Denaro

  • La metamorfosi bancaria

    Un recente studio ha dimostrato come quasi il 50% degli utili degli Istituti bancari venga rappresentato dalle commissioni calcolate sulle operazioni sia di cassa che finanziarie. Questo dato è quanto mai interessante e contemporaneamente preoccupante in un’ottica di medio e lungo termine. Il sistema degli istituti di credito, in altre parole, trova le proprie marginalità non più solo dalla funzione istituzionale legata al finanziamento dello sviluppo economico del Paese, e quindi delle imprese, ma la metà degli utili dipende da “semplici” operazioni di cassa o finanziarie la cui valenza risulta assolutamente marginale come ricaduta o moltiplicatore del PIL.

    Buona parte di queste commissioni, infatti, deriva da operazioni legate alla gestione del risparmio privato conseguentemente alla vendita di prodotti finanziari alla propria stessa clientela.

    Va ricordato, nello specifico, come gli stessi istituti di credito conoscano già perfettamente le potenzialità economiche del singolo risparmiatore detenendo presso le proprie filiali i depositi in conto corrente.

    Emerge    così, tanto per cominciare, un evidente conflitto di interessi in quanto la conoscenza dell’importo dei depositi dei potenziali risparmiatori/investitori rappresenta un vantaggio nei confronti dei concorrenti ed un conflitto di interessi con la clientela alla quale successivamente viene proposto un piano di investimenti “mirato”.

    Si viene così a creare una sorta di rendita di posizione a favore degli istituti di credito composta dalle marginalità provenienti da ogni singola operazione legata alla gestione del risparmio privato e dal crescente utilizzo della moneta elettronica espressione della accondiscendenza del sistema politico il quale da decenni, in cambio del finanziamento del proprio debito pubblico, combatte la battaglia contro l’uso del contante.

    Va poi ricordato, inoltre, come la sostanziale comunione di intenti ed interessi tra compagine politica e bancaria avvenga nonostante le critiche della Bce tanto in relazione alla riduzione del limite massimo al contante quanto al trattamento privilegiato riservato dal sistema fiscale italiano agli utilizzatori dei pagamenti elettronici.

    Si apre così, contemporaneamente, un altro problema fondamentale in relazione alla politica di sviluppo del nostro Paese specialmente dopo un biennio terribile legato alle conseguenze della pandemia.

    La costante deriva finanziaria e commerciale del sistema bancario preferito al finanziamento dello sviluppo e quindi del sistema imprenditoriale indica come appaia fondamentale quantomeno la comprensione del “vuoto operativo” che ne deriva nel contesto economico dalla “bigamia bancaria”. Successivamente emerge la necessità di individuare delle scelte operative per avviare in un’ottica di sviluppo quali nuovi attori possano sopperire e sostituirsi al vuoto generato dal “tradimento” della funzione istituzionale del sistema bancario.

    All’interno di questa crisi pandemica molti hanno prima individuato e successivamente utilizzato a larghe mani la Cassa Depositi e Prestiti. Una scelta probabilmente senza alternative nell’immediato ma che dovrebbe risultare legata al solo periodo emergenziale pandemico, non in grado quindi di diventare una scelta strutturale come qualcuno con leggerezza indica. Anche perché sarebbe paradossale come, successivamente alla privatizzazione dei sistema bancario, fosse una istituzione pubblica come CdP quella individuata per sostituire il sistema degli istituti di credito nella funzione di sostegno alla ripresa economica.

    La pericolosa metamorfosi, quindi, degli istituti di credito in negozi di prodotti finanziari comunque dovrebbe suscitare delle legittime preoccupazioni.

  • Richard Nixon fece un grosso pateracchio 50 anni fa, cancellando il gold standard e introducendo la fluttazione dei cambi

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 14 agosto 2021

    Sono passati cinquant’anni dal discorso tenuto dal presidente Richard Nixon il 15 agosto 1971 in cui annunciava misure radicali per il futuro dell’economia e della politica mondiale. Non c’è, però, nulla da festeggiare. Infatti, allora si decise la fine del gold standard. Da quel momento il dollaro non sarebbe stato più convertibile e rimborsabile in oro. In teoria, fino a quel giorno i Paesi con riserve in dollari potevano in ogni momento richiedere la loro riconversione in oro. Gli Usa tornarono liberi di «stampare moneta» senza l’obbligo di possedere una quantità d’oro pari ai biglietti verdi in circolazione.

    Fu accantonato anche il regime dei cambi fissi, che regolava i rapporti tra le maggiori monete, uno dei pilastri del sistema di Bretton Woods, realizzato nella cittadina del New Hampshire nel 1944. Nel sistema monetario internazionale s’introdusse, invece, il cambio fluttuante, che è stato ed è sempre sotto la minaccia della speculazione dei mercati valutari. Purtroppo fu anche l’inizio della «deregulation».

    Negli Usa furono congelati anche i salari e i prezzi per 90 giorni, con una sovrattassa del 10% sulle importazioni. I controlli sui prezzi bloccarono temporaneamente l’inflazione, che, però, ritornò poco dopo più forte di prima.

