diritti

  • Avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest

    Un tempo cantavamo “Avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest”, sfilavamo per testimoniare la nostra vicinanza all’Ungheria, alle repubbliche dell’Europa dell’est oppresse dalla dittatura sovietica.

    Alcuni di quei paesi sono ora in Europa e progrediscono sulla strada della democrazia, ben vigili nell’osservare e contrastare la lunga mano di Putin che cerca di ricreare una sempre più vasta influenza russa anche utilizzando la forza e disprezzando il diritto internazionale.

    Solo uno stato, l’Ungheria, continua a opporsi agli aiuti per l’Ucraina e ad intrattenere buoni rapporti con il nuovo Zar, solo un paese, l’Ungheria, fa portare in tribunale in catene, in pieno disprezzo delle nome comunitarie, una cittadina italiana accusata di aver partecipato all’aggressione di due neonazisti.

    Il ministro degli Esteri e vicepremier Tajani alle domande di intervento politico risponde che Orban non è responsabile perché la magistratura è indipendente, ma chi fa e poi fa approvare le leggi in uno stato?

    Quali iniziative ha posto in essere il nostro governo per valutare le condizioni nelle quali è stata tenuta quasi per un anno Ilaria Salis?

    Temiamo nessuna visto che altrimenti, alle pressanti ed umane richieste del padre ed alle accuse delle opposizioni, qualcuno in alto loco avrebbe risposto dimostrando che un deciso interessamento vi era stato seppur senza risultato. Se interventi effettivi, e non di rito, fossero stati fatti Ilaria Salis forse avrebbe potuto avere un trattamento migliore e certamente il governo non si troverebbe oggi ad affrontare quello che è diventato un caso politico a tutto scapito della giustizia e dei diritti umani.

    D’altra parte siamo da molti anni abituati alle non risposte di chi governa l’Italia, qualunque sia stato il colore politico, come allora stupirci di fronte ai non interventi in Ungheria quando non si è mai sollevato il problema dei genitori italiani i cui figli sono di fatto stati rapiti dallo Jugendamt tedesco?

    Ragazzi di Buda e di Pest, ragazzi di tutta Europa, vigilate contro la violenza, il sopruso, il settarismo, la doppia verità, l’indifferenza.

  • Pena di morte in Alabama

    22 minuti per morire, dopo essere sopravvissuto due anni fa al tentativo di esecuzione tramite iniezione letale, 36 anni dopo il delitto commesso, 22 minuti di agonia che rendono lo Stato dell’Alabama ed il suo governatore a loro volta assassini, con sevizia e crudeltà, di Kenneth Eugene Smith.

    Kenneth è stato usato anche come cavia per inaugurare un metodo di esecuzione inumano al quale non solo i medici ma anche i veterinari si erano rifiutati da dare il loro avallo.

    Non siamo qui a discutere sulla pena di morte ma sul grado di civiltà dell’Alabama e sul sistema federale che può consentire, come negli Stati Uniti, che il presidente di tutti chieda la moratoria sulla pena di morte ed uno stato non solo la applichi ma lo faccia anche in modo così crudele e con un sistema mai sperimentato prima.

    Credo sia giusto anche ricordare che Kenneth era stato inizialmente condannato all’ergastolo e che la pena era stata trasformata in pena capitale con la sentenza di un singolo magistrato ed una procedura che, fortunatamente, non è più ammessa.

    Kenneth ha ucciso una donna su commissione, delitto brutale che ha pagato prima con 36 anni di carcere e poi con la vita, ma negli Stati Uniti ogni giorno si commettono pluri ed orrendi omicidi, vere e proprie stragi, per la possibilità di procurarsi troppo facilmente anche armi da guerra e munizioni. Chissà, su questo problema, quale pensiero ha il governatore dell’Alabama, Stato per altro noto per i passati, e non terminati, reati di razzismo.

    Un altro pensiero nasce spontaneo: a quali possibili problemi va incontro uno stato, federale o meno, che non ha il controllo sui propri territori, nel quale alcuni territori possano decidere autonomamente anche in spregio agli interessi comuni?

  • Doverose riflessioni in questo inizio anno

    Non far nulla senza riflessione, alla fine dell’azione non te ne pentirai.

    Dal Siracide, libro dell’Antico Testamento

    Lunedì scorso, 8 gennaio, Papa Francesco ha incontrato i rappresentanti del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Durante l’udienza, tra l’altro, il Santo Padre ha fatto riferimento alla situazione nel mondo, sottolineando l’importanza della pace. Una “…parola tanto fragile e nel contempo impegnativa e densa di significato”. La pace che “… è primariamente un dono di Dio”. Ma che “…nello stesso tempo è una nostra responsabilità”, ha ribadito il Pontefice. Poi ha ricordato quanto aveva detto papa Pio XII alla vigilia di Natale del 1944, mentre la seconda guerra mondiale stava finendo. Pio XII ne era convinto che già allora si sentiva “…una volontà sempre più chiara e ferma: fare di questa guerra mondiale, di questo universale sconvolgimento, il punto da cui prenda le mosse un’era novella per il rinnovamento profondo”. Sono passati ormai quasi ottant’anni dalla fine di quel conflitto mondiale, ma le vere realtà vissute e spesso sofferte in diverse parti del mondo sono tali da far riflettere tutti e responsabilmente. Papa Francesco ha sottolineato lunedì scorso che purtroppo “…la spinta a quel “rinnovamento profondo” sembra essersi esaurita e il mondo è attraversato da un crescente numero di conflitti che lentamente trasformano quella che ho più volte definito “terza guerra mondiale a pezzi” in un vero e proprio conflitto globale”. In seguito, durante l’udienza, il Pontefice ha fatto un’analisi della situazione in diverse parti del mondo, dove sono in corso dei conflitti armati. Come quelli in Ucraina e nella Striscia di Gaza. Ma anche nel Caucaso Meridionale, dove continauno gli attriti tra l’Armenia e l’Azerbaigian. Papa Francesco ha analizzato anche la preoccupante situazione tutt’ora in corso nel continente africano, dove sono diversi i Paesi in conflitto. Così come ha fatto con la situazione dell’America del Sud. Rivolgendosi ai rappresentanti del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il Pontefice ha ribadito che “…la via della pace esige il rispetto della vita, di ogni vita umana. […]. La via della pace esige il rispetto dei diritti umani, secondo quella semplice ma chiara formulazione contenuta nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”. Il Pontefice ha poi espresso la sua ferma convinzione, secondo la quale “…Il dialogo, invece, dev’essere l’anima della Comunità internazionale”. Sottolineando che “…L’attuale congiuntura è anche causata dall’indebolimento di quelle strutture di diplomazia multilaterale che hanno visto la luce dopo il secondo conflitto mondiale”. Il Papa ha ribadito altresì che “…Per rilanciare un comune impegno a servizio della pace, occorre recuperare le radici, lo spirito e i valori che hanno originato quegli organismi, pur tenendo conto del mutato contesto e avendo riguardo per quanti non si sentono adeguatamente rappresentati dalle strutture delle Organizzazioni internazionali”. Spirito e valori come quelli che hanno evidenziato e proclamato sia gli autori del “Manifesto di Ventotene”, che altri Padri Fondatori dell’attuale Unione europea. Coloro che hanno ideato e attuato il 18 aprile 1951 la costituzione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Proprio quei Padri Fondatori che sei anni dopo, lungimiranti, convinti e determinati hanno firmato, il 25 marzo 1957, il Trattato di Roma che diede vita alla Comunità Economica Europea, la quale, con il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992, divenne l’attuale Unione europea.

