Derivati

  • Più rischi per i derivati otc

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Poalo Raimondi apparso su ItaliaOggi l’8 giugno 2023

    L’ultimo bollettino della Bri, Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, con i dati del secondo semestre del 2022 proietta ombre oscure sull’andamento dei derivati finanziari otc. Com’è noto, oltre a essere non regolamentati e tenuti fuori bilancio, essi segnano la febbre e i rischi per le banche too big to fail, troppo grosse per essere lasciate fallire.

    Questa volta è il gross market value (valore lordo di mercato) degli otc a rivelare il problema. Nel semestre analizzato, è cresciuto del 13% toccando i 20.700 miliardi di dollari. Un livello mai visto nei sei anni precedenti.

    Nelle poco comprensibili parole dei banchieri, questa enorme cifra sta indicare «la somma di tutti i contratti derivati otc in essere, con valori di sostituzione positivi e negativi valutati ai prezzi di mercato prevalenti alla data di riferimento». In altre parole, se al 31 dicembre 2022 tutti i contratti otc fossero stati chiusi, quella sarebbe stata la somma necessaria per saldare le differenze.

    L’enorme crescita è dovuta ai derivati stipulati sull’andamento dei tassi d’interesse (ird, interest rate derivatives) e riflette la grande incertezza provocata dall’inflazione e dagli aumenti dei tassi da parte della Fed e della Bce. È la stesa Bri a evidenziare il problema quando, spiegando il significato del gross market value, afferma che «i valori lordi di mercato forniscono informazioni sull’entità potenziale del rischio di mercato nelle transazioni in derivati e sul relativo trasferimento del rischio finanziario in atto”.

    Il gross market value degli ird denominati in euro è aumentato del 23% nella seconda metà del 2022, dopo un aumento del 37% nella prima metà.

    Quello degli ird in dollari è aumentato rispettivamente del 40% e del 30%. Poiché i tassi fissati oggi dalle banche centrali sono saliti sopra quelli prevalenti al momento della stipulazione dei contratti, il loro valore lordo di mercato è, quindi, aumentato.

    Ciò vuol dire che servono molti più soldi per coprire i contratti in scadenza o in difficoltà. Chi si trova in una simile situazione avrà bisogno di maggiore liquidità, per cui cercherà di far cassa vendendo degli asset in suo possesso, oppure pagherà con soldi presi in prestito a tassi molto salati. Tali comportamenti, ovviamente, influenzano negativamente i mercati.

    Questo è il secondo effetto destabilizzante provocato dalla politica yo yo delle banche centrali: prima tasso zero e tanta liquidità inflattiva e poi, con l’aumento dei tassi, la repentina e continuata chiusura delle bombole di ossigeno. Il primo effetto è stato la mina posta sotto i titoli, soprattutto quelli pubblici, venduti in passato a tassi bassi e oggi, dopo il rialzo dei tassi, non più rimunerativi.

    Nel secondo semestre 2022 il valore nozionale di tutti gli otc è, invece, rimasto quasi invariato, 618.000 miliardi di dollari, con un aumento di soli(!) 14 mila miliardi. Il valore nozionale è l’ammontare di tutti i derivati sottoscritti, una cifra enorme, quasi impensabile, che indica la dimensione della bolla in caso di collasso sistemico. I fautori della bontà dei derivati hanno sempre contrapposto il gross market value a quello nozionale, sostenendo che il secondo non rifletterebbe il vero rischio sottostante. Adesso, però, devono fare i conti con l’impennata del primo!

    Recentemente, sull’argomento l’Isda, International swaps and derivatives association di New York ha tenuto una conferenza a Chicago. L’Isda è l’associazione che raccoglie tutti i partecipanti nel mercato dei derivati otc. Il resoconto ufficiale riporta che sono stati gli stessi operatori dei mercati sui derivati a dire che ci si dovrebbe preparare a nuovi eventi di stress per la mancanza di liquidità, com’era avvenuto nel marzo del 2020 e con i fallimenti bancari delle settimane passate. «Sta per succedere qualcosa: il fattore scatenante potrebbe essere diverso, ma accadrà», ha affermato un dirigente della Bank of New York Mellon. Un’analisi condivisa da molti partecipanti al convegno di Chicago. Si aspettano anche che il deflusso dei depositi dalle banche regionali statunitensi potrebbe continuare, poiché i clienti cercano rendimenti più elevati.

    È sconcertante il fatto che siano proprio gli operatori dei mercati a essere preoccupati sugli andamenti futuri. Purtroppo, le agenzie di controllo e le banche centrali sembrano essere rimasti sui libri di testo di economia del diciottesimo secolo! Oppure sono ammaliati dal feticcio del 2% d’inflazione annua.

    *già sottosegretario all’Economia *economista

  • Agenzie di rating Usa farlocche

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 28 marzo 2023

    Serve chiarezza. Dietro le recenti bancarotte negli Usa ci sono altri motivi di preoccupazione. In primo luogo il fallimento delle autorità di sorveglianza, a cominciare dalla Federal Reserve: il loro mancato intervento è dovuto al fatto che esse erano pienamente consapevoli che le loro politiche monetarie altalenanti, interessi zero prima e aumento dei tassi poi, avrebbero messo sottosopra il sistema bancario. Hanno ritenuto, erroneamente, che astenersi fosse la seconda tra le peggiori possibilità. La prima sarebbe stata continuare con le politiche di poderose iniezioni di liquidità fino a far esplodere la bolla.

    Il governo e le autorità bancarie, quindi, non sono stati colti di sorpresa. Erano pronti a nuovi interventi di salvataggio dell’intero sistema. Meglio intervenire dopo il fallimento di una banca regionale che di una too big to fail (troppo grande per fallire).

    C’è stato, infatti, un barrage di interventi. Si è creata una Bank Bailout Facility attraverso la quale il governo concede dei prestiti alle banche. La Fed ha annunciato un “discount window”, uno sportello, dove attingere a prestiti di emergenza a basso costo. Sotto la guida della Fed e del Tesoro, sei grandi banche, JP Morgan, Wells, Citi, Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley, si sono accordate per mettere a disposizione 30 miliardi di dollari per la First Republic Bank. Non sono bastati, però, a fermare il crollo. Anche la Federal Deposit Insurance Corporation, l’agenzia di protezione finanziaria, è entrata in campo per garantire i depositi fino a 250 mila dollari. Si tenga presente, però, che il suo fondo coprirebbe soltanto il 2% dei 9.600 miliardi di dollari di depositi assicurati.

