Democrazia

  • Messinscene e collaborazioni occulte a sostegno di un autocrate

    Ci sono molte persone nel mondo, ma ci sono ancora più volti, perché ognuno ne ha diversi.

    Rainer Maria Rilke

    Il 22 luglio scorso, in un sontuoso palazzo ad Istanbul, è stato firmato l’accordo tra la Russia e l’Ucraina sull’esportazione del grano ucraino dal porto di Odessa e altri due circostanti. L’accordo prevede lo sblocco dell’esportazione di circa 25 milioni di tonnellate di grano ucraino ed è stato sottoscritto dal ministro della Difesa russo e dal ministro delle Infrastrutture ucraino. Ma lo hanno fatto separatamente: una significativa testimonianza quella dei grandi disaccordi tuttora presenti tra le due parti coinvolte in un sanguinoso conflitto militare dal 24 febbraio scorso. Durante la sottoscrizione dell’accordo erano presenti l’anfitrione, il presidente turco e il Segretario Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), come garanti dell’accordo. Ebbene, proprio un giorno dopo il porto di Odessa, da dove dovevano partire le navi con il grano, è stato bombardato con dei missili russi! Immediate sono state le dure reazioni da parte dei massimi rappresentanti istituzionali dell’Ucraina e dell’ONU, nonché dei singoli Paesi occidentali che hanno condannato la violazione dell’accordo. Mentre da parte della Russia nessun commento sull’attacco. Ma loro hanno comunque negato ogni loro diretto coinvolgimento. Lo ha confermato il ministro turco della Difesa tramite una dichiarazione pubblica. Il ministro turco ha affermato che “…Nel nostro contatto con la Russia, i russi ci hanno detto che non avevano assolutamente nulla a che fare con questo attacco e che stavano esaminando la questione molto da vicino e in dettaglio”. Ed era un esame cosi “molto da vicino e in dettaglio”, mentre da tutte le parti la Russia veniva accusata della violazione unilaterale e irresponsabile dell’accordo che, neanche un giorno dopo, la Russia è stata costretta ad ammettere proprio quello che avevano negato prima. E cioè è stato affermato, tramite i portavoce del ministero degli Esteri e della Difesa, che l’attacco missilistico da parte delle forze armate russe c’è stato, ma non contro i depositi di grano, bensì contro delle infrastrutture miliari ucraine sul porto di Odessa! Bella scusa, che invece accusa. Accusa proprio la consapevole negazione dell’attacco missilistico sul porto di Odessa, intenzionalmente e come al solito fatta dalle istituzioni della Federazione russa domenica 24 luglio. Lo stesso giorno dal Cairo, dove ha partecipato ad un incontro degli ambasciatori della Lega Araba in Egitto, il ministro degli Esteri russo, nonostante un giorno prima la Russia negava del tutto un attacco missilistico sol porto di Odessa, ha garantito che “…la Russia manterrà i suoi impegni sull’export di cereali a prescindere dalla revoca o meno delle restrizioni applicate a Mosca.. Trasmettendo così un messaggio “tra le righe”, secondo il quale l’accordo sull’esportazione del grano continuerà, ma i Paesi occidentali “devono rimuovere gli ostacoli che si sono creati da soli”, riferendosi così alle sanzioni poste.

    Ovviamente e giustamente quanto sta accadendo in Ucraina dal 24 febbraio scorso, sta attirando tutta la dovuta multidimensionale attenzione pubblica ed istituzionale a livello internazionale. Ed è giusto che sia così. Ovviamente però che quello che sta accadendo in Ucraina durante questi mesi, come ci insegna la “logica della ragionevolezza e dell’oggettività”, non si può paragonare alle “faccende di casa” di qualsiasi singolo Paese sempre durante questi mesi, compresa l’Albania. Di certo però che il simbolismo di quello che è successo dopo la firma del accordo sull’esportazione del grano, prima con la negazione dell’attacco missilistico da parte della Russia, poi, in meno di un giorno, con l’affermazione dell’attacco, ma non degli obiettivi bombardati, potrebbe adattarsi benissimo all’atteggiamento del tutto non affidabile, menzognero e truffaldino del primo ministro albanese. Come in tanti casi di accordi ufficialmente presi e firmati, in presenza dei “garanti internazionali” e poi ignorati, cambiati a suo piacimento e finalmente approvati in parlamento con i voti della sola maggioranza governativa. Sono molto significativi, come dimostrazione, due tra tanti casi. Quello delle votazioni, a settembre 2016, delle leggi base per sostenere gli emendamenti costituzionali della riforma di giustizia, che hanno violato palesemente il consenso raggiunto tra tutte le parti e confermato con tutti i voti del parlamento soltanto due mesi fa, il 17 luglio 2016. Ma anche il caso delle leggi in sostegno dell’accordo sulla riforma elettorale, raggiunto tra le parti il 5 giugno 2020 e poi violato con i voti della maggioranza governativa e di alcuni deputati “dell’opposizione di facciata” il 5 ottobre 2020. E tutto ciò è stato voluto ed ordinato direttamente dal primo ministro e/o da chi per lui. Il nostro lettore è stato informato a tempo debito e a più riprese sia del caso delle leggi della “riforma” del sistema di giustizia, che di quelle della riforma elettorale. Il primo ministro, fatti accaduti e che stanno accadendo, fatti ampiamente documentati, fatti pubblicamente noti ed ufficialmente denunciati e depositati alla mano, risulta essere un bugiardo, un ingannatore innato e del tutto inaffidabile. La sua inaffidabilità ha tanti elementi in comune, come ci insegna anche la “logica della ragionevole ed oggettiva proporzionalità”, con l’inaffidabilità del dittatore russo e/o di chi vicino a lui, che hanno messo in atto quanto è accaduto tra il 22 e il 24 luglio scorso con l’accordo del grano.

    Domenica scorsa, il 24 luglio, in Albania è stato messo in atto un ulteriore, pericoloso e preoccupante passo verso il consolidamento della dittatura sui generis. Una dittatura, questa, camuffata soltanto da una facciata pluralistica, che si sta restaurando da alcuni anni in Albania. Una dittatura sulla quale il nostro lettore da anni è stato informato e si sta di continuo informando oggettivamente, dati e fatti alla mano, dall’autore di queste righe. Il 24 luglio scorso in Albania si è svolta la cerimonia dell’insediamento del nuovo Presidente della Repubblica. La sua elezione, il 4 giugno scorso, con solo 78 voti, uno in più da quelli controllati con mano di ferro dal primo ministro, ha testimoniato il necessario appoggio che doveva avere una persona “sopra le parti”, come è stato descritto dal primo ministro il nuovo Presidente della Repubblica. Il nostro lettore è stato informato di questa elezione del 4 giugno scorso. L’autore di queste righe scriveva che si è trattato di “un’elezione basata sul nome risultato dalle ‘proposte chiuse in una busta’ dei deputati della maggioranza. Una scelta “affidata” dal primo ministro ai suoi ubbidienti deputati, ma che in realtà era esclusivamente una scelta sua. E non poteva essere diversamente. L’incognita riguardava solo il nome. Ma l’identikit della candidatura era ben chiaramente disegnato. E prima di tutto doveva avere la fiducia del primo ministro e doveva ubbidire a lui. Anche perché ci sono delle “sfide” da affrontare nel prossimo futuro”. E poi aggiungeva: “Le cattive lingue stanno parlando e dicendo tante cose durante questi ultimissimi giorni sull’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Ma anche di lui stesso, di certi suoi “problemi” con la giustizia e dell’“appoggio” arrivato per la sua selezione ed elezione da oltreoceano. Hanno parlato del “linguaggio del corpo” che, secondo gli specialisti, fanno del nuovo presidente una persona molto riconoscente al primo ministro e che, perciò, potrebbe essergli anche molto ubbidiente”. (Vergognosa, arrogante e sprezzante ipocrisia dittatoriale in azione; 8 giugno 2022). Con l’insediamento del nuovo Presidente della Repubblica, il 24 luglio scorso in Albania il primo ministro sembrerebbe sia riuscito finalmente a controllare anche l’ultima istituzione rimasta fuori dalle sue “dirette influenze”; quella della Presidenza della Repubblica. Un obiettivo tanto ambito e finalmente raggiunto. Una soddisfazione per il primo ministro, ma anche per altri suoi simili nei Paesi vicini e con i quali il primo ministro albanese è in “ottimi rapporti di amicizia”. Sono alcuni accordi internazionali che adesso potrebbero andare avanti senza difficoltà. Uno dei quali è quello con la Grecia e riguarda le aree marine nel mar Ionio, come ha espressamente auspicato il ministro degli Esteri greco pochi mesi fa, riferendosi proprio all’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Chissà perché?! Ebbene, durante il suo primo discorso da Presidente della Repubblica, niente è stato detto sui reali e drammatici problemi che da anni stanno affrontando gli albanesi, compresa la diffusa povertà, la criminalità organizzata, la galoppante corruzione e tanti altri. Niente è stato detto del pauroso e preoccupante spopolamento del paese. Niente è stato detto anche della politica estera dell’Albania e i rapporti con i Paesi vicini. Niente di tutto ciò. Chissà perché?! Le cattive lingue, durante queste ultime ore, stanno dicendo convinte che il discorso letto dal presidente della Repubblica durante la cerimonia del suo insediamento è stato scritto da un “opinionista”, un convinto sostenitore delle “politiche” del primo ministro albanese. E si sa ormai, le cattive lingue in Albania difficilmente sbagliano.

    La scorsa settimana l’opinione pubblica albanese è stata informata della dichiarazione come persona “non gradita” dell’ex presidente della Repubblica (1992-1997), allo stesso tempo ex primo ministro (2005-2013) e attuale dirigente del ricostituito partito democratico, il maggior partito dell’opposizione in Albania. Lo ha reso noto venerdì scorso, 22 luglio, il diretto interessato durante una conferenza stampa. Dopo essere stato dichiarato persona “non gradita” il 19 maggio 2021 dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America, senza dare nessuna informazione concreta, chiesta ufficialmente da alcuni membri del Congresso, sulla quale si basava una simile decisione, la settimana scorsa la stessa decisione è stata presa dal Home Office (ministero degli Interni; n.d.a.) e sottoscritta dal segretario di Stato per gli affari interni del Regno Unito. Ma in questo caso almeno, come ha detto il diretto interessato, si faceva riferimento a due accuse. Una, generica, riguardava i “legami con dei gruppi della criminalità organizzata e dei criminali, che hanno rappresentato un pericolo per la sicurezza pubblica in Albania e nel Regno Unito” e che lui, il diretto interessato, poteva essere “pronto ad usare questi legami per avanzare le sue ambizioni politiche”. L’altra accusa riguardava quella di corruzione dovuta ai rapporti con un cittadino britannico che, secondo l’accusa, l’ex primo ministro “aveva difeso quando contro di lui [del cittadino britannico] sono state pubblicate delle prove incriminanti”. Nel caso degli Stati Uniti l’ex primo ministro ha ormai denunciato il Segretario di Stato statunitense per calunnia. Il nostro lettore è stato informati di questa vicenda a tempo debito (Eclatanti e preoccupanti incoerenze istituzionali, 24 maggio 2021; Irritante manipolazione della realtà, 7 giugno 2021). Mentre il caso reso noto la scorsa settimana è ancora in corso. Ma venerdì scorso, durante la sua conferenza stampa il diretto interessato, l’ex primo ministro e attuale dirigente del ricostituito partito democratico albanese ha trattato in dettagli le due accuse fatte nei suoi confronti dal Home Office, dando anche le sue spiegazioni sulla falsità di simili accuse. Allo stesso tempo, come aveva fatto anche con il Dipartimento di Stato, ha chiesto, sfidando Home Office a rendere pubblica almeno una prova concreta in sostegno delle accuse fatte. E se non potevano far pubbliche delle prove, di consegnare quelle prove, se vi fossero, presso le istituzioni della giustizia in Albania. Tutto rimane da seguire.

