Quando F.c.A. decise di delocalizzare la sede legale in Olanda ma soprattutto quella fiscale a Londra per usufruire delle minori aliquote sugli utili aziendali il governo Renzi affermò che questo rappresentava il modello di azienda per il futuro economico di sviluppo italiano. A tal riguardo si ricorda la quasi contemporanea approvazione del Jobs Act con il quale risultarono fiscalizzati gli oneri sociali per tre anni facendo ricadere quindi sul sistema fiscale nazionale il peso degli oneri contributivi precedentemente a carico delle aziende. Una scelta strategica opinabile ma assolutamente legittima della quale ha usufruito anche la stessa F.c.A.
Va però ricordato che la casa automobilistica non contribuisce in nessun modo alla creazione del gettito fiscale avendo delocalizzato la propria sede fiscale a Londra. Per essere un modello di riferimento francamente più che altro assomiglia più ad un modello di elusione fiscale. Questo tuttavia veniva presentato come modello di azienda italiana per lo sviluppo economico dall’allora presidente Renzi e dall’attuale ministro dell’economia Calenda.
Successivamente, nello stesso anno, il governo Renzi si fece promotore dell’apertura di una fabbrica di ciclomotori Piaggio nel Vietnam durante una visita di stato nel paese asiatico. Come contropartita lo stesso governo non esitò ad annullare i dazi sul riso vietnamita esponendo quindi tutto il mondo della risicoltura italiana ad una concorrenza assolutamente sleale. Per di più tale decisione non solo ha messo in crisi la risicoltura italiana ma contemporaneamente non ha avuto nessuna ricaduta occupazionale per quanto riguarda il gruppo Piaggio in Italia, dimostrando ancora una volta la miopia di chi decide e sceglie le strategie economiche di sviluppo facendo pagare alle eccellenze italiane scelte strategiche assolutamente sbagliate.
Il principio della concorrenza tanto osannato ancora oggi dai principi accademici italiani potrebbe essere anche sopportabile se fosse seguito da un’azione normativa finalizzata a tutelare il prodotto italiano, sia questo materiale o immateriale, delle imprese italiane. In questo modo poi rispondendo ad una esigenza del mercato mondiale che sempre più chiede prodotti che risultino espressione della “cultura contemporanea” (sintesi di creatività know-how professionale ed industriale) della nazione (Made In).
In modo infantile si crede ancora invece che il solo aumento della produttività nel nostro paese possa annullare la concorrenza dei paesi a basso costo di manodopera espressione di un ritardo sociale, politico ed economico.
L’altra espressione di questa terribile e al tempo stesso sciocca ideologia economica (perché non si tratta di dottrina economica ma di pura ideologia) risulta l’appoggio, a cominciare dagli anni 80, alle delocalizzazioni produttive considerate come delle scelte inevitabili. Fino all’esplodere della crisi economica e finanziaria del 2011 tutto il mondo economico non perdeva occasione per indicare come superata la visione che considerava l’industria, ed in particolare le Pmi, centrali nello sviluppo economico. Quando ormai già da anni risultava evidente che le delocalizzazioni produttive invece rispondevano solo ad una logica speculativa nel brevissimo termine, come dovette ammettere anche l’università di Harvard a circa cinque anni fa.
Risulta ugualmente chiaro come la vicenda della chiusura dello stabilimento Whirpool non possa solo venire attribuita alla miopia del governo Renzi, che con la Whirlpool aveva nel 2015 raggiunto un accordo i cui contenuti risultano ancora sconosciuti, considerati gli effetti disastrosi con la chiusura dello stabilimento Embraco.
Come non ricordare presidenti del Consiglio, docenti universitari, ministri dell’economia irridere con le loro prese di posizioni, esempio di superficialità ed arroganza pseudo culturale, nei confronti di azioni come quelle dei contadini, del tessile ed altre iniziative di associazioni che lamentavano un assoluto abbandono in relazione alle loro problematiche da parte della classe politica accademica ed economiche in generale. Come non ricordare le tronfie dichiarazioni sempre di presidenti del Consiglio e di segretari di partito inneggianti ad una “una economia post industriale basata sui servizi” che tutti sottoscrivevano a partire dal mondo accademico, politico e degli economisti?
Arrivando addirittura alle affermazioni di un Ministro, durante una cerimonia di apertura di una importante fiera milanese del tessile come Milano Unica, che dichiarò candidamente che l’Italia avrebbe vissuto di design. A fronte di tale affermazione assolutamente priva di qualsiasi contenuto economico nessuno ebbe nulla da obiettare ad esclusione Luciano Barbera, presidente dell’omonimo gruppo.
La presa di posizione dell’attuale ministro dell’economia, tornando alla questione del presunto dumping fiscale della Slovacchia, non risulta che un’operazione di immagine in quanto gli stessi governi ai quali ha partecipato hanno utilizzato la leva fiscale per abbassare il costo del lavoro, cercando, senza ottenerlo, di rendere il nostro paese maggiormente attrattivo in relazione agli investimenti esteri.
A tal fine si ricorda come il World Economic Forum in una recente ricerca abbia escluso da qualsiasi tipo di classifica l’Italia per quanto riguarda l’attrattività di investimenti esteri a causa ovviamente di una legislazione farraginosa, di una pubblica amministrazione fornitrice di alcun servizio e ad un sistema giudiziario che rifiuta qualsiasi forma di riforma.
A questo ‘assoluto in pace’ della pubblica amministrazione si aggiunga poi che dal 1996 al 2006, a fronte di un aumento dell’inflazione del 40,1%, la pressione fiscale viceversa risulta aumentata dell’80,3%.
Numeri e trend ovviamente attribuibili soprattutto a tutti i governi precedenti il 2011 ma che comunque sono visti come attori di questo disastro economico e normativo che presenta come unico tragico risultato allontanare gli investimenti che nel 2016 hanno registrato un -18% e nel 2017 un -32%.
Tali fuoriuscite di capitali si manifestano attraverso la chiusura di aziende come la Whirlpool assieme a mancati investimenti che denotano una mancanza di fiducia nel nostro paese e nel suo modello economico.
Del resto risulta insostenibile un sistema economico nel quale esistono 871 adempimenti burocratici in un anno a carico delle aziende, frutto di trent’anni anni di politica anti industriale e delle ultime “riforme fiscali” o dei governi Monti , Renzi e Gentiloni.
Quindi, se il principio di concorrenza viene accettato nel mondo economico delle imprese private non può assolutamente diventare un dumping quando viene utilizzata la leva fiscale per attrarre imprese ed industrie ad investire in un determinato paese. Del resto come non ricordare le politiche di fiscalità di vantaggio per il rilancio dell’economia del Sud Italia. A differenza delle politica, l’economia applica i principi riconosciuti come tali in ogni settore dell’articolato mondo globale economico.
Questa sorta di relativismo che vede esponenti del governo considerare appropriata la fiscalizzazione degli oneri contributivi (Jobs act) ma che successivamente critica un altro paese che la utilizza per incentivare gli investimenti nel proprio territorio si rivela come espressione di un “relativismo fiscale” che in ambito economico risulta assolutamente ingiustificato ed insostenibile.