dalla nostra intelligenza collettiva che resti soltanto una allegoria.

  • Disequilibrio strutturale

    Sembra incredibile come tutte le analisi ed i commenti al rialzo dello spread e all’aumento dei tassi di interesse per finanziare il debito pubblico facciano riferimento all’emotività unita all’incertezza del mercato, in relazione comunque ad un teatrino della politica assolutamente disarmante.

    Emotività ed  incertezza assumono importanza all’interno del sistema finanziario già di per se compromesso ed, anzi, la loro incidenza aumenta con lo squilibrio finanziario complessivo, eredità da attribuire alle gestioni governative che si sono succedute negli ultimi vent’anni e soprattutto negli ultimi cinque. E’ quindi evidente che gli attori della scena politica degli ultimi settanta giorni abbiano tutti equamente la loro parte di responsabilità nell’aver inquinato con la loro presenza, le loro idee e soprattutto con le ridicole ed irresponsabili prese di posizione infantili lo scenario e la percezione del sistema italiano all’estero. Nessuno infatti ha dimostrato un minimo di senso dello Stato (che si ricorda si manifesta attraverso alla rinuncia di una personale prerogativa se questa bloccasse il quadro di insieme).

    Dovrebbe essere altrettanto chiaro però che tutto questo è avvenuto perché negli ultimi cinque  anni i governi che si sono succeduti, e quindi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, ed in particolare gli ultimi due, Renzi e Gentiloni, hanno massacrato la finanza pubblica al fine di perseguire traguardi assolutamente mai raggiunti che hanno avuto la responsabilità di aggravare ancora di più il nostro già pesante debito pubblico. Il monte debitorio dal novembre 2011, inizio di questa disastrosa china economica ed istituzionale italiana, risulta cresciuto di oltre 324 miliardi creando  le condizioni per cui i figuranti del teatrino politico, che adesso occupano lo scenario italiano, possano creare i danni e aumentare l’incertezza nel suo complesso.

    Trovo incredibile come nessuna delle analisi economico-finanziari degli ultimi settanta  giorni individui  anche le concause di queste reazioni del mercato finanziario nello squilibrio finanziario da attribuirsi assolutamente gli ultimi due governi Renzi e Gentiloni i quali sono riusciti a raddoppiare la velocità del debito pubblico passato dai 2230 euro al secondo agli attuali 4463, sempre al secondo.

    Un’analisi economico-finanziaria che non tenga conto dei dati pregressi rappresenta un’analisi politica dettata dall’ideologia di appartenenza.

     

  • Il deficit durevole, la fiscalità e l’evasione

    E’ opinione comune che il deficit sia la conseguenza dell’evasione fiscale. Combattere quest’ultima con tutti i mezzi corrisponderebbe a eliminare il deficit con le entrate ricavate dalla frode. E’ un leitmotiv corrente. Non c’è opposizione che non imputi alla maggioranza governativa la responsabilità di non contrastare convenientemente l’evasione. Contrasto che va effettuato non solo per il rispetto della legge, ma soprattutto per eliminare il deficit. Ebbene, questa credenza è falsa – afferma Nicolas Marques, ricercatore associato dell’Istituto economico Molinari di Parigi, in un articolo pubblicato il 9 maggio su “La Tribune” e che riproduciamo. “Una pressione fiscale più misurata e un’economia più sviluppata” sarebbe la ricetta migliore per eliminare il deficit.

    La fraude fiscale en France est estimée à 60 milliards d’euros, l’exact montant du déficit public. Pour certains, c’est simple il suffirait de renforcer la lutte contre la fraude pour faire disparaître le déficit. Une évidence qui est loin d’être une solution, au contraire.

    Il existe une croyance répandue. En France, la persistance des déficits s’expliquerait pour partie par la fraude fiscale. Sans rien changer à nos habitudes, nous pourrions assainir nos comptes. Il est vrai que les ordres de grandeur semblent correspondre : plus de 60 milliards pour la fraude fiscale selon certaines estimations, pour un déficit public de 60 milliards l’an passé. Mais peut-on vraiment en conclure que faire disparaître la fraude fiscale ramènerait les finances publiques à l’équilibre ? Certainement pas.