    Con la decisione unilaterale di far fluttuare il cambio del dollaro si aprì un periodo d’instabilità che portò alla svalutazione della valuta americana, che favorì i conseguenti shock petroliferi del 1974 e del 1979 e, alla fine degli anni settanta, portò i tassi di interesse della Federal Reserve al 20%. Fu uno choc economico globale senza precedenti.

    L’intento di Nixon era quello di indurre i Paesi industrializzati a rivalutare le loro monete rispetto al dollaro per ridurre il crescente deficit della bilancia dei pagamenti americana. Gli effetti, però, furono fuori controllo e incalcolabili. Le cose andarono diversamente. Le nuove «regole del gioco» spianarono la strada alla globalizzazione della finanza.

    È vero che la situazione economica americana non era più sostenibile, anche per i debiti dovuti alle spese della guerra in Vietnam. Le stesse riserve auree erano scese dai 24 miliardi di dollari del 1948 ai 10 del 1971.

    Da quel momento gli Stati Uniti hanno affrontato i loro deficit di bilancio e le loro spese crescenti stampando sempre più dollari. Anzi hanno inondato il mondo di dollari. Nel 1971 in Usa il rapporto debito pubblico/pil era di 36,2%. Oggi ha superato il 135%. In realtà, si dovrebbero aggiungere i debiti dei due giganti immobiliari pubblici, Freddie Mac e Fannie Mae, che furono causa non secondaria della crisi del 2008.

    Da cinquant’anni l’America ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Per gestire un debito crescente e una situazione finanziaria sempre più malata, gli Usa hanno cambiato nel tempo molte altre norme, abbattendo l’intero apparato di regole realizzate dal presidente Franklin Delano Roosevelt per superare la Grande Depressione del ’29. In particolare nel 1998 fu accantonato il Glass Steagall Act, la legge del 1933, che stabiliva la separazione bancaria tra le banche commerciali e quelle d’investimento, proibendo alle prime di usare i depositi e i risparmi dei cittadini in operazioni finanziarie speculative e ad alto rischio.

    Dopo la Grande Crisi del 2008, dopo i giganteschi quantitative easing finanziari, le tante sfide planetarie e l’attuale crisi pandemica ed economica, dovrebbe essere chiaro che, per evitare pericolose guerre tra le valute, si dovrebbe costruire un nuovo accordo internazionale anche nel campo monetario. Potrebbe essere un sistema multipolare basato preferibilmente su un «paniere stabile di monete». Purtroppo questo problema non è stato ancora risolto!

    Nel discorso del 1971 lo stesso Nixon parlò della «necessità urgente di creare un nuovo sistema monetario internazionale». Forse era consapevole più degli altri della gravità della sua decisione.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Riciclaggio nella Ue, 160 mld

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ‘ItaliaOggi’ il 6 agosto 2021.

    L’Europol stima che l’1% del Pil dell’Unione europea, equivalente a circa 160 miliardi di euro, è coinvolto in attività finanziarie illegali. E’ clamoroso il caso della filiale estone della banca danese Danske Bank, che dal 2007 al 2015 sarebbe stata il veicolo di transazioni molto sospette per oltre 200 miliardi di euro.

    Del resto è risaputo che il riciclaggio di soldi per fini illegali, per il sostegno al terrorismo e per l’evasione e l’elusione fiscale ha assunto dimensioni preoccupanti. Anche le reti criminali si sono dimostrate molto esperte a “dribblare” i regolamenti e i controlli dei singoli Paesi, sfruttandone le differenze, le incongruità e anche le reciproche avversità. In questa materia l’Unione europea si “barcamena” tra un desiderato coordinamento centralizzato e i provvedimenti dei diversi governi.

    Recentemente la Commissione ha presentato delle condivisibili proposte legislative al Parlamento e al Consiglio europeo per consolidare le norme Ue per contrastare il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo. Da notare che inizialmente l’iniziativa era stata osteggiata da alcuni Paesi membri, tra cui Cipro, Malta ed Estonia.

    Non convincente, invece, è l’introduzione del massimale di 10.000 euro per i pagamenti in contanti. Si ricordi che in Italia esso è di 2.000 euro. In un attimo, tutta la passata battaglia ideologica di casa nostra sull’argomento è stata spazzata via.

    Il citato pacchetto mira anzitutto a creare una nuova autorità europea in materia di riciclaggio. E’ previsto un regolamento con norme direttamente applicabili. C’è una direttiva, relativa agli organismi di vigilanza, da recepire ai vari livelli nazionali. Lungimirante, ci sembra, è il regolamento per tracciare i trasferimenti in cripto-valute.

    La nuova autorità europea dovrebbe rafforzare la vigilanza e prevedere un unico sistema integrato per meglio coordinare gli organismi nazionali di monitoraggio. Gli attuali registri nazionali dei conti bancari dovrebbero essere collegati tra loro, consentendo alle varie Unità d’informazione finanziaria di accedere rapidamente ai movimenti sui conti correnti. Compito non secondario sarebbe la vigilanza su alcuni enti finanziari che si ritengono più rischiosi.