    Purtroppo, non devono preoccupare solo i diversi conflitti armati attualmente in corso, evidenziati da Papa Francesco lunedì scorso, l’8 gennaio, durante l’udienza con i rappresentanti del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Devono preoccupare seriamente anche i molti regimi dittatoriali oppressivi ed attivi in diversi Paesi del mondo. Si tratta di realtà vissute e sofferte che generano la morte, causando tantissime vittime umane, come anche i conflitti armati. Con solo una differenza. Si, perché per le vittime delle guerre si tengono delle evidenze più o meno esatte, mentre per le vittime delle dittature, per centinaia di migliaia di persone che perdono la vita in “silenzio”, nel corso degli anni, in seguito alle numerose violazioni, sofferenze e privazioni, spesso non si sa niente. Si tratta di realtà, quelle legate alle dittature, dove l’individuo, l’essere umano, deve soltanto e semplicemente ubbidire al regime, oppure deve subire tutte le conseguenze. Si tratta delle realtà di cui non sempre si parla e si sa pubblicamente quello che accade, soprattutto fuori dai confini del paese. Si tratta purtroppo di realtà vissute, sofferte e note solo lì dove il regime esercita il suo potere dittatoriale. Ma durante questi ultimi decenni ci sono delle realtà che hanno cominciato ed essere note anche in altre parti del mondo. Sono delle realtà evidenziate e rese pubbliche, tra l’altro, sia da giornalisti coraggiosi, che da cittadini scappati da quelle dittature. Realtà rese pubblicamente note, altresì, da alcune istituzioni internazionali specializzate che da anni analizzano lo stato della democrazia nella maggior parte dei Paesi del mondo. Lo ha fatto dal 2006 anche l’Economist Intelligence Unit Index of Democracy (L’Unità d’intelligenza dell’Economist, parte del noto settimanale britannico The Economist che prepara e pubblica l’Indicatore della Democrazia nel mondo; n.d.a.). Oggetto dello studio, dell’elaborazione dei dati e delle analisi specializzate sono 167 diversi Paesi. Facendo riferimento allo stato  reale della democrazia, i Paesi vengono classificati in quattro categorie, denominate come “democrazie complete”, “democrazie imperfette”, “regimi ibridi” e “regimi autoritari”. Lo studio si concentra su cinque diversi obiettivi principali, che sono il processo elettorale ed il pluralismo, le libertà civili, il funzionamento del governo, la partecipazione politica e la cultura politica/democratica.

    Ebbene, dall’ultimo rapporto dell‘Economist Intelligence Unit pubblicato nel febbraio del 2023 e che si riferisce ai dati del 2022, raccolti ed elaborati nel ambito del Democracy Index, risulta che solo circa la metà della popolazione mondiale, e cioè il 45.3%, vive in un Paese con un sistema democratico, in una delle sue note e studiate forme. Dallo stesso rapporto per il 2022 risulta però e purtroppo che il 36.9% della popolazione mondiale vive in un Paese dov’è attivo un regime autoritario. L’Afghanistan risulta essere il Paese ultimo classificato. Tutto dovuto al ritorno dei talebani al potere, dopo il ritiro vergognoso delle truppe internazionali da Kabul, il 15 agosto 2021. Un ritorno quello che ha di nuovo restaurato il loro regime. Dall’ultimo rapporto dell‘Economist Intelligence Unit risulta che il Paese che ha avuto il peggior andamento nel mondo, dal punto di vista dell’adempimento dei principi democratici, è stato la Russia. Il Paese, una delle maggiori potenze mondiali, ha perso 22 punti rispetto alla sua posizione del 2021, fermandosi al 146o posto. Nel rapporto si elencano anche tutti gli altri Paesi oggetto dello studio, le loro posizioni ed il perché di quei risultati. Il rapporto dell‘Economist Intelligence Unit, pubblicato dal settimanale britannico The Economist, termina con la frase: “Nonostante alcuni miglioramenti globali, la democrazia resta minacciata”. Una preoccupante constatazione questa che deve far riflettere seriamente tutti coloro che hanno delle responsabilità politiche ed istituzionali, sia in ogni singolo Paese, che a livelli più ampi.