    Un sophisme

    On sait que plus la fiscalité est significative, plus la fraude est tentante. En France, les recettes des administrations publiques représentent 53,9% du PIB, le record de l’Union européenne. Prétendre résorber les déficits (2,6% du PIB) en réduisant d’autant la fraude relève du sophisme pour toute une série de raisons. D’une part, les comportements individuels ne vont pas changer du jour au lendemain. D’autre part, la lutte contre la fraude est coûteuse. Mais surtout, l’espoir de réduire significativement la fraude sans obérer l’activité économique est illusoire. Les dépenses collectives à financer sont très significatives (56,5% du PIB). Très peu de pays ont réussi à atteindre un tel niveau de recettes publiques au cours des dernières années. Seules la Suède (1996 à 2000), l’Islande (2016), ou la Norvège (2005 à 2008) l’ont fait sur des périodes de temps très restreintes. On sait que ces niveaux de recettes publiques, associés à des prélèvements obligatoires massifs, découragent l’activité et affaiblissent significativement le développement économique à long terme.

    Des effets pervers de deux ordres

    Penser qu’on pourrait atteindre ces niveaux sur la longue période en France relève de la pure croyance et génère des effets pervers de deux ordres. A court terme, cela nous conduit à relativiser l’importance d’un rééquilibrage des comptes publics articulé autour d’une baisse des dépenses, contrairement à ce qui a réussi chez nos voisins. A long terme, cela nourrit un débat politique construit autour d’une alternative caricaturale et anxiogène pour l’opinion publique : accepter de maintenir la pression fiscale à des niveaux très élevés ou se résoudre à une remise en cause du « modèle social » français.

    Or, les comparaisons avec nos voisins montrent que l’enjeu est différent. Elles attestent qu’il est possible de financer un niveau significatif de dépenses publiques (19.300 euros par habitant en France) sans multiplier les déficits (900 euros par habitant en France). L’Autriche ou la Belgique ont des dépenses publiques supérieures aux nôtres (de l’ordre de 21.000 euros par habitant) avec des déficits moindres (de l’ordre de 300 euros par personne). Le Danemark et la Suède ont des dépenses collectives bien supérieures (de l’ordre de 25.000 euros par habitant) avec des excédents (500 euros par personne ou plus). Ces pays financent des dépenses publiques significatives, avec des déficits moindres ou inexistants. Leur recette : une pression fiscale plus mesurée et une économie plus développée. L’écart de production de richesse par habitant est conséquent, il va de 4.400 euros par an en faveur de nos voisins Belges à 15.900 euros en faveur des Danois.

    Des contextes plus favorables à la création de richesses

    Ces écarts ne sont pas le fruit du hasard. Ils découlent de contextes plus favorables à la création de richesses et à la préservation des patrimoines. Ces approches pragmatiques, loin de profiter à une minorité nantie, irriguent en profondeur ces sociétés caractérisées par plus de libertés économiques et des prélèvements obligatoires plus cléments.

    Aussi, au lieu de rester dans le déni et de continuer à tabler sur une hypothétique réduction des déficits lié à une augmentation de la pression fiscale, nous gagnerions à nous inspirer de ces voisins. Ils ont compris qu’une fiscalité trop élevée nuisait à l’activité et fragilisait le financement des dépenses collectives. Cela leur a permis de mieux développer leurs économies et donc de financer des niveaux significatifs de dépenses publiques, sans multiplier les dettes. Pour les Français, souvent enclins à penser l’économie comme un jeu d’antagonismes, l’enjeu est de taille. Il est temps d’accepter qu’un enrichissement significatif est le préalable à tout développement soutenable de la dépense publique. Il y a 350 ans, Jean de la Fontaine nous y invitait déjà, en s’élevant contre ceux qui, sacrifiant la Poule aux œufs d’or, transformaient la richesse en pauvreté.