    Per quanto riguarda le cripto-valute e le cripto-attività, si rileva che attualmente solo alcuni prestatori di detti servizi sono soggetti alle norme di antiriciclaggio. Il che è una negligenza grave che potrebbe essere sfruttata anche da interessi illegali. Perciò è positiva la previsione di modifiche per la tracciabilità dei trasferimenti di cripto-attività, come i bitcoin. Saranno inoltre vietati i portafogli anonimi di cripto-attività.

    Naturalmente il riciclaggio è un fenomeno globale che richiede una forte cooperazione internazionale. La Commissione è già parte del Gruppo di azione finanziaria internazionale (Gafi), che è il garante a livello mondiale della lotta al riciclaggio di denaro. Gli elenchi del Gafi saranno inseriti in quelli dell’Ue. Essi avranno una “lista nera”, in cui figurano la Corea del Nord e l’Iran, e una “lista grigia”.

    Quest’ultima comprende 22 Stati. Oltre a quelli sospettati di terrorismo o coinvolti in guerre, ci sono alcuni dei paradisi fiscali più “gettonati” da interessi europei, tra cui le Barbados, le Cayman, Giamaica, Panama Albania e Malta (!). Anche la Romania stava per esservi inclusa.

    È incredibile che vi siano coinvolti dei Paesi europei e persino dell’Ue!

    Il documento è ricco di dati che evidenziano i rischi connessi ai vari settori economici influenzati o influenzabili dal riciclaggio di soldi sporchi. Ad esempio, si afferma che esso opera principalmente ancora attraverso il trasferimento di contanti e che le banconote da 500 euro sono state largamente usate a tal fine. Si stima che a livello mondiale il riciclaggio sfrutterebbe il mercato immobiliare per 1.600 miliardi di dollari l’anno e quello dei diamanti, che è concentrato soprattutto in Belgio. Il rapporto rileva la crescita dell’utilizzo dei paradisi fiscali quali veicoli per il riciclaggio: già nel 2016 i residenti Eu tenevano ben 1.600 miliardi di dollari nei centri off shore.

    Le nuove proposte della Commissione affrontano la sfida principale per il futuro dell’Unione: operare congiuntamente, senza sabotaggi di varia natura, per fronteggiare e sconfiggere il riciclaggio di soldi sporchi, che mina la sicurezza, la stabilità e il bilancio dell’Europa.

    *ex sottosegretario all’Economia **economista

  • Bruxelles prova a debellare il denaro sporco, che vale l’1% del Pil europeo

    Rappresenta circa l’1% del prodotto interno lordo annuo della Ue. Macchia la reputazione delle istituzioni, erode la fiducia nelle banche e nelle autorità e provoca danni difficili anche da quantificare. Per questo in Europa è venuto il momento di un’azione comune anti-riciclaggio capace di chiudere la porta ai flussi sospetti di denaro sporco che circolano invisibili da un lato all’altro dell’economia europea. “Stiamo parlando di molti miliardi di euro collegati ad attività illecite” che “hanno un impatto su tutta la società” e “ogni scandalo del riciclaggio è uno scandalo di troppo” perciò “il lavoro per chiudere le lacune del nostro sistema finanziario non è ancora finito”, hanno spiegato il vicepresidente dell’esecutivo Ue Valdis Dombrovskis e la commissaria per i Servizi finanziari Mairead McGuinnes presentando alle agenzie di stampa il nuovo pacchetto legislativo.

    Il primo passo è quello di creare una nuova autorità europea (Amla) che rileverà i poteri attualmente detenuti dall’Autorità bancaria europea e supervisionerà direttamente le istituzioni finanziarie transfrontaliere più rischiose. Per le entità non finanziarie ci penseranno invece le autorità nazionali. Che nella nuova agenzia troveranno un centro di coordinamento. Con uno staff di 250 funzionari, l’Amla si occuperà dei proventi del crimine e del traffico di droga, ma anche di elusione, finanziamento del terrorismo, tratta di esseri umani e corruzione. Per la scelta della sede, l’associazione bancaria italiana Abi lo scorso 10 giugno con una lettera del presidente Antonio Patuelli e del direttore generale Sabatini, aveva sollecitato il governo ad assumere l’iniziativa presso l’Unione Europea affinché l’Autorità sia posta in Italia. I vertici Abi sottolineavano che in Germania ha sede la Bce, in Francia l’Autorità bancaria europea, mentre l’Italia finora non ospita alcuna autorità finanziaria europea.

    Nel frattempo, le norme anti-riciclaggio saranno raccolte in un codice unico vincolante sfidando la riluttanza mostrata da alcune capitali in questi anni. “In passato abbiamo avuto una serie di casi di altissimo profilo” e “il problema non è stato risolto”, ha ammesso McGuinness, ricordando gli oltre 200 miliardi di fondi sospetti che tre anni fa transitarono dalle filiali estoni della Danske Bank senza che nessuno se ne accorgesse. E mettendo tutti in guardia che adesso l’Ue intende “assicurarsi che le regole vengano seguite”. Anche nel tech, dove le criptovalute sono sempre più usate per il riciclaggio di denaro virtuale. Per questo tutti i trasferimenti in Bitcoin o simili all’interno dell’Ue dovranno essere tracciabili al pari del denaro reale. Per i pagamenti in contanti invece Bruxelles propone di introdurre un tetto a 10mila euro, pur rispettando i limiti inferiori già presenti in circa 2 terzi degli Stati membri (si va da una soglia di 500 euro in Grecia ai 10mila euro in Repubblica Ceca, passando per i 2mila dell’Italia). Se tutto questo vale all’interno dell’Ue, il resto del mondo comunque non è salvo: dopo le liste nere e grigie dei paradisi fiscali, Bruxelles propone anche nuovi elenchi dei Paesi terzi che non hanno norme adeguate contro il riciclaggio. Con la possibilità di sanzionarli.

