dignità

  • In attesa di Giustizia: il carcere è anche questo

    Con queste parole, la voce incrinata, il Direttore di San Vittore, meritatamente insignito dell’Ambrogino d’oro, ha congedato il pubblico esterno e i detenuti presenti per la tradizionale proiezione della Prima della Scala nella Rotonda dell’istituto penitenziario interrotta durante il secondo atto: un’impiccagione nel quinto reparto e chi conosce un po’ i movimenti del carcere aveva già capito l’allarme, le corse, l’agitazione.

    Un ennesimo suicidio che come ognuno ha ragioni proprie e va rispettato in quanto dramma unico e l’aggettivo “ennesimo” vale solo a sottolineare uno sgomentevole dato quantitativo: sessantasei da inizio anno, ma che contribuisce a farci sentire tutto il peso della attuale situazione delle carceri. Lo aveva detto proprio il Direttore parlando di una situazione drammatica con oltre mille detenuti che non rallentano l’impegno per andare avanti, continuando a credere in un lavoro di grande sacrificio e, ovviamente, nella necessità di portare dentro al carcere la società per momenti di riflessione. Un contributo in tal senso lo diede prima della pandemia proprio il Gruppo Toghe & Teglie, che cura in queste pagine la rubrica di cucina, con due cene aperte ad un pubblico esterno, nel giardino della sezione femminile, eventi dal titolo simbolico “A Tavola con la Speranza”.

    La contraddizione è esplosa in occasione di una ricorrenza in cui va tutto bene, o si finge che così sia, pur consapevoli – e soprattutto noi avvocati lo siamo – che dietro alle cancellate dei reparti ci sono  disperazione,  sovraffollamento,  materassi per dormire per terra, i blindi chiusi, la carenza di igiene, una vita invivibile che aggiungono pene a quella della privazione della libertà andando in senso opposto al progetto di rieducazione dei condannati che dovrebbe essere coltivato nell’interesse comune, nell’ottica di un recupero non solo di esseri umani ma di quella sicurezza che – a parole – sembra stare a cuore a tutti.

    Sessantasei vite umane, un atroce conteggio che non può essere liquidato come un arido bilancio consuntivo di fine anno quando è in conto l’esistenza di persone affidate alla cura di uno Stato che dovrebbe restituirle migliori alla collettività: un elenco che si allunga inesorabilmente, nell’indifferenza di governi che guardano al pianeta carcere con cinica indifferenza, spesso utilizzandolo come emblema di una recuperata incolumità dei cittadini nella salvifica funzione di discarica sociale meramente afflittiva.

    Ora vi è solo da augurarsi che questo evento drammatico, verificatosi in un momento particolare, sia in grado di scuotere le coscienze di chi continua a credere che le carceri possano essere stipate all’inverosimile, e non solo nell’interesse della popolazione detenuta in senso stretto.

    Infatti, oltre ai carcerati non si deve dimenticare tutto il personale, civile ed in divisa, tutti quelli che entrano in carcere anche solo per dare una mano, e che fanno sì che San Vittore – e come San Vittore tutti gli altri Istituti non uno escluso – ogni giorno stia in piedi, nonostante un destino avverso. La cosiddetta società civile dovrebbe mobilitarsi ed esserci, fare proposte in ogni occasione in cui si parli dei progetti positivi che in carcere malgrado tutto esistono, evitando che i penitenziari restino invisibili ai più: strutture lontane dagli occhi e dal pensiero di chi non se ne vuole occupare.

    Ed è a costoro che si deve ricordare che una detenzione dignitosa è un diritto e che devono essere attivati gli strumenti affinché condizioni disumane cessino e prima ancora che sia definitivamente abbandonata la visione carcerocentrica di una giustizia penale che guarda poco o nulla alla effettiva dissuasione e meno ancora al fattore rieducativo della pena proseguendo nello sterile percorso di affrontare ogni emergenza con l’introduzione di nuovi reati o inasprendo le pene per quelli già previsti mentre non si può continuare a fare finta di niente, non più.