    Nel frattempo però l’attuale dirigente del ricostituito partito democratico rappresenta l’unica sola preoccupazione seria per il primo ministro. Lo sta dimostrando spesso lui, nolens volens¸ in queste ultime settimane. Soprattutto dopo la massiccia protesta del 7 luglio scorso, della quale il nostro lettore è stato ormai informato (La ribellione contro le dittature è un sacrosanto diritto e dovere; 12 luglio 2022). Riferendosi alla sopracitata decisione del Home Office, tutto fa pensare a delle messinscene e collaborazioni occulte al sostegno di un autocrate. Di colui che è fiero di avere come “amico” George Soros e come suoi consiglieri ben pagati Tony Blair e sua moglie.

    Chi scrive queste righe è convinto che la dichiarazione di persona “non gradita” dell’ex primo ministro è la solita messinscena ben ricompensata. Il tempo, quel gentiluomo, lo dimostrerà. Come ha dimostrato che ci sono molte persone nel mondo, ma ci sono ancora più volti, perché ognuno ne ha diversi.

  • La ribellione contro le dittature è un sacrosanto diritto e dovere

    La disobbedienza, agli occhi di chiunque abbia letto la storia,

    è la virtù originale dell’uomo. È attraverso la disobbedienza che il

    progresso si è realizzato, attraverso la disobbedienza e la ribellione.

    Oscar Wilde

    Sono tanti, tantissimi gli insegnamenti della storia dell’umanità, i quali ci testimoniano che i regimi totalitari, le dittature non si affrontano, non si combattono e non si vincono con dei comportamenti e mezzi democratici. La storia, quella grande e infallibile maestra, da secoli ormai ci insegna che le dittature si sconfiggono e si sradicano solo e soltanto con la disobbedienza, con le rivolte e con la ribellione degli oppressi. Siano quelle classiche, oppure le “dittature moderne” camuffate sotto le apparenze ingannatrici di pluralismo e di democrazia. Ovunque i sacrosanti diritti vengono meno, il dovere di disobbedire e di ribellarsi diventa, altresì, sacrosanto e giustificato. Se adesso ci sono dei Paesi evoluti, dove funziona lo Stato democratico, dove si garantisce quella che Montesquieu, nel 1748, chiamava la divisione dei poteri e dove quella divisione è reale e funziona, è anche perché in alcuni di loro e nel corso dei secoli, i diritti sono stati difesi con determinazione. Quanto è accaduto in Francia dal 1789 in poi né è una significativa testimonianza. Ma anche quanto è accaduto, prima ancora, in Inghilterra. Molto significativa è stata la disobbedienza al re Giovanni da parte di un gruppo di nobili, ormai noti anche come i “nobili ribelli”, che si sopo opposti al re e alla dinastia dei Plantageneti che controllava tutto e tutti. Era il 15 giugno del 1215 quando i “baroni ribelli” hanno presentato al re Giovanni un documento allora chiamato Magna Carta libertatum (Grande Carta della libertà; n.d.a.) e comunemente nota come Magna Carta. Proprio così, da allora i “baroni ribelli” pretendevano che alcuni diritti fossero stati rispettati. Il re, dopo alcune resistenze, cercando anche l’appoggio del Papa Innocenzo III, è stato costretto ad accettare le richieste dei “baroni ribelli”. Richieste che prevedevano e dovevano garantire la tutela dei diritti della chiesa, la protezione dei civili dalla detenzione ingiustificata, il funzionamento di una rapida giustizia e la limitazione dei diritti di tassazione feudali della monarchia. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Ma se in Inghilterra adesso la monarchia, rappresentata da settant’anni ormai dalla regina Elisabetta II, rispetta i diritti e la divisione dei poteri, è anche grazie a quello che fecero i “baroni ribelli’, circa otto secoli fa. Un significativo esempio del funzionamento della democrazia nel Regno Unito è stato dato anche la scorsa settimana. Giovedì scorso, 7 luglio, il primo ministro è stato costretto a dare le proprie dimissioni, non solo come capo del governo, ma anche come dirigente del Partito conservatore. Lui è stato accusato di ammettere, dopo averlo negato prima, che un suo fedelissimo, l’ex vice capogruppo parlamentare del partito conservatore, era stato indagato in passato “per comportamento inappropriato nei confronti degli uomini”. Ma sul primo ministro pesavano anche le clamorose sconfitte durante le ultime due elezioni di circoscrizione. Non è stato da meno neanche il cosiddetto “scandalo delle multe”, legato a varie multe prese per i festeggiamenti a Downing Street durante la chiusura dovuta alla pandemia, nonché le accuse di aver mentito in Parlamento. Una significativa dimostrazione che testimonia come i politici eletti e rappresentanti del popolo, esercitando con grande responsabilità il loro potere conferito, riescono a costringere il capo del governo a dimettersi. E lo hanno fatto in tanti, ministri e altri rappresentanti del governo, i quali da lunedì scorso, dando le proprie dimissioni, hanno chiesto anche al primo ministro di fare altrettanto. E tutto questo perché nel Regno Unito le regole della democrazia funzionano e si rispettano.

    La scorsa settimana sono ricominciate con forza e determinazione le proteste in Sri Lanka. Era dal marzo scorso che i manifestanti pacifici chiedevano le dimissioni del presidente del Paese e di suo fratello, il primo ministro. Proteste quelle di marzo e aprile scorso che hanno costretto il presidente a “convincere” suo fratello, il primo ministro, a dare le dimissioni. Proteste che però non si sono placate con quelle dimissioni. Anzi! Durante le proteste della scorsa primavera era accaduta una cosa del tutto inattesa. Hanno protestato insieme anche i rappresentanti dei diversi gruppi religiosi del Paese e cioè i buddisti, i musulmani, gli induisti e i cattolici. Una cosa inattesa quella perché le profonde divisioni ed i conflitti tra le varie comunità religiose hanno causato in passato anche dei violenti scontri tra di loro e dei loro sostenitori. Dopo le proteste della passata primavera, la scorsa settimana sono state annunciate nuove proteste pacifiche. Proteste che si sono svolte sabato scorso. Migliaia di manifestanti, arrivati nella capitale da tutte le parti dello Sri Lanka, hanno circondato il palazzo presidenziale ed altri edifici governativi. Il motivo della protesta era sempre lo stesso; la peggiore crisi finanziaria che da tempo sta affliggendo il Paese e la mancanza della liquidità in moneta straniera, che ha reso impossibile l’importazione di carburante, di cibi essenziali e di medicine. Una crisi dovuta agli abusi di potere e alla continua corruzione ai più alti livelli istituzionali, a partire dal presidente dello Sri Lanka e della sua famiglia. Una vera e propria dinastia quella, che annovera sette fratelli i quali hanno avuto degli incarichi importanti politici ed istituzionali. Famiglia che spesso è stata accusata di abuso di potere, di corruzione e di nepotismo. Il solo fatto che nell’aprile scorso lo Sri Lanka aveva, come presidente e come primo ministro, due fratelli né è una molto significativa ed inconfutabile testimonianza di tutto ciò. Sabato scorso, per dissuadere i manifestanti pacifici, sono stati usati gas lacrimogeni e cariche delle truppe speciali, ma niente è servito a fermare la determinazione dei cittadini. Sabato scorso i manifestanti sono riusciti finalmente a passare i cordoni di sicurezza militare e di polizia che circondava gli edifici tra i più importanti del Paese, tra cui la casa del Presidente, quella del primo ministro, data poi alle fiamme, ed il ministero delle Finanze. Durante la giornata sono state annunciate sia l’allontanamento dalla capitale ad uno “sconosciuto posto sicuro” del presidente, sia la sua disponibilità a dimettersi il 13 luglio prossimo. In seguito, nel pomeriggio di sabato scorso, anche il primo ministro ha dato le sue dimissioni dall’incarico avuto dal presidente tre mesi fa. Un altro significativo esempio che dimostra come la disobbedienza popolare contro un regime corrotto si possa trasformare in proteste. Ed in seguito, durante sabato scorso, anche in ribellione. Nel frattempo, dalle immagini trasmesse dai media e in rete, si vedevano gli ambienti lussuosi della casa presidenziale. E si vedevano anche decine di manifestanti che si tuffavano nella piscina del presidente. Dalle immagini si evidenzia molto chiaramente il lusso esagerato nel quale viveva la famiglia presidenziale, mentre la gente soffriva la fame. Adesso, dopo quanto è accaduto sabato scorso in Sri Lanka, rimane da seguire, nel prossimo futuro, ma anche oltre, come si evolveranno sia la situazione politica, sia quella economica e finanziaria nel Paese asiatico.

    La scorsa settimana, e proprio la sera di giovedì 7 luglio, nella capitale dell’Albania si è svolta una massiccia protesta pacifica. Decine di migliaia di cittadini, arrivati da tutte le parti del Paese, hanno riempito la viale principale della capitale, quella che porta all’edificio del Consiglio dei Ministri. Un edificio che quel giorno, dietro ordini ben precisi, era stato “sigillato” con delle porte e finestre metalliche per paura di essere preso d’assalto. Ma non era quella l’intenzione degli organizzatori della protesta. Almeno non quella volta, la sera di giovedì scorso. La protesta è stata organizzata dal maggior partito dell’opposizione, il ricostituito partito democratico. Il primo partito di opposizione che, dal dicembre 1990, ha organizzato tutte le proteste contro la dittatura comunista che hanno portato poi alla caduta del regime. Un partito però, che, sfortunatamente e vergognosamente, per alcuni anni era diventato “un’impresa familiare” della persona che dal 2013 aveva usurpato la direzione del partito ed una “stampella” del primo ministro. Un partito che poi, dal settembre 2021, ha cominciato un impegnativo percorso di ricostituzione. Un processo quello che nonostante la ricostituzione delle strutture locali e centrali del partito, continua ancora. Il nostro lettore è stato informato di tutto ciò nei mesi precedenti.