  • L’inflazione Usa è già al 3,1%

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 14 luglio 2021.    

    Il rischio di una ripresa dell’inflazione c’è oppure no? Non si tratta di una questione accademica che tiene impegnati economisti e giornalisti del settore. E’ in gioco la tenuta del sistema già provato da due pesantissime crisi economiche e finanziarie in poco più di un decennio. La discussione si è aperta anche all’interno del G30, il gruppo di esperti che hanno coperto le più alte cariche delle istituzioni monetarie e finanziarie internazionali.

    L’ex governatore della Bank of England, Mervyn King, senior member del G30, sostiene che «per la prima volta dagli anni Ottanta coesistono due fattori che rendono l’inflazione un rischio serio: un eccessivo stimolo monetario e fiscale e una debole resistenza politica alla minaccia inflattiva». È la stessa analisi espressa anche da Larry Summers, ex segretario al Tesoro americano, per quanto riguarda la situazione negli Usa e non solo.

    I lockdown hanno avuto un forte impatto sulla domanda e sull’offerta. I dati raccolti dal 2019 indicano che in UK la fluttuazione della produzione è stata grande, ma si è mantenuta in linea con l’andamento in calo della domanda. Oggi si stima che il gap di produzione sia dell’1% nel primo trimestre del 2021 e dovrebbe azzerarsi all’inizio del 2022. Sia chiaro.

    Nessuno mette in discussione il fatto che i governi e le banche centrali intervengano a sostegno delle economie, delle imprese e dei lavoratori. Se non fosse stato fatto, il mondo sarebbe sprofondato in una crisi economica e sociale senza precedenti. La questione è come gestire gli interventi futuri senza compromettere lo sforzo fatto finora. Il livello d’inflazione tollerabile è, quindi, cruciale.

    Si ricordi che l’aumento della spesa pubblica è finanziato non da tasse, ma dalla creazione di moneta da parte delle banche centrali, tanto che da marzo 2020 a giugno 2021 il bilancio della Bce è cresciuto da 5.000 a 7.900 miliardi di euro e quello della Fed è raddoppiato, passando da 4.200 a 8.100 miliardi di dollari.

    È vero quanto sostiene Draghi circa la differenza tra il debito buono, che crea nuova ricchezza, e quello cattivo, che copre le spese correnti e i buchi di bilancio. La questione si porrà quando si avranno dei tassi d’interesse più elevati e un’inevitabile contrazione dei bilanci delle banche centrali. Senza un aumento delle tasse, che nessun governo vorrebbe fare, come si finanzieranno i disavanzi? Si rischia una risposta troppo lenta ai segnali di aumento dell’inflazione. Anche un’eventuale brusca correzione del mercato avrebbe effetti preoccupanti per l’economia.

    Negli Usa il tasso d’inflazione di aprile su base annua è stato del 3,1%. I responsabili delle politiche della Fed hanno più volte affermato che considerano qualsiasi picco d’inflazione sopra la gamma accettabile, cioè il cosiddetto target del 2%, come puramente «transitorio». Tenendo presente le valutazioni sbagliate e le negative esperienze passate, «transitorio» è un aggettivo si dovrebbe attentamente evitare.

    Se la Fed si sbaglia nel ritenere che l’attuale aumento dell’inflazione sia transitorio, il resto del mondo non rimarrà incolume. Un rapido aumento dei tassi d’interesse statunitensi si tradurrà in un dollaro attraente rispetto ad altre valute. Le economie emergenti potrebbero sperimentare un rapido deflusso di capitali verso i mercati americani in cerca di rendimenti più elevati, creando una maggiore volatilità nei loro mercati, con tassi più elevati, una crescita più lenta e il rischio di una nuova recessione. I debiti in dollari diventeranno più costosi e cresceranno le difficoltà dei rimborsi.

    C’è anche chi, come l’ex economista capo del Fmi, Kenneth Rogoff della Harvard University, anche lui membro del G30, da anni sostiene che il toccasana per l’economia e per l’abbassamento del debito sarebbe un forte tasso di «inflazione controllata» del 4-6 % annuo per diversi anni per abbreviare il periodo di «doloroso deleveraging (riduzione del debito) e di crescita lenta». Ricette un po’ superficiali ma molto rischiose. Un vecchio proverbio popolare dice che a giocare con il fuoco ci si scotta.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • L’Euro digitale darà il colpo di grazia al sistema bancario?

    Negli ultimi 10 anni solo in Italia sono spariti ben 266 Istituti di Credito, sono state chiuse oltre 10.126 filiali o sportelli bancari, nello stesso periodo di tempo hanno lasciato il sistema 47.121 bancari. E l’arrivo dell’EuroDigitale fa pensare al peggio.