    È in atto anche una narrazione che cerca di distogliere l’attenzione dalle banche too big. Si parla insistentemente dei rischi di insolvenza delle banche regionali e delle cosiddette saving and loans banks, quelle che raccolgono i risparmi e poi concedono prestiti alle imprese locali e alle famiglie.

    Indubbiamente non si possono negare le loro difficoltà attuali, create proprio dagli andamenti dei tassi d’interesse. Si ricorderà che una crisi simile, ma in una situazione di differente gravità sistemica, era avvenuta già negli anni Ottanta, sempre per effetto della crescita vertiginosa dei tassi d’interesse da parte della Fed.

    È comunque da ingenui ritenere che le banche regionali siano delle entità totalmente indipendenti rispetto alle 20 maggiori banche Usa, cosiddette, sistemiche. Secondo JP Morgan nell’ultimo anno le banche più piccole avrebbero perso 1.100 miliardi di dollari in depositi che sono stati trasferiti in quelle più grandi.

    C’è anche un’altra narrazione che vorrebbe le banche europee, e non quelle americane, essere nell’occhio del ciclone.

    Certamente, dopo la crisi del Credit Suisse e le gravi fibrillazioni della Deutsche Bank (DB), non si può negare che il sistema bancario europeo sia in crescente difficoltà.

    Noi non ci siamo mai stancati di denunciare i comportamenti rischiosi di DB, superstar dei derivati otc. Ma non si può nemmeno dimenticare che il sistema bancario europeo sia entrato in acque agitate proprio per aver copiato i metodi speculativi di quello americano e della City inglese.

    E’ doveroso anche notare il macroscopico errore delle agenzie di rating, le note imprese americane private. Fino al giorno prima del fallimento della Silicon Valley Bank, Moody’s le garantiva il voto di A3 e Standard & Poor’s (S&P) le dava un rating un po’ inferiore di Bbb. Certamente erano lontani dalle triple A elargite a piene mani prima della bancarotta della Lehman Brothers. I titoli della Svb, però, erano considerati “investment grade”, cioè degni di investimento e perciò non speculativi.

    Si noti che, anche rispetto al fallimento della First Republic Bank, le agenzie di rating S&P e Fitch hanno inserito la banca tra le imprese “junk”, spazzatura, solo dopo gli interventi di salvataggio. Nelle prospettive bancarie globali per il 2023, la S&P afferma che il settore bancario statunitense è in buona salute e che il rischio è in calo. Per la Moody’s le prospettive sarebbero stabili, sebbene avvertisse venti contrari in un’economia in rallentamento.

    Si tratta di gravi sottovalutazioni, a discapito dei risparmiatori e degli onesti investitori. Si persegue un comportamento, a dir poco incompetente e inadeguato, già emerso prepotentemente nel 2001 alla vigilia del fallimento della Enron, il gigante americano dell’energia, e poi nella Grande Crisi del 2008. Dal 2001 il Congresso americano ha portato avanti varie iniziative di riforma che, però, non hanno indotto le agenzie di rating a un comportamento più corretto.

    Si dovrebbe tenerlo presente quando esse pontificheranno sulla situazione economica e finanziaria dell’Italia. In passato, purtroppo, si è sempre tenuto un atteggiamento troppo supino.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Il Credit Suisse e i derivati

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 22 marzo 2023

    Il credito di salvataggio di ben 54 miliardi di dollari da parte della Banca centrale svizzera non è bastato a stabilizzare il Credit Suisse. Anche la fusione con la più grande banca elvetica, l’Ubs, non sembra calmare le acque turbolente dei mercati finanziari internazionali. La ragione, di cui si tende a non parlare, è una e semplice: l’esposizione in derivati finanziari speculativi otc, quelli non regolamentati e tenuti fuori bilancio, del Credit Suisse e delle banche too big to fail. In particolare quelle americane.

    L’ultimo rapporto sui derivati dell’Office of the Comptroller of the Currency, l’agenzia Usa di controllo bancario, ha rilevato che, al 30 settembre 2022, quattro banche statunitensi detenevano ben 195 mila miliardi di dollari di derivati finanziari, pari all’88,6% del valore nozionale di quelli presenti nel sistema bancario nazionale. JPMorgan Chase ne deteneva 54.300 miliardi di dollari, Goldman Sachs 50.970, Citibank 46.000 e Bank of America 21.600. Sebbene la legislazione Dodd-Frank promulgata dopo la grande crisi del 2008 richiedesse che i derivati passassero attraverso la compensazione centrale, il 58,3% di essi non lo fa, rimanendo nella totale opacità.

    Anche un recente studio della Banca dei regolamenti internazionali analizza le gravi complicazioni nella gestione dei derivati ed evidenzia che «le banche estere con sede al di fuori degli Stati Uniti hanno un debito in derivati otc di 39 mila miliardi. Più del doppio del loro debito registrato in bilancio e più di 10 volte il loro capitale». Un’esposizione ritenuta «sbalorditiva» e foriera di nuovi sconvolgimenti.

    Il Tesoro Usa sta esaminando l’esposizione delle banche statunitensi verso il Credit Suisse. Non si scopre adesso che il sistema bancario internazionale è strettamente interconnesso e che la crisi di un componente importante può diventare sistemica. Perciò, non regge la giustificazione secondo cui il problema sarebbe di origine estera, come le autorità americane hanno più volte sostenuto.

    Negli Usa il quadro normativo distingue le banche con sede sul territorio nazionale da quelle con sedi estere. Queste ultime non sono sottoposte agli stessi standard, come i requisiti patrimoniali e una liquidità più stringente. Conoscendo bene i rischi, l’hanno fatto per attirare negli Usa capitali, anche speculativi, per restare, a tutti i costi, il mercato dominante.

    La storia delle crisi del Credit Suisse è stata bellamente ignorata per anni e consapevolmente sottovalutata. D’altra parte, rivelava la malattia dell’intero sistema che non s’intendeva affrontare drasticamente e curare.

    Nel 2021 la banca aveva perso 5,5 miliardi di dollari a seguito di derivati pericolosi con l’hedge fund speculativo americano Archegos Capital Management, poi fallito. I segnali di allarme furono ignorati da tutti, non solo dal Credit Suisse. Quest’ultimo era già stato coinvolto, con forti perdite, anche nello scandalo e nel fallimento di Greensill Capital, la società di servizi finanziari britannica, che aveva lasciato un buco di 10 miliardi. In precedenza aveva pagato una multa di 5,3 miliardi di dollari alle autorità americane per aver ingannato gli investitori sul rischio dei titoli subprime legati alle ipoteche immobiliari.

