Denaro

  • La Commissione adotta un quadro temporaneo di crisi per sostenere l’economia nel contesto dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia

    Il 23 marzo la Commissione europea ha adottato un quadro temporaneo di crisi per consentire agli Stati membri di avvalersi pienamente della flessibilità prevista dalle norme sugli aiuti di Stato al fine di sostenere l’economia nel contesto dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.

    Il quadro temporaneo di crisi per misure di aiuto di Stato a sostegno dell’economia nel contesto dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, fondato sull’articolo 107, paragrafo 3, lettera b), del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), constata che tutta l’economia dell’UE sta subendo un grave turbamento. Per porre rimedio a questa situazione, il quadro temporaneo prevede tre tipi di aiuti:

    Aiuti di importo limitato: gli Stati membri potranno introdurre regimi per concedere fino a 35 000 € per le imprese colpite dalla crisi che operano nel settore agricolo, della pesca e dell’acquacoltura e fino a 400 000 € per le imprese colpite dalla crisi che operano negli altri settori. Non è necessario che tale aiuto sia collegato a un aumento dei prezzi dell’energia, in quanto la crisi e le misure restrittive nei confronti della Russia colpiscono l’economia in vari modi, ad esempio provocando una perturbazione delle catene di approvvigionamento fisiche. Tale sostegno può essere concesso in qualsiasi forma, comprese le sovvenzioni dirette.

    Sostegno alla liquidità sotto forma di garanzie statali e prestiti agevolati: gli Stati membri potranno fornire i) garanzie statali agevolate per permettere alle banche di continuare a erogare prestiti a tutte le imprese colpite dalla crisi; e ii) prestiti pubblici e privati a tassi di interesse agevolati.

    Gli Stati membri possono concedere garanzie statali o istituire regimi di garanzia a sostegno dei prestiti bancari contratti dalle imprese. Tali garanzie e regimi beneficeranno di premi agevolati caratterizzati da una riduzione rispetto al tasso di mercato stimato per i premi annuali applicati ai nuovi prestiti per le piccole e medie imprese (PMI) e per le altre imprese.

    Gli Stati membri possono autorizzare prestiti pubblici e privati alle imprese con tassi d’interesse agevolati. Tali prestiti devono essere concessi a un tasso d’interesse che sia almeno pari al tasso di base privo di rischio maggiorato dei premi specifici per il rischio di credito applicabili alle PMI e alle altre imprese.

    Per entrambi i tipi di sostegno sono previsti limiti all’importo massimo dei prestiti, che dipendono dalle esigenze operative delle imprese, determinate sulla base del fatturato, dei costi energetici e del fabbisogno di liquidità. I prestiti possono riguardare sia il fabbisogno relativo agli investimenti che quello relativo al capitale di esercizio.

    Aiuti destinati a compensare i prezzi elevati dell’energia: Gli Stati membri potranno compensare parzialmente le imprese, in particolare gli utenti a forte consumo di energia, per i costi aggiuntivi dovuti ad aumenti eccezionali dei prezzi del gas e dell’elettricità. Tale sostegno può essere concesso in qualsiasi forma, comprese le sovvenzioni dirette. L’aiuto complessivo per beneficiario non può superare il 30 % dei costi ammissibili, fino a un massimo di 2 milioni di € in un dato momento. Quando l’impresa subisce perdite di esercizio, possono essere necessari ulteriori aiuti per garantire il proseguimento di un’attività economica. A tal fine gli Stati membri possono concedere aiuti superiori a tali massimali, fino a 25 milioni di € per gli utenti a forte consumo di energia e fino a 50 milioni di € per le imprese attive in settori specifici, quali la produzione di alluminio e di altri metalli, fibre di vetro, pasta di legno, fertilizzanti o idrogeno e molti prodotti chimici di base.

    Il quadro temporaneo di crisi contribuirà a orientare il sostegno all’economia, limitando al contempo l’impatto negativo sulle condizioni di parità nel mercato unico.

    Il quadro prevede pertanto una serie di garanzie:

    metodologia proporzionale: dovrebbe esistere un nesso tra l’importo dell’aiuto che può essere concesso alle imprese e la portata della loro attività economica e dell’esposizione agli effetti economici della crisi, che tenga conto del fatturato e dei costi energetici che devono sostenere;

    condizioni di ammissibilità: la definizione di utenti a forte consumo di energia figura all’articolo 17, paragrafo 1, lettera a), della direttiva sulla tassazione dell’energia, che fa riferimento alle imprese per le quali l’acquisto dei prodotti energetici è pari ad almeno il 3 % del loro valore produttivo;

    requisiti di sostenibilità: quando concedono aiuti per ovviare ai costi aggiuntivi sostenuti a causa dei prezzi eccezionalmente elevati del gas e dell’energia elettrica, gli Stati membri sono invitati a considerare, in modo non discriminatorio, la fissazione di requisiti relativi alla protezione dell’ambiente o alla sicurezza dell’approvvigionamento. Gli aiuti dovrebbero pertanto aiutare le imprese ad affrontare la crisi attuale, ponendo nel contempo le basi per una ripresa sostenibile.

    Il quadro temporaneo di crisi sarà operativo fino al 31 dicembre 2022. Al fine di garantire la certezza del diritto, la Commissione valuterà prima di tale data se il quadro debba essere prorogato. Inoltre durante il periodo di applicazione la Commissione valuterà il contenuto e la portata del quadro alla luce degli sviluppi sui mercati dell’energia, sugli altri mercati dei fattori di produzione e della situazione economica generale.

    Fonte: Commissione europea

  • Gli strumenti ideologici: il contante

    Il depotenziamento, nel millennio attuale, degli storici modelli ideologici e politici e al tempo stesso la sostanziale sconfitta della imposizione di sistemi massimalisti (crollo del Muro di Berlino) ha trasferito una nuova vis ideologica e di propaganda verso nuovi “strumenti ideologici” finalizzati sempre al raggiungimento dei medesimi obiettivi politici anche se già sconfitti dalla storia del 900.