  • No al redditometro per gli animali da compagnia

    Possedere un animale da compagnia non è un lusso, né può essere un indice di capacità contributiva. In base a questo principio l’ANMVI (Associazione Nazionale Medici Veterinari Italiani ) chiede al Vicepremier Luigi di Maio e al Ministro delle Finanze Giovanni Tria di togliere le spese per gli animali da compagnia, cavalli compresi, fra quelle che denotano ricchezza. L’articolo 10 del Decreto Dignità, infatti, ha congelato il redditometro, lo strumento con il quale il Fisco accerta la capacità contributiva dei cittadini e in vista dell’emanazione di un nuovo provvedimento l’associazione propone una revisione dato che già la Corte di Cassazione, con una sentenza del 23 luglio del 2015,  aveva dato ragione al possessore di un cavalla d’affezione finita nel redditometro. In quell’occasione la Suprema Corte sentenziò che i cavalli detenuti non senza finalità lucrativa ma per affezione, compagnia e passeggiata non possono essere considerati un indice di capacità contributiva.

  • Perché il “decreto dignità” è funzionale al governo della continuità e non del cambiamento

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’On. Nicola Bono

    Cos’è che accomuna due formazioni politiche così diverse come la lega e il M5S e consente loro di dare vita a un esecutivo pomposamente denominato “governo del cambiamento”? Sembrerebbe il “populismo” che però essendo più una pulsione della “pancia” che una visione razionale della mente, riesce a individuare soluzioni ai problemi istintive, incoerenti e prive di una visione d’insieme, utili solo ad emozionare propagandisticamente le varie componenti sociali di riferimento. Per questo il primo e finora unico provvedimento del governo populista, il “decreto dignità”, è riuscito a scontentare tutte le categorie di riferimento sia dell’elettorato grillino, che giustamente ne ha valutato la modestia e sostanziale inefficacia, che soprattutto dell’elettorato leghista, che ne ha percepito gli aspetti di pericolosità per le imprese per l’occupazione. Ma soprattutto questo decreto dà corpo agli scenari da incubo che si paventava potessero presentarsi e cioè a dire che il “governo del cambiamento” non ha alcun disegno circa gli obiettivi e gli strumenti da adottare per contrastare il declino verso cui sembra destinato il Bel Paese, non ha i danari, né li avrà mai, per attuare il “contratto di governo”, non si pone la necessità di valutare le effettive conseguenze sul sistema economico delle sue scelte e, soprattutto, appare tristemente uguale ai governi che lo hanno preceduto, specie quelli della “prima Repubblica”, noti per le tendenze ad adottare politiche dirigiste a sfavore di investimenti e occupazione, e sempre disponibili all’uso politico-clientelare della spesa, da finanziare con l’irresponsabile lievitazione del debito pubblico, che per questo è diventato il peggiore tallone d’Achille del Paese. Ma ciò che ha confermato la stravagante e passatista natura di questa inedita coalizione governativa sono senz’altro le dichiarazioni del Ministro dell’Economia Giovanni Tria, custode dei conti pubblici dello Stato che, dopo avere rassicurato sull’inesistenza di qualsiasi volontà di peggioramento dei saldi di finanza pubblica, si è contraddetto con la conferma che l’obiettivo governativo è di chiedere alla UE “un po’ di flessibilità, rinviando di un anno o due il pareggio di bilancio”, e cioè di aumentare la spesa in deficit di altri otto-dieci miliardi l’anno per il 2019 e il 2020, replicando la medesima strategia perdente di Renzi e dei governi della “Prima Repubblica”. Altre mance in vista o semplicemente la vittoria del “pensiero unico della spesa”? Il fatto è che in Italia non è rimasto un solo partito con un progetto di rinascita economica e produttiva, ma solo comitati elettorali oligarchici, in perenne mobilitazione elettorale, capaci unicamente di promettere inesistenti soluzioni con spese pubbliche improduttive, da finanziare con il ricorso all’indebitamento, perpetuando così le vecchie politiche di rapina alle generazioni future, in cambio dei consensi nel presente. Un eterno Déjà Vu che è la dannazione della politica nazionale e la ragione vera del nostro declino. Altro che lotta al precariato e alle delocalizzazioni, ma solo squallida continuità con gli errori del passato che ci hanno già rovinato. L’impossibilità di creare lavoro con i decreti legge è stata già dimostrata, altrimenti l’URSS non sarebbe mai crollata, e il lavoro a termine è molto più dignitoso della disoccupazione o peggio del lavoro nero; così come non si possono vincere le elezioni con promesse irrealizzabili e pensare di sostituirle ogni giorno con spot propagandistici, sperando che i cittadini dimentichino di chiedere conto dei risultati dell’azione di governo, perché questo per fortuna non accadrà mai.

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