    Credit Suisse, quindi, ha sempre operato sul mercato Usa. Da anni controlla la First Boston. Tra i suoi azionisti vi sono gli arabi, Arabia Saudita e Qatar, con il 20% e, poi, come sempre c’è l’onnipresente fondo americano BlackRock con circa il 5% delle azioni. Ben sapendo che si mettono in difficoltà le banche che hanno ingenti investimenti in titoli di Stato a lunga scadenza e a basso rendimento, l’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali sembra essere una scelta obbligata. Nelle loro intenzioni mettere un freno all’inflazione resta la priorità, per evitare sconquassi economici e sociali. Per gli istituti finanziari in crisi metteranno a disposizione decine, centinaia di miliardi.

    È chiaro, però, che simili salvataggi pubblici non sono la soluzione. A ogni crisi il problema si ripresenta in dimensioni maggiori e peggiori. Perciò non ci si dovrebbe mai stancare di ripetere che una riforma globale della finanza è necessaria e ineludibile. Per riportare un po’ di sanità nel sistema finanziario, sarebbe opportuno ritornare alla separazione bancaria, alla legge Glass Steagall Act del presidente Franklin Delano Roosevelt, e battere la speculazione attraverso l’accantonamento dei derivati otc e il divieto della cosiddetta leva finanziaria.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Fallimento Silicon Valley Bank

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 15 marzo 2023

    Quando il sistema finanziario è schiacciato dalle bolle causate dai debiti è da irresponsabili portare le banche sulle montagne russe. Ciò che ha fatto la Federal Reserve ieri e sta facendo oggi. Il risultato più evidente è il fallimento della Silicon Valley Bank (Svb) di Santa Clara in California. Tutti ci auguriamo che non diventi l’inizio di un nuovo collasso finanziario globale come nel 2008.

    Durante il periodo del tasso d’interesse zero e dei quantitative easing molte imprese, anche quelle zombie, come la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea definisce quelle in condizione quasi fallimentari, hanno ottenuto notevoli volumi di nuovi crediti dalle banche, anche di medie dimensioni. Adesso hanno grandi difficoltà nel pagamento del servizio sul debito.

    A loro volta, le banche hanno convenientemente acquistato grandi quantità di titoli di Stato, in particolare Treasury bond della durata di 10 anni, che pur con un rendimento modesto, rappresentavano una garanzia di stabilità, senza rischi e un interessante profitto rispetto allo zero assoluto. Il repentino e continuo aumento dei tassi d’interesse da parte della Fed, combinato con gli annunci di nuovi rialzi dei tassi per lunghi periodi futuri, sta stravolgendo i meccanismi finanziari. Per esempio, le obbligazioni del Tesoro a scadenza 1 e 2 anni offrono adesso interessi maggiori di quelle della durata di 10 anni emesse in passato. Una cosa irragionevole e destabilizzante.

    Il problema è sistemico, poiché il settore bancario ha in pancia una montagna di asset a basso rendimento, e sta peggiorando con l’aumento del tasso d’interesse della Fed.

    La Svb è la banca in cui la maggior parte dei clienti sono società tecnologiche start up che depositano i prestiti ottenuti dal cosiddetto venture capital, cioè quei gruppi che finanziano i loro lavori in cambio di un ritorno futuro, quando i risultati e le nuove tecnologie saranno realizzati. I loro investimenti sono delle scommesse. L’aumento dei tassi d’interesse ha, tra l’altro, ridotto i flussi finanziari da parte del venture capital. Di conseguenza le start up hanno usato sempre più i loro depositi presso la Svb. Quest’ultima, già sotto pressione, ha aumentato notevolmente la vendita dei titoli in perdita. Caso emblematico è quello delle obbligazioni decennali che rendono meno di quelle annuali.

    Quando la Svb ha annunciato l’intenzione di mettere sul mercato 2,25 miliardi di dollari in nuove azioni per sostenere il proprio bilancio, la «bomba» è esplosa, provocando una corsa agli sportelli, sia in forma telematica sia fisica. Per evitare il panico, la Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’agenzia governativa indipendente che assicura i depositi bancari e sovrintende alle istituzioni finanziarie, è subito intervenuta garantendo i depositi fino a 250 mila dollari e altre misure di sostegno per le parti non assicurate.

    La Svb non è una too big to fail, troppo grossa per poter essere lasciata fallire, ma nemmeno una «banchetta». È la 16sima del sistema bancario americano. Ha un patrimonio pari a 212 miliardi di dollari. Si tratta del secondo più grande fallimento bancario nella storia degli Usa, dopo la bancarotta della Washington Mutual, con asset pari a 318 miliardi, avvenuto nel settembre 2008, all’inizio della grande crisi finanziaria.

    È da tener presente che questo default non avviene in un mare calmo ma nelle tempeste provocate anche dal collasso del mercato delle cripto valute. Infatti, un’altra banca, la Signature Bank di New York, che conta molti depositi in cripto valute, e un patrimonio di 110 miliardi di dollari, è fallita dopo aver subito un crollo nel valore delle sue azioni e delle sue obbligazioni. Si tratta della terza bancarotta bancaria più grande nella storia americana.

    All’inizio di marzo anche la Silvergate Capital Corp., una piccola banca di San Diego legatissima alle cripto valute e con un patrimonio di 14 miliardi di dollari, è fallita. Le decisioni della Fed stanno spingendo i mercati a muoversi nel breve e nel brevissimo periodo. Ciò rende il sistema instabile, imprevedibile e ad alto rischio. Le parole che circolano con timore sono «rischio di contagio» e «effetto domino». Infatti, la fibrillazione provocata dalle azioni Svb in caduta libera, è stata grande, tanto che altri titoli bancari sono stati sospesi per evitare una slavina.

    L’andamento dei tassi d’interesse sarà la spada di Damocle sui mercati e sul sistema finanziario e bancario internazionale. D’altra parte, non è un caso che i derivati finanziari over the counter siano concentrati per l’80% del loro valore nozionale totale (630 mila miliardi di dollari) sui tassi d’interesse. Per fortuna c’è Janet Yellen, segretario al Tesoro Usa, che ha espresso fiducia nella resilienza del settore bancario americano. La cosa, però, rassicura solo chi ci vuole credere.