    In altre parole, si cerca di conseguire gli obiettivi non raggiunti nel secolo scorso attraverso l’utilizzo di “strumenti ideologici” finalizzati alla realizzazione di quel modello di Stato e delle sue prerogative.

    Uno dei più ridicoli strumenti utilizzati a tal fine è quello della lotta al contante che vede in prima linea partiti ed economisti supportati ovviamente dal sistema bancario. L’adozione di questa strategia adottata dai partiti viene indicata addirittura come un elemento qualificante dello stesso posizionamento valoriale dei sostenitori quando invece ne conferma il semplice scollegamento dalla conoscenza elementare del fenomeno della evasione fiscale.

    E’ di queste ore la transazione che il gruppo Exor ha firmato con l’Agenzia delle Entrate nel quale il gruppo ex-torinese si impegna al pagamento di 949 milioni di euro a causa della contestazione della esterovestizione fiscale del gruppo*. Una cifra che, già da sola, rappresenta quasi il 10% di quei 10 miliardi che il governo ha intenzione di recuperare dall’evasione fiscale come risorse necessarie a contenere l’impatto devastante della escalation dei costi energetici per le imprese e le famiglie.

    Contemporaneamente la scellerata strategia economica adottata tanto del Governo Conte 2 quanto da quello in carica caratterizzata dal riconoscimento di bonus fiscali ad un settore prevalente (edilizia) si sta dimostrando come la più grande truffa coniata dai vertici governativi (ministro Gualtieri e Presidente Conte) e dalle decine di consulenti e dirigenti della burocrazia ai danni dello stesso Stato. Dalle indagini della Guardia di Finanza solo fino ad ora i termini della truffa hanno raggiunto i 4,5 miliardi di euro. Con i soli due episodi di accertamento si sarebbero già raggiunti i 5 miliardi e 449 milioni che rappresentano il 54% di quell’obiettivo finanziario indicato dal governo Draghi.

    In questo contesto emerge evidente come il problema dell’evasione fiscale sia completamente svincolato dalla problematica di un tetto ai contanti la cui stessa limitazione è stata già due volte contestata dalla Bce**.

    Lo stesso istituto europeo ricordava come lo Stato debba essere terzo rispetto alle forme di pagamento e non privilegiare la moneta elettronica con una fiscalità di vantaggio (cash back e lotteria degli scontrini).

    In questo contesto, quindi, si diceva come la somma della transazione pagata da Exor unita al parziale risultato delle indagini relativa alla truffa dei bonus fiscali arrivi appunto a 5 miliardi e 449 milioni di euro, pari ad oltre 4 miliardi e 500 milioni di caffè privi dell’emissione dello scontrino contemporaneamente da tutti i bar d’Italia per oltre 488 giorni oppure a circa 82 milioni e 560 mila capi venduti sempre senza l’emissione di alcuno scontrino fiscale.

    La lotta al contante si dimostra così, ancora una volta, un risibile strumento ideologico in mano a chi non possiede le capacità minime per comprendere le dinamiche dell’evasione fiscale né per altro intende apprenderle.

    Sicuri di una ritrovata vis ideologia la quale, invece, da sempre copre come una calda coperta gli imbarazzanti limiti intellettuali dei propri sostenitori.

    * la cifra per la chiusura del contenzioso generalmente rappresenta circa un 20/30% della somma contestata

    ** la stessa Bce pensa di superare i differenti limiti nell’utilizzo del contante tra gli Stati membri adottando la soglia per tutti di diecimila (10.000) euro

  • L’inflazione non è transitoria

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato si ItaliaOggi il 4 febbraio 2022

    La politica dei soldi facili ha drogato la finanza e l’economia, facendo aumentare i debiti e la propensione per maggiori rischi, e ha determinato la crescita dell’inflazione.

    Dopo molto tempo anche la Federal Reserve ha ammesso di aver sottovalutato l’impennata inflazionistica, che è più ampia e persistente delle previsioni. Ora, per tutte le grandi economie, la sfida è come correggere le azioni dettate dall’inflazione che troppo a lungo è stata interpretata come transitoria.

    Le banche centrali da anni, in merito all’inflazione, si basano su tre principi molto soggettivi e poco scientifici. Il primo è il target arbitrario del 2% annuo. Il secondo riguarda le aspettative di inflazione. I banchieri affermano che sono le aspettative a muovere l’inflazione e che le banche centrali guidano le aspettative. Perciò tutto, secondo loro, sarebbe sotto controllo. Il terzo è il cosiddetto forward guidance, una guida anticipata attraverso, per esempio, il controllo della curva dei rendimenti dei titoli pubblici.

    Con la Grande Crisi Finanziaria prima, e con la pandemia poi, le banche centrali bene hanno fatto ad aprire i rubinetti della liquidità con salvataggi immediati e necessari per il sistema. A lungo andare, però, i rischi di inflazione sono inevitabili. Infatti, già la scorsa estate, sarebbe stato opportuno riconoscere che i fattori cosiddetti transitori erano accompagnati da problemi strutturali. Non si può giustificare tutto con gli effetti della pandemia.

    Oltre le irrisolte speculazioni sulle commodities, le aziende, in verità, descrivevano la natura persistente delle interruzioni nelle loro catene di approvvigionamento e la mancanza di manodopera specializzata.

    Gli imprenditori, a differenza di molti economisti accademici, affermavano che questi problemi non sarebbero stati risolti in tempi brevi. Le banche centrali certamente non hanno tutti gli strumenti per sbloccare le catene di approvvigionamento e il reperimento della forza lavoro. Ma rimanere nella “mentalità inflazionistica transitoria”, rischia di mettere in moto quelle aspettative con tassi di inflazione non facilmente tollerabili dall’economia.

    Anche i crescenti risparmi dei mesi passati, erosi da un’inflazione del 6% o più, potrebbero essere spinti con forza verso l’acquisto di beni, ma troppo velocemente per trasformarsi in nuovi investimenti e in maggiori produzioni, alimentando così la stessa inflazione.