    I cittadini che hanno partecipato alla protesta massiccia e pacifica di giovedì scorso nella capitale albanese avevano tanti e ben validi motivi per disobbedire e protestare. Da anni in Albania si sta soffrendo una grave e preoccupante realtà. Realtà determinata da una galoppante corruzione che sta coinvolgendo tutti quegli che gestiscono la cosa pubblica. Partendo dal primo ministro e dai suoi “fedelissimi leccapiedi”. Realtà causata da un pauroso abuso di potere da parte di tutti quelli che esercitano dei poteri pubblici. Partendo dal primo ministro e dai suoi “fedelissimi leccapiedi”. Realtà che ha determinato, tra l’altro in questi ultimi anni, un continuo flusso demografico verso altri paesi dell’Europa. Si tratta soprattutto di giovani, di persone istruite e professionalmente abili, che lasciano tutto e tutti e vanno via, in cerca di una vita migliore. Solo in questi ultimi anni, dati ufficiali alla mano, i richiedenti asilo in diversi Paesi europei provenienti dall’Albania sono tra i primi, insieme con i siriani e gli afgani. Mentre in termini relativi, e cioè tenendo presente il numero complessivo della popolazione, gli albanesi diventano i primi. Il che ormai sta provocando degli effetti drammatici e non solo demografici, ma anche economici ed altro. Solo questo fatto verificato e facilmente verificabile rappresenta una pesante accusa per il malgoverno. L’Albania si sta paurosamente spopolando! Solo questo fatto dovrebbe essere un assordante campanello d’allarme per tutte le persone responsabili, per tutti gli albanesi patrioti. Solo questo fatto dovrebbe essere un buon motivo, non solo per protestare, ma per ribellarsi contro il nuovo regime restaurato in Albania. L’autore di queste righe ha spesso informato il nostro lettore di questa preoccupante realtà e delle sue paurose conseguenze, che hanno già cominciato ad evidenziarsi.

    Nonostante la vera, vissuta e sofferta realtà albanese, il primo ministro continua a governare. Ovviamente non sarebbe il caso di paragonare la realtà albanese con quella del Regno Unito, dove il primo ministro il 7 luglio scorso ha rassegnato le proprie dimissioni. Ma il primo ministro albanese non ha nessuna intenzione di dimettersi. Come hanno fatto sabato scorso il presidente ed il primo ministro dello Sri Lanka, paragonabili con il loro simile in Albania per il modo di abusare del potere. E guarda caso, sia in Albania che in Sri Lanka, tutte le fallimentari riforme sono state promosse e sostenute da una persona (e/o da chi per lui), da un multimiliardario speculatore di borsa statunitense e fondatore delle Fondazioni della Società Aperta. Quelle economiche promosse in Sri Lanka nel gennaio 2016. Mentre, allo stesso tempo, si promuovevano la “riforma” del sistema della giustizia ed altre “iniziative” in Albania. Ma anche nei Balcani occidentali.

    L’11 luglio, Papa Francesco ha inviato un messaggio ai partecipanti alla Conferenza della Gioventù dell’Unione europea che si sta svolgendo a Praga. Riferendosi alla guerra in Ucraina, il Pontefice ha detto: “Ora dobbiamo impegnarci tutti a mettere fine a questo scempio della guerra, dove, come al solito, pochi potenti decidono e mandano migliaia di giovani a combattere e morire. In casi come questo è legittimo ribellarsi!”.

    Chi scrive queste righe è fermamente convinto che la ribellione contro le dittature è un sacrosanto diritto e dovere. La storia, quella validissima maestra, ci insegna che nessuna dittatura è stata vinta con dei mezzi democratici. Le dittature si rovesciano con la ribellione. L’autore di queste righe non smetterà mai di ricordare la convinzione di Benjamin Franklin, secondo il quale ribellarsi ai tiranni significa obbedire a Dio. Condividendo anche quando scriveva Oscar Wilde e cioè che è attraverso la disobbedienza che il progresso si è realizzato, attraverso la disobbedienza e la ribellione.

  • L’istituto del referendum

    L’istituto del referendum rappresenta, in una democrazia delegata, l’unica occasione per permettere ai cittadini esprimersi in merito ad un determinato argomento.

    Nel nostro ordinamento ha delle limitazioni essendo prevista solo la possibilità di abrogare una legge già in vigore, escludendo invece determinate materie come quella fiscale.

    Tuttavia, di fronte al  senso di inadeguatezza che questa classe politica  è riuscita a trasmettere ai propri deleganti nella storia recente del nostro Paese, va anche sottolineato come lo stesso istituto del referendum abbia inevitabilmente acquisito anche le caratteristiche di strumento di pressione politica proprio nei confronti di quel  Parlamento istituzionalmente indicato a legiferare per materie di forte rilevanza politica e sociale.

    I referendum sulla giustizia nascono proprio da questa ultradecennale incapacità della classe politica di riformare il settore della giustizia avendo, e con un grande ritardo, percepito il senso di sfiducia dei cittadini stessi nei confronti del complesso sistema giudiziario italiano. Il referendum rappresenta l’ultima arma democratica in mano ai cittadini.

    Esiste un’altra limitazione relativa alle tematiche oggetto del referendum, come già detto, che esclude la materia fiscale mentre all’interno delle democrazie dirette come, per esempio la Svizzera, si possono  proporre anche  quesiti referendari  relativi alla introduzione di un limite agli stipendi degli amministratori delegati.

    In questo contesto, allora, proponendo un referendum relativo all’abrogazione del reddito di cittadinanza si entra  all’interno di una quanto mai complessa materia sociale ed economica in quanto si  contrappongono fasce di popolazione con redditi diversi ed interessi contrapposti il cui esito potrebbe influire sulla disponibilità economica di una delle parti interessate.

    In altre parole, la contrapposizione politica in ambito referendario non dovrebbe mai scendere sul piano della sussistenza economica e della possibilità di fornire o limitare gli  strumenti finanziari di cui una fascia di popolazione ne beneficia. Viceversa una classe politica consapevole dovrebbe spendersi per trovare gli strumenti legislativi per la sua corretta applicazione o per un’eventuale modifica se non addirittura abrogazione ma  in sede parlamentare come limpida espressione del potere legislativo.

    Ecco quindi, ancora una volta, il referendum, il quale andrebbe assolutamente riformato non tanto nel numero necessario per ottenere l’approvazione quanto nelle materie oggetto dello stesso per porre le basi normative finalizzate ad un avvicinamento del  nostro sistema, ormai impantanato da 111.000 leggi, ad un modello il più possibile vicino ad una democrazia diretta.

  • Da quale pulpito arrivano quelle minacciose prediche?

    Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica

    Montesquieu; dal libro Spirito delle leggi

    L’arroganza, la prepotenza e l’uso delle offese volgari da coatto sono delle ben note caratteristiche comportamentali del primo ministro albanese. Caratteristiche pubblicamente manifestate sempre ed ogniqualvolta lui si trova in difficoltà, cercando di spostare e tergiversare l’attenzione pubblica. Sono delle manifestazioni consapevolmente attivate, con degli obiettivi ben determinati. Ma non di rado scaturiscono anche dallo sfogo del suo perturbato subconscio. Lo ha fatto spesso anche in queste ultime settimane, cercando di apparire “critico con le “ingiustizie”. Con quelle ingiustizie attuate, guarda caso, dal “riformato” sistema di giustizia in Albania che, invece, ha l’obbligo istituzionale di condannarle. Il primo ministro ha “criticato” proprio quel sistema che, dal 2016 in poi, lo ha sempre e fortemente applaudito come una significativa “storia di successo”! Avendo, in quella ardua impresa, simile alle fatiche di Sisifo, anche il continuo appoggio istituzionale dei soliti “rappresentanti internazionali”, l’ambasciatrice statunitense in primis, spesso in palese violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche. Chissà perché?! Ma le cattive lingue ne hanno parlato di quelle “alleanze” e di servizi profumatamente ricompensati. Trovandosi in vistose difficoltà, il primo ministro albanese, non a caso, ha scelto una simile “strategia offensiva”. Sì, perché, dopo quasi nove anni di governo, non ha niente di concreto da dimostrare agli albanesi come un successo. Non ha niente da dimostrare agli albanesi come un impegno pubblicamente preso e poi realizzato. Non ha nessun risultato nella lotta contro la criminalità organizzata. Anzi! Perché, grazie alla sua ben nota, documentata e pubblicamente denunciata connivenza con la criminalità organizzata, il primo ministro albanese e i suoi sono riusciti a condizionare, controllare e manipolare i risultati elettorali, sia delle elezioni politiche che di quelle amministrative. Il nostro lettore è stato informato da anni e a più riprese di questa preoccupante realtà. La “vittoria” elettorale del 25 aprile 2021, fatti accaduti, documentati e pubblicamente denunciati alla mano, ne è una testimonianza molto significativa, tra le tante altre. E, guarda caso, le istituzioni del sistema “riformato” di giustizia, proprio quelle che in queste ultime settimane sono diventate l’obiettivo delle “forti accuse” del primo ministro, non hanno per niente reagito. Anzi, hanno chiuso occhi, orecchie e cervello ed hanno steso un velo pietoso di fronte alle tante denunce pubblicamente fatte ed ufficialmente consegnate.

    Il primo ministro albanese non ha fatto niente, ma proprio niente, per combattere la galoppante e ben diffusa e radicata corruzione che sta divorando tutto. Il primo ministro albanese e/o chi per lui, abusando del potere conferito, hanno messo in atto un consapevole, programmato e pauroso sperpero del denaro pubblico, con tutte le gravissime conseguenze, ormai a portata di mano. Il primo ministro albanese non ha bloccato l’aumento del debito pubblico, come aveva promesso nel 2013, quando ha cominciato a governare. Ma, peggio ancora, lui e/o chi di dovere hanno messo in moto un pericoloso e gravissimo aumento del debito pubblico. Debito che ha continuamente generato un profondo fosso finanziario, difficilmente colmabile, visti i continui abusi, con tutte le preoccupanti conseguenze non solo per il prossimo futuro, ma anche a medio e lungo termine. Si tratta di un periodo, questo attuale, che ha portato allo scoperto scandali e abusi milionari che coinvolgono direttamente, almeno istituzionalmente, sia il primo ministro, sia altre persone molto vicine a lui. Tra le quali anche la sua eminenza grigia, il segretario generale del Consiglio dei ministri. Il nostro lettore è stato informato nelle ultime settimane proprio di queste realtà e di questi scandali, quello dei tre inceneritori compreso (Misere bugie ed ingannevoli messinscene che accusano, 4 aprile 2022; A ciascuno secondo le proprie responsabilità, 26 aprile 2022; Diaboliche alleanze tra simili corrotti, 9 maggio 2022).

