Democrazia

  • Presidenti virtuali e democrazie morte

    Si discute molto, in questi giorni, sulle performance di Trump e di Biden e sulle effettive possibilità che ha quest’ultimo di tornare alla presidenza.

    Sono molte meno le voci che si confrontano sul problema reale e cioè quale è il futuro di un grande paese, come gli Stati Uniti, definiti la più grande democrazia del mondo occidentale e la prima, o tra le primissime potenze, in fatto di armi e di economia, quando per la presidenza si confrontano due anziani, l’uno inqualificabile per i suoi comportamenti, l’altro che spesso sembra confuso.

    L’età di un presidente non è importante se ci troviamo di fronte a persone lucide come Mattarella, diventa un problema quando negli Stati Uniti dei due candidati l’uno passa di processo in processo, enunciando programmi sempre più astrusi e pericolosi, e l’altro non riesce a ricordare le cose buone che ha fatto durante la sua presidenza e a rispiegare i fondamentali motivi per i quali gli Stati Uniti non possono disarticolarsi dall’Europa o smettere di difendere l’Ucraina.

    Tutto questo avviene mentre sanguinose guerre continuano, non solo in Medio Oriente ed in Ucraina, in tutto il mondo, Xi Jinping stringe sempre più forte amicizia con il sanguinario zar della grande Russia, Kim Jong-un esporta armi, lancia missili ed inonda di immondizia la Corea del Sud, tornano a farsi sentire i terroristi di varia natura, l’Europa nelle trattative per il proprio e nostro futuro sembra la nazionale di calcio italiana, cioè inconcludente, la Francia è sull’orlo di una crisi isterica, almeno per una parte, i cambiamenti climatici hanno messo in ginocchio l’agricoltura ed il rischio di carestie e di impoverimento per tutti è sempre più reale.

    Che l’inquinamento, negli anni, abbia colpito il cervello di molti non è più una ipotesi surreale, forse l’intelligenza artificiale è stata creata proprio per questo, oltre che per arricchire alcuni, e cioè impedirci di continuare a pensare sostituendosi a noi con presidenti virtuali e democrazie morte.

  • China changed village names ‘to erase Uyghur culture’

    China has changed the names of hundreds of villages in Xinjiang region in a move aimed at erasing Uyghur Muslim culture, Human Rights Watch (HRW) says.

    According to a report by the group, hundreds of villages in Xinjiang with names related to the religion, history or culture of Uyghurs were replaced between 2009 and 2023.

    Words such as “sultan” and “shrine” are disappearing from place names – to be replaced with terms such as “harmony” and “happiness”, according to the research, which is based on China’s own published data.

    The BBC contacted China’s embassy in London about the allegations.

    In recent years, Chinese authorities have been radically overhauling society in Xinjiang in an attempt to assimilate its minority Uyghur population into mainstream Chinese culture.

    Researchers from HRW and Norway-based organisation Uyghur Hjelp studied the names of villages in Xinjiang from the website of the National Bureau of Statistics of China over the 14-year period.

    They found the names of 3,600 of the 25,000 villages in Xinjiang were changed during this time.

    While the majority of these name changes “appear mundane”, HRW said, around one fifth – or 630 changes – remove references to Uyghur religion, culture or history.

    Words freighted with meaning for China’s Uyghur population – including Hoja, a title for a Sufi religious teacher, and political or honorific titles such as Sultan and beg – have been replaced with words HRW claims reflect “recent Chinese Communist Party ideology”, including “harmony” and “happiness”.

    In one example highlighted by the report, Aq Meschit (“white mosque”) in Akto County, a village in the southwest of Xinjiang, was renamed Unity village in 2018.

    growing body of evidence points to systematic human rights abuses against the country’s Uyghur Muslim population. Beijing denies the accusations.

    Most of China’s Uygur Muslims live in the north-west of the country, in areas such as Xinjiang, Qinghai, Gansu and Ningxia.

    There are roughly 20 million Muslims in China. While China is officially an atheist country, the authorities say they are tolerant of religious freedom.

    However, in recent years observers say they have witnessed a crackdown on organised religion across the country.

    According to HRW, while the renaming of villages and towns appears ongoing, most of the place names were changed between 2017 and 2019.

    The group claims this coincides with an escalation in hostilities against the Uyghur population in Xinjiang.

