diritto

  • Giovani, inclusione, Milano capitale delle professioni

    “Il futuro dell’Avvocatura è anche quello della Giustizia per la irrinunciabile funzione di difesa dei diritti dei cittadini”. E’ quanto si legge nel programma della lista “Diritti al Futuro” che si presenta a Milano alle prossime elezioni per il rinnovo dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati che si svolgeranno, n tutta Italia, il 7, 8 e 9 febbraio. Per conoscere nel dettaglio la loro proposta abbiamo intervistato l’avv. Manuel Sarno, autore della nostra rubrica ‘In attesa di Giustizia’, che è  tra i 16 candidati della lista.

    Avvocato, il vostro programma parte dai giovani, e ve ne sono tanti che ogni anno si avviano alla professione forense, e dalle opportunità da fornire loro. Quali sono e come sarà possibile realizzarle?

    La stessa scelta del nome “Diritti al Futuro” oltre ad alludere all’evoluzione del diritto e della legislazione, di cui un Consiglio dell’Ordine si deve occupare anche in termini contributo al dibattito politico sulle riforme e di offerta formativa per gli avvocati, sottintende la centrale vocazione a sostenere le fasce più giovani della classe forense che affrontano la professione in un periodo di grande crisi e competitività di un settore che annovera circa un terzo degli avvocati complessivamente esercenti in tutta la UE.

    Ai più giovani è dovuto il trasferimento di esperienza, la effettività di una  guida durante la pratica ed, in seguito, offerta l’opportunità di crescere. Diritti al Futuro, nel suo programma, prevede tra le altre cose di dar loro supporto economico  mediante una tendenziale gratuità della formazione continua, la possibilità di ottenere un “prestito d’onore” garantito dall’Ordine per avviare attività in proprio ed anche la eliminazione della tassa annuale di iscrizione per coloro che non raggiungano determinate soglie di reddito.

    Proponete Milano come capitale europea delle professioni. Che vuol dire?

    Il sogno nel cassetto, per il quale vi è un progetto realizzabile anche grazie al ricorso a fondi comunitari, è quello della creazione a Milano di una “Casa dell’Avvocatura e delle Professioni”: un vero e proprio edificio che sia non solo una sede con spazi attrezzati e disponibili temporaneamente per i professionisti in trasferta per motivi di lavoro da altre città d’Italia e di Europa ma  per loro un vero e proprio punto di riferimento, incontro e confronto di respiro europeo volto a dare sempre più centralità e standing internazionale alla Milano dell’EXPO e delle Olimpiadi, così facendo anche opera di crescita culturale e condivisione di esperienze e tradizioni.

    Puntate ad un Ordine inclusivo e sostenibile, parole che ascoltiamo di frequente ormai…

    Noi siamo ciò che siamo stati, i valori di cui siamo portatori dopo anni  di professione devono essere lo spunto per guardare ad un domani in cui non si riconoscano più diversità di qualsiasi natura: all’interno dell’Ordine degli Avvocati per prima cosa e come esempio per la società, assumendo un ruolo guida anche rispetto al tema della sostenibilità intesa da ogni punto di vista. Gli avvocati hanno il dovere di fare cultura, di impegnarsi nel sociale e di farlo ogni giorno: è nel loro DNA, è un modi di difendere anche questo.

    Per cominciare, in maniera emblematica, abbiamo scelto di candidare sedici colleghi equamente divisi: otto donne e otto uomini, con buona pace delle quote rosa perché guardiamo avanti, superando di slancio indicazioni normative di rispetto della rappresentatività, guardiamo al futuro, ad un futuro in cui non sarà più necessario guardare ad un  disposto di legge o parlare di inclusione se non ad un qualcosa che è già stato realizzato.

  • In attesa di Giustizia: comici involontari

    Uno dei più subdoli principi su cui fondare la responsabilità degli accusati fu teorizzato ai tempi di Mani Pulite e da allora largamente condiviso e applicato: soprattutto in presenza di qualcuno da condannare a tutti i costi pur senza avere uno straccio di prova.