    Non si può aspettare. Si rischia una più marcata recessione. È un modello conosciuto: dentro la trappola della curva dell’inflazione c’è il rischio di inasprire la politica monetaria in modo brusco, colpendo duramente la domanda e l’occupazione e mettendo fuori gioco le imprese già in difficoltà. Per i mercati si prospetterebbero situazioni d’illiquidità destabilizzante.

    In verità, già a novembre, il governatore della Fed, Jerome Powell, ha fatto un improvviso cambiamento di politica monetaria, annunciando una riduzione degli acquisti mensili di attività, quello che si chiama in gergo il «tapering» del quantitative easing.

    Da parte sua, la Banca centrale europea ha ancora una posizione attendista, credendo fermamente nella «transitorietà» dell’inflazione, che alla fine dovrebbe ritornare al fatidico 2%.

    Se le pressioni inflazionistiche dovessero, però, diventare generalizzate, non si può escludere una qualche frenata disordinata nella politica monetaria.

    In questa situazione, secondo noi, le principali banche centrali dovrebbero comunicare con puntualità le proprie azioni politiche in modo da non innescare confusione o una overreaction dei mercati. A differenza del positivo sincronismo pre pandemico, l’attuale disallineamento tra la Fed e la Bce non è di buon auspicio.

    D’altra parte, se l’inflazione diventasse più alta rispetto alle previsioni, si ridurrebbero anche i redditi reali, innescando un inevitabile scontro sociale, in particolare sui salari e le pensioni.

    Indubbiamente, non vi sono facili soluzioni. Però, se nei passati 15 anni le banche centrali sono state super interventiste, non possono adesso diventare troppo attendiste. In questa situazione sono i governi e i parlamenti a dover entrare in gioco con decisione e definire le priorità degli interventi. Sono chiamati a favorire attivamente l’economia reale, le imprese produttive, l’occupazione e i redditi dei cittadini e svincolarsi dalla “presa” prolungata e soffocante della grande finanza.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Le due diverse genesi inflattive

    L’inflazione trae le proprie peculiari caratteristiche e determina diversi effetti in rapporto alle ragioni della sua genesi. Gli stessi rimedi con cui la politica monetaria cerca, spesso con ritardo, di attenuarne le problematiche per l’economia reale risultano diversi a fronte di un’inflazione di natura endogena, cioè causata da fattori economici interni al proprio mercato, oppure esogena, quindi determinata da problematiche esterne al controllo della stessa politica monetaria delle banche centrali.

    Gli Stati Uniti hanno già da tempo adottao, in termini di strategia monetaria, il “tapering “progressivo, ovvero la diminuzione dell’acquisto dei titoli del debito pubblico Usa e successivamente avviato una graduale crescita dei tassi di interesse per frenare la spirale inflattiva arrivata al + 7%.

    L’economia statunitense ha dimostrato nel 2021 un tassi di crescita del +5,7% (+6,9 % nell’ultimo trimestre) e contemporaneamente ha già raggiunto da tempo la piena occupazione con un tasso di disoccupazione al 3,8%. Come logica conseguenza le retribuzioni stanno crescendo (+8,7% nel penultimo trimestre) quindi tutti questi dati inducono la Fed a confermare ed inasprire una politica monetaria restrittiva anche a causa dei consumi in salita del +12% e con l’indice dei prezzi al +6%.

    E’ evidente come l’origine dell’inflazione made in Usa risulti prevalentemente endogena anche perché la più grande potenza mondiale guidata dal Presidente Joe Biden rimane l’unica dell’emisfero occidentale ad avere raggiunto l’indipendenza energetica, è quindi al riparo dall’esplosione dei prezzi delle fonti energetiche ed in grado addirittura di esportare nello specifico momento notevoli quantità di shale gas verso l’Europa stretta viceversa nella morsa energetica.

    Al di qua dell’Atlantico la complessa situazioni dell’Unione Europea presenta un medesimo fenomeno inflattivo ma con delle origini decisamente differenti. In Europa, ed in particolare in Italia, è stata scelta una politica “energetica” basata sulla assoluta e piena dipendenza da fonti energetiche estere, rendendo quindi il nostro Paese soggetto a dinamiche internazionali economiche ma anche politiche fuori da un nostro possibile controllo.

    In più si è progressivamente quasi azzerata l’attività estrattiva del gas (solo nel 2021, e quindi già in piena crisi energetica, è diminuita del 18%) arrivando nel 2021 con soli tre (3) milioni di mq prelevati, quando nel 1991 avevamo raggiunto i ventuno (21) milioni, e lasciando ogni riserva della sempre più preziosa materia prima ad esclusivo approvvigionamento della Croazia.

    Il governo Draghi, con un “solo” anno di ritardo dall’inizio dell’escalation energetica, ha finalmente deciso di raddoppiare le estrazioni i cui benefici si otterranno, va ricordato, nel breve” termine di 12/18 mesi, dimostrando, ancora una volta, come una maggiore tempestività avrebbe se non risolto certamente ridotto l’impatto devastante di questa vera pandemia energetica.

    In questo contesto la spirale inflattiva europea arriva ad un livello del +5,1% mentre quella italiana si “fermerebbe” ad un +4,8% ma nel caso europeo ed italiano in particolare la genesi va ricercata tra le fonti esterne.

    A differenza del modello economico statunitense in Europa la disoccupazione registra un 7,1% (3,8% negli Usa si ricorda) mentre in Italia raggiunge il 9% (26,8 % tra i giovani), quindi ben lontani dalla piena occupazione indicata con un tasso di disoccupazione inferiore al 5% (disoccupazione frizionale).