    Nel frattempo la Fed ha iniziato un programma di crediti di emergenza alle banche in difficoltà, come la First Republic Bank, per evitare che vendano i Treasury bond in loro possesso e che abbiano dei fondi extra per far fronte a eventuali ritiri dei depositi da parte dei clienti.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • I predoni della finanza italiana e l’inflazione

    In un’ottica di un mercato globale ogni scelta del singolo attore comporta degli effetti anche per gli altri soggetti di questo complesso scenario internazionale in continua evoluzione. Partendo da questa considerazione andrebbe finalmente preso in considerazione il nesso tra le strategie finanziarie del mondo degli istituti di credito italiani in accordo con i diversi governi succedutisi alla guida del Paese e la inevitabile ricaduta di tali operazioni nella vita quotidiana per imprese e lavoratori.

    Mentre l’Italia è ancora oggi all’interno di una crisi economica e sociale il mondo degli istituti di credito si dimostra ancora alla spasmodica ricerca di un baricentro finanziario ed operativo: basti ricordare l’esodo incentivato con il Fondo di Solidarietà (finanziato dal sistema degli istituti di credito) che sta raggiungendo le centomila (100.000) unità.

    In più, in seguito ad innumerevoli crisi sistemiche legate anche a crescite drogate dall’utilizzo senza limiti di derivati (in questo spalleggiati da una compagine governativa probabilmente complice) il sistema bancario continua ad aumentare le proprie iniziative per conseguire l’obiettivo principale, cioè la creazione di valore da distribuire agli azionisti.

    L’Amministratore delegato di Unicredit, con l’approvazione del presidente Padoan (ex ministro dell’economia nel governo Renzi), durante le prime trattative per l’acquisizione di MpS ha preteso da parte dello Stato, e quindi dai contribuenti, l’impegno ad assumersi l’onere dei costi sociali degli esuberi, oltre tre (3) miliardi, al fine di rendere sostenibile l’operazione. Questa richiesta da parte dell’Istituto UniCredit di scaricare ancora una volta sullo Stato i costi di un’operazione finanziaria si aggiunge alla strategia dello stesso Padoan quando, in qualità di ministro dell’Economia, decise la ricapitalizzazione con 6,5 miliardi di risorse pubbliche fornendo ancora ossigeno alla moribonda Monte dei Paschi (https://www.ticinolive.ch/2021/09/21/istituti-di-credito-il-sistema-italiano/).

    Adesso, senza nessuna vergogna, il medesimo Padoan, in questo caso in qualità di presidente UniCredit, assieme all’amministratore delegato pretendono una nuova ricapitalizzazione di sette (7) miliardi con il medesimo obiettivo di rendere meno onerosa (per l’acquirente Unicredit) e con un maggiore valore aggiunto per gli azionisti l’intera operazione. In altre parole questi nuovi predoni del sistema finanziario italiano pretendono sostanzialmente la creazione di una new company MpS i cui vantaggi andrebbero interamente all’acquirente privato il quale invece di operare, forte del proprio know how, per un risanamento della banca senese acquisterebbe la new Company priva di debiti e personale in esubero interamente scaricati allo Stato (il venditore).

    La bad company, viceversa, gravata di tutti gli oneri economici e sociali, rimarrebbe in carico allo Stato con un ulteriore costo aggiuntivo che già oggi ammonta a quasi 17 miliardi di sole risorse finanziarie dilapidate (*) alle quali aggiungere il costo in termini economici di una inevitabile ricaduta per contribuenti ed imprese dell’operazione in corso.

    I sette (7) miliardi di risorse pubbliche pretesi dall’acquirente minimizzano così il rischio d’impresa rendendo questa operazione finanziaria profittevole a senso unico, cioè a favore del solo operatore privato UniCredit, in quanto lo Stato invece di liberarsi di una capitolo di spesa, come rappresentava da troppo tempo la banca senese, si accollerà l’intero ammontare dei costi economici e sociali per renderli sostenibili e quindi profittevoli per il mercato quando  invece andrebbero contabilizzati all’acquirente.

    In fondo si applica una “sintesi” tra le privatizzazioni delle concessioni della rete autostradale ed il modello Alitalia ora Ita Airways: debito e costi maggiorati solo per lo Stato, e quindi i contribuenti, e sinergie economiche per gli operatori privati.

    Il tutto avviene all’interno di un momento storico nel quale l’economia reale del nostro Paese riesce a segnare una buona crescita ma incerta per la carenza delle materie prime e segnata dall’esplosione dei loro costi come del costo del petrolio

    Sette (7) miliardi dell’operazione new company MpS rappresentano il 26% delle accise annualmente versate dai contribuenti italiani allo Stato. Ridurre ora le accise sui carburanti disinnescherebbe o quantomeno ridurrebbe il Drive inflattivo determinato dalla crescita del prezzo del petrolio e soprattutto allontanerebbe la pericolosa ombre di una stagflazione.

    Si ricorda, Infatti, come lo 82% delle merci viaggi su gomma e, di conseguenza, ogni aumento dei costi della distribuzione si riverserà inevitabilmente sul prezzo finale al banco.

    Una vera sciagura mentre tutti gli esponenti politici straparlano di transizione energetica, si accetta contemporaneamente di ridurre il potere d’acquisto dei cittadini italiani e la competitività per le imprese italiane non intervenendo per ridurre l’impatto inflattivo.

    La stessa discussione in corso in questi giorni sull’utilizzo dei fondi del PNRR e su una giusta riduzione del cuneo fiscale relega la politica a sostegno della domanda interna ai margini dell’attenzione.

    Poi qualcuno si sorprende se dal 1991 le retribuzioni medie in Italia risultino diminuite del –3,4% mentre in Germania segnano un +33,7% ed in Francia un +29,6% (fonte OCSE), la conferma di come negli ultimi ventinove anni (29) la domanda interna sia stata sacrificata ed ogni possibile sostegno dirottato verso la spesa pubblica vero strumento del potere politico aumentata del 46% solo dal 2000 al 2019.

    Sembra incredibile, poi, come tutto questo avvenga alla luce del sole ed a nessun ministro o Presidente del Consiglio vengano chieste chiarificazioni tantomeno da un parlamento ormai affetto da narcolessia ampiamente retribuita.