    Il primo ministro albanese ha scelto, non a caso, proprio la riunione dell’assemblea del suo partito, svoltasi il 7 maggio scorso, per “tuonare”, con delle dirette critiche, contro i massimi rappresentanti delle istituzioni del sistema “riformato” della giustizia. Come aveva fatto un mese fa, il 9 aprile, durante il congresso del suo partito. Il primo ministro ha scelto di “attaccare fortemente” proprio quei rappresentanti che hanno avuto il suo pieno e consapevole consenso e supporto quando sono stati selezionati e poi sono stati votati in parlamento, controllato sempre dal primo ministro. Queste verità, relative alla selezione e alle nomine dei rappresentanti delle nuove istituzioni del sistema “riformato” della giustizia in Albania sono ormai pubblicamente note. Verità testimoniate dai fatti documentati dal momento della costituzione delle nuove istituzioni del sistema “riformato” della giustizia e poi dall’insediamento degli “attentamente vagliati” dirigenti di quelle istituzioni. Ebbene, il 7 maggio scorso, durante la riunione dell’assemblea del partito, pienamente controllato con mano forte dal primo ministro, lui ha “fortemente criticato” i massimi rappresentanti di una di quelle nuove istituzione del sistema “riformato” di giustizia. Anzi, dell’istituzione per eccellenza del sistema, la Struttura Speciale contro la Corruzione e la Criminalità Organizzata. Una Struttura della quale fanno parte sia la Procura Speciale contro la Corruzione e la Criminalità Organizzata, sia l’Ufficio Investigativo Nazionale. Ma nelle sue “forti critiche ed accuse” il primo ministro si è riferito in generale alla Struttura, senza specificare i suoi componenti. Anche perché non gli servivano dato che si trattava di una sua buffonata propagandistica, l’ennesima. Il primo ministro, invece di trattare i tanti gravi problemi con i quali si stanno affrontando ogni giorno gli albanesi, compresi anche l’abusivo, sproporzionato, continuo e drammatico aumento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità, che stanno ulteriormente impoverendo gli albanesi, si è scatenato contro i dirigenti della Struttura Speciale contro la Corruzione e la Criminalità Organizzata. Ma viste le tante difficoltà con le quali si sta confrontando lui, i suoi più stretti collaboratori ed alcuni dei suoi ministri/ex ministri, al primo ministro serviva uno “spettacolo pubblico” del genere. Il sistema giudiziario dovrebbe essere uno dei tre poteri indipendenti in uno Stato democratico, insieme con quello legislativo ed esecutivo. Ma questa divisione dei poteri, chiaramente formulata da Montesquieu nel suo libro Spirito delle leggi, pubblicato nel 1748, purtroppo non funziona più in Albania. Nel suo libro Montesquieu scriveva: “Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti […]. Perché non si possa abusare del potere occorre che […] il potere arresti il potere”. Lungimirante qual era e riferendosi alla vitale necessità della divisione reale dei tre poteri, Montesquieu aveva previsto ed espresso nel 1748 la sua convinzione che “Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica”. Dai tantissimi fatti accaduti e che stanno tuttora e purtroppo accadendo, fatti denunciati, verificati, verificabili e ormai di dominio pubblico alla mano, risulterebbe che quanto aveva previsto ed espresso Montesquieu si sta attuando in Albania. Sì, perché in Albania, da alcuni anni, è stata restaurata e si sta consolidando una nuova dittatura sui generis. Una dittatura come espressione della pericolosa alleanza tra i massimi dirigenti del potere politico, rappresentato istituzionalmente dal primo ministro, con la criminalità organizzata e certi raggruppamenti occulti locali e/o internazionali. L’autore di queste righe, informando il nostro lettore, da anni sta evidenziano e denunciando, nel suo piccolo, una simile, pericolosa e gravissima realtà. E non solo per gli albanesi, ma anche per gli altri Paesi europei, come risulta dai dati ufficiali pubblicati nei diversi rapporti delle istituzioni specializzate internazionali e di alcuni singoli Stati.

    Tornando a quanto ha detto pubblicamente il 7 maggio scorso il primo ministro albanese, durante la riunione dell’assemblea del partito da lui diretto e personalmente gestito, bisogna sottolineare un evidente e semplice fatto. Un fatto che tutti sanno, ma che il primo ministro ha fatto finta che non esista. E cioè il diretto e personale controllo, proprio da parte sua, dei massimi dirigenti delle istituzioni del sistema “riformato” della giustizia in Albania e della loro sudditanza nei confronti del “dirigente massimo”. E per far credere a tutti il contrario, cioè che lui non controlla il sistema “riformato” di giustizia, ha messo in scena l’ennesima buffonata propagandistica. Una buffonata che però non ha raggiunto l’obiettivo preposto e non ha prodotto l’effetto desiderato. Ragion per cui, sempre in vistosa difficoltà, il primo ministro, due giorni dopo, l’11 maggio scorso, ha convocato una conferenza con i giornalisti. Al suo fianco c’era anche il ministro della Giustizia. Ma come ci insegna la saggezza umana millenaria che la lingua batte dove il dente duole, anche il primo ministro albanese ha cercato di giustificare quanto aveva pubblicamente dichiarato due giorni fa, durante la riunione dell’assemblea del suo partito, sui dirigenti delle nuove istituzioni del sistema “riformato” di giustizia. Rivolgendosi ai giornalisti presenti, lui ha detto, tra l’altro, che quanto aveva dichiarato “…alcuni lo hanno considerato [come] pressione sulla giustizia, alcuni altri lo hanno considerato [come] paura, oppure perdita del potere. …”. E poi, siccome lui sa benissimo ed è ben consapevole del diretto coinvolgimento suo e dei suoi più stretti collaboratori in diversi scandali milionari, noti anche all’opinione pubblica, locale ed internazionale, il primo ministro, riferendosi a se stesso e agli altri rappresentanti del suo partito, ha dichiarato che “… per noi non ci sono degli intoccabili e che chiunque di noi, che possa avere un conto aperto con la giustizia, troverà [sempre] una porta chiusa nella nostra casa politica”. E poi, sempre dando ragione alla saggezza umana millenaria, secondo la quale la lingua batte dove il dente duole, ha cercato di convincere tutti che lui personalmente non è stato coinvolto in questa riforma (della giustizia; n.d.a.) “…per dire una cosa e farne un’altra. E neanche per usare politicamente la giustizia e neanche per attaccare politicamente gli avversari politici…”. Le ennesime bugie, gli ennesimi tentativi di ingannare, l’ennesima bufala propagandistica, durante la quale il subconscio del primo ministro albanese ha contraddetto ed evidenziato quello che la sua parte razionale ha cercato di nascondere e camuffare. Ed il simbolismo di questa contraddizione era il ministro della Giustizia, seduto proprio al suo fianco durante quella conferenza con i giornalisti. Quel ministro che alcuni anni fa è stato pubblicamente accusato e denunciato, presso le nuove istituzioni del sistema “riformato” della giustizia, come parte attiva delle manipolazioni elettorali. Uno scandalo, quello, reso noto anche da diverse intercettazioni telefoniche, pubblicate da diversi media locali ed internazionali.  Ma la Struttura Speciale contro la Corruzione e la Criminalità Organizzata, quella “attaccata” dal primo ministro, purtroppo non ha mai indagato sul caso, facendo proprio finta che non esistesse. E poi, la domanda di un giornalista, che si riferiva proprio a questo fatto, evidenziando che la persona al suo fianco “…oggi è il ministro della Giustizia e non di fronte alla giustizia”, ha messo in vistosa difficoltà il primo ministro, l’innato bugiardo ed ingannatore. Dopo quella domanda il primo ministro non ha risposto più alle altre ed è andato via.

    A chi scrive queste righe, riferendosi al comportamento del primo ministro albanese, viene naturale la domanda; da quale pulpito arrivano quelle minacciose prediche? Da quello istituzionale del capo del governo, oppure da quello di un dittatore che vuol controllare tutto e tutti? Giustizia compresa. Bisogna tenere sempre presente però, che una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica, come giustamente scriveva Montesquieu. E chi scrive queste righe ne è veramente convinto.

  • I rapporti ambigui con i dittatori minacciano la libertà

    Mi chiedi cos’è la libertà? Non essere schiavi di nessuno, di nessuna necessità.

    Seneca

    “Va, pensiero, sull’ali dorate […] del Giordano le rive saluta, di Sionne le torri atterrate. Oh mia Patria sì bella e perduta! O membranza sì cara e fatal!”. Va pensiero è una delle arie operistiche più famose, nota in tutto il mondo e, per molti, rappresenta anche un inno alla libertà. Un’aria che viene cantata dal coro nella quarta scena del terzo atto dell’opera Nabucco di Giuseppe Verdi. Lo cantavano gli ebrei, fatti prigionieri e portati come schiavi in Babilonia da Nabucodonosor, il re degli assiri. Il librettista dell’opera, Temistocle Solera, ha preso ispirazione dalle scritture ebraiche, facendo riferimento ad un lungo assedio del Tempio di Gerusalemme, dove si erano ritirati i leviti e gli abitanti della città. Un assedio quello, messo in atto dall’esercito assiro guidato dal re Nabucodonosor. Essendo riuscito finalmente ad entrare nel Tempio, dopo aver portato fuori tutti gli ebrei fatti prigionieri, il re ha dato ordine di incendiarlo. Portati come schiavi in Babilonia, gli ebrei sono stati costretti a fare dei pesanti lavori. E mentre lavoravano sulle rive del fiume Eufrate, gli ebrei, disperati, ricordavano con nostalgia la loro patria perduta. Ricordavano il fiume Giordano e la loro amata città di Sionne (Gerusalemme; n.d.a.) con le sue torri distrutte. Zaccaria, il gran sacerdote di Gerusalemme, anche lui fatto prigioniero insieme con tutti gli altri ebrei, cerca di dare loro coraggio. Egli diceva agli ebrei di non disperarsi e “di non piangere come femmine” e profetizzava tempi migliori. Invece Nabucodonosor, il re degli assiri, dopo aver visto la statua del suo idolo, il dio Belo, cadere a pezzi senza che nessuno l’avesse toccata, aveva considerato quello un segno divino e decise di liberare gli ebrei. L’opera Nabucco è stata messa in scena per la prima volta il 9 marzo 1842 (esattamente 180 fa mercoledì scorso) al Teatro alla Scala di Milano. Era un periodo in cui l’Italia non era ancora unita e la città di Milano veniva amministrata dall’Impero austriaco. Era proprio il periodo del Risorgimento italiano. La prima dell’opera ebbe un grande successo e da allora l’aria Va pensiero è diventata un inno alla libertà, un’ispirazione alla libertà dagli occupatori e all’unità nazionale.

    Sabato scorso, 12 marzo, i cantanti del coro e gli strumentisti dell’opera di Odessa, sulla piazza davanti al teatro, hanno cantato proprio quell’aria, Va peniero. Insieme con loro cantavano anche i cittadini che si trovavano lì. Erano delle immagini commoventi ed impressionanti. Quel sabato gli ucraini, che dal 24 febbraio scorso stanno subendo la feroce aggressività del esercito russo, hanno cantato l’inno della libertà e dell’unità nazionale. Dando così anche un forte e eloquente messaggio per tutti. E con loro hanno cantato tantissimi altri, seguendo in televisione le immagini trasmesse dalla piazza di fronte al Teatro dell’Opera di Odessa.

    Nel frattempo e da 20 giorni ormai, in Ucraina si sta combattendo. Il dittatore russo non si ferma, nonostante le richieste fatte da tanti capi di Stato e di governo di diversi Paesi occidentali. Anzi, ogni giorno che passa, gli attacchi delle forze armate russe, con continui bombardamenti dei centri abitati in diverse città ucraine, hanno fatto migliaia di vittime civili, compresi anche tanti bambini. Ormai la capitale ucraina da giorni si trova sotto assedio. Così come altre città sparse su tutto il territorio. Bisogna sottolineare però anche l’ammirevole resistenza delle truppe armate ucraine e dei tanti cittadini che stanno combattendo come volontari per difendere la madre patria. Una significativa espressione della loro responsabilità civica e del loro patriottismo. E mentre gli uomini combattono contro gli invasori russi, ad oggi sono circa 2.6 milioni di ucraini, anziani, donne e bambini soprattutto, che hanno lasciato il paese. Arrivano alle frontiere dei Paesi confinanti, stremati e dopo molte ore di viaggio, spesso a piedi, con il minimo indispensabile in qualche borsa e soffrendo il freddo e tanto altro. Un preoccupante ma forzato esodo questo che, di per se, rappresenta un altro grave dramma umana per gli ucraini. Bisogna evidenziare e apprezzare però anche la grande disponibilità dei governi dei Paesi confinanti dove arrivano i profughi ucraini. Così come anche la grande disponibilità e l’ospitalità di associazioni, comunità religiose, nonché di tantissimi semplici cittadini, nei confronti dei profughi che scappano dalla guerra in Ucraina. Un numero quello dei profughi che, visto quanto sta accadendo e si prevede che possa accadere, con ogni probabilità, crescerà ulteriormente con il tempo e rappresenterà un problema logistico serio da affrontare e risolvere.

