In carcere si muore, non solo dandosi la morte da sé: si muore anche di burocrazia, di udienze che vengono rinviate perché manca una notifica, si muore perché il servizio sanitario è lento in maniera esponenziale a soddisfare le esigenze terapeutiche dei detenuti: lo è per coloro che sono liberi, figuratevi per quella popolazione carceraria che viene sempre più vista come semplice carne da cannone.
Scrivo solo poche righe questa settimana, il resto del lo lascio ad un avvocato che ha scritto una lettera struggente ad un suo assistito morto in detenzione domiciliare perché l’evidenza di un male inesorabile non è stata sufficiente per sospendere l’esecuzione ed avere trattamenti più adeguati e continui. Ma forse è stato meglio così, ora quell’uomo è finalmente libero.
Un orologio.
Me lo hai donato una settimana fa.
Ho fatto in tempo a salutarti.
A vedere un uomo di 72 anni divorato da quello che, per pudore, paura o vigliaccheria, non si vuol chiamare un cancro di merda.
Un orologio ha segnato la tua fine. Oggi.
48 chili. Quasi non ti avevo riconosciuto.
Ma Claudio, che ormai la privacy può fottersi, oltre che un essere umano, era un mio assistito.
Claudio che 10 anni fa, al primo colloquio in carcere, mi disse “ma te sei un regazzino!”
E forse lo ero pure sette giorni fa. Per quell’uomo che ha trascorso quasi 30 anni senza libertà: la metà della vita.
Claudio sbattuto tra carcere e casa. Ma non ancora libero. Ora forse sì.
Claudio, una scuola di diritto.
Uno sguardo verso quel mondo che questo ragazzino ha imparato anche grazie a lui.
Claudio, che il carcere lo conosceva.
Che conosceva anche quel mondo fuori dalle regole.
Che non riconosceva i “delinquenti de oggi, senza valori. Che ammazzeno in quattro un regazzino. Non avranno vita semplice in carcere”.
Claudio che a ‘sto regazzino, lo ha sempre rispettato per l’avvocato che sono.
Che quando esagerava, chiedeva subito scusa.
Claudio che scorsa settimana si chiedeva come poteva succedere che con 48 chili avesse ancora la detenzione domiciliare.
Ed io a quei giudici, un paio di giorni prima lo dissi. Per beccarmi un rinvio a ottobre. Con cui ormai farò poco.
Claudio che voleva morire libero.
E gli volevo bene a quell’uomo d’altri tempi.
A quel romano che sembrava uscito da una poesia di Trilussa.
Che metteva le “e” nei verbi, come i vecchi romani.
Conserverò quel dono con il ricordo di un uomo, in fondo, buono. Perché lo era. Che non aveva mai ucciso o fatto male a nessuno.
Sono triste, ma sereno che almeno ora é libero.
Da una giustizia a tratti farraginosa. Da un male bastardo.
Ciao Claudio.
T’ho voluto bene. Ora posso dirlo.
Riposa in pace.
Ivan. Il regazzino. Il tuo Avvocato.
In queste righe, in queste parole c’è tutta l’empatia di cui sa essere portatore chi non si limita a fare la professione di avvocato ma è Difensore nel profondo: nel profondo di un animo sensibile e tormentato perché la vita lo ha sottoposto a prove durissime come quello di Ivan Vaccari che deve essere un esempio perchè sa mettere in primo piano quell’essere fragile e tragico che è l’uomo, che difende l’uomo e non il reato che gli viene attribuito; Ivan Vaccari che è capace di provare e di trasferire quella pietas che esprime l’insieme dei doveri che si hanno verso gli altri uomini ma troppo spesso è dimenticata per quegli ultimi che sono solo “carne da cannone”.