    In altre parole con questo tipo di operazioni finanziarie, nelle quali lo Stato si libera di un capitolo di spesa, alla fine si creano “dividendi” con risorse pubbliche solo per gli azionisti del gruppo privato, contemporaneamente per il soggetto pubblico invece i capitoli di spesa crescono. Un classico esempio di finanza “argentina” nata dall’alleanza tra predoni della finanza e “rappresentanti dell’interesse pubblico” in virtù di interessi comuni.

    Quando la spirale inflazionistica lasciata libera dal governo e i prezzi continueranno ad aumentare, e magari la benzina assieme al gasolio avranno raggiunto dei prezzi/costi insostenibili per la filiera distributiva e, di conseguenza, i prezzi dei principali generi di consumo saliranno alle stelle non si dovrà guardare solo alle quotazioni del petrolio. Si renderà necessario, invece, comprendere gli effetti di quelle politiche distrattive di risorse di finanza pubblica a favore di gruppi privati ed espressione della complicità tra soggetti pubblici con i nuovi predoni della finanza.

    (*) A.  6.5 mld la prima ricapitalizzazione voluta da Padoan in qualità di ministro dell’economia

    1. 3 mld di costi aggiuntivi per gli oneri sociali del personale in esubero
    2. 7 mld gli ultimi pretesi per un aumento di capitale
    3. incalcolabile il danno reputazionale per l’intero sistema economico italiano
  • L’appello di Papa Francesco per regolamentare la finanza

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

    Che di fronte al dilagare incontrollato della finanza speculativa sia necessario “rivolgersi alla preghiera”, è uno schiaffo morale ai governi e alle istituzioni economiche internazionali preposte al controllo e alla regolamentazione dell’economia, della moneta e dei settori finanziari. E’, però, l’ammissione della loro incapacità d’intervento e della sottomissione al “mercato senza leggi” e al laissez faire più spregiudicato.

    Dinanzi all’intollerabilità della situazione, papa Francesco si è sentito in dovere di richiamare i credenti e i laici con un video dedicato alla preghiera per una “finanza giusta, inclusiva e sostenibile”.

    Egli afferma che “mentre l’economia reale, quella che crea lavoro, è in crisi – quanta gente è senza lavoro! – i mercati finanziari non sono mai stati così ipertrofici come sono ora. Quanto è lontano il mondo della grande finanza dalla vita della maggior parte delle persone! La finanza, se non viene regolamentata, diventa pura speculazione animata da politiche monetarie. Questa situazione è insostenibile. È pericolosa. Per evitare che i poveri tornino a pagarne le conseguenze, bisogna regolamentare in modo rigido la speculazione finanziaria.”.

    Ricorda che la finanza deve essere uno strumento per servire le persone e per prendersi cura della casa comune e fa un appello “perché i responsabili della finanza collaborino con i governi, per regolamentare i mercati finanziari e proteggere i cittadini in pericolo.”

    In pratica riprende il discorso avviato nel 2015 con l’enciclica Laudato sì” in cui si afferma che “la finanza soffoca l’economia reale. Non si è imparata la lezione della crisi finanziaria mondiale”. Secondo Francesco non è una questione di teorie economiche ma della loro applicazione fattuale nell’economia. Il mercato da solo non può garantire lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale, né la protezione dell’ambiente e dei diritti delle generazioni future.

    Nell’enciclica citata si sostiene: “La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia… Il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura”.

    Secondo noi la crisi finanziaria del 2007-2008 ne è la prova: sarebbe stata l’occasione per sviluppare una nuova economia, non solo più attenta ai principi etici, ma, soprattutto, per regolamentare l’attività finanziaria speculativa e la ricchezza virtuale. Purtroppo non è stato così.

    Certo, sono concetti che papa Francesco ripete ormai costantemente. Lo ha fatto anche recentemente nell’enciclica “Fratelli tutti” e con molto coraggio anche nella lettera inviata al meeting della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, svoltosi lo scorso aprile. Egli afferma che “è ora di riconoscere che i mercati — specialmente quelli finanziari — non si governano da soli. I mercati devono essere sorretti da leggi e regolamentazioni che assicurino che operano per il bene comune, garantendo che la finanza – invece di essere meramente speculativa o finanziare solo sé stessa – operi per gli obiettivi sociali tanto necessari nel contesto dell’attuale emergenza sanitaria globale”.

    Ci preme sottolineare che la preghiera del papa ha avuto anche qualche orecchio attento. La Federcasse, la Federazione italiana delle Banche di Credito Cooperativo, una rete di 250 banche cooperative di comunità con un milione e 350 mila soci, l’ha fatta sua. Del resto essa fa della vicinanza al territorio, alle famiglie e ai piccoli imprenditori e artigiani la sua mission. In merito, il direttore generale Sergio Galli ha ribadito che “occorre elaborare nuove forme di economia e finanza realmente orientate al bene comune e rispettose della dignità umana”.

    Naturalmente le tematiche affrontate da papa Francesco sono tali che oggettivamente impongono ai governi decisioni rapide e stringenti. In questi giorni da più parti si sollecita il superamento dei brevetti sui vaccini. Tema che va affrontato. Si consideri che, mentre nei paesi industrializzati una persona su 4 ha già ricevuto almeno una dose di vaccino, nei paesi poveri, invece, l’ha avuta una su 500. Il caso più odioso è sicuramente quello dell’India, dove si produce il 70% dei vaccini mondiali, ma non per i propri cittadini, bensì per l’export.

    *già sottosegretario all’Economia  **economista

  • Una stablecoin senza stabilità

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 5 marzo 2021

    Ecco un’altra grave prova di come le notizie possono essere interpretate a proprio vantaggio. «Tether Ltd e Bitfinex esprimono grande soddisfazione per aver raggiunto un accordo legale con il Procuratore generale di New York. E nell’accordo non ammettiamo alcun illecito». Così recita il comunicato ufficiale delle due società, registrate a Hong Kong, attive nel settore delle criptovalute.

    L’ufficio del Procuratore generale, invece, afferma che le società menzionate «hanno coperto in modo sconsiderato e illegale enormi perdite finanziarie per proseguire nelle loro attività.

    L’affermazione di Tether Ltd, secondo cui la criptovaluta fosse stata sempre e completamente sostenuta da dollari Usa, è falsa». Le società dovranno pagare una multa di 18,5 milioni di dollari e non potranno operare con persone e aziende dello Stato di New York. Ciò, purtroppo, non preclude loro di presentare l’intera faccenda come una grande vittoria in quanto, pagata l’ammenda, sono libere di operare indisturbate nel resto del mondo. Esse affermano che, durante i due anni e mezzo di conflitto legale, le loro operazioni sono passate da 2 a 35 miliardi di dollari.