    Anche oggi pesanti bombardamenti stanno devastando diverse città ucraine. Si combatte anche nelle periferie della capitale. Domenica, purtroppo, è stato ucciso dai soldati russi, vicino alla capitale, un giornalista statunitense mentre, filmando tanti ucraini in fuga, faceva con grande professionalità il suo dovere. Come lo stanno facendo, dal 24 febbraio scorso, anche centinaia di altri suoi colleghi, da molti Paesi del mondo, rappresentanti di tantissime agenzie mediatiche e giornalistiche. Giornalisti, operatori, fotografi ed altri che lavorano in condizioni, non di rado, veramente estreme, pericolose, mettendo così continuamente a repentaglio la propria vita. E tutto ciò per dare, in tempo reale, le vere notizie da dove si combatte in Ucraina e per smentire le tante notizie false che diffonde la propaganda russa dall’inizio dell’invasione, ma anche da prima ancora. Facendo perciò di questo conflitto, oltre ad una micidiale guerra armata e con migliaia di vittime da ambe le parti, anche una guerra di propaganda e di notizie false. Nel frattempo in diverse città della Russia, si continua a protestare contro la guerra in Ucraina. Migliaia di cittadini, consapevoli del reale rischio di essere arrestati dalla polizia politica del dittatore russo, come è successo ormai durante tutte le precedenti proteste, anche in questi ultimi giorni hanno di nuovo protestato.

    Da quando è cominciata l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo, il 24 febbraio scorso, molti specialisti, analisti ed opinionisti hanno continuamente analizzato l’evoluzione del conflitto armato. Ma hanno messo in evidenza anche i rapporti non spesso trasparenti tra alcuni “grandi del mondo” e il dittatore russo. Rendendo pubblici determinati fatti accaduti, non si può non pensare anche all’ipocrisia e al “doppio gioco” di coloro che parlano e professano i principi morali e della democrazia mentre stabiliscono rapporti ambigui con diversi dittatori in altrettante diverse parti del mondo. Rapporti che possono mettere in pericolo e minacciare anche la libertà di altri popoli. Come gli ambigui rapporti che da anni sono attivi anche con il dittatore russo. Il che poi, dal 24 febbraio scorso, sta realmente mettendo in serio pericolo la sovranità dell’Ucraina e la libertà dei suoi cittadini. Spesso si parla di interessi e di scambi reciproci che riguardano rifornimenti energetici ed altro. Ma, purtroppo, fatti accaduti da anni alla mano, risulterebbe che le gravi conseguenze dell’ambiguità e della mancata trasparenza dei rapporti con alcuni dittatori, per delle “ragioni geopolitiche e geostrategiche”, vengono sempre sofferte, spesso anche con delle ingenti perdite di vite umane, da milioni di cittadini innocenti. Come sta accadendo in queste ultime settimane in Ucraina. Ma da quanto sta accadendo in queste ultime settimane in Ucraina bisogna, anzi è indispensabile, trarre anche delle conclusioni, seriamente analizzate ed elaborate e non solo di natura geopolitica e geostrategica. Bisogna tenere ben presente anche le espresse ambizioni del dittatore russo per ricostituire la “Grande Russia”. Ragion per cui bisogna fare di tutto dai “grandi del mondo” per fermare, a tutti i costi, l’invasione definitiva dell’Ucraina. Perché se no, la Russia farà poi, a tempo debito, lo stesso anche con altri Paesi confinanti. Come ha fatto precedentemente con alcuni Paesi indipendenti, facenti parte dell’Unione sovietica, ma non solo. E se non si farà di tutto adesso, in questi prossimi giorni o settimane, per fermare il dittatore russo, allora le gravissime conseguenze, nel prossimo futuro, potrebbero non risparmiare anche diversi altri Paesi europei, e non solo, almeno economicamente.

    Nel frattempo, da mercoledì scorso in Albania sono cominciate le proteste. Questa volta contro l’innalzamento abusivo, sproporzionato e del tutto ingiustificato del prezzo dei carburanti e dei generi alimentari. Proteste che da mercoledì scorso e quotidianamente vengono organizzate dai cittadini, tramite annunci in rete, non solo nella capitale, ma anche in diverse città. Proteste durante le quali si stanno denunciando gli abusi con i prezzi da parte dei soliti “clienti del governo”. Il primo segnale di quello che è successo con i prezzi lo ha dato precedentemente il primo ministro, parlando di guerre e di scenari apocalittici. Il che ha permesso agli oligarchi di agire indisturbati, sicuri del supporto del governo. Noncuranti neanche degli obblighi sanciti dalle leggi in vigore che costringono loro di garantire riserve che, nel caso dei carburanti, devono essere per tre mesi. Il primo ministro però, durante i suoi interventi in rete, si è “dimenticato” di tenere presente questi obblighi legali. Mentre l’innalzamento immediato dei prezzi dei carburanti non ha seguito neanche l’andamento quotidiano dei prezzi nelle borse internazionali. Il che ha inconfutabilmente e semplicemente testimoniato l’abuso con i prezzi. Abuso e truffe che vengono evidenziate anche dalle banche dati ufficiali delle stesse istituzioni governative. Ma il primo ministro albanese, dal 2013, quando ha cominciato a governare, fatti accaduti, documentati e denunciati alla mano, ha dimostrato di non essere credibile in quello che dice e che scrive. In più, dalle analisi specializzate fatte da quando si è verificato l’innalzamento dei prezzi in Albania, che secondo il primo ministro è legato al conflitto in Ucraina, si evidenzierebbero non solo degli abusi scandalistici dei prezzi dei carburanti, degli alimentari, di altri prodotti e di servizi, ma anche ben altro. Si evidenzierebbe anche la mancata volontà di intervenire con dei meccanismi previsti e sanciti dalla legge per controllare e bloccare l’innalzamento abusivo e speculativo dei prezzi. Chissà perché?! Ma invece di intervenire, continua a fare quello che lui ha fatto sempre quando si trova in difficoltà. Passa la responsabilità agli altri, per salvare se stesso. E nel caso delle proteste di questi ultimi giorni ha reso colpevoli i cittadini che “non hanno vergogna e protestano” mentre in Ucraina si combatte (Sic!). In questi ultimi giorni, sia il primo ministro che alcuni suoi ministri si stanno rendendo veramente ridicoli ed incredibili con le loro irresponsabili, vergognose e ingannatrici dichiarazioni pubbliche. Nel frattempo però, la polizia di Stato, che purtroppo da anni risulta essere una polizia politicizzata, ha arrestato i manifestanti pacifici, in palese violazione con quanto prevede la legge. Così come in Russia, nonostante lì la legge preveda altrimenti. E come in Russia dove, oltre alla guerra sul campo in Ucraina, si sta mettendo in atto anche la “guerra di propaganda” con le notizie false, anche in Albania il primo ministro e/o chi per lui sta attivando la sua propaganda governativa con delle falsità. Purtroppo, in Albania da anni sono centinaia di migliaia i cittadini che stanno lasciando il Paese. Come gli ucraini in queste settimane. Ma in Albania non c’è nessuna guerra come in Ucraina. In Albania però, da anni, è stata restaurata una dittatura sui generis, rappresentata dal primo ministro, come espressione della pericolosa alleanza tra il potere politico, la criminalità organizzata e certi raggruppamenti occulti, oligarchi dei carburanti compresi.

    Chi scrive queste righe avrebbe molti altri argomenti riguardanti l’innalzamento abusivo dei prezzi da analizzare e poi informare il nostro pubblico. Lo farà però in seguito. Ma, nel frattempo, egli è convinto che i rapporti ambigui dei “grandi del mondo” con i dittatori potrebbero minacciare la libertà dei popoli. Anche degli ucraini e degli albanesi. Ed è anche convinto che se, come pensava Seneca, la libertà significa non essere schiavi di nessuno, di nessuna necessità, l’aria Va pensiero esprima maestosamente proprio la vitale e sacrosanta voglia di libertà e dell’unità nazionale.

  • Tempo di scelta tra la dittatura e la democrazia

    Deve assolutamente esistere una possibilità di togliere

    il potere immediato a chi ne fa cattivo uso.

    Bertrand Russell

    Gli ultimi sviluppi del conflitto in Ucraina, anche durante lunedì, 7 marzo, dimostrano e testimoniano tutta l’aggressività e la crudeltà delle forze d’invasione russa. Nonché dimostrano tutta l’inaffidabilità del presidente russo e dei suoi più stretti collaboratori, facendo riferimento a quanto lui e/o chi per lui dichiarano pubblicamente. Il conflitto, cominciato nelle primissime ore del 24 febbraio scorso, continua, causando ogni giorno centinaia di vittime innocenti e distruggendo tutto con i bombardamenti. I russi non hanno rispettato neanche quanto avevano accordato il 3 marzo scorso riguardo il cessate di fuoco temporaneo e i corridoi umanitari. Centinaia di migliaia di ucraini continuano, ogni giorno, a lasciare il Paese. Sono soprattutto donne e bambini, mentre gli uomini, ma non solo, rimangono a lottare contro gli invasori russi. La loro resistenza, il loro coraggio e i loro sacrifici estremi rappresentano un’ammirevole testimonianza della responsabilità civica e del loro patriottismo.