    Anche in Europa, come in altre parti del mondo, ci sono dei Paesi nei quali non si rispettano i principi dalla democrazia, non si rispettano i diritti innati dell’essere umano ed altri sacrosanti diritti acquisiti. Paesi dove non si rispetta il principio della separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario). Un principio che rappresenta anche un criterio di valutazione del funzionamento del sistema democratico in un determinato Paese. Un principio quello della separazione dei poteri noto già dall’antichità ed ovviamente adattandosi alle condizioni storiche e sociali dell’epoca. Un principio che è stato elaborato in seguito, durante il diciottesimo secolo, da Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, un filosofo, giurista, nonché studioso di storia e del pensiero politico francese e non solo, meglio e semplicemente noto Montesquieu. L’autore di queste righe, mentre tratta ed analizza per il nostro lettore argomenti che hanno a che fare con la democrazia e/o i regimi autocratici e dittatoriali, ha spesso fatto riferimento al principio della separazione dei poteri. In un suo precedente articolo egli trattava ampiamente proprio questo principio. “Un principio che si basa sulla necessità di garantire la sovranità dello Stato e che individua tre poteri, i quali devono essere sempre attivi e ben indipendenti uno dall’altro, proprio per non permettere abusi di potere che danneggerebbero il normale funzionamento di uno Stato democratico”, scriveva l’autore di queste righe per il nostro lettore a fine ottobre 2023. Cercando di risalire alle origini storiche del principio, egli scriveva: “Il principio della separazione dei poteri era già noto dall’antichità, sia in Grecia che, in seguito, anche nella Roma antica. Un principio trattato da Platone, nella sua nota opera “La Repubblica” e da Aristotele, nella sua opera “La Politica”. Un principio che venne adottato anche nella Costituzione della Roma antica. Ma un trattamento dettagliato del principio della separazione dei poteri in uno Stato democratico è stato fatto secoli dopo. Prima da John Locke, nella sua opera “Due trattati sul governo”, pubblicata nel 1690, in seguito Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, dopo un lungo e impegnativo lavoro, durato per ben quattordici anni, pubblicò  nel 1748 un insieme di trentuno libri, raccolti in due volumi ed intitolato “Spirito delle leggi” (De l’esprit des lois; n.d.a.)”. E poi aggiungeva che “…Ovviamente Montesquieu, quando ha scritto la sua opera prendeva in considerazione l’organizzazione statale di quel tempo, tenendo presente soprattutto l’organizzazione statale nel Regno Unito e la sua Costituzione. Perciò affermava che il potere legislativo “…verrà affidato e al corpo dei nobili e al corpo che sarà scelto per rappresentare il popolo”. Invece, per quanto riguarda il potere esecutivo “…deve essere nelle mani d’un monarca, perché questa parte del governo, che ha bisogno quasi sempre d’una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che da parecchi”. Mentre, riferendosi al potere giudiziario, Montesquieu ribadiva che doveva essere rappresentato ed esercitato da “…giudici tratti temporaneamente dal popolo”. Il potere giudiziario dovrebbe, altresì, “…essere sottoposto solo alla legge, di cui deve riprodurre alla lettera i contenuti”. Secondo lui il potere giudiziario, doveva essere “la bouche de la lois” (la bocca della legge; n.d.a.)”. Così scriveva l’autore di queste righe per il nostro lettore (Anche il sistema della giustizia a servizio del regime; 30 ottobre 2023). È ormai ben noto il pensiero di Montesquieu, filosofo e giurista francese del Settecento, attuale anche adesso. Ed è ben nota una frase con la quale egli spiegava anche l’indispensabilità della separazione del potere esecutivo da quello legislativo e dal potere giudiziario. L’indispensabilità che quei tre poteri siano sempre indipendenti l’uno dall’altro. Montesquieu era convinto che “…Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti […]. Perché non si possa abusare del potere occorre che […] il potere arresti il potere”. Purtroppo attualmente sono non pochi coloro che, avendo del potere da esercitare, ne fanno uso ed abuso. Lo testimoniano fatti accaduti e che tuttora stanno accadendo in diversi Paesi del mondo, alcuni dei quali anche in Europa. Così come lo testimoniano inconfutabilmente, tra l’altro, anche gli studi e i rapporti ufficiali pubblicati da diverse istituzioni internazionali specializzate; compresa l‘Economist Intelligence Unit.

    Chi scrive queste righe ha valutato di fare e di condividere con il nostro lettore alcune doverose riflessioni in questo inizio anno. Egli, nel suo piccolo, continuerà a trattare questi argomenti anche in futuro. Chi scrive queste righe è convinto che ciascuno deve fare di tutto per sostenere i processi democratici. Ma, allo stesso tempo, deve contrastare qualsiasi tendenza che porta ad un regime autocratico. Perché verrà un giorno in cui ognuno deve rendere conto alla propria coscienza.

  • In attesa di Giustizia: il carcere è anche questo

    Con queste parole, la voce incrinata, il Direttore di San Vittore, meritatamente insignito dell’Ambrogino d’oro, ha congedato il pubblico esterno e i detenuti presenti per la tradizionale proiezione della Prima della Scala nella Rotonda dell’istituto penitenziario interrotta durante il secondo atto: un’impiccagione nel quinto reparto e chi conosce un po’ i movimenti del carcere aveva già capito l’allarme, le corse, l’agitazione.

    Un ennesimo suicidio che come ognuno ha ragioni proprie e va rispettato in quanto dramma unico e l’aggettivo “ennesimo” vale solo a sottolineare uno sgomentevole dato quantitativo: sessantasei da inizio anno, ma che contribuisce a farci sentire tutto il peso della attuale situazione delle carceri. Lo aveva detto proprio il Direttore parlando di una situazione drammatica con oltre mille detenuti che non rallentano l’impegno per andare avanti, continuando a credere in un lavoro di grande sacrificio e, ovviamente, nella necessità di portare dentro al carcere la società per momenti di riflessione. Un contributo in tal senso lo diede prima della pandemia proprio il Gruppo Toghe & Teglie, che cura in queste pagine la rubrica di cucina, con due cene aperte ad un pubblico esterno, nel giardino della sezione femminile, eventi dal titolo simbolico “A Tavola con la Speranza”.

    La contraddizione è esplosa in occasione di una ricorrenza in cui va tutto bene, o si finge che così sia, pur consapevoli – e soprattutto noi avvocati lo siamo – che dietro alle cancellate dei reparti ci sono  disperazione,  sovraffollamento,  materassi per dormire per terra, i blindi chiusi, la carenza di igiene, una vita invivibile che aggiungono pene a quella della privazione della libertà andando in senso opposto al progetto di rieducazione dei condannati che dovrebbe essere coltivato nell’interesse comune, nell’ottica di un recupero non solo di esseri umani ma di quella sicurezza che – a parole – sembra stare a cuore a tutti.