    China has used the threat of “violent terrorism, radicalisation and separatism” in the past to justify the mass detention of the country’s minority Uyghur population.

    Maya Wang, the acting China director at Human Rights Watch, said: “The Chinese authorities have been changing hundreds of village names in Xinjiang from those rich in meaning for Uyghurs to those that reflect government propaganda

    “These name changes appear part of Chinese government efforts to erase the cultural and religious expressions of Uyghurs,” she added.

    The research follows a report published last year in which HRW accused the Chinese state of closing, destroying and repurposing mosques in an effort to curb the practise of Islam in China.

  • Lo scontro democratico tra garanzie ed opportunità

    Una democrazia rappresenta la forma di governo all’interno della quale, come nel periodo degli antichi Greci, tutti potevano godere degli stessi diritti e tutti potevano accedere a determinati incarichi pubblici in base alla propria competenza.

    Questa forma di governo basata sul principio di uguaglianza riportata all’era contemporanea offre anche delle opportunità (che rappresentano un concetto radicalmente diverso da quello di garanzia democratica) per chi sappia utilizzare e magari volgere a proprio favore delle “vacatio legis” tali da non definire una base minima di requisiti per la eleggibilità.

    Questa lacuna viene abitualmente interpretata da ogni forza politica come la possibilità di proporre per una carica elettiva candidati il cui unico merito è quello di rappresentare una vicinanza alla stessa compagine politica. Tuttavia, proprio perché in altri campi la legge nazionale risulta invece molto precisa nella definizione dei requisiti minimi di accesso, questa vacatio diventa non più una caratteristica della democrazia ma una semplice quanto banale opportunità speculativa.

    Il principio principe delle uguaglianza, già presente nella democrazia dell’antica Grecia, viene così azzerato quando per accedere ad un qualsiasi concorso del personale di servizio ATA il candidato deve risultare incensurato mentre una persona che abbia già subito quattro condanne e ventinove denunce possa venire tranquillamente candidata ed eletta al Parlamento Europeo.

    In fondo sarebbe bastato adottare il medesimo criterio richiesto per l’accesso ai concorsi pubblici come espressione della semplice garanzia democratica.

    Questa elezione di Ilaria Salis rappresenta in buona sostanza il risultato di uno sfruttamento della “Opportunità” che un sistema democratico assolutamente perfettibile non ha ancora avuto il coraggio di normare adeguatamente.  In altre parole, il voto non può e non deve rappresentare l’unica forma di manifestazione della democrazia.

    Questo, invece, si dovrebbe inserire all’interno di un sistema elettorale nel quale venisse adottato un criterio comune in relazione alla eleggibilità. Come logica conseguenza, quindi, i leader di partito non possono sentirsi esenti da una propria responsabilità quando utilizzano nel sistema una opportunità a proprio semplice beneficio politico, in più spacciandola come espressione di una garanzia democratica.

    La democrazia dovrebbe essere gestita cum grano Salis  da chi pretende di stabilirne i principi democratici ma che per opportunità politiche lascia la definizione di accesso assolutamente libera ed espressione degli interessi delle  formazioni politiche.

    In fondo basterebbe solo un minimo di discernimento in quanto la democrazia non può essere intesa come una giostra alla quale chiunque, solo in quanto scelto da un partito, possa accedere.

    Il livello di una democrazia comincia dalla qualità dei candidati i quali, per il principio di uguaglianza, dovrebbero essere soggetti ai medesimi obblighi di legge sia per un concorso pubblico quanto per la semplice presentazione di una candidatura.

  • Parlano di principi, ma agiscono seguendo gli interessi

    Gli uomini chiamano amicizia una società di interessi, uno scambio d’aiuti, un commercio in somma, in cui l’amor proprio spera di potere guadagnare qualche cosa.

    François de La Rochefoucauld

    Francesco de Sanctis era un buon conoscitore della letteratura italiana ed un noto critico letterario del diciannovesimo secolo. Lui è anche l’autore del libro “Storia della letteratura italiana”, in cui si tratta il pensiero del grande filosofo, scrittore ed uomo politico Niccolò Machiavelli, espresso nella sua opera molto nota Il Principe. Un’opera che viene considerata anche come la base della scienza politica moderna. Francesco de Sanctis, nel quindicesimo capitolo del suo sopracitato libro scrive: “Ci è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gittato nell’ombra le altre sue opere. L’autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un codice di tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi, e il successo loda l’opera. E hanno chiamato machiavellismo questa dottrina”. Ormai il detto “Il fine giustifica  i mezzi” è molto noto ed usato in molte lingue del mondo. Un detto che però non è di Machiavelli, bensì, secondo gli studiosi, coniato proprio da Francesco de Sanctis nel suo libro “Storia della letteratura italiana” su Niccolò Machiavelli ed il machiavellismo.