    Nel frattempo in Albania domenica scorsa, 6 marzo, si sono svolte le elezioni amministrative parziali in sei comuni. I cittadini dovevano eleggere i nuovi sindaci, dopo che i loro predecessori, tranne uno, sono stati costretti a lasciare il posto, oppure rimossi, per motivi giuridici, di corruzione e altro. E tutti loro rappresentavano il partito del primo ministro attuale. Bisogna sottolineare che il mandato dei sindaci eletti durerà soltanto un anno, fino alle nuove elezioni amministrative previste per il 2023. In più, si è trattato soltanto di elezioni dei sindaci e non dei consiglieri comunali, essendo quelli attuali eletti ormai nelle precedenti elezioni amministrative del 2019. Elezioni che sono state boicottate in un modo del tutto inspiegabile ed ingiustificato, dopo una decisione politica presa dai dirigenti dell’opposizione. Il nostro lettore è stato informato a tempo debito. Domenica scorsa in lizza c’erano i rappresentanti della maggioranza governativa e quelli delle due fazioni del partito democratico albanese, il maggior partito dell’opposizione. Fazioni quelle ufficializzate dal dicembre scorso, dopo il congresso dell’11 dicembre ed, in seguito, dal referendum, svoltosi una settimana dopo, il 18 dicembre, per approvare le decisioni prese dallo stesso congresso convocato dalla maggioranza dei sui delegati, come previsto dallo Statuto del partito. Tutti i delegati del congresso, dal settembre scorso, hanno aderito a quello che da allora è ormai noto come il Movimento per la ricostituzione del partito democratico albanese. Un Movimento quello nato per ripristinare tutti i valori e i principi che sono stati riconosciuti ed incorporati nello Statuto dalla costituzione del partito democratico il 12 dicembre 1990, come primo partito di opposizione alla dittatura comunista. I delegati del congresso dell’11 dicembre hanno anche tolto il mandato rappresentativo a colui che, dal 2013, era diventato il capo del partito ma il suo operato, le sue alleanze e i suoi accordi occulti con il primo ministro, i cui contenuti sfuggono ai più, sono risultati fatali, in seguito, non solo per il partito democratico, ma anche per il percorso democratico della stessa Albania. Non solo: rimasto in una evidenziata e verificata minoranza, circondato da alcuni pochi ubbidienti seguaci, l’usurpatore della dirigenza del partito democratico e i suoi hanno messo in scena un [anti]congresso proprio il 18 dicembre scorso. Ma, sempre fatti accaduti alla mano, quel congresso tutto poteva essere tranne che un raduno di membri ed elettori del partito democratico, diventando così vergognosamente e pubblicamente una misera messinscena ed una bufala per salvare la faccia e la sedia. L’usurpatore della dirigenza del partito democratico albanese, in tutta questa sua impresa ingannatrice ha avuto tutto il necessario appoggio del primo ministro e delle strutture governative. Comprese anche le “comparse” per riempire gli spazi che potevano rimanere vuoti senza la loro presenza.

    Quell’usurpatore ha beneficiato anche del sostegno della propaganda governativa e degli analisti ed opinionisti a pagamento, controllati dal primo ministro e/o da chi per lui. Proprio quelli che, fino a qualche mese fa, avevano fatto dell’usurpatore un bersaglio facile da attaccare e ridicolizzare. Con il supporto del sistema “riformato” della giustizia l’usurpatore della dirigenza del partito democratico è riuscito a rimandare, chissà per quando, una decisione obbligata dalla legge del tribunale di Tirana, con la quale di doveva formalizzare quanto deciso dal sopracitato congresso dell’11 dicembre scorso. Un “prezioso” supporto quello da parte del sistema “riformato” di giustizia, personalmente controllato dal primo ministro e/o da chi per lui per la sua “stampella”. Il nostro lettore è stato informato di questi sviluppi a più riprese durante i mesi precedenti (Il doppio gioco di due usurpatori di potere, 14 giugno 2021; Usurpatori che consolidano i propri poteri, 19 Luglio 2021; Meglio perderli che trovarli, 13 settembre 2021; Agli imbroglioni quello che si meritano, 1 novembre 2021; Un misero e solitario perdente ed un crescente movimento in corso, 22 novembre 2021; Il vizio esce con l’ultimo respiro, 13 dicembre 2021).

    Ma quello del primo ministro, non era un supporto senza beneficio. Anzi, era ed è proprio il primo ministro ad essere direttamente interessato che l’usurpatore della dirigenza del partito democratico continuasse ad avere ancora in uso il timbro e la sigla del partito. E, cercando di salvare la faccia, la fazione facente capo all’usurpatore della dirigenza del partito democratico ha presentato il suo candidato in tutti i sei comuni per le elezioni amministrative parziali del 6 marzo scorso. Ma i consiglieri e gli strateghi elettorali del primo ministro avevano un altro obiettivo: quello di usare la sigla del partito democratico come una diversione, un inganno durante le elezioni per confondere i votanti e facilitare la vittoria dei propri candidati.

    Questa volta il primo ministro e i suoi non si sono “impegnati pubblicamente” durante la campagna come nelle altre precedenti elezioni. Il che, comunque, non significa che lui abbia rinunciato al “vizio” di manipolare, condizionare e controllare il risultato elettorale. Anzi! Anche durante questa campagna elettorale, nonché durante la giornata delle elezioni, sono stati verificati, documentati e denunciati dai media non controllati e dai rappresentanti della Commissione per la ricostituzione del partito democratico diversi casi di uso abusivo del potere amministrativo, dell’uso abusivo di tutti i mezzi a disposizione, in piena violazione delle leggi in vigore. Tra le tante denunce fatte c’è stata una che coinvolgeva direttamente e personalmente uno dei sei candidati della maggioranza governativa. Da una registrazione telefonica, resa pubblicamente nota il 4 marzo scorso, si sentiva chiaramente una richiesta abusiva del candidato sindaco a “scopo elettorale” a suo favore. Ebbene, in qualsiasi altro Paese democratico, dove il sistema della giustizia risulta essere uno dei tre poteri indipendenti, le istituzioni del sistema giudiziario avrebbero avviato subito un’inchiesta sul caso. Ma non in Albania però, dove purtroppo il sistema “riformato” è selettivo e agisce dietro ordini arrivati dai massimi livelli del potere politico ed istituzionale.

    Durante la campagna per le elezioni amministrative parziali del 6 marzo scorso, purtroppo sono stati verificati anche degli interventi a “gamba tesa” dell’ambasciatrice statunitense in Albania. Interventi in violazione dell’articolo 41 della Convenzione di Vienna per le relazioni diplomatiche. Lo ha fatto da quando è stata accreditata, appoggiando il primo ministro. Ma negli ultimi mesi, guarda caso, ha appoggiato, sempre abusando del suo stato istituzionale, anche l’usurpatore della dirigenza del partito democratico. Lo ha fatto “generosamente” anche durante l’ultima campagna elettorale. Questi atteggiamenti dell’ambasciatrice statunitense, in palese violazione del suo mandato istituzionale, ormai sono noti anche al nostro lettore. L’autore di queste righe ricorda al nostro lettore però cosa è accaduto in Italia, dopo che l’ambasciatore statunitense aveva chiesto ai cittadini italiani di votare ‘No’ durante il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Ormai si sa l’immediata reazione di tutti i partiti politici contro la richiesta dell’ambasciatore. Così come si sa anche la sua giustificazione e le scuse da lui chieste subito dopo.

    I risultati delle elezioni amministrative parziali del 6 marzo sono stati ufficialmente resi ormai noti. I rappresentanti della maggioranza governativa hanno vinto cinque dei sei comuni, dove si votava per eleggere solo il sindaco. Uno dei nuovi sindaci che hanno avuto il mandato è anche colui che, come risultava dalla sopracitata registrazione telefonica, aveva chiesto favori elettorali! Basta solo questo caso per capire quello che la propaganda governativa cerca di nascondere. I risultati ufficiali delle elezioni del 6 marzo hanno sancito anche la significativa vittoria del candidato del Movimento per la ricostituzione del partito democratico nella città simbolo dell’anticomunismo in Albania. Ma quello che bisogna sottolineare e che è altrettanto significativo riguarda il deludente, bensì atteso, risultato elettorale della fazione del partito democratico facente capo all’usurpatore della dirigenza del partito. La vistosa differenza tra i candidati delle due fazioni testimonia in modo palese e senza ambiguità chi sono i veri rappresentanti del partito democratico, così come toglie ormai ogni “giustificazione” all’usurpatore. Adesso anche il timbro e la sigla del partito devono essere consegnati ai legittimi aventi diritto. L’importanza, quella vera e a lungo termine, di queste elezioni parziali amministrative in sei comuni, riguarda il chiarimento finale e per sempre: chi rappresenta il partito democratico albanese. Si sapeva che il primo ministro, come ha fatto anche in precedenza, avrebbe messo in moto la sua ben collaudata macchina elettorale, con l’appoggio della criminalità organizzata e dei milioni provenienti dalle attività illecite e dal riciclaggio dei denari sporchi, condizionando e controllando il risultato elettorale. Così come è successo anche durante le elezioni del 25 aprile scorso, delle quali il nostro lettore è stato informato a tempo debito. Ma il risultato delle elezioni del 6 marzo scorso ha palesemente dimostrato che il Movimento per la ricostituzione del partito democratico albanese ha avuto un convincente e schiacciante appoggio elettorale, mentre l’usurpatore ha registrato l’ennesima sconfitta, la quinta e senza nessuna ben che minima vittoria, facendo lui così, a livello personale, veramente pena. Nel frattempo però un’altra “perdente illustre” di queste elezioni è anche l’ambasciatrice statunitense, dopo il suo investimento personale, in palese violazione della Convenzione di Vienna, schierandosi così apertamente in appoggio dell’altro “perdente illustre”, l’usurpatore della dirigenza del partito democratico. Proprio di colui che purtroppo, in tutti questi anni, ha facilitato il compito del primo ministro albanese e delle sue alleanze occulte, per restaurare una nuova ma sempre pericolosa dittatura.

    Chi scrive queste righe, fatti accaduti, documentati, denunciati, verificati e verificabili alla mano, è convinto che in Albania ormai è stata restaurata una nuova dittatura sui generis come espressione di una pericolosa alleanza del potere politico, istituzionalmente rappresentato dal primo ministro, con la criminalità organizzata e determinati raggruppamenti occulti locali e internazionali. Chi scrive queste righe è altrettanto convinto che ormai lo scontro non è più quello tra le diverse ideologie. Lo scontro, sia a livello locale che più ampio, come nel caso dell’Ucraina, è quello tra le dittature e le democrazie e/o delle “tendenze democratiche” di società che, dopo una travagliata storia, stanno cercando di avviare dei processi democratici. Perciò per i cittadini e coloro che essi rappresentano è proprio il tempo di scelta tra la dittatura e la democrazia. E come in Russia, anche in Albania i cittadini devono reagire. Perché come era convinto Bertrand Russell, deve assolutamente esistere una possibilità di togliere il potere immediato a chi ne fa cattivo uso. E l’uso cattivo del potere lo sta facendo in Ucraina il presidente russo. Mentre in Albania il primo ministro.

  • Quale cultura occidentale

    All’interno di una profonda crisi che, per sua stessa natura, tende ad esasperare gli animi e, di conseguenza, le reazioni, il terribile sopraggiungere del dramma della guerra successiva a due anni di pandemia pone, tuttavia, in vergognosa evidenza i limiti non più accettabili legati ad una risposta letteralmente anticulturale del nostro Paese.

    All’inizio della settimana il sindaco di Milano ha sospeso il direttore d’orchestra di origine russa poiché non aveva preso posizione e opportune distanze da Putin. Una richiesta che dimostra come il sindaco della capitale economica dell’Italia non sia in grado di distinguere tra il mondo dell’arte in ogni sua espressione ed il terribile contesto storico.

    Successivamente una università, che dovrebbe rappresentare la sintesi pluralista di tutte le espressioni culturali possibili ed immaginabili senza alcuna esclusione, ha prima sospeso, sulla base di rappresentare la cultura russa, per poi maldestramente riattivato un corso su Dostoevskij.