    I dati arrivano direttamente dal report statistico di Banca D’Italia dal titolo “Banche e Istituzioni Finanziarie: Articolazione territoriale”

    Negli ultimi 12 mesi sono stati invitati a lasciare gli sportelli bancari ben 6.900 dipendenti (il 14% della perdita totale nei 10 anni). Sono scomparsi 14 Istituti di Credito e, al tempo stesso, sono state chiuse 831 filiali sul territorio. Tutto questo ha costretto ben 119 comuni italiani ad essere privati di ogni riferimento bancario. In totale sarebbero ormai oltre 500 i comuni italiani privi di Sportelli Bancari. Si tratta soprattutto di piccoli centri, dove l’unico vero riferimento ora resta l’Ufficio Postale

    Ma, a quanto pare, il peggio per il vecchio sistema bancario deve ancora arrivare con l’introduzione dell’Euro Digitale che la BCE sta preparandosi a lanciare. L’euro digitale sarebbe più sicuro e privo di rischi rispetto al contante anche se nessun mezzo di pagamento privato è davvero completamente. Un danno per le Banche Commerciali, soprattutto quelle poco solide e sicure e quelle che non si sono riuscite ad adattare ai ritmi dettati dalla digitalizzazione.

    In Europa vige ancora il Bail-In, cioè la norma che lega i fallimenti bancari al rischio per i depositi dei clienti che hanno scelto quella banca poco solida. Non essendo perciò sicuro al 100% alcun tipo di pagamento privato ed esistendo un sistema alternativo di valuta digitale supportato e regolato dalle banche centrali, è molto probabile che tanta gente cercherà di avvalersi di quel sistema che offrirebbe maggiori garanzie e sicurezza ai loro risparmi.

    Poiché l’Euro Digitale sarà un sostituto completo del denaro fisico il ruolo di intermediario delle banche commerciali o online sarebbe, in teoria, molto limitato. Con il denaro trattenuto direttamente dal cliente (sul suo telefono o altro dispositivo digitale) non ci sarebbe motivo di coinvolgere un intermediario potenzialmente costoso e non garantito.

    La data ipotetica per l’introduzione dell’Euro Digitale potrebbe essere 2026, come preannuncia in un articolo di Wall Street Italia Fabio Panetta, uno dei fautori della valuta digitale.

  • Sistema finanziario vulnerabile

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 4 giugno 2021

    Dopo aver cercato, come sempre, di rassicurare gli animi, l’ultimo Financial Stability Report (FSR) della Federal Reserve presenta una lista impressionante di rischi per la stabilità finanziaria negli Usa e a livello mondiale. Nelle orecchie dei governatori della Fed fischia ancora quanto è successo a marzo con il collasso del fondo hedge Archegos Capital Management, che ha lasciato un buco di oltre 10 miliardi di dollari in alcune della maggiori banche internazionali. In verità, c’è che dice che il problema potrebbe essere cinque volte più grande.

    Il FSR è pubblicato due volte l’anno con l’intento di prevenire il ripetersi della Grande Crisi del 2008. La presentazione del rapporto è stata centrata sul significato e sugli strascichi proprio di Archegos, evidenziando che le difficoltà di istituti finanziari non bancari (il famoso shadow banking) influiscono sull’intero sistema finanziario. «Stanno aumentando le vulnerabilità associate all’elevato appetito al rischio», si afferma. Il che evidenzia «la limitata visibilità delle esposizioni dei fondi hedge e che le loro disponibilità, create con la leva finanziaria, potrebbero non essere sufficienti per far fronte a rischi importanti».

    I valori di molti asset sono cresciuti enormemente, superando i record dell’anno scorso. Gli indici azionari e i prezzi delle azioni sono ai lori massimi storici. Per esempio, dall’inizio del 2021 l’indice azionario Standard & Poor’s 500 è cresciuto del 12%. Inoltre, il Bloomberg Commodity Index, che traccia tutte le materie prime e i beni alimentari, è cresciuto del 19% in un anno. Nello stesso periodo, il prezzo delle case negli Usa è aumentato del 12%. Sono tutti effetti dell’insaziabile «appetito» di profitti più alti.

    Del resto l’eccessiva liquidità, gli interessi quasi negativi e i bassi rendimenti offerti dai tradizionali titoli, come le obbligazioni del Tesoro americano, spingono verso investimenti speculativi, tanto che invece di comprare bond pubblici, i grandi della finanza preferiscono acquistare le obbligazioni corporate o quelle già ritenute come speculative.

    Il pericolo vero sta in un possibile repentino cambiamento di valutazioni. La Fed, infatti, teme che qualche evento possa ridefinire i prezzi degli asset, delle azioni, obbligazioni o altri titoli. Proprio com’è avvenuto nel caso Archegos, quando determinate azioni vennero vendute per poter coprire le perdite di gestione, determinando un improvviso e forte calo del loro valore.