    La scorsa settimana si sono svolte le elezioni europee. Elezioni dalle quali sono stati scelti dagli elettori dei ventisette Paesi membri dell’Unione i 720 eurodeputati del Parlamento europeo. Elezioni che sono state svolte, a seconda del Paese, tra il 6 ed il 9 giugno scorso. L’Italia è stato l’unico Paese dove si è votato sabato 8 e domenica 9 giugno. Il risultato definitivo delle elezioni ha testimoniato una crescita dei partiti di destra che hanno vinto in diversi Paesi come la Francia, l’Italia, la Germania, l’Austria, la Polonia ecc. In Francia il presidente della Repubblica, dopo il deludente risultato del suo partito, ha decretato le elezioni legislative anticipate il 30 giugno ed il 7 luglio prossimi. La situazione politica è delicata anche in Germania, dopo la sconfitta dei partiti che compongono l’attuale governo. L’Italia è stato l’unico Paese dell’Unione europea dove il risultato delle elezioni ha confermato la vittoria del partito guidato dalla Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma la Presidente del Consiglio dei Ministri del’Italia deve essere molto attenta a certi rapporti con qualche suo omologo. Soprattutto quando si sa tutto sulla loro totale inaffidabilità. Individui che, fatti accaduti e che tuttora stanno accadendo, fatti documentati, testimoniati, denunciati e pubblicamente noti alla mano, sono degli innati bugiardi ed ingannatori. Individui che quando si trovano in difficoltà fanno di tutto, costi quel che costi, per salvarsi. Individui che con i principi ed i valori non hanno niente in comune. Ragion per cui la Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia, premiata dagli italiani nelle appena passate elezioni europee, deve essere molto attenta quando fa degli accordi con simili individui. Perché ha delle responsabilità istituzionali e non solo. Ma devono essere molto attenti e responsabili anche i suoi consiglieri e collaboratori che sono obbligati a raccogliere tutte le necessarie informazioni e poi riferirle alla Presidente del Consiglio dei Ministri, prima che lei prenda delle determinate decisioni. Decisioni che potrebbero essere motivate anche da interessi e/o promesse elettorali che, come tali, devono essere rispettate. Ma tutto in base ai principi morali e non spinti da certi interessi mai resi pubblici.

    La settimana scorsa era l’ultima delle campagne elettorali per le elezioni europee. Normalmente durante un simile periodo si programmano delle attività elettorali, degli incontri che sono valutati necessari per aumentare la possibilità di consenso degli elettori. Ebbene, coloro che avevano programmato le attività in cui doveva essere presente anche la Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia avevano scelto una visita in Albania. Visita che è stata realizzata il 5 giugno scorso, solo tre giorni prima della fine della campagna elettorale. Durante quella visita la Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia ha incontrato il suo omologo albanese e poi tutti e due insieme si sono spostati in una località sulla costa adriatica ad una settantina di chilometri dalla capitale albanese. Sono andati lì perché proprio in quell’area è stato previsto di costruire due centri di accoglienza per migliaia di profughi. Tutto previsto dal “Protocollo per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria”, firmato a Roma nel pomeriggio del 6 novembre 2023 dalla Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia e dal suo “caro amico”, il primo ministro albanese. Il nostro lettore è stato informato sia di quel Protocollo, che dei successivi sviluppi a lui legati (Un autocrate irresponsabile e altri che seguono i propri interessi, 14 novembre 2023; Un autocrate irresponsabile ed altri che ne approfittano, 21 novembre 2023; Mai accordarsi con individui inaffidabili, 27 maggio 2024 ecc…). Molto significativa è stata un’intervista del primo ministro albanese, circa tre settimane fa, ad un giornalista del quotidiano La Repubblica. Un’intervista durante la quale il primo ministro albanese aveva “perso” l’entusiasmo sulla bontà di quel Protocollo. L’autore di queste righe esprimeva al nostro lettore la sua convinzione che “…non bisogna mai accordarsi con individui inaffidabili come il primo ministro albanese”. E poi aggiungeva: “Proprio con lui che il 18 novembre 2021 dichiarava convinto e perentorio che “l’Albania non sarà mai un Paese dove Paesi molto ricchi possano creare campi per i loro rifugiati. Mai!”. Ma quella sua “determinazione” la ha “dimenticata” il 6 novembre scorso, firmando l’Accordo sui migranti con l’Italia. Mentre adesso sta “dimenticando” proprio la bontà di quell’Accordo […].Chissà che ne pensa adesso del suo “caro amico”, il primo ministro albanese, la Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia?!” (Mai accordarsi con individui inaffidabili, 27 maggio 2024).  Invece durante l’incontro avuto il 5 giugno scorso con la Presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia, il suo “caro amico” ha cambiato di nuovo la sua opinione sull’Accordo. Chissà perché?! Si sa però che il 5 giugno scorso c’è stata solo una visita nei centri e niente più. Si sa anche che non sono stati rispettati neanche i limiti di tempo previsti dal Protocollo.