    Sessantasei vite umane, un atroce conteggio che non può essere liquidato come un arido bilancio consuntivo di fine anno quando è in conto l’esistenza di persone affidate alla cura di uno Stato che dovrebbe restituirle migliori alla collettività: un elenco che si allunga inesorabilmente, nell’indifferenza di governi che guardano al pianeta carcere con cinica indifferenza, spesso utilizzandolo come emblema di una recuperata incolumità dei cittadini nella salvifica funzione di discarica sociale meramente afflittiva.

    Ora vi è solo da augurarsi che questo evento drammatico, verificatosi in un momento particolare, sia in grado di scuotere le coscienze di chi continua a credere che le carceri possano essere stipate all’inverosimile, e non solo nell’interesse della popolazione detenuta in senso stretto.

    Infatti, oltre ai carcerati non si deve dimenticare tutto il personale, civile ed in divisa, tutti quelli che entrano in carcere anche solo per dare una mano, e che fanno sì che San Vittore – e come San Vittore tutti gli altri Istituti non uno escluso – ogni giorno stia in piedi, nonostante un destino avverso. La cosiddetta società civile dovrebbe mobilitarsi ed esserci, fare proposte in ogni occasione in cui si parli dei progetti positivi che in carcere malgrado tutto esistono, evitando che i penitenziari restino invisibili ai più: strutture lontane dagli occhi e dal pensiero di chi non se ne vuole occupare.

    Ed è a costoro che si deve ricordare che una detenzione dignitosa è un diritto e che devono essere attivati gli strumenti affinché condizioni disumane cessino e prima ancora che sia definitivamente abbandonata la visione carcerocentrica di una giustizia penale che guarda poco o nulla alla effettiva dissuasione e meno ancora al fattore rieducativo della pena proseguendo nello sterile percorso di affrontare ogni emergenza con l’introduzione di nuovi reati o inasprendo le pene per quelli già previsti mentre non si può continuare a fare finta di niente, non più.

  • Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli: il documentario italiano ‘Stai fermo lì’ riceve il Premio per la Pace dell’Ambasciata svizzera in Italia

    “Quello che mi rattrista maggiormente sono i ricordi delle persone trattenute in carcere, picchiate e torturate, anche per motivi futili come indossare i jeans o ascoltare la musica occidentale… i ricordi delle madri che aspettano i figli e disperate non sanno dove sono finiti. Una situazione che ancora oggi va avanti… E pensare invece che noi dovremmo essere fratelli, dovremmo condividere la felicità e tutti insieme proteggere la terra!”. Sono parole pronunciate da Babak Monazzami, giovane persiano, nel documentario Stai fermo lì che racconta una parte della sua vita. Il documentario ha ricevuto il Premio sulla Pace dell’Ambasciata Svizzera in Italia in occasione del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, giunto alla XV edizione, svoltosi nel capoluogo campano dal 15 al 25 novembre e intitolato, quest’anno, Diritti minori – I bambini alla guerra.

    A raccogliere e filmare i pensieri e i racconti di Babak è la giornalista Clementina Speranza, alla sua prima esperienza in veste di regista, che ha intitolato il documentario Stai fermo lì, come la canzone di Giusy Ferreri per cui Monazzami ha interpretato, durante il suo periodo milanese, un video musicale e che un po’ il leitmotiv della sua vita: da una parte scappa e dall’altra è costretto a rimanere fermo.

    Artista poliedrico Babak dipinge tele dai molteplici soggetti che compaiono anche nel documentario e una sua opera dedicata ai diritti umani, La sposa bambina, era presente anche in sala in occasione della proiezione alla quale ha partecipato con l’autrice del documentario. “Non è stato facile effettuare le riprese, l’emozione ha interrotto numerose volte il girato. Il ripercorrere i ricordi cruenti e tragici, o sentimentali, sui propri cari, impediva a Babak di proseguire”, afferma Clementina Speranza.  E aggiunge: “Obiettivo non è solo quello di risvegliare la coscienza del pubblico, ma anche di ricordare quale sia il prezzo che il silenzio può esigere. È un invito a non chiudere gli occhi verso chi è dovuto scappare dalla propria terra anche se mai l’avrebbe voluto”.

    Da tre anni l’Ambasciata di Svizzera collabora con il Festival dei Diritti umani istituendo il ‘Premio per la Pace’, valore che caratterizza fortemente il documentario Stai fermo lì, come sottolineato da Raffaella D’Errico, Console Onoraria di Svizzera in Campania: “Assegnando questo premio, l’Ambasciata di Svizzera intende mettere in evidenza come il rispetto dei diritti umani sia il presupposto necessario per ottenere una pace durevole. La difesa dei diritti umani deve andare al di là dei casi più noti ed eclatanti; ogni destino individuale vale la nostra attenzione”.

    Con quasi 50 conflitti, di cui due alle porte dell’Europa, e nel 75° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo il documentario Stai fermo lì racconta una storia tipica del nostro tempo. “E’ il frutto di una serie di guerre che l’Occidente ha dichiarato ai paesi Orientali lasciando poi irrisolti i problemi e creando nuovi e ulteriori problemi, non ai governi ma alle popolazioni indifese, e a chi fugge e viene perseguitato in tutto il mondo” – spiega Maurizio Del Bufalo, direttore artistico del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli. Proprio come nel caso di Babak, “un agente di pace, un mediatore culturale che viene perseguitato anche in Europa. Stiamo pagando le colpe di una cattiva gestione della pace mondiale. Questo premio per la pace – conclude Del Bufalo – vuole essere un premio a chi, nonostante le condizioni in cui il suo Paese si trovi, riesce a lavorare per la pace di tutti anche a costo di pagare per le conseguenze del suo coraggio”.