    Qualcosa, tuttavia, sembra stia cambiando: la Procura di Latina indaga sulle presunte malefatte di una cooperativa i cui amministratori avrebbero malversato fondi pubblici, golosamente intascati invece di distribuirli come salario ai dipendenti ed impiegarli a vario titolo per la corretta gestione della attività. Del dovuto riserbo e del rispetto del segreto istruttorio neanche a parlarne, e fin qui niente di nuovo: di questo aspetto dovremo riparlare.

    La grande novità cui si deve plaudire è  proprio il superamento in questo caso del principio del “non poteva non sapere” a vantaggio di uno stivalato difensore dei braccianti, dei poveri e degli oppressi sebbene sia legato da strettissimi vincoli con le indagate principali che, non solo lo lascia indenne da informazioni di garanzia (e di ciò, nel rispetto delle regole, vi è da compiacersi), ma provoca alternati sussulti di inatteso garantismo da parte di quella sinistra che vi aveva abdicato ab immemorabile. Bene ma non benissimo posto che l’autodifesa – di avvocati per ora sembra non esserci bisogno – non si è basata sulla strenua negazione dell’illegalità ma sulla assoluta inconsapevolezza di quanto pare accadesse all’interno dei componenti dello stato di famiglia ed è culminata con la illustrazione di un diritto che, sino ad ora, non risulta canonizzato né da codici né da pensatori illuminati e progressisti come – tanto per citarne uno –  Martin Luther King: il diritto all’eleganza. Insomma, la moglie di Cesare è un modello al di sopra di ogni sospetto che non conosce oblio e c’è chi tra lacrimevoli sfoghi riesce a regalare momenti di involontaria comicità.

    Questa settimana, poi, il Ministro della Giustizia ha osato preannunciare lo stimolo ad alcune riforme di matrice apertamente liberale subito intese come una dichiarazione di guerra alla magistratura, risultando in particolare intollerabili le affermazioni a proposito di separazione delle carriere tra giudicanti ed inquirenti e buon governo dello strumento delle intercettazioni.

    L’indomita reazione è stata affidata – tra i primi – al Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati il quale ha pianto per le bestemmie alla Costituzione uscite dalla bocca del Guardasigilli, dimenticando che – sia pure timidamente ma in maniera chiara – la nostra Carta fondamentale all’articolo 107 già delinea la netta distinzione tra Giudici e P.M.;  per non farsi mancare nulla, a proposito di intercettazioni, ha ricordato che una legge intesa a regolarne la pubblicità e punire chi ne fa oggetto di indebita divulgazione. Peccato che abbia omesso di rilevare che i casi di indagine e condanna per questo illecito uso di materiale investigativo siano statisticamente irrilevanti: un’altra pièce comica che si risolve in straordinario assist per un finale da avanspettacolo con Macario affidato al Direttore del quotidiano che, non a caso, ha come azionisti di riferimento proprio un comico in pensione oltra ad un impomatato leguleio.

    Tuona Marco Travaglio, dalle colonne de Il Fatto Quotidiano, chiama alle armi il popolo dei giusti e degli onesti per fronteggiare con adeguata durezza e la proverbiale profondità di pensiero qualsivoglia iniziativa intesa a stravolgere le riforme volute dal migliore Ministro della Giustizia degli ultimi trent’anni nei cui confronti si è consumato l’estremo oltraggio…e chi sarà mai? Claudio Martelli, Giovanni Conso? Nossignori: Alfonsino Bonafede, e non siamo su scherzi a parte.

    Con ciò, il buonumore accompagnerà tutti nelle prossime Festività.