     

  • Le favole italiane e quelle estere

    Ancora oggi le forze politiche si illudono, e allo stesso tempo illudono i propri elettori, che quanto  promesso in campagna elettorale verrà realizzato nel breve e nel medio termine come il

    reddito di cittadinanza o di inclusione e la  Flat Tax. Tutti stupendi termini assolutamente privi di ogni copertura finanziaria per chiunque conosca l’andamento della spesa pubblica italiana e soprattutto la corsa del debito che cresce a 4463 euro/secondo, quindi circa 11 miliardi al mese, 130 all’anno, ad una velocità esattamente doppia rispetto a quella del 2014 che era di 2210/secondo.

    Il raddoppio di questa velocità è determinato dalla assoluta mancanza di controllo della spesa stessa e da una serie di azioni dei governi che hanno aumentato la spesa pubblica (finanziata a debito) per coprire le varie politiche relative al Jobs Act e agli 80 euro: una vera forma di politica vetero feudale. Viceversa, si cominciano a delineare le direttive degli organi internazionali relativamente alla strategia per rimettere sotto controllo la finanza pubblica italiana.

    Circa un paio d’anni fa passò assolutamente inosservata e inascoltata un’intervista dell’attuale presidente del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde la quale indicava in una patrimoniale da circa 4/500 miliardi basata essenzialmente su un prelievo del 20% sui conti correnti depositati presso le varie banche oppure attraverso una patrimoniale pesantissima la via per poter riportare sotto controllo il rapporto tra debito e Pil attorno ad un più accettabile 110-115%.

    Proprio pochi giorni fa Vitor Gaspar, direttore del dipartimento fiscale del Fmi, ha delineato in una manovra più articolata che si basi sulla riduzione del cuneo fiscale, contemporaneo all’aumento dell’IVA, da sommare ad una “patrimoniale sugli immobili” (proposta attraverso l’aggiornamento dei rendimenti catastali e di conseguenza di un aumento della pressione fiscale sugli immobili) la via per riportare sotto controllo la finanza italiane e soprattutto il debito pubblico in rapporto ad un Pil che cresce la metà di quello spagnolo, tanto per fare un esempio.

    Va ricordato tuttavia che il cuneo fiscale, cioè la differenza tra il reddito percepito dai lavoratori e  quanto invece pagato dall’azienda, quindi la sua riduzione appunto, non abbia alcun effetto  sul reddito disponibile dei lavoratori, quando invece si potrebbe utilizzare adattandolo alla realtà italiana: come esempio la riduzione delle imposte sugli utili d’impresa come la manovra di Trump  che ha innescato una corsa ai premi per i propri dipendenti  e  nuovi piani di investimento da parte delle aziende statunitensi proprio a causa dell’aumento dei dividendi per le aziende statunitensi.

    Entrambe queste strategie italiane e le due del Fondo Monetario Internazionale partono entrambe  dalla leva fiscale utilizzata per riequilibrare una spesa incontrollata. Queste presentano dei limiti evidenti e macroscopici. Il primo è che si continua a riversare risorse finanziarie all’interno di un serbatoio contenente la spesa pubblica senza intervenire sull’erogazione della stessa. Un secondo limite, forse ancor più grave di queste strategie, è relativo all’incapacità di affrontare  la questione principale relativa al rapporto debito PIL, individuabile nella crescita economica e quindi del PIL.

    Viceversa basterebbe una minima analisi approfondita  per comprendere come la nostra economia non possa svilupparsi solo attraverso gli incentivi fiscali, come ampiamente dimostrato solo venerdì scorso con la classifica del livello occupazionale delle nazioni europee che ci vede ultimi davanti solo alla Grecia.

    A fronte infatti di un aumento negli ultimi anni della spesa e parallelamente del debito anche per la copertura finanziaria degli stessi incentivi fiscali, a febbraio la produzione industriale  risulta in flessione ribadendo l’inutilità di queste manovre che non assicurano nessun effetto sull’economia reale come i dati sempre in flessione all’andamento dei consumi dimostrano. Un aumento dei consumi parallelamente ad una conseguente inflazione da crescita della domanda ma inferiore al 2% rappresenta infatti l’unico parametro attraverso il quale i cittadini dimostrano una maggiore o, meglio, la percezione di una migliore situazione economica e soprattutto un atteggiamento positivo relativamente al proprio futuro. Un aumento del PIL non confermato da un aumento di consumi risulta essenzialmente legato a fattori fiscali e viene pagato proprio dai cittadini i quali vedono ridurre il proprio potere economico in relazione all’aumento del livello dei prezzi. Nello specifico italiano poi si è aggiunto l’effetto del ricorso a contratti a tempo determinato che rappresentano circa il 91% .