    Come già successo più volte i buoni avvocati sanno come «interpretare» le leggi e «barattare» condanne più severe con l’applicazione di attenuanti e con multe pecuniarie. Il procuratore generale ha aperto un nuovo dossier per comportamenti fraudolenti di un’altra piattaforma di trading di cripto valute, la Coinseed.

    Il Tether è una stablecoin, una delle criptovalute agganciate a monete reali, come dollaro ed euro. Per esempio, 1 Tether equivale a 1 dollaro e la riserva in dollari deve coprire il 100% dei Tether in circolazione. La Tether Ltd emette la suddetta stablecoin e lavora in partnership con la piattaforma di scambi online, Bitfinex. Entrambe sono controllate dalla società madre, la Finex Inc. Collegate a loro vi sarebbe anche la Tether Holdings Ltd con sede nelle Isole Vergini britanniche, uno dei più noti centri finanziari off shore. L’italiano Giancarlo Devasini è il loro chief financial officer.

    Il Tether è lo strumento più usato per acquistare i bitcoin. Il Tether, sfruttando la tecnologia blockchain, consente di archiviare, inviare e ricevere valori digitali da persona a persona a livello globale istantaneamente e senza intermediari.

    Le indagini erano partite nel 2017. La Tether Ltd e la Bitfinex avrebbero operato in modo oscuro e con grandi rischi per gli investitori. Nel 2018 avrebbero dichiarato il falso per oscurare un ammanco di almeno 850 milioni di dollari, frutto di un’operazione opaca con la shadow bankpanamense CryptoCapital, poi fallita. Era emerso che Tether Ltd non aveva alcun accesso a servizi bancari, in nessuna parte del mondo e quindi non c’erano le riserve per sostenere la parità di un dollaro per ogni Tether in circolazione. Poche ore prima della certificazione ufficiale delle reali riserve in dollari di Tether Ltd, Bitfinex le concesse un prestito di 400 milioni e poi una linea di credito di 900 milioni. In seguito, le due società aprirono un altro contro presso la Deltec Bank alle Bahamas per 1,8 miliardi. Ottenuta la certificazione, gran parte dell’ammontare fu trasferito altrove.

    Nel 2017 in occasione di un simile controllo avevano aperto un conto presso la Noble Bank di Puerto Rico su cui furono versati 382 milioni di dollari. Era lo stesso giorno durante il quale si doveva ufficialmente certificare l’ammontare delle riserve in dollari di Tether Ltd.

    La criptovaluta Tether gioca un grande ruolo negli acquisti di bitcoin: più di due terzi di tutte le operazioni quotidiane. Il prezzo dei bitcoin, quindi, non è fissato in rapporto al dollaro, ma a stablecoin. Il mercato delle criptovalute a livello mondiale ha già raggiunto 1.400 miliardi di dollari. Il valore dei bitcoin può salire o scendere alla velocità della luce o di qualche clic sui computer.

    Banche centrali e autorità di controllo sono preoccupate e starebbero approntando un’adeguata vigilanza. È singolare e irritante vedere tutte le reti tv italiane parlare in modo acritico dei record dei bitcoin come se fosse un gioco.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • GameStop: è un vero caso Giuffrè

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ‘ItaliaOggi’ il 23 febbraio 2021

    Da un po’ di tempo si narra la favola dell’assalto dei piccoli risparmiatori e dei microinvestitori contro i big di Wall Street. Perché solo i giganti della finanza dovrebbero fare grandi profitti, si dice, e la massa di piccoli e piccolissimi investitori no? Organizzate intorno a delle piattaforme speciali di trading online, a volte con nomi seducenti, come l’app di brokeraggio Robinhood Markets Inc., milioni di persone, giovani, pensionati, lavoratori, studenti e in genere risparmiatori, avrebbero formato una falange armata e starebbero sfidando i grandi fondi, inclusi gli hedge fund speculativi. La narrazione continua.

    Sarebbe la vittoria della «speculazione popolare e democratica» contro quella delle elite finanziarie. È doveroso, comunque, ricordare che, secondo la Goldman Sachs, il commercio al dettaglio di singole azioni rappresenta già ora circa il 25% del volume complessivo del mercato azionario di Wall Street rispetto al 10% del 2019.

    Il racconto è nato, soprattutto, intorno a GameStop Corp., la multinazionale di videogiochi con sede in Texas. Nonostante il suo prolungato dissesto, nel mese di gennaio, all’improvviso, il suo valore di listino schizzò da 17 a 483 dollari. Un aumento di 28 volte in tre settimane! GameStop ha 47 milioni di azioni. In questo breve lasso di tempo le sue azioni hanno cambiato di mano 554 milioni di volte, più di 11 volte il totale di tutte quelle disponibili. All’inizio di febbraio, però, crollò a 50 dollari. Una chiara operazione speculativa.

    Investor’s Business Daily, organo specializzato sul mercato azionario, riporta che un gruppo ristretto di hedge fund e pochi altri grandi investitori avrebbero guadagnato con le loro azioni GameStop circa 16 miliardi di dollari. Analisi condivisa dal Washington Post. La dinamica è la solita: i piccoli vengono convinti a comprare le azioni facendo salire il loro valore mentre i big le vendono prima del loro crollo. Così le vendite fanno crollare il prezzo.

    Una parte importante di simili «giochi al massacro» sarebbe orchestrata attraverso derivati finanziari: scommesse al ribasso e allo scoperto fatte da chi già sa che il valore delle azioni crollerà. Nulla di nuovo, se non il cannibalismo tra grossi pescecani, con il crescente rischio di crisi sistemiche.

    La novità è che il giochino altro non è che una piramide finanziaria, costruita con strumenti più sofisticati. In passato, i costruttori di piramidi finanziarie raccoglievano soldi tra piccoli risparmiatori, attratti da promesse di notevoli guadagni. Raggiunto un bel gruzzolo, i costruttori-truffatori sparivano nottetempo lasciando i malcapitati con un pugno di mosche.

    Adesso, invece, simili operazioni sono fatte con i nuovi strumenti tecnologici online, con gli smartphone e con le monete digitali, utilizzando piattaforme compiacenti. Però, il metodo non cambia.