    La Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia ha fatto però delle dichiarazioni che non hanno niente a che fare con la vera, vissuta e spesso sofferta realtà in Albania. Basta pensare che si tratta di un Paese dove in meno di dieci anni la popolazione è stata quasi dimezzata proprio perché gli albanesi stessi hanno dovuto fare la difficile e spesso sofferta scelta di diventare, anche loro, dei profughi. Lo sapeva questo la Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia? Lo sapeva lei che, ben diversamente da quello che lei ha dichiarato il 5 giugno scorso, l’Albania è veramente diventato un narcostato? Una verità quella sulla quale riferiscono i rapporti ufficiali delle strutture internazionali specializzate, comprese quelle dell’Unione europea. Una preoccupante realtà quella che, da alcuni anni ormai, la stanno denunciando anche diversi noti procuratori e giudici antimafia italiani. Chissà perché non sapeva questo noto fatto la Presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia?! Oppure lo sapeva ed ha cercato di sostenere il suo “caro amico” che si trova in grosse difficoltà, proprio perché lui deve molto anche alla criminalità organizzata.

    Chi scrive queste righe è convinto che, purtroppo, sono non pochi coloro che, avendo delle cariche istituzionali di alto livello, parlano di principi, ma agiscono seguendo gli interessi. Aveva ragione François de La Rochefoucauld quando affermava che gli uomini chiamano amicizia una società di interessi, uno scambio d’aiuti, un commercio insomma, in cui l’amor proprio spera di potere guadagnare qualche cosa. Ma si sa però che il fine giustifica i mezzi.

  • ANC eyes national unity government after election loss

    South Africa’s African National Congress (ANC) has suggested forming a government of national unity after losing its parliamentary majority in last week’s elections.

    It says it has reached out to all parties but negotiations are still underway.

    “The results indicate that the South Africans want all parties to work together,” ANC spokesperson Mahlengi Bhengu-Motsiri told journalists.

    The ANC got about 40% of the vote, with the centre-right Democratic Alliance (DA) on 22%, the MK party of former President Jacob Zuma on 15% and the radical Economic Freedom Fighters on 9%.

    This was the first time the ANC has lost its majority since Nelson Mandela led it to victory in the first democratic elections following the end of the racist system of apartheid in 1994.

    Under South Africa’s proportional representation system, any government would need to be formed of parties which together got more than 50% of the vote.

    Ms Bhengu-Motsiri said the ANC has had discussions with the DA, the EFF and other smaller parties.

    She revealed that despite reaching out to MK, there has been no positive response.

    The ANC spokesperson added that the ANC would like to resolve this quickly as parliament convene in less than two weeks.

    Its first priority will be to elect a president to form the next government.

    Since the results were announced, there has been feverish speculation in South Africa about what sort of coalition could be formed.

    Forming a government of national unity would allow the ANC to sidestep the dilemma of who to work with.

    A coalition with the DA would have angered many party activists who see it as representing the interests of the white minority – a charge the party denies.

    The DA also opposes two of the ANC’s core policies – its black empowerment programme, which aims to give black people a stake in the economy following their exclusion under apartheid, and the National Health Insurance (NHI) Bill, which promises universal healthcare for all.

    However, working with two radical parties that broke away from it – MK or the EFF – would alarm the business community, as they both favour seizing white-owned land without compensation and nationalising the mining sector.