    In sala erano presenti Julie Meylan, Prima Segretaria dell’Ambasciata della Svizzera in Italia, Mariano Bruno, Console Onorario del Principato di Monaco, Segretario Generale del Corpo Consolare di Napoli; Francesca Giglio console Onoraria delle Filippine; Stefano Ducceschi, Console Onorario della Germania; Gianluca Eminente, console onorario dell’Islanda; Valentina Mazza, console onoraria del Kazakhstan; Maria Luisa Cusati, Console Onoraria del Portogallo; Jacopo Fronzoni Console Onorario della Slovenia.

  • Non c’è libertà quando non ci si può difendere

    Il suicidio del signor Alberto Re,  persona di 78 anni che nella vita aveva avuto equilibrio e successi,avvenuto  dopo essere stato aggredito via social dimostra, se ancora ce n’era bisogno, come non soltanto i più giovani possano avere la vita sconvolta, fino ad arrivare ad atti estremi, dalla violenza di chi usa la tastiera solo per fare del male e sopperire così alle proprie frustrazioni ed incompletezze.

    L’abbiamo detto, lo ripetiamo e lo ripeteremo: internet senza regole e senza gli strumenti per decodificare i messaggi diventa, da strumento utile e spesso necessario, il grimaldello per entrare nelle vite degli altri, per fare del male, per contrabbandare falsità come verità, per insegnare la crudeltà.

    Inutile manifestare contro la violenza alle donne, e sarebbe anche ora di manifestare contro la violenza tout court, se non affrontiamo come trovare il modo per impedire che messaggi sbagliati,esempi negativi, pericolosi, immagini violente e sanguinarie, giochi di morte passino continuamente sulla rete avvelenando la vita di troppe persone,specie adolescenti.

    Massimo Gramellini scrive “ci vorrebbe un giubbotto antisocial“, io sommessamente mi chiedo come sia possibile che tutti si sentano vivi solo se sono presenti  sui social esponendosi così, inutilmente, alle parole di rabbia e di odio che ormai imperversano,mettendo in piazza sentimenti, paure, incertezze, comunque visioni della propria intimità che in ogni momento possono diventare un boomerang

    Mi chiedo come non ci si renda conto che la violenza sta montando sempre di più mentre, in nome della libertà, è proprio la libertà ad essere offesa.

    Non può esistere la libertà di fare del male agli altri, non c’è libertà quando non hai possibilità di difesa.

  • In attesa di Giustizia: atto di dolore

    La violenza, irrispettosa di basilari garanzie e presidi normativi, della vicenda giudiziaria di cui si è offerta la cronaca la settimana scorsa, probabilmente ammorba ancora l’animo di chi ha avuto la pazienza di leggere l’articolo: uno dei troppi esempi di tracotanza riferibile a rappresentanti di quell’ordine giudiziario, trasformatosi in potere, che questa rubrica si fa un punto d’onore di andare ad illustrare per smuovere le coscienze raccogliendo e raccontando brandelli di storie di questo Paese, solo apparentemente minori, perché apparentemente isolate e meno conosciute.

    Del resto, questo è il Paese che da culla del diritto nel settore della Giustizia ha perso la faccia, come scrive Raffaelle della Valle nel suo splendido libro sul processo ad Enzo Tortora, e non solo in seguito a quello che si deve considerare un archetipo da non emulare con il suo eclatante catalogo di abusi.

    Questo è il Paese della rivoluzione giudiziaria, quella falsa ed incompleta, avviata dalla Procura di Milano nel 1992, ed è il Paese del “Sistema” svelato da Luca Palamara intervistato da Alessandro Sallusti. Lasciare traccia, più paradigmatica che esaustiva di certi accadimenti (oltre che di una legislazione arraffazzonata), è il compito che si è assegnato questo spazio periodico per impedire che quei “brandelli di storia” finiscano nel dimenticatoio nazionale pur essendo significativi di una realtà che non li vuole come fatti isolati.

    Vero è che si è persino pensato di istituire la giornata della memoria degli errori giudiziari (il 17 giugno, quando nel 1983 venne arrestato Tortora) ma in quest’attesa – che, forse risulterà a sua volta vana – suonano struggenti le parole del Consigliere Antonio Padalino, un magistrato della cui vicenda processuale e soperchierie connesse vi è traccia su queste colonne, al termine del personale calvario culminato con un’assoluzione. E’ un vero e proprio atto di dolore, da affidare alla memoria ed alla riflessione dei lettori, che descrive come ci sia un drammatico prima e dopo nella vita di chi incappa nelle maglie della giustizia.

    “Nonostante le sofferenze subìte sento però anche di dovere delle scuse,  esordisce Padalino.

    “In molte occasioni mi è capitato di sentire persone, magari indagate, dire di essere vittime di ingiustizie, di processi mal fatti, di gogne mediatiche, di persecuzioni.

    In tutte queste occasioni ho sempre pensato che si trattasse di lamentele pretestuose.

    Questo era il mio ragionamento: io lavoro in un certo modo, rispetto le regole, ottengo in modo corretto i miei risultati e non perseguito mai nessuno, quindi sarà certamente così per tutti i miei colleghi.

    Mi sbagliavo profondamente.

    Mi scuso di aver ignorato le vittime innocenti di questo sistema: indagati, imputati, gente comune o eccellente, colpiti dal maglio di una giustizia di parte, autoreferenziale e proiettata verso un delirio di onnipotenza e in grado di distruggere vite, professionalità e calpestare esseri umani, colpevoli solo di essere un facile e magari utile bersaglio, da umiliare e mettere alla berlina su giornali e media compiacenti.

    Non mi sono soffermato a riflettere sulle pericolose strade che il sistema aveva ormai imboccato, come il dominio delle correnti togate: grumi di potere che in questi ultimi anni hanno assunto il controllo assoluto della magistratura.

    Le correnti non risparmiano nessuno, anche all’interno dell’ufficio di appartenenza, dove le carriere del singolo sono spesso condizionate dall’appartenenza a un gruppo.

    Questo dominio incontrastato delle correnti ha portato al tradimento di princìpi che dovevano essere intangibili, al degenerare di un sistema, con devastanti danni per quel popolo italiano in nome del quale si celebra il rito della giustizia”.