  • In attesa di Giustizia: No Martini, No Party

    Bisogna ammettere che, come esordio del Governo in materia di giustizia, c’era da aspettarsi di meglio: trascurando per questioni di spazio oltre che di complessità tecnico giuridica quanto deciso circa il rinvio della entrata in vigore della “Riforma Cartabia”, stretta nella morsa tra impreparazione degli Uffici Giudiziari a mandarla a regime ed il rispetto dei tempi per conseguire i fondi del PNRR, ed i limiti da porre all’ergastolo ostativo, è il decreto anti rave party che merita commento fatta la premessa maggiore che, curiosamente ma non troppo, proviene dal Ministero dell’Interno e non da quello della Giustizia e sembra proprio scritto da uno di quei questurini di altri tempi che facevano carriera nell’Ufficio Affari Riservati.

    Tecnica redazionale ed impiego della lingua italiana a parte, una norma che preveda come reato «l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica e la salute pubblica consiste nella invasione arbitraria di terreni … allo scopo di organizzare un raduno quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica» è il trionfo delle ovvietà inutili. Inutili anche perché esistono già altre figure di reato applicabili ed aderenti all’ipotesi concreta di un rave party e soprattutto per il motivo che così come descritte le condotte rimproverabili sono pericolosamente generiche e sottratte al principio costituzionale di tassatività della norma. Tanto è vero che si è dovuti subito intervenire offrendo una prima interpretazione (il decreto è legge in vigore fino ad avvenuta conversione o mancata tale nel termine previsto) che tranquillizzi gli organizzatori di addii al celibato, autorizzi contests di barbecue all’aperto, consenta la celebrazione delle sagre di paese con somministrazione di vini sfusi e salamelle artigianali. Chissà, poi, a chi e come spetterà il compito di attestare il numero dei partecipanti (che, per integrare il nuovo crimine, non devono essere inferiori a 50) da cui, pure, dipende l’illegalità degli eventi verbalizzando il conteggio e distinguendoli da eventuali passanti o curiosi, umarell, come si dice a Milano,…o magari agenti sotto copertura della narcotici.

    Non è finita: questo nuovo reato viene addirittura fatto rientrare nel catalogo di quelli previsti nel codice antimafia ai fini della applicabilità di misure di prevenzione personale: il che, tradotto, significa che ad un rave party è riconosciuto il potenziale genetico dello stesso allarme sociale di una cosca mafiosa, di una associazione finalizzata alla tratta di esseri umani o di un sequestro di persona a scopo di estorsione.

    Vedremo che destino avrà il decreto in sede di dibattito parlamentare mentre già si levano i primi mea culpa insieme ad auspici e promesse che venga migliorato in Aula. Non sarebbe male se ciò avvenisse metabolizzando il canone costituzionale che all’articolo 17 sancisce la libertà di riunione dei cittadini, e che limita il potere di veto da parte dello Stato, previo avviso dell’evento all’Autorità, esclusivamente a “comprovati motivi di sicurezza ed incolumità pubblica” che sono cosa ben diversa dai motivi di “ordine pubblico”: categoria giuridicamente molto più ampia della “sicurezza pubblica”.

    Detta tutta, quei raduni, di cui generalmente si ha notizia anticipata, sono l’apoteosi della illegalità, durante i quali accade di tutto a prescindere dalla occupazione abusiva di terreni e luoghi: spaccio di droga, mescita di alcolici ai minorenni, violenze di varia natura. Cose che succedono – tra l’altro e quotidianamente – nelle zone della “movida” di città grandi e piccole e rispetto alle quali è necessaria innanzitutto la prevenzione, questa sì affidata alle Forze dell’Ordine con gli strumenti di cui già dispongono e quale che sia il contesto in cui si registrano situazioni simili.

    Iniziare meglio era sicuramente più facile che partorire un esempio di muscolare sciatteria normativa insensibile ai limiti costituzionali: e quanto all’arsenale punitivo è più che bastevole quello già esistente, nel caso con qualche minimo ritocco evitando di arricchire il codice penale con un reato da sbirri da operetta alla cui formula manca solo la causa di non punibilità per chi si presenti senza una bottiglia di spumante da condividere: no Martini? No rave party.