    There is also a wide chasm between MK and the ANC due to the personal animosity between President Cyril Ramaphosa and Mr Zuma, the man he replaced as ANC leader in 2018 after a bitter power struggle.

    Mr Zuma has said he is open to working with the ANC as long as it has a new leader, while the ANC has said President Ramaphosa will not be removed and that it is non-negotiable.

    While it will be difficult to get parties from across South Africa’s political spectrum to agree on common policies, Ms Bhengu-Motsiri was optimistic.

    “We believe that despite any differences we may have, working together as South Africans, we can seize this moment to usher our country into a new era of hope,” she said.

    She added that the ultimate decision on the way forward was up to the ANC’s national executive committee, which will be meeting on Thursday.

    South Africa has previously had a government of national unity.

    Following the historic 1994 elections, Mr Mandela’s ANC worked with his former enemies in the National Party, which was responsible for the implementation of apartheid, as well as the Inkatha Freedom Party, a conservative party with a ethnic Zulu base, whose supporters had frequently clashed with ANC activists, leading to thousands of deaths.

  • Repubblica italiana

    Quando l’Italia non era ancora unita e la Romagna era sotto il papato per definire una situazione di confusione si diceva “L’è una repubblica”.

    In questi giorni, il 2 giugno, abbiamo festeggiato la nascita della nostra Repubblica e subito sono nate nuove polemiche anche contro il capo dello Stato, così ci ritornano in mente quelle parole perché vediamo l’incapacità di troppe forze politiche di tornare, pur parlando senza mezze misure ed infingimenti, ad un minimo di linguaggio rispettoso delle istituzioni che, con ruoli diversi, rappresentano.

    Vorremmo un’Italia repubblicana ed europea dove il confronto politico fosse libero da pregiudizi, da frasi fatte, verità negate, menzogne palesi, annunci e slogan, dove ciascuno, pur criticando i progetti altrui, fosse capace di presentarne di propri, fattibili ed utili, senza avere sempre spirito di contraddizione.

    Vorremmo una Repubblica capace di sotterrare l’ascia di guerra del passato, disposta a riconoscere i meriti dell’avversario, tesa a costruire un domani capace di rispettare i tempi necessari a ciascuno per potersi adeguare alle novità, ad un progresso che spesso irrompe ed incombe, specie nella vita dei meno tecnologici o dei più anziani.

    Una Repubblica solidale, coraggiosa, umana, la Repubblica della gente normale che ha bisogno di una politica capace anche di tornare ad aprire sezioni di partito per consentire il dibattito interno e la crescita di una nuova classe dirigente, fatta di persone capaci di passione e dedite a studiare la complessità dei problemi senza avere in testa solo l’obiettivo personale di arrivare più in alto.

    Una Repubblica dove ai cittadini fosse possibile scegliere e votare i propri rappresentanti nazionali con un voto di preferenza, come per le europee, dove ci fossero meno aperitivi elettorali e più grandi o piccoli incontri tra la folla, tra la gente, per tornare a guardarsi negli occhi senza usare sempre strumenti tecnologici dietro i quali non sai chi veramente ci sia.

    E anche se non c’è ancora questa repubblica noi le siamo fedeli e il 2 giugno abbiamo in tanti festeggiato e coltivato la speranza di riuscire a farla nascere, per l’Italia, per l’Europa, per noi tutti.

  • Prima dello schianto Raisi fa eseguire le condanne a morte disposte in Iran

    Ebrahim Raisi le ha raggiunte poco dopo, ma prima che il presidente iraniano morisse l’Iran ha giustiziato almeno sette persone, tra cui due donne. A denunciarlo è stata la Ong con sede a Oslo, Iran Human Rights (Ihr), segnalando anche il rischio imminente di esecuzione per un membro della minoranza ebraica. L’associazione ha evidenziato una escalation di esecuzioni capitali nel Paese. Una delle vittime è Parvin Mousavi, 53 anni, madre di due figli adulti che è stata impiccata nella prigione di Urmia, nel nord-ovest dell’Iran. Insieme a lei anche cinque uomini, condannati per vari casi legati alla droga, secondo quanto riferito su un comunicato dell’organizzazione norvegese. L’altra donna giustiziata è Fatemeh Abdullahi, 27 anni, impiccata a Nishapur, nell’Iran orientale, con l’accusa di aver ucciso suo marito (che era anche suo cugino).