    In altre parole, si teme che gli speculatori possano mitigare il loro «appetito al rischio» e ridurre la frenesia proprio verso i titoli e le operazioni più rischiose. Il sistema è drogato e ha bisogno di dosi sempre più forti, il che rischia di crollare in un momento di astinenza. Come il drogato ha bisogno di un autorevole aiuto, così la finanza speculativa ha bisogno dell’intervento correttivo dei governi e degli Stati, quando occorre.

    Il Rapporto elenca altri rischi di vulnerabilità del sistema, il peggioramento della pandemia e l’aumento dei tassi d’interesse per fronteggiare a un’impennata dell’inflazione. Anche il governatore del Fed, Jerome Powell, esprime una certa preoccupazione per l’aumento dei prezzi in alcuni settori, come quello immobiliare e ha ammesso che «non è proprio un bene che negli Usa i prezzi aumentino così tanto».

    Non sorprende, quindi, che la Fed cerchi di scaricare su altri le cause dei rischi della sua vulnerabilità finanziaria. Prima di tutto sull’Europa e sui paesi emergenti. «Sviluppi negativi nelle economie dei mercati emergenti, stimolati in parte da un aumento dei tassi d’interesse a lungo termine, potrebbero avere delle ripercussioni negli Stati Uniti».

    Si dimentica, però, di riconoscere le proprie responsabilità. Infatti, gli andamenti economici di questi paesi sono di solito determinati dalle politiche monetarie e finanziarie degli Usa.

    Anche le misure adottate dalla Cina per contenere la speculazione sui mercati immobiliari, si dice, potrebbero creare situazioni di stress finanziario interno con ripercussioni globali, anche negli Stati Uniti.

    Il Rapporto, in definitiva, presenta una serie di analisi e di preoccupazioni, in parte anche condivisibili. Però sono enunciazioni scritte che possono al più suscitare discussioni mediatiche e accademiche ma non far adottare azioni efficaci da parte delle istituzioni preposte, come sarebbe necessario.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Alitalia: la storia infinita

    Nel 2021 il nuovo governo Draghi si è insediato alla guida del nostro Paese con l’importante funzione di segnare un importante e definitivo punto di svolta rispetto alla disastrosa gestione pandemica ed economica dei governi Conte 1 e Conte 2. Le sfide da affrontare erano e sono tutt’oggi molteplici, articolate e di difficile soluzione.

    Molto spesso, inoltre, le diverse problematiche da affrontare rappresentano la infelice risultante di politiche gestionali le cui proprie origini, come le responsabilità, devono venire individuate in un arco temporale che comprenda gli ultimi vent’anni.

    In questa situazione la compagnia di bandiera Alitalia sicuramente rappresenta l’emblema di una struttura mantenuta in vita da tutti i governi e costata fino ad oggi oltre 12 miliardi per ritrovarsi immancabilmente ogni sei mesi in crisi di liquidità. Dai capitani coraggiosi passando per Cimoli, condannato a 8 anni per la propria gestione di Alitalia, fino all’attuale dirigenza nulla è cambiato e soprattutto, in considerazione delle professionalità e delle strategie presentate dai responsabili del nuovo governo Draghi, nulla cambierà. Alla nuova Alitalia, infatti, verranno assegnati, ancora una volta, altri tre (3) miliardi di aiuti di Stato per una compagnia che conta 45 velivoli e 4.500 dipendenti. Questa scelta è interamente attribuibile alla competenza del nuovo ministro delle Infrastrutture e della movimentazione sostenibile Giovannini unita a quella espressa dal ministro dello Sviluppo economico Giorgetti.

    Anche la tedesca Lufthansa, come tutte le grandi compagnie aeree, ha subito sostanzialmente quasi un azzeramento del proprio fatturato. A fronte di questa situazione insostenibile sotto il profilo finanziario il governo di Angela Merkel ha assegnato alla compagnia tedesca aiuti di finanza straordinaria per nove (9) miliardi. In considerazione del profilo dimensionale dell’azienda va ricordato come Lufthansa abbia nel proprio organico 135.000 dipendenti (30 volte quelli di Alitalia) e 265 velivoli. A fronte di questi aiuti statali straordinari la compagnia tedesca sarà comunque costretta a cedere il 20% delle proprie azioni al governo, così come alcuni slot, per aumentare la concorrenza sui cieli germanici.

    La sostanziale “cilindrata” tra la struttura di Alitalia e di Lufthansa risulta evidente in modo imbarazzante ma non evidentemente al pluriaccademico Giovannini e, ovviamente, neppure al ministro dello Sviluppo economico Giorgetti.

    Il ministro Giovannini, in pieno delirio gestionale, sempre all’interno di una visione di compatibilità e di una maggiore sostenibilità della quale si considera un sostenitore, avrebbe addirittura in previsione di avviare un accordo tra l’Italia e Trenitalia (l’unica vera concorrente nelle tratte brevi nazionali della compagnia di bandiera). Una strategia finalizzata alla creazione di un cartello nel settore dei servizi trasporto che l’Unione Europea non boccerebbe sicuramente.