  • In attesa di Giustizia: sequel

    Questa settimana – non diversamente dalle altre – c’è stato solo l’imbarazzo della scelta circa l’argomento da trattare in questa rubrica; alla fine “in concorso” sono rimaste due vicende: la prima è quella di una donna condannata e incarcerata (ed è tutt’ora in galera, a Roma in attesa di una soluzione) per un reato prescritto da anni al momento della pronuncia della sentenza. Vicenda che, senza entrare nei dettagli, è sufficiente commentare “complimentandosi” con il P.M., il giudice, il Sostituto Procuratore Generale che ha posto il visto sulla decisione e – naturalmente – anche con il difensore per avere offerto un rarissimo (per fortuna) esempio di corale e fatale disattenzione (o ignoranza anche di banali nozioni aritmetiche?).

    La seconda, è stata prescelta perché è lo squallido sequel da B movie di una storia già raccontata tempo fa su queste colonne ed anche del più recente commento alla giustizia disciplinare “domestica” – e addomesticata – del C.S.M. Qualcuno, forse, ricorderà questo racconto di quanto accaduto al Tribunale di Asti dove si celebrava un processo per violenza sessuale di un padre sulla figlia, con la madre accusata di non averlo impedito: giunti alla conclusione e data la parola alle parti, discussero il PM, chiedendo una pena molto severa  ed i due difensori della madre, rinviandosi ad altra udienza per sentire quello del padre.

    Tuttavia, alla udienza successiva, il Tribunale entrò in aula per leggere direttamente il dispositivo di condanna degli imputati ad 11 anni di reclusione. Gli avvocati presenti e lo stesso P.M. fecero notare che il difensore del secondo (e principale) imputato non aveva mai discusso ed il Presidente, dettosi dispiaciuto dell’incidente, con impeccabile nonchalanche accartocciò il foglio contenente il dispositivo appena pronunciato per dare la parola all’ultimo difensore. Quest’ultimo,  ovviamente,  oppose un rifiuto, rilevando l’abnormità di quanto accaduto. Il Tribunale, che tanto aveva già deciso, depositò egualmente la sentenza, che ovviamente non potrà che essere annullata dalla Corte di Appello (con comodo, eh! Stiamo aspettando solo da un paio di anni).

    Questo scempio finì, comunque, al CSM e si apprende da notizie di stampa di questi giorni che si è concluso il procedimento disciplinare con la sanzione della censura, per di più – e il mistero si infittisce- nei riguardi del solo Presidente; prosciolti gli altri due giudici.

    Non è ancora nota la motivazione della bizzarra (è un eufemismo) decisione ma non può farsi a meno di rilevare che la censura è poco più di una tirata di orecchie che staglia impietosamente la considerazione che il CSM nutre delle questioni di principio messe in discussione.

    Questioni delicatissime: è inaccettabile che tre giudici abbiano potuto ritirarsi in camera di consiglio, discutere tra di loro della fondatezza dell’accusa condannando un imputato ad undici anni di reclusione senza averne mai ascoltato l’unico difensore.

    Una sola è la spiegazione dell’accaduto: totale indifferenza di quel Tribunale (dunque di tre giudici, non uno solo) alle argomentazioni nell’interesse di quell’imputato ed un Tribunale pronunzi una sentenza nei senza aver ascoltato e vagliato la sua difesa, nega in radice la propria stessa funzione perché non è uno sciamano, chiamato ad interpretare il giudizio  divino.

    Insomma, si tratta di un fatto di inconcepibile gravità punito con un buffetto sulla guancia di uno solo dei responsabili, pur avendo partecipato in tre allo scempio. La conseguenza che dobbiamo trarne è che, per il Consiglio Superiore della Magistratura, questa non è la condotta più grave che un giudice possa assumere, anzi, è una delle meno gravi, figurarsi le altre. Se qualcuno ha una spiegazione diversa…

  • L’istituto del referendum

    L’istituto del referendum rappresenta, in una democrazia delegata, l’unica occasione per permettere ai cittadini esprimersi in merito ad un determinato argomento.