    L’Ong norvegese afferma anche di aver registrato in Iran almeno 223 esecuzioni quest’anno, di cui almeno 50 solo nel mese di maggio. La nuova ondata, iniziata dopo la fine delle festività del Capodanno persiano e del Ramadan ad aprile, ha visto la morte di 115 persone, tra cui 6 donne impiccate da allora. L’Iran è il Paese che registra più esecuzioni di donne in tutto il mondo. Gli attivisti affermano che molte di queste detenute sono vittime di matrimoni forzati o abusivi. Secondo l’Ong, che accusano la repubblica islamica di usare la pena capitale come mezzo per scatenare la paura sulla scia delle proteste scoppiate nell’autunno 2022, l’anno scorso l’Iran ha effettuato più impiccagioni che in qualsiasi altro anno dal 2015. “Il silenzio della comunità internazionale è inaccettabile”, ha dichiarato il direttore dell’Ihr Mahmood Amiry-Moghaddam. “Le persone giustiziate – ha aggiunto – appartengono ai gruppi poveri ed emarginati della società iraniana e non hanno avuto processi equi con il giusto processo”.

  • Ogni giorno il Tricolore

    La bandiera della libertà, la bandiera della democrazia e della Repubblica italiana, per me è esposta tutto  l’anno, la bandiera tricolore sull’ingresso di casa mia e nel mio ufficio, un tricolore contro tutte le dittature, di qualunque genere, anche se camuffate con elezioni farsa.

    La bandiera italiana contro i soprusi, le prevaricazioni, le doppie verità, i compromessi per interessi di parte, le violenze verbali e fisiche, i tradimenti e gli attacchi alle spalle, i falsi appelli alla pace, la giustizia a comando o l’indifferenza di alcuni rappresentanti delle varie istituzioni.

    La bandiera per riparare alle ingiustizie, ai proclami  politici non seguiti dai fatti, alle povertà che non hanno risposta, per ridare a tutti non solo speranze ma anche certezze di operare insieme per una società a misura d’uomo dove nessuno si senta abbandonato.

    Una bandiera, il Tricolore della Repubblica italiana, che sventoli tutto l’anno nelle nostre azioni e non solo in qualche ricorrenza ufficiale, una bandiera che unisca e non divida.

  • Croazia al voto

    I cittadini della Croazia votano il 17 aprile per eleggere i 151 deputati del Parlamento croato (Sabor), dopo quasi quattro anni dall’ultima volta datata luglio 2020. 6.500 i seggi elettorali aperti nel Paese alle 7 di mattina alle 19 di sera. La Commissione elettorale centrale (Dip) ha censito in 3.733.283 gli aventi diritto al voto. All’estero si è votato in 41 Paesi, in 109 seggi di rappresentanze consolari e ambasciate. Su 151 deputati, 140 vengono eletti nelle 10 circoscrizioni elettorali lungo tutto il Paese, 3 dai cittadini croati residenti all’estero e 8 sono membri delle minoranze nazionali.

    I sondaggi della vigilia davano il partito conservatore Unione democratica croata (Hdz), in coalizione con altri partiti minori, in vantaggio nelle preferenze dei cittadini. Leader del movimento è l’attuale premier Andrej Plenkovic, al governo dal 2016, il quale ha chiesto ai cittadini la fiducia per un terzo mandato consecutivo, forte soprattutto dei successi in politica estera dell’ultimo mandato. Con l’europeista Plenkovic, infatti, la Croazia nel 2023 è entrata contemporaneamente nello spazio Schengen e nell’eurozona e, secondo il premier, votare per il suo partito significa “stabilità, sicurezza e sviluppo” sebbene i suoi due mandati siano stati allo stesso tempo costellati da scandali di corruzione e nepotismo che hanno portato all’avvicendamento di diversi ministri. Proprio su una “lotta senza compromessi contro la corruzione” insieme a “salari e pensioni più alte” ha puntato il secondo partito più importante del Paese, il partito Socialdemocratico (Sdp), all’opposizione da 8 anni e storico rivale dell’Hdz, per guidare il Paese.