    Sembra incredibile come, ancora una volta, si stia assistendo al salvataggio di un’azienda decotta come la compagnia di bandiera italiana incapace da due decenni di trovare il proprio posizionamento all’interno di un mercato molto concorrenziale. Un’operazione che vede impegnato, per di più, un sostenitore della mobilità sostenibile dimostrando per l’ennesima volta come questo concetto si traduca sostanzialmente, sotto il profilo gestionale, in un ennesimo maggiore esborso per i contribuenti italiani. Il semplice ed imbarazzante confronto, infatti, tra le risorse destinate ad Alitalia dimostra come queste siano circa 666.666 euro per dipendente e rappresentano una cifra pari a dieci (10) volte rispetto all’aiuto finanziario del governo di Angela Merkel che ha destinato a Lufthansa pari a 66.666 euro per singolo dipendente: 1/10 appunto di quanto riconosciuto per Alitalia.

    Il mondo accademico rappresentato da Giovannini unito a quello professionale rappresentato da Giorgetti, colui che ci portò a 24 ore dalla squalifica dalle Olimpiadi di Tokyo con la complicità dell’ex ministro Spadafora per la creazione con il governo Conte 1 di Sport&Salute, hanno perso un’altra occasione per dimostrare la propria competenza all’interno di una problematica gestionale. In particolare la credibilità stessa del mondo accademico si dimostra, alla verifica dei fatti, una semplice sintesi di competenze teoriche unite a concetti prettamente di convenienza politica completamente svincolati dall’economia reale.

    La “innovativa” strategia della compagnia di bandiera Alitalia mette ancora una volta a nudo il declino culturale del nostro Paese con un universo accademico incapace di convertire delle competenze teoriche in scelte di economia reale. La nuova Alitalia rappresenta un ulteriore esempio della mala gestione governativa di allora come oggi. Il nuovo che avanza assomiglia sempre più al peggiore passato ed il concetto di sostenibilità tanto caro al neo Ministro Giovannini si traduce come sempre in un maggior onere per i contribuenti.

  • Una stablecoin senza stabilità

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 5 marzo 2021

    Ecco un’altra grave prova di come le notizie possono essere interpretate a proprio vantaggio. «Tether Ltd e Bitfinex esprimono grande soddisfazione per aver raggiunto un accordo legale con il Procuratore generale di New York. E nell’accordo non ammettiamo alcun illecito». Così recita il comunicato ufficiale delle due società, registrate a Hong Kong, attive nel settore delle criptovalute.

    L’ufficio del Procuratore generale, invece, afferma che le società menzionate «hanno coperto in modo sconsiderato e illegale enormi perdite finanziarie per proseguire nelle loro attività.

    L’affermazione di Tether Ltd, secondo cui la criptovaluta fosse stata sempre e completamente sostenuta da dollari Usa, è falsa». Le società dovranno pagare una multa di 18,5 milioni di dollari e non potranno operare con persone e aziende dello Stato di New York. Ciò, purtroppo, non preclude loro di presentare l’intera faccenda come una grande vittoria in quanto, pagata l’ammenda, sono libere di operare indisturbate nel resto del mondo. Esse affermano che, durante i due anni e mezzo di conflitto legale, le loro operazioni sono passate da 2 a 35 miliardi di dollari.

    Come già successo più volte i buoni avvocati sanno come «interpretare» le leggi e «barattare» condanne più severe con l’applicazione di attenuanti e con multe pecuniarie. Il procuratore generale ha aperto un nuovo dossier per comportamenti fraudolenti di un’altra piattaforma di trading di cripto valute, la Coinseed.

    Il Tether è una stablecoin, una delle criptovalute agganciate a monete reali, come dollaro ed euro. Per esempio, 1 Tether equivale a 1 dollaro e la riserva in dollari deve coprire il 100% dei Tether in circolazione. La Tether Ltd emette la suddetta stablecoin e lavora in partnership con la piattaforma di scambi online, Bitfinex. Entrambe sono controllate dalla società madre, la Finex Inc. Collegate a loro vi sarebbe anche la Tether Holdings Ltd con sede nelle Isole Vergini britanniche, uno dei più noti centri finanziari off shore. L’italiano Giancarlo Devasini è il loro chief financial officer.

    Il Tether è lo strumento più usato per acquistare i bitcoin. Il Tether, sfruttando la tecnologia blockchain, consente di archiviare, inviare e ricevere valori digitali da persona a persona a livello globale istantaneamente e senza intermediari.

    Le indagini erano partite nel 2017. La Tether Ltd e la Bitfinex avrebbero operato in modo oscuro e con grandi rischi per gli investitori. Nel 2018 avrebbero dichiarato il falso per oscurare un ammanco di almeno 850 milioni di dollari, frutto di un’operazione opaca con la shadow bankpanamense CryptoCapital, poi fallita. Era emerso che Tether Ltd non aveva alcun accesso a servizi bancari, in nessuna parte del mondo e quindi non c’erano le riserve per sostenere la parità di un dollaro per ogni Tether in circolazione. Poche ore prima della certificazione ufficiale delle reali riserve in dollari di Tether Ltd, Bitfinex le concesse un prestito di 400 milioni e poi una linea di credito di 900 milioni. In seguito, le due società aprirono un altro contro presso la Deltec Bank alle Bahamas per 1,8 miliardi. Ottenuta la certificazione, gran parte dell’ammontare fu trasferito altrove.