    Nel nostro ordinamento ha delle limitazioni essendo prevista solo la possibilità di abrogare una legge già in vigore, escludendo invece determinate materie come quella fiscale.

    Tuttavia, di fronte al  senso di inadeguatezza che questa classe politica  è riuscita a trasmettere ai propri deleganti nella storia recente del nostro Paese, va anche sottolineato come lo stesso istituto del referendum abbia inevitabilmente acquisito anche le caratteristiche di strumento di pressione politica proprio nei confronti di quel  Parlamento istituzionalmente indicato a legiferare per materie di forte rilevanza politica e sociale.

    I referendum sulla giustizia nascono proprio da questa ultradecennale incapacità della classe politica di riformare il settore della giustizia avendo, e con un grande ritardo, percepito il senso di sfiducia dei cittadini stessi nei confronti del complesso sistema giudiziario italiano. Il referendum rappresenta l’ultima arma democratica in mano ai cittadini.

    Esiste un’altra limitazione relativa alle tematiche oggetto del referendum, come già detto, che esclude la materia fiscale mentre all’interno delle democrazie dirette come, per esempio la Svizzera, si possono  proporre anche  quesiti referendari  relativi alla introduzione di un limite agli stipendi degli amministratori delegati.

    In questo contesto, allora, proponendo un referendum relativo all’abrogazione del reddito di cittadinanza si entra  all’interno di una quanto mai complessa materia sociale ed economica in quanto si  contrappongono fasce di popolazione con redditi diversi ed interessi contrapposti il cui esito potrebbe influire sulla disponibilità economica di una delle parti interessate.

    In altre parole, la contrapposizione politica in ambito referendario non dovrebbe mai scendere sul piano della sussistenza economica e della possibilità di fornire o limitare gli  strumenti finanziari di cui una fascia di popolazione ne beneficia. Viceversa una classe politica consapevole dovrebbe spendersi per trovare gli strumenti legislativi per la sua corretta applicazione o per un’eventuale modifica se non addirittura abrogazione ma  in sede parlamentare come limpida espressione del potere legislativo.

    Ecco quindi, ancora una volta, il referendum, il quale andrebbe assolutamente riformato non tanto nel numero necessario per ottenere l’approvazione quanto nelle materie oggetto dello stesso per porre le basi normative finalizzate ad un avvicinamento del  nostro sistema, ormai impantanato da 111.000 leggi, ad un modello il più possibile vicino ad una democrazia diretta.

  • In attesa di Giustizia: Bipartisan

    Cauti nella critica e generosi nella lode, in questa rubrica abbiamo magnificato in più occasioni le intraprese del Premier che ha conseguito il titolo di Professore Ordinario con i Punti Fragola dell’Esselunga (qualcuno sostiene con la raccolta, per tempo oculatamente fatta dai genitori, degli indimenticati punti VDB) e del suo discepolo prediletto: l’ilare giureconsulto assurto al seggio di via Arenula.

    Equità vuole che non vengano dimenticate altrettanto mirabolanti azioni di governo, volte a rendere l’Italia un Paese migliore, riferibili ad Esecutivi del passato: questa è una settimana dedicata all’amarcord.

    In una stagione che, climaticamente, inizia ad essere più che mai favorevole agli sbarchi di migranti sulle coste siciliane – tema sempre di attualità – è cosa buona e giusta celebrare come meritano gli interventi di inizio millennio intesi a contrastare il fenomeno.

    La premessa d’obbligo è che, all’epoca, il nostro arsenale normativo disponeva di una legge caratterizzata – se non altro – da una certa chiarezza: la c.d. “Turco-Napolitano” che in quattro punti essenziali affronta il problema. Nei primi articoli statuisce che ai cittadini stranieri sono garantiti i medesimi diritti spettanti agli italiani secondo le convenzioni ed i canoni di diritto internazionale, nonché quello di partecipazione alla vita pubblica locale riservato a coloro che fossero regolarmente soggiornanti. Viene, quindi, fatta una netta distinzione tra regolari ed irregolari.