    Negli Usa il problema è esploso, tanto che alcune agenzie governative, come la Security Exchange Commission, hanno aperto delle indagini per verificare l’eventuale manipolazione del mercato. Verifiche in tal senso stanno compiendo anche il Dipartimento del Tesoro e quello di Giustizia dell’amministrazione Biden, nonché il procuratore generale di San Francisco, che ha citato in giudizio numerosi broker coinvolti. La citata app Robinhood dovrebbe affrontare dozzine di cause legali con persone che sostengono che la società avrebbe manipolato il mercato.

    Il Comitato per i servizi finanziari della Camera dei Deputati americana ha convocato delle udienze su questo e altri casi simili, con un focus sulle vendite allo scoperto e sulle piattaforme di trading online.

    Annunciando i lavori, la presidente della Commissione, Maxine Waters, ha dichiarato: «Gli hedge fund hanno una lunga storia di comportamenti predatori del tutto indifendibili. I fondi privati che depredano i fondi pensione dei cittadini americani, che lavorano sodo, devono essere fermati. I fondi privati, che effettuano vendite predatorie allo scoperto a scapito di altri investitori, devono essere fermati. I fondi privati impegnati in strategie da avvoltoi, che danneggiano i lavoratori, devono essere fermati».

    Ci sembra tutto un déjà vu, una riedizione del 2008 in salse diverse.

    *già sottosegretario dell’Economia **economista

  • Cinque banche globali corrotte

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** apparso su ItaliaOggi il 3 ottobre 2020

    Il Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icij) è al centro dell’attenzione dei media perché è entrato in possesso di 2.500 pagine di segnalazioni di attività sospette (Sar) riguardanti le banche. Trattasi di documenti riportati, tra il 1999 e il 2017, alla FinCEN, Financial Crimes Enforcement Network del Departimento del Tesoro americano che li ha resi parzialmente pubblici. La FinCEN è l’agenzia governativa con il compito di combattere il riciclaggio di denaro.

    Sono gli stessi giornalisti che nel 2016 hanno pubblicato i cosiddetti Panama Papers, e hanno fatto emergere lo scandalo di vaste attività relative a evasioni fiscali e al riciclaggio dei soldi sporchi con il coinvolgimento di grossi personaggi e di banche internazionali.

    Adesso, emergerebbe, ancora una volta, una vastissima rete di traffici illegali e di movimenti di denaro riciclato per il traffico di droga e di armi e per evitare controlli e tasse attraverso società fittizie e finanche per il finanziamento del terrorismo.

    C’è di tutto e di più: coinvolgimento di discussi personaggi russi e ucraini, pericolose operazioni in Venezuela e in Malesia, finanche alcune operazioni per conto di Paul Manafort, l’ex manager della campagna elettorale di Donald Trump, attualmente in carcere per frode fiscale e bancaria. Sono tutte segnalazioni che, comunque, sarebbero dovuto essere indagate per arrivare a eventuali condanne.

    I documenti identificano le responsabilità di cinque banche globali: due americane, la JP Morgan, prima banca Usa, e la Bank of New York Mellon, due inglesi, la Hsbc, Hong Kong Shanghai Bank Corporation, la maggiore banca europea, e la Standard Chartered Bank e la tedesca Deutsche Bank. Le transazioni sospette di riciclaggio e per altre attività illegali ammonterebbero a oltre 2.000 miliardi di dollari!

    Sembra un ammontare stratosferico ma i file resi pubblici rappresenterebbero meno dello 0,02% degli oltre 12 milioni di attività sospette che le differenti istituzioni finanziarie hanno riportato alla FinCEN nel periodo 2011-17. Sono molti gli aspetti inquietanti in questa scandalosa storia. Vorremmo evidenziarne due che, secondo noi, meriterebbero una particolare attenzione.

    In primo luogo c’è il ruolo della Deutsche Bank che, secondo i documenti, deterrebbe il peggior primato con ben 1.300 miliardi di dollari in transazioni sospette. È la seconda volta che la banca tedesca scala la piramide negativa: lo aveva già fatto quando è diventata il numero uno al mondo per i derivati finanziari over the counter, noti strumenti speculativi sempre più aleatori e di difficile, complicata e rischiosa gestione.

    La stampa tedesca torna a chiedersi cosa stia realmente succedendo da molti anni in questa banca che porta il nome della Germania nel suo logo. Anche secondo noi i continui riferimenti ai coinvolgimenti della DB in operazioni di vario tipo sono motivo d’imbarazzo e di vergogna per l’intera Europa, non solo per la Germania. Ci si chiede come sia possibile che, anno dopo anno e scandalo dopo scandalo, le autorità tedesche e quelle europee non siano ancora riuscite a costringere la banca a ripulire veramente i suoi comportamenti e tornare a essere una delle maggiori banche promotrici di grandi progetti industriali e di sviluppo reale, come ai tempi del presidente Alfred Herrhuasen, prima che fosse ucciso dai terroristi.

    Il secondo aspetto riguarda i comportamenti assai discutibili delle banche coinvolte. Da anni, nonostante fossero state pesantemente accusate, condannate e sanzionate dalle autorità di controllo, quasi sempre americane, esse hanno continuato indisturbate a fornire i propri servizi per operazioni sporche, illegali e di riciclaggio. Gli esempi non mancano.

    Secondo le analisi pubblicate, nel 2012 la ‘HSBC, per bloccare il procedimento criminale, ammise di aver riciclato 881 milioni di dollari per un cartello della droga latino-americano e pagò un’ammenda di 1,9 milioni. Le accuse sarebbero state cancellate definitivamente qualora la banca avesse dimostrato di partecipare alla lotta contro il riciclaggio nei successivi cinque anni. I file dell’Agenzia americana proverebbero invece che l’Hsbc, violando il patteggiamento, non solo ha continuato nelle operazioni di riciclaggio di soldi sporchi ma sarebbe stata implicata in una grande «piramide finanziaria» che coinvolgeva parecchi paesi.

    Lo stesso sarebbe avvenuto con la Standard Chartered, accusata di aver favorito transazioni finanziare verso gli Usa da parte di clienti dell’Arab Bank legati alle reti terroristiche. Sebbene multata per 670 milioni di dollari, avrebbe continuato con simili operazioni anche durante il «periodo di buona condotta».

    Anche le altre banche menzionate, compresa la Deutsche Bank, hanno mantenuto lo stesso comportamento. Accusate di attività illecite hanno pagato le multe per bloccare le sanzioni penali continuando imperterrite a operare as usual. Certo è molto conveniente pagare la multa di 1 dollaro per 100 incassati illegalmente.