    Quasi contemporaneamente un altro istituto accademico privato di Roma ha sospeso dall’insegnamento un proprio docente solo ed esclusivamente perché durante un’intervista si era permesso di indicare una articolata visione della crisi bellica ucraina considerando anche gli effetti delle scelte di altri soggetti istituzionali: non tanto, come giustificazione dell’evento ma come espressione di una articolata situazione dalla quale ha trovato successivamente un innesco la follia di Putin. Una tesi che offriva la possibilità, quindi, di uscire dalla sempre più infantile divisione tra buoni e cattivi come tra favorevoli o contrari alla guerra e soprattutto tra chi considera la guerra come nel gioco del RisiKo la contrapposizione tra bene ed il male.

    Il docente sospeso intendeva proporre un approccio culturale complesso, espressione di una articolata sintesi di cause e di una responsabilità più diffusa in nome di una pluralità di opinioni, simbolo una volta dell’istituto accademico ora diventato artefice della più retrograda censura.

    La stessa esclusione degli atleti dalle Paralimpiadi invernali sulla base della loro semplice appartenenza a Russia e Bielorussia tradisce palesemente il messaggio e lo spirito olimpico di fratellanza e di pace tra i popoli, indipendentemente dal contesto storico.

    Si aggiunge adesso la copertura del David a Firenze decisa dal sindaco di Firenze: “il David di Michelangelo, emblema della libertà contro la tirannia si copre di nero…un gesto simbolico di lutto…”, come ha successivamente dichiarato lo stesso sindaco di una delle capitali mondiali della cultura.

    Queste esplicite manifestazioni di intolleranza nei confronti di chi non segue la narrativa della maggioranza, spingendo addirittura ad una censura culturale e personale di tali posizioni di minoranza in assoluto contrasto con quanto dovrebbero garantire una democrazia ed un istituto universitario, negano la pluralità del pensiero in ogni sua forma.

    Sulla base del medesimo furore ideologico vengono esclusi dalle competizioni olimpiche gli atleti solo sulla base della loro provenienza nazionale. A queste posizioni si aggiunge quella del sindaco Nardella di Firenze, il quale si spinge ad utilizzare il simbolo della bellezza e quindi di una delle massime espressioni culturali per fini impropri a conferma di una mentalità e di una cultura ormai oscurantista.

    All’interno di momenti storici così difficili la cultura, in ogni sua molteplice forma, e lo sport rappresentano due valori in grado di proporre all’interno di un contesto bellico un messaggio di unità e di pluralità democratica tra gli uomini utilizzando i propri simboli culturali e comportamenti democratici.

    Questi episodi rappresentano l’ennesima triste conferma di una cultura escludente e profondamente oscurantista la cui forza nasce dalla sola capacità di sottrarre simboli e discriminare le persone sulla base di semplici comportamenti e pensieri annullando il confronto democratico, il quale viene sostituto in questo modo da una ripetitiva quanto monocratica amplificazione del pensiero unico che non presenta nulla di culturale.

    Mai come ora l’integralismo iconoclasta utilizzato contro i simboli culturali e le libere espressioni di pensieri indipendenti dimostra la propria forza all’interno di quella che una volta poteva venire considerata la cultura occidentale.

  • Il prezzo della libertà

    Tutto ha un prezzo, dal pane che comperiamo ogni giorno al compromesso che ogni giorno facciamo per preservare i nostri rapporti in famiglia o sul luogo di lavoro. Tutto è basato, per noi che viviamo in democrazia, sulla conoscenza del prezzo che è giusto pagare e sui limiti del compromesso che è giusto e corretto accettare. Noi possiamo, in gran parte, scegliere, con il voto, chi ci rappresenta e criticare, manifestare contro quelli stessi che abbiamo votato. Possiamo avere ragionevoli certezze sull’uso delle leggi, della giustizia, dell’informazione, possiamo, diciamolo in parole povere, contare sul diritto alla libertà, alla civile convivenza, alla dignità come singoli e come collettività.

    Noi crediamo di sapere che quanto ciascuno di noi si è faticosamente costruito, che il territorio sul quale viviamo, la nostra patria, paese, nazione, sono nostri non per diritto divino ma perché sancito da quelle regole internazionali che, uniche, preservano tutto il pianeta ed i singoli stati, da genocidi e catastrofi. Noi crediamo, o per meglio dire abbiamo creduto per decenni, che la convivenza civile si basa sul rispetto di regole, di accordi, sul riconoscimento del diritto alla libertà di ciascun individuo e di ciascun popolo.

    Oggi sappiamo che non è così, nulla è più scontato, oggi abbiamo capito che per difendere libertà e diritti, che credevamo sanciti, acquisiti dopo due guerre mondiali, dobbiamo pagare un prezzo.

    Non stiamo difendendo soltanto il popolo ucraino e l’integrità, la libertà di un paese amico, stiamo difendendo la libertà, il futuro, l’esistenza che ci siamo conquistati nel secolo scorso.

    Si, mettiamocelo in testa una volta per tutte, la libertà, la democrazia, la dignità, i più elementari diritti umani non sono diritti acquisiti, per nessuno, ma ogni giorno vanno riaffermati e difesi a qualunque prezzo.

    Troveremo altro gas senza la Russia, avremo per un po’ meno turisti, ne troveremo altri, rinunceremo a qualche esportazione, tireremo un po’ la cinghia, dopo tanta opulenza ad alcuni non farà male ed aiuteremo chi ha più bisogno. Impareremo a distribuire meglio ricchezza e profitto, reimpareremo cosa vuol dire solidarietà e condivisione, soprattutto ritroveremo dignità e sapremo che ogni conquista vale un po’ di sacrificio, così finalmente apprezzeremo quello che abbiamo e non daremo tutto per scontato.

    Si può avere paura, è legittimo, ma non si può continuare, come in troppi abbiamo fatto per anni, a nascondere la testa come gli struzzi, la libertà ha un prezzo ed ora, senza piagnistei, dobbiamo pagarlo, non c’è alternativa se non la schiavitù fisica e morale.

  • Non tutti gli zar muoiono nel proprio letto

    Piaccia o non piaccia nella storia della vita umana le guerre, dopo aver portato lutti, distruzioni e immense tragedie, hanno poi spinto i popoli a quella rinascita che si trasforma in progresso. E’ quello che sta accadendo ora con l’invasione dell’Ucraina, invasione che il presidente russo ha organizzato e voluto in totale spregio della vita e del diritto.

    E proprio come la storia ci ha sempre dimostrato le guerre portano cambiamenti e le ingiustizie prima o poi si pagano.

    Putin è così riuscito, almeno ad oggi, ad ottenere l’esatto contrario di quello che voleva. Cercava la gloria personale, voleva essere il leader di almeno un quarto del mondo, in concorrenza anche con l’alleato cinese, e passare alla storia come il riunificatore dell’ex repubblica sovietica.

    È invece riuscito, in pochi giorni, a rendere finalmente l’Ucraina una vera nazione, quell’Ucraina che, fino al suo criminale intervento armato, era uno Stato composto da cittadini di provenienze diverse, cittadini che ora si sentono, sono uniti e combattono insieme per la libertà presente e futura della loro nazione.

    È riuscito a dare all’Europa quella compattezza che per anni era stata perseguita da pochi nei fatti, e da troppi solo a parole. Oggi l’Europa ha compreso che senza una politica estera e di difesa comuni, senza una comune politica energetica rischia di vedere incrinate, perdute la propria libertà e le conquiste economiche e sociali che sono costate sacrificio e fatica per tutti.

    È riuscito a far comprendere alla quasi totalità del mondo che nessuno è sicuro se chiunque può mettere a rischio l’integrità territoriale di un altro Stato, scatenare conflitti ed aggressioni che vedono cittadini inermi soccombere sotto le bombe che colpiscono case ed ospedali.

    Ha fatto comprendere che il diritto internazionale va difeso e che non è compito di alcuni ma di tutti coloro che credono nei principi fondanti della libertà e della dignità delle persone e degli Stati.

    È riuscito a far comprendere all’America che l’Europa non è il ventre molle dell’Alleanza atlantica e che ogni alleanza presuppone impegno reciproco.

    È riuscito a sollevare, nonostante la repressione e le carceri, una parte di quei cittadini russi, e presto altri ne verranno, che non possono tollerare di diventare i paria del mondo per colpa degli interessi di un uomo e del suo gruppo di oligarchi che si sono arricchiti, in modo indegno, alle spalle della Russia, trasferendo poi all’estero i guadagni illeciti fatti sottraendo risorse al popolo russo.

    Chi è veramente Putin? E’ l’uomo che con le sue nefandezze è riuscito a creare l’inizio di una politica europea comune dopo che per tutti questi anni sembrava fosse diventata una chimera. E’ Caino che uccide Abele secondo quanto da lui stesso dichiarato più volte e cioè che russi ed ucraini sono popoli fratelli. E’ il dittatore che fa uccidere o incarcerare gli avversari ed imprigiona i suoi cittadini perché manifestano per chiedere la pace. Colui che dopo essersi per anni presentato come un virile Superman allo scoppio del covid si è messo in isolamento per paura e senza dare ai suoi cittadini una diffusa copertura vaccinale. E’ il cinico artefice di un massacro in Ucraina che vede morire civili, bambini, vecchi ma anche i soldati russi che ha scientificamente mandato ad uccidere e ad essere uccisi solo per il suo smodato desiderio di passare alla storia come un nuovo zar, dimenticando che non tutti gli zar muoiono nel loro letto.

  • I dittatori devono essere trattati come tali e mai tollerati

    Fin quando ci saranno delle dittature, non avrò il coraggio di criticare una democrazia.

    Jean Rostand

    La storia, come sempre, ci insegna. Anche nel caso della Russia. Ci insegna che il territorio della Russia è stato occupato, sia quando era un Impero, che in seguito, quando era diventata l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, o semplicemente l’Unione sovietica. Il territorio russo è stato occupato dalle armate di Napoleone Bonaparte nell’ambito di quella che è nota come la campagna di Russia. Un’occupazione che iniziò il 23 giugno 1812 e finì, con una disastrosa sconfitta di Bonaparte, il 14 dicembre 1812. Dopo 129 anni, è stata attuata un’altra occupazione del territorio, questa volta da parte delle armate naziste del Terzo Reich, di quella che era diventata l’Unione sovietica (dal 1922, dopo il crollo dell’Impero zarista dei Romanov ed in seguito alla guerra civile in Russia; n.d.a.). Un’occupazione quella, nonostante i due Paesi avessero firmato a Mosca, il 23 agosto 1939, il trattato di non aggressione di durata decennale noto come Patto Molotov-Ribbentrop. L’occupazione dell’Unione sovietica cominciò il 22 giugno 1941 in seguito all’operazione Barbarossa. Un’occupazione che finì, sulla carta, l’8 maggio 1945, dopo la resa incondizionata del Terzo Reich. E queste sono le sole due occupazioni del territorio russo.