    All’interno quindi di uno scenario economico politico sostanzialmente agli antipodi rispetto a quello d’oltreoceano sembrerebbe sicuramente assurdo adottare le medesime politiche monetarie con l’obiettivo di frenare un fenomeno (inflazione) simile ma determinato da cause diverse. Nel nostro Paese, in più, si aggiungono anche gli effetti di una politica di sviluppo che parte da due assiomi assolutamente superati e comunque falsi. Sulla base del primo l’attività di governo invece di avere un approccio organico e complessivo allo sviluppo del Paese ha scelto di privilegiare uno specifico settore (edilizio) come beneficiario dei maggiori interventi finanziari (bonus fiscali), espressione della convinzione di “un effetto traino” in grado cioè di riavviare l’intera economia generale. Una scelta risibile il solo pensare che un singolo privilegiato settore possa determinare una crescita complessiva ma di certo ha dato vita NON solo ad una rinascita dell’inflazione ma ANCHE alla creazione di una aspettativa di inflazione per tutti gli altri comparti economici.

    Il secondo assioma assolutamente fuorviante è quello relativo ad un altro effetto traino per l’intera economia attributo questa volta alla semplice crescita della spesa pubblica, quasi rappresentasse il motore stesso dell’economia nazionale.

    In trent’anni di esplosione della spesa pubblica, finanziata con l’aumento della pressione fiscale e del debito pubblico, il reddito disponibile per i contribuenti italiani si è ridotto del -3,7% a fronte di una crescita in Germania del +34,7 % e di oltre il +24% in Francia. Direbbe quindi il poeta “perdete ogni speranza voi che attendete gli effetti economici della spesa pubblica” soprattutto all’interno di una pseudo-transizione energetica priva di ogni base economica di sostenibilità la quale, va ricordato, viene sovvenzionata da quarant’anni (40) con oneri nelle bollette, a tutt’oggi in grado di raggiungere la quota di rinnovabili al 18% ma pretendendo di arrivare al 50% nel 2030, cioè in otto (8) anni. L’adozione, quindi, di una politica monetaria restrittiva da parte della Bce determinerebbe solo l’effetto di frenare ulteriormente il tentativo di ripresa economica rendendo più oneroso l’accesso al credito e probabilmente con effetti nulli sul principale problema come l’inflazione stessa. Gioverebbe ricordare, infatti, come all’interno di un mercato globale le politiche monetarie regionali (l’Europa altro non è in un contesto mondiale) abbiano già fallito nel recente passato.

    In questo senso basti ricordare come dal 2015 l’allora presidente della Bce Mario Draghi abbia inaugurato il Quantitive Easing con l’obiettivo di fornire un supporto finanziario alla crescita economica e alla produzione ma anche scongiurare la deflazione che avrebbe messo in seria difficoltà il sistema finanziario e bancario.

    Fino alla esplosione della terribile pandemia nel 2020 nessun indicatore economico aveva registrato una ripresa dell’inflazione, legata all’enorme quantità di risorse finanziarie disponibili sul mercato, anche a causa della stagnazione sostanziale dei consumi ed alla diminuzione del prezzo medio dei beni acquistati provenienti da zone a basso costo di manodopera.

    Nella situazione opposta la medesima politica monetaria ma di segno opposto non frenerebbe l’inflazione (come detto esogena) ma ridurrebbe ulteriormente le opportunità di crescita e garantirebbe solo una maggiore e pericolosa stagnazione economica già in atto (*) riducendo anche drasticamente il potere di acquisto di intere fasce di popolazione a basso reddito ma anche del ceto medio. Con on queste caratteristiche e parametri economici non esistono quindi le condizioni per una politica monetaria restrittiva quando invece l’unica soluzione dovrebbe venire individuata in una sostanziale ed omogenea riduzione del carico fiscale avviata sia dallo stato centrale, cominciando a rendere disponibile le risorse del Fiscal Drag, quanto dagli enti locali i quali hanno aumentato il proprio prelievo fiscale negli ultimi dieci anni del 111%.

    Una riduzione della pressione fiscale sarebbe assolutamente di per sé deflattiva (**) ed a favore delle fasce meno abbienti di contribuenti (***) riducendo il potere delle classi politiche e dirigenti che vivono di spesa pubblica anche per finanziare il proprio consenso elettorale.

    (*) dicembre 2021: produzione industriale -0,7% – gennaio 2022: produzione industriale -1,3%

    (**) si pensi alla riduzione del costo del gasolio nel trasporto delle merci e quindi al benefico effetto per i costi di trasporto e, di conseguenza, del prezzo dei beni di consumo

    (***) esattamente il contrario di quanto ottenuto con la rimodulazione delle aliquote Irpef del governo Draghi

  • Mexican nursery’s lottery win turns into nightmare

    Parents in southern Mexico say they are being threatened by a gang after their children’s nursery won 20m pesos ($950,000; £710,0000) in a lottery.

    The nursery has just over two dozen pupils and their parents were put in charge of administering the prize.

    Soon after their win was made public, they received threats from an armed group, which demanded that they use the money to buy weapons for the gang.

    The families say they had to flee their village and have been living rough.

    Gang violence is rife in Mexico and armed groups often try to recruit locals in their fight with rivals for control of territory.

    A number of the 500-peso tickets in Mexico’s much-publicised “plane lottery” were bought by anonymous benefactors and donated to poor schools and nurseries across the country.

    The Mexican state organised the lottery after a previous plan to raffle off the presidential plane to raise funds for hospital supplies had been shelved because it was deemed impractical.

    A list of the 100 winners was announced in September 2020 and published in Mexican newspapers.

    The tiny nursery in the indigenous village of Ocosingo was among the winners.

    While the windfall was cause for celebration at first, the problems started soon after news of it spread.

    Members of the parents’ association say that they started receiving threats from an armed group called Los Petules which demanded that the prize money be used to buy guns for the gang, which reportedly planned to attack a rival group in a neighbouring village.

    The parents refused and instead spent part of the money on a new roof for the nursery.

    The threats increased this year when the parents decided to use the remaining 14m pesos for works to improve their village.

    In March, one father was shot at by gang members who demanded he hand over the prize money.

    Last month, the situation escalated further when the gang reportedly attacked women and children in the village, causing 28 families to flee.