    E non paga mai nessuno, anzi, paga lo Stato quando viene riconosciuto – non sempre – che un imputato è stato vittima di una ingiusta carcerazione preventiva: non pagano giudicanti frettolosi ed approssimativi, non pagano pubblici ministeri che assumono le vesti di angeli vendicatori, non pagano i confidenti delle redazioni che fanno filtrare, con una vasta gamma di intenzioni tutt’altro che nobili, atti che dovrebbero essere coperti dal segreto investigativo o, quantomeno, da un opportuno riserbo.

    Permane emblematica l’immagine di Enzo Tortora in manette tra due Carabinieri negli istanti subito successivi al suo arresto, sbattuta in prima pagina, trasmessa a reti unificate, come se fosse credibile che per una pura casualità, alle prime luci dell’alba, fotoreporter ed inviati della carta stampata e telegiornali si fossero convenuti senza una plausibile ragione, proprio alle porte dell’albergo romano ove il presentatore alloggiava e proprio quella volta che doveva essere messo ai ceppi. Un’operazione scientificamente mirata a far diventare gli inquirenti personaggi noti all’opinione pubblica (se mai le accuse fossero risultate provate) pronti ad incarcerare e far processare persino l’uomo il cui programma inchiodava ogni volta davanti al piccolo schermo quasi trenta milioni di italiani. Cavalieri senza macchia e senza paura dai quali sentirsi tutelati perché non guardano in faccia a nessuno…e nessuno ha avuto il benchè minimo rallentamento di carriera sebbene il loro contributo si sia risolto – appunto – nel far perdere la faccia non solo alla magistratura ma all’Italia intera.

    Grazie, allora, al Consigliere Padalino per il suo atto di dolore, per le sue parole intrise di umanità e sincera comprensione: vox clamans in desertu, quasi un mantra da inserire tra le materie di studio per il concorso in magistratura e memorizzare nella consapevolezza, purtroppo, che quell’insegnamento potrà essere vanificato dai tanti, troppi, cattivi maestri.

  • 25 novembre, quando Giulia diviene il simbolo di tutte le donne che hanno subito violenza

    Silenzio per Giulia

    Rumore per Giulia

    Azioni per Giulia

    Azioni, non più soltanto parole, più o meno pie intenzioni, strumentalizzazioni e confusioni tra posizioni ideologiche e partitiche, tra violenze diverse.

    Azioni per riportarci tutti ad una presa di coscienza, ad un impegno che deve essere personale per poter diventare collettivo.

    Nelle nostre famiglie,nei percorsi educativi e formativi, nella comunicazione mediale,nell’attività lavorativa, nell’azione politica, nello sport e nelle varie forme artistiche, nella costruzione di rapporti con gli altri bandire la violenza contro le donne, e contro i bambini, diventi, per ciascuno, l’impegno quotidiano, solo così la società cambierà.

    La strada è lunga ma ora, forse, in molti hanno cominciato il cammino

  • L’UE proroga la durata del piano d’azione sulla parità di genere

    Nel 2021-2022, durante i primi anni di attuazione del nuovo piano d’azione dell’UE sulla parità di genere (GAP III), l’Unione europea ha impegnato 22,4 miliardi di € per contribuire a costruire un mondo più equo sotto il profilo della parità di genere.

    Secondo quanto risulta dalla relazione intermedia comune della Commissione europea e del Servizio europeo per l’azione esterna sull’attuazione del piano d’azione dell’UE sulla parità di genere (GAP III) appena pubblicata, nel periodo 2021-2022, durante i primi anni di attuazione del GAP III, l’Unione europea ha impegnato 22,4 miliardi di € per contribuire alla costruzione di un mondo più equo sotto il profilo della parità di genere. L’UE ha sostenuto i paesi partner e la società civile nel miglioramento della parità di genere, con risultati trasformativi, tra cui un’aumentata protezione delle donne e delle ragazze dalla violenza di genere, una più nutrita partecipazione alla vita pubblica e politica, un maggiore accesso all’istruzione, alla sanità e alla protezione sociale e all’emancipazione economica nell’ambito dell’approccio Team Europa.

    Al fine di consolidare questi risultati, l’UE proroga la durata del piano d’azione sulla parità di genere dal 2025 al 2027 per conseguire l’obiettivo di un mondo equo sotto il profilo della parità di genere.

    In molte parti del mondo, i diritti delle donne e delle ragazze sono stati minacciati, ridotti o completamente eliminati, e ciò ha rappresentato un considerevole passo indietro rispetto ai significativi progressi ottenuti nel corso di decenni. Fin dalla sua adozione nel novembre 2020, il piano d’azione sulla parità di genere III ha pertanto messo i diritti umani e l’emancipazione, in particolare per le donne e le ragazze, in cima all’agenda di azioni esterne dell’UE, in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile e con altri impegni internazionali.

    Nel 2022 la parità di genere è stata all’ordine del giorno dei dialoghi politici, sulla sicurezza e/o sui diritti umani tra l’UE e circa 100 paesi partner. Con 33 di questi paesi i dialoghi si sono concentrati esclusivamente sulla parità di genere. Inoltre, le delegazioni dell’UE hanno elaborato 131 piani di attuazione a livello nazionale che adattano il piano d’azione sulla parità di genere al contesto locale, rafforzando l’approccio Team Europa dell’UE e dei suoi Stati membri.

    A livello mondiale, l’UE e i suoi Stati membri hanno collaborato a risoluzioni delle Nazioni Unite per combattere la violenza contro le donne, contribuito alla Commissione delle Nazioni unite sulla condizione femminile, incentivato la partecipazione politica e civile di donne e ragazze, potenziato il sostegno alle organizzazioni per i diritti delle donne e promosso le prospettive di genere nei processi decisionali in materia di clima e di digitale. Nel contesto degli allarmanti cambiamenti per quanto riguarda la sicurezza e i conflitti e della concorrenza per il potere a livello geopolitico, l’attuazione dell’agenda su donne, pace e sicurezza e l’impegno a integrare la prospettiva di genere nel rispondere efficacemente a tali minacce alla sicurezza sono sempre più importanti.

  • Un autocrate irresponsabile ed altri che ne approfittano

    L’abuso è il contrassegno del possesso e del potere.