    Ma, in merito, il controllo dei governi e delle agenzie preposte è indipendente e davvero stringente? Poiché la pandemia sta mettendo a soqquadro tutti i sistemi, economici, sociali e sanitari, non si capisce perché la grande finanza resti intoccabile.

    Naturalmente le banche hanno spesso dichiarato di non conoscere l’identità dei correntisti finali. È singolare che oltre il 20% dei rapporti inviati alla FinCEN abbia un cliente con un indirizzo presso le Virgin Islands britanniche, uno dei più grandi paradisi fiscali al mondo.

    In conclusione, si ricordi che anche per l’Unodc, l’Ufficio dell’Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, non meno di 2.400 miliardi di dollari di denaro illecito sarebbero riciclati ogni anno. Sono dati sconvolgenti.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • C’è il rischio della bolla verde (dopo It, subbprime e derivati)

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi sul paper della BRI “Il Cigno Verde” relativo ai nuovi rischi di crisi risultanti dal rapporto tra finanza e cambiamenti climatici pubblicato si ‘ItaliaOggi’ il 15 febbraio 2020.

    La Banca per i Regolamenti Internazionali (Bri) di Basilea ha pubblicato un rapporto intitolato «The Green Swan», Il Cigno Verde. Le banche centrali e la stabilità finanziaria nell’era dei cambiamenti climatici.

    Lo studio dell’istituto il cui cda è guidato da Jens Weidmann, analizza i legami tra gli effetti del cambiamento climatico e la finanza e afferma che le conseguenze del cosiddetto global warming potrebbero portare a una nuova forma di rischio finanziario sistemico.

    Oggi non si valuterebbero correttamente i valori degli asset, dei crediti e degli investimenti perché non si tengono in giusta considerazione i rischi insiti nei cambiamenti climatici. Vi sarebbero, per esempio, perdite non adeguatamente coperte dalle assicurazioni poiché i loro modelli attualmente ignorano la dimensione ecologica degli investimenti.

    Di conseguenza, se i governi dovessero applicare delle regole più stringenti sulle emissioni di CO2, i relativi valori degli asset «brown» rispetto a quelli «green» dovrebbero oggettivamente essere rivisti.

    Il clima può impattare sul rischio finanziario in tre modi: eventi meteorologici straordinari (inondazioni, terremoti, incendi, siccità ecc), la transizione verso un’economia a bassa produzione di CO2, con effetti sui livelli di profitto e di sostenibilità economica, e i risarcimenti da pagare per eventi causati dal cambiamento climatico. In verità, già da molto tempo il settore delle assicurazioni analizza questi aspetti. Gli operatori vorrebbero integrarli nei modelli macroeconomici.

    Vi è poi la cosiddetta «finanza verde», o presunta tale. Stanno crescendo gli strumenti finanziari green, come le obbligazioni, i green bond. Ne sono già in circolazione per circa 800 miliardi di dollari e potrebbero superare i 1.500 entro il 2024. Non sono molti. Rappresentano poco più dell’1,5% del totale delle obbligazioni. Sono titoli finalizzati alla raccolta di risparmi per investirli in progetti di varia natura ecologica.

    Sembra che si stia pensando di creare delle agenzie di rating mirate al rischio finanziario relativo al cambiamento climatico. Interessati sarebbero anzitutto le assicurazioni, gli analisti della qualità dei crediti, i fondi d’investimento, con un portafoglio differenziato di titoli, e i fondi pensione interessati in investimenti nel sociale e nel green.

    In merito, secondo la Bri, il ruolo delle banche centrali dovrebbe diventare molto importante, considerato che i governi saranno sempre più chiamati a formulare politiche pubbliche relative al clima e all’ambiente. Anche i sistemi fiscali dovranno presto adeguarsi a un’economia «de carbonizzata».

    Molti ambienti della finanza e dei mass media hanno accolto molto positivamente il paper «Il Cigno Verde». Il nome si rifà forse al film americano «Black Swan» del 2010, ispirato dal balletto «Il lago dei cigni» del compositore Pëtr Il’ic Cajkovskij, in cui emerge il lato oscuro autodistruttivo della doppia personalità del personaggio centrale, una danzatrice classica. In quest’ottica, alcuni già si preparerebbero a spiegare la possibile relazione di causa ed effetto tra il cambiamento climatico e un’eventuale futura crisi finanziaria. Non vorremmo che ciò possa fornire l’alibi per altri salvataggi con i soldi pubblici.

    Indubbiamente una maggiore attenzione all’ambiente naturale e umano è cosa necessaria e positiva. L’economia sostenibile, l’energia più pulita, la lotta all’inquinamento, soprattutto della plastica, sono sfide ineludibili per il futuro del nostro pianeta e dell’umanità. Né si può ignorare, del resto, lo stimolo che in merito viene dalla società. Ben venga, quindi, che tutti, anche la finanza, se ne vogliano far carico. Senza però essere ingenui e manipolabili.

    Non vorremmo che si sia intravisto nell’economia verde e nella finanza verde un nuovo strumento di speculazione e di profitto.

    Non possiamo dimenticare che sono state le grandi banche too big to fail e la finanza speculativa a provocare la crisi finanziaria ed economica globale più grave della storia. Queste non hanno certamente badato a evitare danni per i cittadini e per l’ambiente. Né sembra che nel frattempo abbiano dimostrato pentimento o un diverso orientamento.

    Certo fa effetto vedere che il recente Forum Economico di Davos sia stato quasi completamente dedicato all’ambientalismo. E che personaggi come Mark Calney, il governatore di quella Bank of England che è nel centro finanziario mondiale della City londinese, e l’amministratore delegato del maggior fondo americano, BlackRock, abbiano a Davos tessuto le lodi della green economy. Non li vediamo come tanti San Paolo, convertiti davanti alla Porta di Damasco.

    È opportuno ricordare che negli ultimi 20 anni abbiamo «vissuto», tra gli altri, i crac della «bolla It», della bolla immobiliare con i mutui sub prime e di quella dei derivati otc. Non vorremmo che oggi la stessa finanza voglia costruire una «bolla verde», questa volta direttamente con i soldi pubblici. Infatti, è noto che tutti i governi del mondo e le grandi istituzioni politiche internazionali vogliono mettere in campo migliaia di miliardi di dollari per investimenti verdi ed ecologici. Si pensi all’Unione europea. E, si sa, la finanza speculativa è famelica. È facile dichiararsi difensori dell’ambiente, è più difficile esserlo.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

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