    One member of the parents’ association said the community had lost “cattle, our homes, refrigerators, our corn and bean harvests, our chickens”.

    A spokesman for the families said that they had alerted the local authorities to their plight but that unless the gang was disarmed and dissolved, they would not be able to return to their homes.

  • Supermercato Italia

    Se all’interno di un supermercato Italia (A) nel quale si possa trovare ogni genere di beni esistenti venisse offerto un bonus aggiuntivo a carico dello stesso supermercato (debito aggiuntivo quindi) ma spendibile solo in alcuni settori merceologici questo determinerebbe l’immediata impennata di acquisti per i beni degli scompartimenti beneficiati dal bonus ma con una conseguente crescita dei prezzi estesa ad ogni tipologia  merceologica (inflazione a strascico determinata dalla sua stessa  aspettativa*). In questo contesto di crescita di prezzi reale ed attesa gli altri settori faticherebbero a mantenere i volumi storici di vendita. A fronte di questa domanda aggiuntiva lo stesso supermercato si avvarrebbe di nuove collaborazioni (a tempo determinato ed in rapporto alla sola durata del bonus) mentre rimarrebbero bloccate tutte le strategie di sviluppo nella gestione delle risorse umane e relative agli addetti degli altri reparti.

    Gli esercizi commerciali situati nelle immediate vicinanze del supermercato avrebbero probabilmente una temporanea crescita dei consumi di caffè e di altri prodotti senza però indurli a programmare investimenti per il prossimo futuro a causa della percezione della temporalità delle politiche commerciale del supermarket: resterebbero cioè in vigile attesa (aumentando così le proprie giacenza liquide sui conti correnti).

    Una volta esaurito l’effetto espansivo del bonus il supermercato potrebbe certificare, a livello finanziario, un forte incremento del fatturato con un conseguente netto miglioramento del rapporto debito e fatturato (debito/PIL). Questo risultato verrebbe ottenuto sostanzialmente a “costi fissi e stabili” in quanto i collaboratori a tempo determinato risulterebbero già usciti dall’organico ben prima della fine del ciclo economico incentivato dal bonus e rientrati in carico alle cooperative somministratrici di “servizi umani”.  Si creerebbe così la situazione ideale per la società di distribuzione (A) di diventare l’oggetto di una acquisizione da parte di un concorrente di dimensioni maggiori e quindi finanziariamente più solido (acquisizione private equity di aziende del Made in Italy).

    Contemporaneamente se un altro  supermercato Italia (B), invece, abbassasse il livello generale dei prezzi praticati alla propria clientela (magari grazie ad un minore ricarico “fiscale” e limando gli “sprechi di struttura”, cioè la spesa corrente) i consumatori, dopo una iniziale incertezza ed una volta compresa e quantificata l’entità della nuova e maggiore disponibilità (a redditi costanti), aumenterebbero i propri acquisti magari anche utilizzando una parte di quelle risorse depositate nei conti correnti nati come espressione della propria incertezza nel futuro.

    La percezione, infatti, di una nuova maggiore disponibilità si riverbera anche attraverso una nuova fiducia e quindi trova la propria manifestazione con l’aumento della domanda marginale (a redditi stabili) e, di conseguenza, in nuovi consumi, confermando ulteriormente l’importanza del sentiment in economia. (*)

    La crescita del fatturato del supermercato coinvolgerebbe tutti i settori merceologici spingendo la direzione stessa a stabilizzare una quota di lavoratori già attivi all’interno della struttura, fino ad allora con contratti a tempo determinato, e magari contemporaneamente assumendone anche di nuovi per rispondere alla domanda in costante crescita.

    I fortunati esercizi commerciali posti nelle immediate vicinanze del supermarket avrebbero una crescita costante dei consumi e verrebbero indotti a programmare una serie di investimenti finalizzati a migliorare e sviluppare le proprie potenzialità quanto il livello del prodotto, reintroducendo magari nel circuito economico una parte delle proprie liquidità prima giacenti inerti nei conti correnti. La stessa direzione del supermercato potrebbe finalmente abbandonare le quasi mensili e a basso valore aggiunto campagne di promozione 3×2 (elezioni) e sempre meno seguite dalla disorientata clientela (affluenza sotto il 50%) a favore invece di una politica di crescita complessiva attraverso investimenti strutturali con evidenti sinergie di costi e lasciando le promozioni ai classici periodi stagionali (nuova legge elettorale che concentri in poche date tutti gli appuntamenti elettorali).

    In altre parole ecco come gli effetti della gestione del primo supermercato Italia (A) rappresentino la costante fotografia delle sciagurate strategie della classe politica e dirigente italiana negli ultimi trent’anni le quali hanno determinato solo ed esclusivamente la diminuzione del reddito disponibile per i cittadini italiani del -3,7 %, mentre in Germania (in più con un debito pubblico inferiore di oltre il 50%) risulta aumentato del +34,7%.

    Nel secondo supermercato Italia (B), viceversa, si sperimenta una politica diversa ma espressione finalmente di una ritrovata competenza. Invece di attendere i successivi quanto improbabili effetti nel medio e lungo termine derivanti dal semplice e ripetuto rifinanziamento della spesa pubblica, nel secondo esercizio commerciale si predilige una crescita costante come espressione della maggiore capacità di spesa dei propri clienti (sostegno alla domanda interna). Un reddito disponibile legato più alla crescita del Pil del Paese che non a quella della spesa pubblica la quale, come inevitabile contropartita, determina la insopportabile crescita della pressione fiscale sempre più progressiva rispetto ai costi dei prodotti (accise carburanti e tassazione consumi).

    Le diverse strategie utilizzate dal “management” della distribuzione Italia (A/B) fanno così risultare vicina al quadro complessivo del nostro Paese la prima e contemporaneamente lontana in modo imbarazzante la seconda. In più, di fronte alle nuove disponibilità finanziarie forniteci dalla Unione Europea, si continua a finanziare ulteriore spesa settoriale senza valutare il quadro d’insieme (supermercato A) mentre ancora una volta si dimentica il sostegno alla domanda complessiva (supermercato B).