    Nel 2017 in occasione di un simile controllo avevano aperto un conto presso la Noble Bank di Puerto Rico su cui furono versati 382 milioni di dollari. Era lo stesso giorno durante il quale si doveva ufficialmente certificare l’ammontare delle riserve in dollari di Tether Ltd.

    La criptovaluta Tether gioca un grande ruolo negli acquisti di bitcoin: più di due terzi di tutte le operazioni quotidiane. Il prezzo dei bitcoin, quindi, non è fissato in rapporto al dollaro, ma a stablecoin. Il mercato delle criptovalute a livello mondiale ha già raggiunto 1.400 miliardi di dollari. Il valore dei bitcoin può salire o scendere alla velocità della luce o di qualche clic sui computer.

    Banche centrali e autorità di controllo sono preoccupate e starebbero approntando un’adeguata vigilanza. È singolare e irritante vedere tutte le reti tv italiane parlare in modo acritico dei record dei bitcoin come se fosse un gioco.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • L’Europarlamento chiede di rivedere la compilazione della lista Ue dei paradisi fiscali

    Il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione in cui invita a modificare il sistema utilizzato per redigere la lista Ue dei paradisi fiscali perché lo ritiene “confuso ed inefficace”. Il testo è stato approvato con 587 voti favorevoli, 50 contrari e 46 astensioni. L’elenco Ue dei paradisi fiscali, istituito nel 2017, ha avuto finora un “impatto positivo”, ma non è stato “all’altezza del suo potenziale in quanto le giurisdizioni che attualmente contiene coprono meno del 2% delle perdite di gettito fiscale a livello mondiale”, afferma il Parlamento Ue. Nella risoluzione non legislativa approvata oggi, che completa il dibattito di mercoledì sera con la Presidenza del Consiglio e la Commissione, l’attuale sistema viene definito appunto “confuso ed inefficace”.

    Gli eurodeputati propongono delle modifiche che renderebbero il processo di valutazione di un Paese più trasparente, coerente e imparziale. In particolare, dovrebbero essere aggiunti alcuni criteri per garantire che più Paesi vengano considerati dei paradisi fiscali ed evitare che un paese venga rimosso dall’elenco troppo rapidamente. I Paesi Ue non dovrebbero essere esclusi dall’analisi per vedere se presentano qualche caratteristica di paradiso fiscale, e quelli che non superano tale verifica dovrebbero essere considerati a loro volta paradisi fiscali. Secondo l’Europarlamento, il criterio per giudicare se un sistema fiscale di un paese sia equo o meno deve essere rivisto e ampliato, per includere ulteriori pratiche e non solo le aliquote fiscali preferenziali. La recente rimozione delle Isole Cayman dall’elenco, mentre nel Paese si applica una politica di aliquote fiscali dello 0%, rappresenta una prova sufficiente delle mancanze del sistema di valutazione. Tra le altre misure proposte, i deputati chiedono che tutte le giurisdizioni con un’aliquota d’imposta sulle società pari allo 0% o senza imposte sugli utili delle società vengano automaticamente inserite nell’elenco dei paradisi fiscali.

    Il Parlamento Ue vorrebbe requisiti più severi: la rimozione di un Paese dall’elenco non dovrebbe essere il risultato di modifiche del sistema fiscale puramente simboliche. Secondo i deputati, ad esempio, le Isole Cayman e le Bermuda sono state rimosse dall’elenco in seguito all’introduzione di cambiamenti “minimi” e di “misure di esecuzione deboli”. Il Parlamento europeo chiede, dunque, criteri di screening più severi, nonché che tutti i Paesi terzi vengano trattati e valutati in modo equo e utilizzando gli stessi criteri, mentre a suo parere l’elenco attuale dimostra il contrario. La mancanza di trasparenza con cui l’elenco viene redatto e aggiornato rappresenta un’ulteriore perplessità. Pertanto – recita la nota diffusa dall’Europarlamento – il processo di elaborazione della lista deve essere formalizzato attraverso uno strumento giuridicamente vincolante.

    Dopo la votazione, il Presidente della sottocommissione parlamentare per le questioni fiscali (FISC), Paul Tang (S&D, NL) ha affermato: “Definendo ‘confuso ed inefficiente’ l‘elenco UE dei paradisi fiscali, il Parlamento europeo dice le cose come stanno. La lista può essere un valido strumento, ma gli Stati membri hanno dimenticato qualcosa quando l’hanno compilata: i paradisi fiscali veri e propri. L’elenco infatti non sta migliorando, sta peggiorando. Guernsey, le Bahamas e ora le Isole Cayman sono solo alcuni dei ben noti paradisi fiscali che gli Stati membri hanno tolto dalla lista. Rifiutandosi di affrontare adeguatamente l’evasione fiscale, i governi nazionali stanno deludendo le aspettative dei loro cittadini per oltre 140 miliardi di euro. Soprattutto nel contesto attuale, ciò è inaccettabile”. “Per questo motivo, il Parlamento europeo condanna la recente rimozione delle Isole Cayman dall’elenco e chiede maggiore trasparenza e criteri più severi. Inoltre, bisogna anche guardarsi allo specchio: i Paesi Ue sono responsabili del 36% dei paradisi fiscali”, ha aggiunto.

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