    Paul Valéry, da “Quaderni”

    La scorsa settimana l’autore di queste righe informava il nostro lettore sull’accordo, tra l’Italia e l’Albania, sui migranti. Un accordo firmato a Roma, nel pomeriggio del 6 novembre scorso, dai due primi ministri dei rispettivi Paesi. I due, negli ultimi mesi, hanno affermato pubblicamente la loro “amicizia”, nonostante, politicamente parlando, appartengano a due schieramenti politici ed ideologici molto diversi. La Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia appartiene ad un partito di destra ed è anche la Presidente del Partito europeo dei Conservatori e dei Riformisti. Invece, sulla carta, il primo ministro albanese è il dirigente del partito socialista albanese, costituito nel giugno 1991, dopo il crollo della dittatura comunista. Un partito discendente diretto del partito comunista albanese! La Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia, oltre ad essere stata dirigente di alcuni movimenti giovanili di centro destra e di destra, è anche una dei tre promotori del partito “Fratelli d’Italia”, costituito nel 2012 e del quale lei è presidente dal marzo 2014. Un partito nato più di un anno prima della scissione del raggruppamento politico “Popolo della Libertà”, nel quale svolgevano le loro attività politiche i tre fondatori del partito “Fratelli d’Italia”. Ragion per cui la presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia ha fatto sua l’ideologia del conservatorismo, dell’identità e della cultura nazionale.

    Mentre il suo “amico”, il primo ministro albanese, nonostante diriga dal 2005 il partito socialista albanese, che è anche membro del gruppo dei socialdemocratici e progressisti del Parlamento europeo, ha dimostrato di non avere fatta sua, a fatti e non a parole, l’ideologia dei socialisti europei. Fatti accaduti alla mano, il primo ministro albanese risulta non avere però fatta sua l’ideologia della sinistra europea. Lui non ha una sua ideologia politica. Lui, quando gli serve si presenta come un socialista convinto. Ma, se ne ha bisogno, “coccola’ i comunisti nostalgici. E lo ha fatto non di rado. Come ha anche presentato delle “iniziative” centriste e anche oltre. Il primo ministro albanese aveva dichiarato, per motivi di propaganda elettorale, già circa quindici anni fa, di non essere né di sinistra e né di destra, bensì di essere “oltre la sinistra e la destra”. Una scelta con la quale voleva apparire come sostenitore delle tesi ideologiche del movimento noto come la “Terza via”. Un movimento che aveva fatto suo lo schieramento tra il neoliberalismo e la socialdemocrazia. E non a caso, dal 2013, e cioè da quando ha avuto il suo primo mandato alla guida del governo albanese, lui ha scelto come suo “amico e consigliere speciale” proprio l’ex premier britannico, uno tra i più noti sostenitori del movimento della “Terza via”. E non a caso, anche da prima, lui è stato tra i “beniamini” ed ha avuto sempre il supporto di un noto multimiliardario e speculatore di borsa di oltreoceano. Il primo ministro albanese è stato ispirato in quanto ha fatto, ma soprattutto in quello che sta facendo ultimamente, anche dal dittatore comunista albanese, scegliendolo come uno dei suoi “dirigenti spirituali”! Ma, fatti accaduti e documentati alla mano, il primo ministro albanese non ha altra ideologia che quella degli “interessi”, soprattutto quelli materiali. E lui fa di tutto per raggiungere i suoi interessi. Da sempre è, altresì, preda del suo narcisismo e/o del suo egotismo. Il primo ministro albanese può allearsi con tutti coloro che gli somigliano, dando così ragione alla saggezza secolare dell’essere umano, concentrata nel noto detto latino similes cum similibus congregantur (I simili si accompagnano con i propri simili; n.d.a.). Il primo ministro gestisce un clan occulto che non ha niente a che fare con un partito politico. Lui non dirige il partito socialista albanese e perciò, men che meno, rappresenta l’ideologia dei socialisti europei. Lui usa e beneficia politicamente di quello che ormai si chiama il partito socialista albanese. Lui sì, sempre fatti accaduti, documentati, testimoniati e denunciati alla mano, da anni ormai collabora strettamente con la criminalità organizzata e con determinati raggruppamenti occulti internazionali. Insieme a loro, il primo ministro albanese, gestisce la nuova dittatura sui generis restaurata da alcuni anni in Albania. Una dittatura in continuo consolidamento, di cui in nostro lettore è stato informato spesso e con la dovuta e richiesta oggettività.

    Ebbene, nonostante la Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia ed il suo “amico”, il primo ministro albanese sono ben distanti, come schieramento politico, loro però da alcuni mesi ormai si intendono a vicenda. Ma anche passano alcuni giorni di gioiose ed “utili” vacanze estive insieme. Il nostro lettore è stato informato del fatto che la Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia, insieme con la sua famiglia, è stata ospite del primo ministro albanese in riva al mare Ionio dal 14 al 17 agosto scorso. Hanno passato insieme anche il Ferragosto. L’autore di queste righe scriveva che “….All’inizio della scorsa settimana la presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia ha interrotto le sue vacanze in Puglia per andare in “visita privata” in Albania, ospite del suo “amico” il primo ministro albanese. Insieme con la sua famiglia hanno lasciato la masseria di Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi, alla vigilia di Ferragosto, per andare ospiti dal nuovo “amico” albanese”. E poi egli aggiungeva : “…guarda caso, proprio nello stesso periodo, ospiti del primo ministro albanese erano anche l’ex primo ministro dell Regno Unito, Tony Blair, con sua moglie. Non si sa però se è stato un caso che due attuali primi ministri ed un ex primo ministro si trovassero nello stesso periodo e nello stesso posto, nella residenza governativa in riva alle coste ioniche dell’Albania”. Il nostro lettore è stato informato anche delle lusinghe dell’anfitrione nei confronti della sua illustre ospite. “Proprio il 12 agosto scorso, due giorni prima dell’arrivo della sua omologa italiana, la “tigre”, la sua “sorella Giorgia”, il primo ministro albanese ha dichiarato ad un media italiano che “nella scena internazionale Giorgia ha sorpreso tutti e alla grande, direi, perché si aspettavano un mostro fascista che avrebbe marciato sull’Europa e si sono trovati davanti una donna con una abilità mostruosa nel comunicare da grande europeista, senza sbagliarne una”. Il primo ministro albanese ha poi aggiunto, da buon leccapiedi qual è, che “Giorgia è incredibile. Possiamo dire che è nata un’amicizia. Ma soprattutto, che lei è una politica concreta, altro che pericolo fascista”. L’autore di queste righe informava, altresì, il nostro lettore che “…non è mancata neanche la risposta della sua illustre ospite che, dopo il ritorno in Italia, ha scritto: “Grazie per avermi ospitata nella vostra terra e per la calorosa accoglienza ricevuta Edi. Ti aspetto in Italia!” (Una visita dall’‘amico’ autocrate che doveva essere evitata; 23 agosto 2023).