    Ormai emerge evidente come questo continuo sostegno al solo aumento della spesa pubblica non possa venire giustificato solo dalla fiduciosa attesa di benefici effetti nel medio e lungo termini ma ormai rappresenta soprattutto il livello di compromissione tra il ceto politico e quello affaristico imprenditoriale.

    Va Infatti ricordato come l’aumento della spesa pubblica determini la crescita di quel potere di una classe politica sempre più assetata di nuove disponibilità con il solo obiettivo di  accrescere  così il proprio potere in modo   inversamente proporzionale al consenso di cui possa godere  (26.11.2018 https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-vera-diarchia/).

    A conclusione si auspica come la prossima volta, quando gli italiani andranno a fare la spesa, si ricordino finalmente quale dei due supermarket risulti più conveniente per i propri acquisti.

    (*) Il premio Nobel per l’economia attribuito allo psicologo Daniel Kahnemann incanala la ricerca verso la relazione tra economia e mente.

  • Trustmeup, la nuova piattaforma digitale che promuove un nuovo modello di sostenibilità

    Non Profit ed E-commerce, due mondi apparentemente distanti, si uniscono nella piattaforma web TrustMeUp, l’unica in grado di trasformare ogni acquisto in donazione e ricompensare ogni donazione, al 100%, in sconti per nuovi acquisti digitali. Il tutto in maniera trasparente e tracciata grazie alla tecnologia blockchain.

    Un modello innovativo di raccolta fondi per il Terzo Settore, con l’obiettivo di raddoppiare il valore delle donazioni e offrire alle aziende una proposta innovativa di CSR condivisa che permette a tutti di comprare donando “a costo zero”. Da un lato, infatti, i consumatori possono donare mediamente il 15% dell’importo speso in uno dei negozi online aderenti alla piattaforma (secondo un modello definito come DonaComprando); dall’altro effettuare una donazione, per qualsiasi importo, a favore di un ente non profit presente all’interno di TrustMeUp e trasformare lo stesso valore in uno sconto digitale, da utilizzare in seguito.

    La piattaforma si presenta come una nuova frontiera dello shopping dimostrando che i consumi, fatti in modo differente, possono impattare sulla società e sostenere il mondo del Non Profit in maniera semplice, sostenibile e senza costi aggiuntivi. Ad ulteriore beneficio dell’utente e a dimostrazione della trasparenza e tracciabilità dello strumento, TrustMeUp emetterà per conto dell’Associazione Non Profit cui è stata fatta la donazione una ricevuta fiscale valida ai fini delle detrazioni fiscali, garantendo un cashback del 5% in media della cifra spesa.

    Presentato in occasione dell’evento “E-Commerce e Non Profit: un nuovo modello di sostenibilità” patrocinato da Assolombarda, TrustMeUp arriva in un momento di profonda crescita per il mondo dello shopping online. Secondo i dati NetComm, gli e-shopper durante i primi due mesi del 2020, sono aumentati di 2 milioni, raggiungendo il totale di 27 milioni, portando così a un incremento dell’e-commerce del 176% nel 2020 rispetto al 4% dell’anno precedente e una previsione di crescita di un ulteriore 19% nel 2021. Meno floridi sono stati gli ultimi mesi per il settore Non Profit, come evidenziano i dati dell’Istituto Italiano della Donazione: il 43% degli enti stima di chiudere il 2021 con una diminuzione delle entrate. Tuttavia una nuova speranza la danno i canali digitali: per il 28,4% nel 2020 le donazioni online sono aumentate o rimaste stabili (58%).

  • Fondi speculativi e sanità Usa

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 28 ottobre 2021.

    Negli Usa, com’è noto, l’assistenza sanitaria è privata e coperta da polizze assicurative. Da qualche tempo, però, i fondi di private equity stanno comprando pezzi importanti del sistema sanitario americano e anche le reti sanitarie di base. Un fenomeno da tenere sotto la lente, perché «merce di esportazione». Soprattutto in Europa.

    I fondi equity sono poco regolati e puntano al massimo profitto in tempi brevi. Solitamente operano attraverso dei manager che gestiscono capitali di un numero limitato di partner privati e istituzionali. Spesso le loro operazioni di acquisizioni sono fatte attraverso il cosiddetto «leveraged buyout», cioè mediante lo sfruttamento della capacità d’indebitamento della società acquisita. Il che rende indispensabile un ritorno veloce di dimensioni rilevanti.

    La spesa sanitaria negli Usa è una parte notevole del pil. È passata dal 5% del 1960 al 18% del 2020. Dovrebbe arrivare al 20% nel 2024. I costi ospedalieri sono cresciuti del 42% nel periodo 2007-2014 e si ritiene che, in futuro, le spese per la sanità assorbiranno il 25-50% del salario della cosiddetta classe media americana. Fino alla legge Affordable Care Act (ACA) del 2010, meglio conosciuta come Obamacare, una parte del sistema sanitario era regolata e sostenuta con fondi pubblici da due strutture, Medicare per gli over 65 e Medicaid, per le famiglie a basso reddito.

    Pur con i suoi limiti, l’Obamacare ha dimezzato il numero delle famiglie americane ancora senza una copertura assicurativa sanitaria. All’interno dell’Obamacare era stato introdotto il concetto di Accountable Care Organizations (ACOs) per rendere la sanità più efficiente e meno costosa per i pazienti. Invece, si è avuto una maggiore concentrazione del settore sanitario con la formazione di veri e propri cartelli di ospedali, di cliniche e di centri diagnostici.

    Nel 2021 il processo di acquisizioni e di concentrazioni è cresciuto enormemente. Nel secondo trimestre del 2021, rispetto a quello del 2020, gli investimenti per gli acquisti di studi medici sarebbero cresciuti di 10 volte. La società di consulenza Solic Capital Mangement, sostiene che gli investimenti per acquisizioni nella sanità sarebbero stati ben 126,1 miliardi di dollari nel periodo menzionato rispetto ai 12,1 miliardi del 2020.