    La storia ci insegna però anche delle invasioni, da parte degli eserciti russi, di territori altrui. Invasioni sia durante il secolo passato, quando si chiamava ancora Unione sovietica, sia in seguito, quando divenne, dal 1991, la Federazione Russa, o semplicemente Russia. La storia ci testimonia e ci insegna che, addirittura dal 1939, l’Unione sovietica prima e la Russia poi non ha mai smesso di attaccare e di invadere altri Paesi. Lo ha fatto nel novembre 1939, quando attaccò la Finlandia. Quel conflitto tra l’Unione sovietica e la Finlandia, noto anche come la guerra d’inverno, ebbe fine nel marzo 1940. L’accordo di pace di Mosca tra i due Paesi diede all’Unione sovietica dei territori e alcune isole nel golfo di Finlandia. Ma prima ancora di attaccare la Finlandia, l’Unione sovietica, nell’ambito del patto Molotov-Ribbentrop, aveva attaccato ed occupato la parte orientale della Polonia. Sempre nell’ambito di quel patto, la Germania aveva occupato la parte occidentale della Polonia il 1o settembre 1939. L’occupazione della Polonia orientale da parte dell’Unione sovietica cominciò il 17 settembre 1939, calpestando il patto di non aggressione tra i due Paesi, firmato il 25 luglio 1932, con durata fino al 31 dicembre 1945. Un’occupazione che durò fino al 22 giugno 1941, quando l’Unione sovietica venne occupata, a sua volta, proprio dalla Germania nazista, nonostante tra i due Paesi fosse in vigore il patto Molotov-Ribbentrop di non aggressione di durata decennale. Si attuò così un meritato “castigo” all’Unione sovietica, subendo sulla propria pelle quello che, soltanto due anni prima, aveva fatto subire alla Polonia. Patti di non aggressione reciproche alla mano!

    Dopo la fine della seconda guerra mondiale, un’altra guerra, nota ormai come la “Guerra fredda”, iniziò, dal 1947, tra l’Unione sovietica e gli Stati Uniti d’America e i Paesi dell’Europa occidentale. Una guerra quella, per fortuna senza scontri armati tra i due blocchi, che durò fino al crollo del muro di Berlino ed il seguente sgretolamento della stessa Unione sovietica. Ma anche durante quel periodo, l’Unione sovietica non smise di attaccare e di invadere altri Paesi. Correva l’anno 1956 quando in Ungheria i cittadini si ribellarono contro il regime comunista ungherese, che seguiva le direttive dell’Unione sovietica. La ribellione popolare iniziò il 23 ottobre 1956. Ma quello che stava accadendo in Ungheria non poteva essere tollerato dell’Unione sovietica. Ragion per cui il 4 novembre 1956 un ingente contingente militare dell’Unione sovietica entrò ed invase Budapest e altre parti dell’Ungheria. Dopo alcuni giorni di scontri armati con tante vittime, il 10 novembre 1956 l’Unione sovietica prese di nuovo il controllo del Paese, costituendo anche un nuovo governo ubbidiente. Dodici anni dopo un’altra invasione si mise in atto. Questa volta contro un altro Paese membro del Trattato di Varsavia. Si trattava della Cecoslovacchia. Formalmente le truppe dell’invasione appartenevano all’Unione sovietica e ad altri quattro Paesi membri, anch’essi, del Trattato di Varsavia. Ma, si sa, era proprio l’Unione sovietica che comandava. Nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 prese via l’invasione, il cui obiettivo era quello di fermare i processi della democratizzazione e della liberalizzazione della società cecoslovacca, messi in atto da quella che ormai viene nota come la “Primavera di Praga”. Le truppe d’invasione insanguinarono le piazze, prendendo il controllo e costituendo un altro governo, sempre controllato dall’Unione sovietica. Ormai si sa quanto accadde allora a Praga. Il simbolo, però, della resistenza antisovietica diventò un giovane studente di filosofia, Jan Palach. Con un estremo atto di abnegazione, il 16 gennaio 1969, arrivato nella piazza San Venceslao, in pieno centro di Praga, si cosparse di benzina e si diede fuoco con un accendino, diventando una torcia umana. Jan Palach morì tre giorni dopo. Ma la seria degli interventi militari attuati dall’Unione sovietica purtroppo non si fermò. Undici anni dopo, il 24 dicembre 1979 cominciò un’altra invasione, quella contro un altro Paese indipendente, l’Afghanistan. Un’invasione con l’obiettivo di deporre l’allora presidente della Repubblica democratica dell’Afghanistan, che non era visto di buon occhio dall’Unione sovietica. Al suo posto volevano un’altro presidente, ubbidiente all’Unione sovietica. Quell’invasione però diede vita ad un vasto movimento di vari raggruppamenti di guerriglieri afghani, noti come i mujaheddin. L’occupazione dei territori dell’Afghanistan durò per dieci lunghi anni. Il 15 febbraio 1989 ebbe fine l’occupazione sovietica, con la ritirata di tutti i suoi contingenti. Ragion per cui viene considerata anche come il “Vietnam sovietico”.

    Gli interventi armati portati in atto dall’Unione sovietica seguirono anche dopo, quando si costituì, dal 1991, la Federazione Russa. Sono note quelle che ormai si chiamano le due guerre cecene. La prima iniziò nel 1994, quando le truppe armate della Russia entrarono in Cecenia e attaccarono Groznyj. Ma dopo lunghe e devastanti battaglie e scontri armati tra le parti e dopo la determinata resistenza dei ceceni, nonché la reazione massiccia dell’opinione pubblica, la Russia decise di ritirarsi nel 1996 e di firmare un trattato di pace nel 1997. Purtroppo i conflitti tra la Russia e la Cecenia non finirono con quel trattato di pace. Nel 1999 le truppe armate russe ritornarono ad invadere, cercando di controllare i territori conquistati dai separatisti ceceni, dando così inizio alla seconda guerra cecena. Formalmente il conflitto armato ebbe inizio dopo le incursioni militari nel Caucaso settentrionale, parte della Federazione, di raggruppamenti armati delle sedicenti Brigate Internazionali Islamiche. La reazione armata delle truppe russe è stata immediata. Un anno dopo, nel maggio del 2000, la Russia ha preso il controllo del territorio in Cecenia. Ma la presenza delle forze russe ha scatenato la reazione dei guerriglieri locali nel Caucaso settentrionale. Reazione che ha causato ingenti danni ai russi. Nel aprile 2009, dopo dieci anni di continui e sanguinosi conflitti armati, la Russia considerò finita la sua missione militare in Cecenia. Ma non smisero le sue ambizioni d’invasione. L’occasione si presentò quando la Georgia entrò, all’inizio dell’agosto 2008, con le sue truppe armate nell’Ossezia del Sud, una regione autonoma del suo territorio. Non tardò la reazione della Russia che intervenne militarmente contro la Georgia. Le forze armate russe arrivarono molto vicino alla capitale Tbilisi. Il 15 agosto 2008 fu firmato un “cessate il fuoco” tra la Russia e la Georgia. Secondo gli impegni ufficialmente presi, la Russia si doveva ritirarsi dal territorio della Georgia, mentre quest’ultima non doveva usare la forza militare contro l’Abcasia e l’Ossezia del Sud, le due regioni filorusse che nel 1991 avevano proclamato la loro indipendenza. Tre le due regioni e la Georgia i conflitti armati iniziarono dal 1991, per poi diventare violenti tra il 7 e l’8 agosto 2008. Il che portò a quella che viene nota come la guerra tra la Russia e la Georgia. La Russia però non rispettò gli accordi del 15 agosto 2008 e in seguito proclamò la costituzione di una “zona cuscinetto” intorno all’Abcasia e l’Ossezia del Sud. Così facendo la Russia non ha mai, in seguito, ritirato completamente e come prestabilito, le sue truppe dalla Georgia.

    Ma la strategia espansionistica della Russia continuò. Il seguente obiettivo fu la Crimea. Era il 27 febbraio del 2014 quando delle truppe armate russe, senza insegne, entrarono in Crimea, prendendo possesso di siti strategici in tutta la penisola. In seguito è stato proclamato e costituito un governo filorusso in Crimea. La Russia ha ufficialmente riconosciuto il 18 marzo 2014 Sebastopoli e la repubblica di Crimea come parte della Federazione russa. A quella decisione della Russia si opposero duramente sia l’Ucraina che gli Stati Uniti d’America, l’Unione europea ed altri Paesi. Il che ha portato all’espulsione della Russia dal Gruppo G8. Alla Russia sono state imposte diverse sanzioni da parte degli Stati Uniti d’America, dall’Unione europea e da altri Paesi. Però, fatti accaduti alla mano, quelle sanzioni si sono rivelate un’arma a doppio taglio, con dei risultati, purtroppo, non simili a quelli prestabiliti e desiderati. Il resto è storia di questi ultimi giorni.

    Si, perché sembra la Russia non abbia mai smesso di attuare le sue ambizioni di invadere territori che non le appartengono. Ne è un’altra testimonianza, purtroppo, quanto è accaduto la settimana scorsa. Nelle primissime ore del 24 febbraio è cominciata una vasta invasione militare del territorio ucraino da parte delle forze armate della Russia. Invasione che era stata annunciata alcune ore prima dal presidente russo durante un suo intervento televisivo. E, all’occasione, ha minacciato non solo gli ucraini, ma tutto il mondo. Lui, perentorio, ha dichiarato che “…Chiunque provi a interferire deve sapere che la nostra risposta sarà immediata e porterà a conseguenze mai sperimentate nella storia”! Da allora sono passati cinque giorni e gli sviluppi si susseguono. Ma sembrerebbe che il piano russo non abbia portato i risultati prestabiliti ed attesi. Questo grazie soprattutto alla determinazione e allo spiccato patriottismo dei semplici cittadini ucraini. Gli esempi sono ormai di dominio pubblico e hanno commosso l’opinione pubblica in ogni parte del mondo. Opinione che ha, allo stesso tempo, fortemente condannato la decisione del presidente russo. Ne sono una eloquente dimostrazione e testimonianza anche le massicce manifestazioni nelle piazze di molte città europee la scorsa domenica, ma anche prima. Nel frattempo il presidente ucraino ha dato un personale esempio di determinazione e di patriottismo. Egli ha anche saputo dire con poche e chiare parole delle verità che altri avrebbero preferito non venissero note pubblicamente. Ha fatto una semplice domanda il 24 febbraio scorso, rivolgendosi ai “grandi del mondo” e chiedendo: “Chi è pronto a combattere con noi? Non vedo nessuno. Chi è pronto a dare all’Ucraina una garanzia di adesione alla NATO? Tutti hanno paura”. Oppure, reagendo all’offerta statunitense di metterlo al sicuro, ha semplicemente detto: “La battaglia è qui. Mi servono munizioni, non un passaggio”! Il conflitto è tuttora in corso e gli sviluppi si susseguono. Tutto potrebbe accadere, auspicando però che di nuovo si verifichi la metafora di Davide e Golia.

    Chi scrive queste righe non può non pensare, tra l’altro, anche dell’ipocrisia e dell’ambiguità verificate durante l’operato di alcuni dei “grandi del mondo” in questi giorni. Egli non può neanche ignorare determinati interessi economici e lobbistici e le derivate conseguenze. Chi scrive queste righe è convinto però che i dittatori devono essere trattati come tali e mai tollerati. Tornando agli insegnamenti della storia, egli nota che tutte le invasioni e le occupazioni da parte dell’Unione sovietica prima e poi dalla Russia sono state fatte sempre da dittatori come Stalin, Bréžnev e Putin. Ragion per cui chi scrive queste righe, parafrasando Jean Rostand, afferma che fin quando ci saranno dei dittatori, non si dovrebbe avere mai il coraggio di criticare una democrazia.

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