    Un dato che comunque premia ancora una volta la valenza del  sistema industriale in quanto i contratti a tempo indeterminato in questo settore rappresentano il 23% del totale. Considerando la media nazionale vicina al 9% logica conseguenza vuole che il settore servizi, punto di riferimento della nomenclatura economica e governativa degli ultimi trent’anni, non utilizzi sostanzialmente mai un contratto a tempo indeterminato.

    Tornando all’attuale situazione, paradossalmente la produzione industriale torna ad essere negativa nel mese di febbraio come l’inflazione curva sotto il punto percentuale. In pratica si stanno ricreando le condizioni per una deflazione legata essenzialmente alla minore disponibilità economica dei cittadini (quindi una terribile deflazione da domanda)  che non diventano più consumatori ma semplicemente produttori di beni per i quali nessuno può poi essere a sua volta un consumatore. In altre parole, dal 2012 sono passati sei anni assolutamente inutili sotto il profilo della crescita economica in quanto il debito risulta aumentato di oltre 330 miliardi rispetto al novembre 2011 che segnò l’arrivo del governo Monti individuabile come l’inizio di  questa disastrosa spirale.

    Tornando quindi alle ricette diametralmente opposte dei politici italiani che vorrebbero formare un governo  rispetto a quelle del Fondo Monetario che continua a penalizzare la domanda interna, entrambe per rimettere sotto controllo il debito e la spesa pubblica ed offrire uno scenario di sviluppo economico all’Italia, rappresentano la sublimazione di approcci culturalmente insufficienti  alla necessità di trovare e di individuare le strategie di crescita economica del nostro Paese.

    In tal senso va ricordato infatti che un sistema economico non può essere solo rappresentato dai produttori di beni e servizi (l’offerta) ma anche di consumatori (la domanda) ai quali va restituita una parte della ricchezza prodotta diminuendo  la pressione fiscale esercitata in un modo indegno anche dagli enti locali che rappresentano essi stessi una figura non secondaria della disastrosa gestione delle finanze pubbliche, nonostante la supposta vicinanza rispetto al territorio che possono vantare rispetto allo stato centrale.

    Pur essendo così lontane queste due ricette, entrambe figlie della fantasia e di un approccio all’economia degno del Monopoli, si assomigliano per il carattere assolutamente fantasioso e per il disprezzo delle persone che dovrebbero subire le conseguenze. La favola italiana dimostra essenzialmente il valore della fantasia, quella del Fondo Monetario invece risulta una tragedia shakespeariana che coinvolge gli spettatori e cittadini.

    Sembra incredibile come ancora oggi si continuino a sprecare risorse finanziarie dal 2012, a partire  dal governo Monti fino all’attuale governo Gentiloni e anche con il prossimo governo in via di definizione. Purtroppo nulla risulta assolutamente cambiato nelle logiche della determinazione e della individuazione delle priorità da finanziare anche  rispetto ai rami secchi da tagliare nella spesa pubblica.

    Le favole infatti proposte dagli opposti schieramenti politici dimostrano essenzialmente la più assoluta irresponsabilità di una classe politica talmente miope da far diventare le favole del Fondo Monetario Internazionale le uniche realizzabili sul campo. La controprova oggettiva ed indiscutibile viene rappresentata dal triste  sorpasso della Spagna sul nostro Paese in relazione al Pil ed al reddito pro-capite. Un sorpasso che meriterebbe un’analisi molto più approfondita  relativa al fallimento di una classe politica dirigente di  Confindustria degli ultimi venticinque anni come delle associazioni di categoria e della classe accademica certificata da questo triste ed innegabile disastro. Un’analisi che non viene neppure approcciata non per pudore o altro ma semplicemente per incapacità nella individuazione delle ragioni stesse che l’hanno causata.

Pulsante per tornare all'inizio