    Gli istituti di lunga degenza, gli ospedali e la medicina telematica sarebbero i settori più interessati.

    Oggi gli investitori nel sistema sanitario sono principalmente i fondi di private equity e certi enti finanziari specialmente creati per acquisizioni mirate. Il loro appetito è cresciuto anche in relazione all’American Family Bill, di circa 3.500 miliardi di dollari, proposta dal presidente Joe Biden.

    Ovviamente, tra i fondi equity e le assicurazioni è scoppiata una «guerra» per il controllo del settore sanitario americano. Secondo un articolo del New York Times del 2019, un’organizzazione di medici, che fortemente si oppose alla proposta di legge per disciplinare il fenomeno delle «fatturazioni a sorpresa», fatte attraverso la maggiorazione dei costi e la pratica delle prestazioni mediche più costose e, a volte, non indispensabili, aveva avuto un consistente appoggio di due grandi ditte fornitrici dei settori dell’emergenza sanitaria, la Envision, controllata dal fondo equity KKR, e la TeamHealth, controllata dal fondo Blackstone. Essi sono i fondi equity più attivi nella sanità mondiale con parecchie decine di miliardi di dollari di asset.

    Oltre ai fondi leader americani, vi sono quelli con base a Londra e in Francia, che operano soprattutto in Europa e in Italia. La privatizzazione della sanità, se non è regolata, può diventare il problema sociale ed economico più serio per le famiglie e per i governi.

    Lo abbiamo visto durante la pandemia, quando la debolezza delle strutture sanitarie pubbliche, soppiantate da quelle private, e la mancanza di imprese farmaceutiche funzionanti nell’interesse generale, hanno messo i governi e le sanità pubbliche in grande affanno nell’affrontare l’emergenza Covid.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La logica fiscale

    Una delle riforme che l’Europa ci chiede per l’assegnazione dei finanziamenti del PNRR è relativa ad una riforma fiscale complessiva ed articolata che riguardi anche quella del catasto. L’obiettivo primario del governo in carica è ovviamente quello di ottenere i finanziamenti promessi dall’Unione Europea ma altrettanto importante sarebbe mostrare la medesima attenzione verso una reale riduzione del carico fiscale verso i contribuenti e le imprese. In questo contesto ricordare le condizioni attuali del sistema fiscale italiano può venire in aiuto.

    Nel 2020, in piena pandemia quindi, la pressione fiscale è aumentata dal 42,3 al 42,8% come espressione di una strategia economico-politica esattamente opposta rispetto a quella, per esempio, della Germania. Il governo di Angela Merkel ha diminuito l’Iva con l’obiettivo di fornire gli strumenti economici necessari per invertire il trend pandemico dell’economia. Da questo semplice confronto tra sistemi economici concorrenti (le due maggiori realtà manifatturiere europee) emerge chiaro come non si possa considerare sufficiente la rassicurazione di una riforma fiscale a somma zero per i contribuenti espressa dal governo in carica. Una riforma fiscale dovrebbe garantire, inoltre, una maggiore equità e, nello specifico del caso italiano, contemporaneamente ridurre la pressione complessiva in quanto il Total Tax rate italiano ha raggiunto l’insostenibile percentuale indicata al 59,9% (fonte Rapporto Payng Taxes 2020).

    Se l’obiettivo dichiarato della riforma del catasto è riuscire a fare emergere oltre un milione di immobili non accatastati ai quali applicare ovviamente una fiscalità, questa emersione dovrebbe quindi dimostrare delle conseguenze positive anche per i contribuenti oltre che per le finanze pubbliche. Partendo dal raggiungimento di questo obiettivo programmatico e lasciando invariati i saldi della pressione fiscale sugli immobili come all’art.7 “…Il relativo valore patrimoniale e una rendita attualizzata” non verranno utilizzati per “…la determinazione della base imponibile dei tributi”

    Cosi viene rappresentato di per sé un aumento della pressione fiscale in quanto l’invarianza dei saldi a fronte di nuovi contribuenti, e quindi nuovo gettito, sarebbe raggiunta solo ed esclusivamente attraverso una contemporanea riduzione delle aliquote applicate. In più, la sola ipotesi di un aumento dell’Iva sui consumi energetici, quando andrebbero sostanzialmente diminuite le accise sui carburanti anche solo per attenuare l’ondata inflattiva, non depone a favore della filosofia adottata dal governo nella elaborazione della riforma fiscale.

    Rimodulare le aliquote sull’Irpef come la riduzione dell’Irap rappresentano un obiettivo importante ed assolutamente condivisibile esattamente quanto una prima ed ovviamente parziale riduzione della pressione complessiva.

    L’attenuazione dell’ormai insostenibile peso fiscale rappresenta l’unica strategia nell’immediato in grado di offrire un sostegno alla domanda interna e quindi un aiuto alla ripresa dei consumi “domestici” il cui effetto risulta ancora oggi ampiamente sottostimato all’interno di una crescita sostanziale di un’economia, anche in considerazione dell’andamento delle retribuzioni e di un possibile malefico ritorno del fiscal drag con l’avvio ormai conclamato di una stagione a forte reflazione. Emergendo nuovi contribuenti con la riforma del catasto e con la sempre promessa della lotta all’evasione, e quindi con un nuovo gettito, allora le dinamiche di una politica fiscale si riducono sostanzialmente a due. Lasciando invariate le aliquote il nuovo gettito si sommerà al precedente (1) determinando un ulteriore aumento della stessa pressione anche se a saldi costanti oppure si utilizzerà l’intero ammontare (2) delle nuove risorse fiscali per allentare la presa fiscale non solo per le aziende ma anche riducendo le tasse di consumo e fornire così, per la prima volta nella storia del nostro Paese, un sostegno alla domanda interna. Un fattore economico da sempre dimenticato anche se “sostenuto” da risibili lotterie degli scontrini o cash back degni più del gioco del Monopoli che di una politica economica di un paese serio.