    L’articolo 4 prevede che l’ingresso nel territorio dello Stato è consentito solo a chi sia munito di un passaporto o valido ed equipollente documento, il successivo contiene la disciplina per il rilascio del permesso di soggiorno e l’articolo 10…i respingimenti di coloro che risultino privi di tali requisiti deputati alla Polizia di Frontiera: in fondo, i medesimi principi enunciati da Matteo Salvini in maniera più pittoresca.

    Legge chiara ma, purtroppo, inefficace perché prevedeva la notifica del decreto di espulsione al soggiornante irregolare (che lo cestinava appena uscito dalla Questura) incorrendo poi nella difficoltà operativa di eseguire materialmente il provvedimento rintracciandolo e rimandandolo al Paese di provenienza.

    Ecco allora, nel 2002, abbattersi sui clandestini la implacabile “Bossi-Fini” con la previsione di nuovi reati, pene più severe e carcere per tutti. Nihil novi sub sole: il ricorso ai soliti strumenti del diritto penale che non fanno paura a nessuno con qualche “curiosità” degna di nota: per esempio la previsione dell’arresto obbligatorio per chi non avesse ottemperato al decreto di espulsione.

    Senonchè, il reato era ed è previsto come contravvenzionale e per le contravvenzioni (che non sono quelle per divieto di sosta, che si chiamano sanzioni amministrative, ma una categoria degli illeciti penali) la legge proibisce la carcerazione preventiva…il risultato fu che le Forze dell’Ordine dovevano obbligatoriamente eseguire arresti, compilare verbali, sottrarre risorse ad altri impieghi e trasmettere tutto in Procura dove il P.M. non poteva fare altro che disporre la liberazione immediata dell’arrestato. Questo, almeno, finché qualcuno se ne accorse e la legge fu modificata: nel frattempo aveva tanto inutilmente quanto inesorabilmente intasato i tribunali.

    Non ammonito da riflessioni salutari, il Governo pensò allora di ricorrere diversamente al mito della sanzione penale, ipotizzando il ricorso all’arresto in flagranza del clandestino al momento dello sbarco.

    Orbene, i sostenitori di questa opzione – parliamo di Ministri e Parlamentari della Repubblica – non avevano considerato quanto prevede la Costituzione e cioè che gli arresti in flagranza devono essere convalidati o meno da un giudice entro al massimo 96 ore.

    Alzi la mano chi, anche senza avere dimestichezza tecnica con la materia, ritiene possibile che uno sventurato G.I.P. di Agrigento o di Ragusa (per fare degli esempi) possa celebrare decine se non centinaia di udienze nel volgere di una manciata di ore e redigere anche le ordinanze conseguenti…a tacer del fatto che si sarebbe dovuto, comunque, trovare posto in carcere per queste torme di sventurati nuovi giunti. Forse, si confidava nel fatto che il Guardasigilli – un ingegnere – ne potesse progettare e realizzare di nuove e capienti, a tempo di record.

    A qualcuno, però, nelle stanze dei bottoni venne, fortunatamente ed in tempo utile, di consultarsi con un amico magistrato la cui fragorosa risata offrì risposta al quesito. E spontanea sorge la domanda: ma, i Capi di Gabinetto, gli innumerevoli magistrati fuori ruolo assegnati a Ministeri e Authority, hanno studiano giurisprudenza alle serali al buio?

    I Governi successivi continuarono a ritoccare in qualche modo – e con i risultati che ben conosciamo –   quella che è divenuta una variopinta arlecchinata normativa e gli scafisti, ben compreso con chi hanno a che fare, ringraziano.

    Malcontate, sono circa duecentocinquantamila le leggi vigenti nel nostro Paese (la media negli altri Membri UE è di circa 1/10) ed a queste si aggiungono circolari interpretative, direttive, protocolli di intesa e regolamenti…fatevi una domanda e datevi la risposta del perché la Giustizia non funziona.