    Da quanto hanno poi dichiarato in seguito, la scorsa settimana, sia la presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia che il primo ministro albanese, durante quei giorni di vacanze comuni, è stato concordato anche l’accordo sui migranti. Proprio quell’accordo che è stato firmato tra i due il 6 novembre scorso a Roma. L’autore di queste righe scriveva la scorsa settimana per il nostro lettore che: “…Secondo quell’accordo l’Italia potrà beneficiare dei territori in Albania per organizzare e gestire due campi dove arriveranno circa 36.000 profughi all’anno per almeno cinque anni! Profughi di quelli che l’Italia non vuole e/o può tenere. Si tratta di quei profughi che le massime autorità italiane, soprattutto il primo ministro, non sono state in grado di distribuire negli altri Paesi membri dell’Unione europea. Profughi che l’Italia non ha potuto, nonostante un accordo firmato recentemente con la Tunisia, fermare per arrivare sulle coste italiane”. Chissà perché? Ed in seguito aggiungeva che fortunatamente la presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia “…ha un “caro amico” in Albania, il primo ministro albanese. Lui ha firmato subito il sopracitato accordo. Lui, un irresponsabile autocrate ha accettato la proposta. Mentre l’omologa italiana ha potuto, almeno sulla carta, curare gli interessi del suo Paese” (Un autocrate irresponsabile e altri che seguono i propri interessi; 14 novembre 2023).

    L’accordo firmato il 6 novembre scorso dalla Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia ed il suo omologo albanese è stato reso pubblico in seguito. Ci sono state subito delle forti reazioni, sia in Italia che in Albania. In più è risultato che di quell’accordo le istituzioni dell’Unione europea, di cui l’Italia è uno dei sei primi membri fondatori, sono state informate soltanto poche ore prima della sottoscrizione. Mentre in Albania nessuno, tranne qualche stretto collaboratore del primo ministro, era stato informato. Ovviamente il primo ministro albanese aveva violato la Costituzione della Repubblica d’Albania, con la sua totale mancanza di trasparenza e le mancate consultazioni istituzionali, prima che venisse firmato l’accordo come sancisce la Costituzione. Perché si tratta di un accordo che prevede anche la messa a disposizione dei territori albanesi all’Italia. Ma questo modo di agire del primo ministro albanese, da anni ormai, è diventato una “cosa normale”!

    L’accordo tra l’Italia e l’Albania sui migranti, sintetizzato in un Protocollo d’intesa di quattordici articoli, è valido per cinque anni, rinnovabili di altri cinque, se necessario. In base all’accordo, nel territorio albanese verranno allestiti due campi dove saranno sistemati i profughi. È stato previsto e sancito che il diritto di difesa verrà assicurato da avvocati, organizzazioni internazionali e strutture specializzate dell’Unione europea che avranno libero accesso nei campi e che potranno prestare la necessaria consulenza ed assistenza ai migranti che possano aver bisogno di chiedere protezione internazionale, nei limiti della legislazione italiana, europea ed albanese. L’accordo sancisce anche che i due campi verranno gestiti dall’Italia, in base alle leggi e le normative italiane ed europee. Mentre nel caso di controversie sarà valida solo la legislazione italiana in vigore. In quell’accordo si sanciscono anche altre prerogative particolari. Per la presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia, il sopracitato accordo sui migranti può diventare …un modello di collaborazione tra Paesi Ue e Paesi extra-Ue sul fronte della gestione dei flussi migratori”. Lei ha affermato, l’indomani della firma dell’accordo, che si tratta di un’intesa “…che rafforza il partenariato strategico tra Italia e Albania e si pone sostanzialmente tre obiettivi: contrastare il traffico di esseri umani, prevenire i flussi migratori irregolari e accogliere in Europa solo chi ha davvero diritto alla protezione internazionale”. Il primo ministro albanese, invece, ha considerato l’accordo come un atto dovuto, dopo quello che l’Italia ha fatto per i profughi albanesi nel 1991. Proprio lui che solo due anni fa, ed esattamente il 18 novembre 2021, dichiarava convinto e perentorio che “L’Albania non sarà mai un Paese dove paesi molto ricchi possano creare campi per i loro rifugiati. Mai!”.

    Leggendo però il testo del Protocollo d’intesa, risulterebbe che ci sono diverse serie violazioni delle leggi in vigore nei due rispettivi Paesi firmatari, delle normative dell’Unione europea, nonché delle convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo e dei migranti. Si tratta di violazioni che vengono evidenziate da molti noti specialisti di giurisprudenza, sia in Italia che in Albania. Violazioni che sono state evidenziate, altresì, da specialisti di giurisprudenza di altri Paesi e da alcuni rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea. Anche la decisione della scorsa settimana, presa dalla Corte Suprema del Regno Unito contro la decisione del governo britannico sul trasferimento dei profughi in Ruanda, ne è un’altra conferma di simili violazioni.

    Chi scrive queste righe è convinto che il comportamento del primo ministro albanese e le decisioni da lui prese senza la minima obbligatoria trasparenza, sono tipiche di un autocrate irresponsabile. Mentre altri ne approfittano per risolvere le loro problematiche, dopo aver fallito in precedenza con diversi Paesi, compresi alcuni dell’Unione europea. Aveva ragione Paul Valéry, l’abuso è il contrassegno del possesso e del potere. Ed il primo ministro albanese ne ha usurpato tanto di potere.

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