    Non può esistere concettualmente una riforma fiscale a saldi invariati che non preveda l’abbassamento delle aliquote a fronte di un aumento delle risorse disponibili. Una questione di logica più che di matematica.

  • Il sistema italiano degli istituti di credito

    Una delle motivazioni che portò la politica ed il governo Andreotti, con l’appoggio della classe dirigente ed accademica italiana, ad indicare nella privatizzazione del sistema bancario (legge Carli Amato) la soluzione per evitare crisi furono le tristi vicende del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia il cui dissesto finanziario costò complessivamente circa 22.000 miliardi di lire, quindi circa 13 miliardi di euro al valore attuale. Alla luce delle dinamiche delle crisi, succedutesi negli ultimi anni nel nostro Paese, di troppi istituti di credito legittimamente, anche in considerazione dei costi sociali ed economici, nascono dei dubbi così come emergono i limiti di una soluzione ad un problema molto complesso come la gestione del sistema bancario. La sola crisi del Monte dei Paschi di Siena è costata alle finanze pubbliche, fino a questo momento, oltre 11 miliardi di euro (6.9 miliardi di capitale investito dal ministro Padoan in un istituto di credito risultato ultimo in Europa  negli stress test il cui valore attuale è di 750 mln), (https://www.ticinolive.ch/2021/08/03/il-monte-dei-paschi-sottoposto-a-uno-stress-test-risultato-inquietante/). A questi andranno aggiunti i prossimi tre (3) miliardi aggiuntivi per il finanziamento degli ammortizzatori sociali come “pretesa contropartita” voluta da Unicredit (il presidente di Unicredit è lo stesso Padoan, ex ministro). E’ paradossale poi come, per assorbire e mitigare gli effetti della drastica riduzione degli occupati in seguito alla “fusione” tra due istituti bancari, se ne debba fare carico sempre lo Stato al fine di rendere finanziariamente sostenibile l’acquisizione della banca senese dal gruppo privato UniCredit: il soggetto pubblico (come azionista di maggioranza) garantisce quindi la sostenibilità finanziaria dell’operazione all’istituto privato acquirente. Se poi lo stesso acquirente, cioè l’amministratore delegato di Unicredit, è anche uno dei responsabili in qualità di consulente del dissesto finanziario di MPS, nata dall’acquisizione di Antonveneta ad un valore 3,2 superiore alla valutazione del mercato, si delinea ancora più chiaramente “la partita di giro” tra istituti. Entrambe le operazione, quindi, risultano finalizzatale non a crescite strutturali per competere nel mercato finanziario internazionale, l’unica vera motivazione di queste operazioni è semplicemente la creazione di plusvalenze finanziarie da distribuire agli azionisti. Tornando, poi, al quadro generale, se si volesse integrare a questi costi anche quelli della crisi finanziaria di Veneto Banca e Popolare di Vicenza in termini di azzeramento del risparmio privato pari ad undici (11) miliardi più 1,7 miliardi di euro di risorse pubbliche per un ridicolo risarcimento pari al 30% degli investimenti ma solo fino a 100.000 euro di investimenti, il conto dei costi pubblici a sostegno di un sistema privato diventa imbarazzante. Anche perché il default delle banche venete va inteso come la sintesi di una scellerata gestione i cui costi si sono riversati sui sottoscrittori delle quote di risparmio e successivamente diventati azionisti a causa di una disgraziata decisione politica del governo Renzi di trasformare le quote di risparmio in capitale di rischio attraverso la trasformazione in Spa. Una scelta imputabile alla intera classe ministeriale del governo, quindi, ancora una volta, al ministro Padoan con il suo vice Calenda. A questi costi economici e sociali vanno aggiunti anche gli oltre due (2) miliardi della crisi di Banca Etruria e di istituti minori. Risulta evidente come la semplice privatizzazione del sistema bancario sia costata in termini di risorse pubbliche ed azzeramento di risorse private molto più di sistema pubblico degli istituti di credito. La soluzione alla pessima gestione degli istituti di credito da parte della classe politica e dirigente, quando questi erano pubblici, non poteva venire indicata nella semplice privatizzazione che avrebbe bypassato ogni responsabilità dei dirigenti e dei politici del passato ma soprattutto del futuro prossimo. In questo senso va ricordato come competenza e capacità risultino verificabili sia all’interno di un azionariato pubblico che di quello privato. In questo contesto, poi, NON va dimenticata la sciagurata riforma coniata dall’Unione Europea con l’introduzione del “bail in” la quale, di fatto, ha trasformato nel 2016 ogni deposito oltre i 100.000 euro in capitale di rischio ma senza riconoscere alcun diritto per i titolari dei c\c o partecipazione agli eventuali dividendi ma anzi subendo, anno dopo anno, la crescita dei costi di gestione. Tantomeno la riforma del bail-in che coinvolge i risparmiatori nei rischi gestionali e di impresa dell’Istituto di credito riconosce agli stessi la possibilità di intervenire all’interno della complessa gestione dell’istituto. Ennesima riprova della inconsistenza politica dell’Unione Europea, in questo assolutamente simile a quella dimostrata dalla classe politica italiana. Il comprendere come le semplici proprietà pubbliche o private non garantiscano dall’incompetenza pubblica e tantomeno dalla avidità privata (come la gestione di autostrade, tanto per fare un altro esempio di scellerata privatizzazione che ha portato alla riduzione del 98% delle spese di manutenzione) è stato ampiamente dimostrato. Troppo spesso la politica per propria incompetenza o per ambigua vicinanza a gruppi di interesse ha indicato come soluzioni di complesse problematiche reali le strategie più semplici lasciando di fatto inalterato il problema, ponendo magari anche le basi di uno scenario ancor più disastroso considerate le possibili occasioni di speculazioni venutasi a creare.  Ovviamente con il consenso disinteressato dell’Unione Europea.

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