    La più grande sorpresa, emersa all’inizio della campagna elettorale, è stata l’annuncio del presidente in carica, Zoran Milanovic, di volersi candidare a primo ministro del Partito socialdemocratico che si è posto a guida della coalizione “Rijeka Pravde” (Fiumi di giustizia). Milanovic è già stato premier della Croazia dal 2011 al 2016 con la stessa formazione politica e ha posizioni per lo più antieuropeiste e filorusse. Più volte ha criticato il sostegno di Bruxelles all’Ucraina in seguito all’invasione del Paese da parte della Russia. La Corte costituzionale ha però impedito causa di elementi di “incostituzionalità” al capo dello Stato di candidarsi alle elezioni parlamentari, a meno di dimettersi dalla carica, cosa che Milanovic non ha voluto fare. L’attuale capo dello Stato non ha quindi partecipato ufficialmente alle elezioni parlamentari e il suo nome non è figurato sulla lista elettorale del Sdp, ma in dichiarazioni quasi quotidiane ha affermato che dopo le elezioni formerà un nuovo governo “di salvezza nazionale” attaccando l’attuale governo dell’Hdz, il primo ministro e la sua politica. Il confronto-scontro sempre acceso e aspro tra premier e presidente ha praticamente segnato tutta la campagna elettorale, durata solo 17 giorni.

    I sondaggi nel Paese alla viglia dell’apertura delle urne assegnavano all’Unione democratica 60 seggi nell’Assemblea, sebbene il partito attualmente al potere possa probabilmente contare, in aggiunta, sui 3 seggi riservati ai cittadini croati residenti all’estero (di solito vicini all’Hdz) e sugli 8 delle minoranze nazionali tradizionalmente filogovernative. Sempre secondo gli ultimi sondaggi la coalizione guidata dall’Sdp si attestava invece intorno ai 44 seggi. Per entrambe le forze politiche i risultati sarebbero insufficienti comunque per ottenere la maggioranza per governare nel Parlamento croato per la quale occorrono 76 seggi. Secondo gli esperti quindi, i 2 partiti che potrebbero decidere chi governerà la Croazia per i prossimi 4 anni sono le due formazioni più a destra dello spettro politico del Paese, il Movimento patriottico, formazione politica di estrema destra, a cui i sondaggi assicurano intorno ai 15 seggi e la formazione cattolico-conservatrice Most, a cui le stime assegnano nove seggi.

    Il presidente Milanovic a tal proposito ha affermato che cercherà di riunire tutte le forze politiche, sia da sinistra che da destra, per formare una maggioranza in Parlamento nel tentativo ultimo di escludere il partito Hdz dal potere. I Socialdemocratici potranno comunque contare probabilmente anche sull’appoggio della formazione verde e progressista Mozemo!, guidata dall’attuale sindaco di Zagabria Tomislav Tomasevic, a cui i sondaggi assegnano intorno ai dieci seggi. Sicura infine di superare la soglia di sbarramento del 5% dovrebbe essere anche la Dieta democratica istriana (Ids) a cui i sondaggi assegnano due seggi nel Sabor. Nelle ultime parlamentari del 5 luglio 2020 Plenkovic era stato confermato premier del Paese e il partito Hdz aveva ottenuto 66 seggi. L’affluenza era stata di poco superiore al 46%.

  • Chi vota ha sempre ragione se il suo voto è libero

    Chi vota ha sempre ragione se vota in un Paese democratico nel quale la libertà è un diritto fondamentale ed inalienabile.

    Se vive in un Paese dove la minoranza è rispettata ed ha il suo spazio, un Paese con regole certe ed un’informazione libera a tutto campo, un Paese, uno Stato, una Nazione il cui governo non imprigiona gli avversari e li suicida o uccide, una nazione che rispetta il diritto internazionale e la vita dei suoi cittadini.
    Se le elezioni si svolgono in un paese libero e democratico ognuno ha il diritto di esprimere la sua scelta ed il risultato elettorale va rispettato, in caso contrario si tratta di elezioni farsa, guidate dalla forza di chi detiene in modo assoluto il potere e nessun risultato può essere riconosciuto come attendibile.
    Lo diciamo con calma a Salvini e ai tanti o pochi amici di Putin che vivono in Italia ricordando che se hanno tanta ammirazione per il nuovo zar niente vieta a loro di andare a vivere in Russia, quello che certamente non consentiremo a nessuno è di tentare di portare in Italia, in Europa, l’autocrazia e qualunque altro regime che privi i cittadini della libertà e dei diritti fondamentali che regolano le democrazie.

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