  • Sofia Goggia: la tutela bipolare

    Campionessa olimpica a Pyeongchang nel 2018, tre volte vincitrice della Coppa del Mondo (DL), vincitrice di due ori mondiali e medaglia d’argento a Pechino 2022. Questo rappresenta una parte del palmarès di Sofia Goggia, atleta bergamasca di sci alpino alla quale un giornalista in vena di interessi da basso ventre non ha chiesto quali possano essere le difficoltà per una atleta di livello mondiale nella gestione di un rapporto in ambito sentimentale o semplicemente relazionale. Spinto, invece, da un irrefrenabile prurito inguinale e da una quasi maniacale e voyeristica ricerca di intimità rubata voleva sapere se fosse a conoscenza di casi di omosessualità all’interno della nazionale femminile e di quella maschile.

    Il desiderio di avere delle informazioni dirette relative alle “tendenze” sessuali degli atleti (ma solo se omosessuali) rappresenta il livello del giornale che ospita tale intervista e, ancora oggi, testimonia una penosa attenzione riservata ad un argomento (l’omosessualità) assolutamente privato tanto quanto l’eterosessualità.

    Il caso di cui molti dibattono da quel lunedì pasquale parte dalla ricerca maniacale di un povero giornalista di creare del sensazionalismo e magari un caso sulla base di presunti comportamenti sessuali del mondo dello sci alpino e confermati dalla campionessa azzurra.

    La prima considerazione parte quindi dal ridicolo livello espresso tanto dal giornalista quanto dal Corriere della Sera i quali dimostrano una ancora oggi morbosa attenzione per le sole tendenze omosessuali degli atleti, convinti di suscitare un interesse esattamente come quello di cui risultano pervasi entrambi.

    Il successivo coro scomposto, poi, di proteste assolutamente sguaiato ed eccessivo che ha visto come protagoniste tanto giornaliste quanto esponenti di associazioni Lgbt dimostra il livello di massimalismo ideologico del nostro Paese, molto più adatto ad un regime dittatoriale che non ad una democrazia liberale.

    La diversità e la stessa lontananza di opinioni, andrebbe ancora una volta ricordato, rappresentano una ricchezza di un paese in quanto stimolano il confronto dal quale prende corpo un inevitabile arricchimento, quindi proprio per questo degni di ogni tutela.

    Il concetto di diversità e lontananza che il mondo del politicamente corretto vorrebbe tutelare emerge solo quando risulti espressione di una attitudine sessuale, ma la medesima tutela viene disattesa invece se si manifesta in forma legittima quanto criticabile di opinioni.

    E’ inaccettabile un comportamento così ambiguo e bipolare il quale da una parte tende a tutelare la sola diversità definita sulla base di comportamenti sessuali e privati (1) ma contemporaneamente tende a non riconoscerla se tale diversità si manifestasse nell’ambito di legittime opinioni (2).

    Mai come adesso la bipolarità evidente prende forma come in una insostenibile forma di prevaricazione sessuale, cioè basata sulla tutela della diversità in relazione alle sole attitudini sessuali ma non applicata alla diversità di opinioni.

    E che altro potrebbe essere se non una forma di violenza quella che riconosce un diritto solo se esercitato nella sfera sessuale escludendo ogni altra tutela se espresso in contesti lontani dalla sessualità?

  • In attesa di Giustizia: Avvocati

    Sapete da cosa si capisce se in un incidente stradale è stato investito un cane o un avvocato? Solo nel caso della bestiola, ci sono tracce di frenata. Così recita una vecchia freddura che, probabilmente, fa ridere solo la redazione del Fatto Quotidiano.

    Vero è che non tutti sono dei luminari del diritto, vero che faccendieri nella categoria ce ne sono, ed anche taluni mascalzoni patentati, ma quella dell’Avvocato (con la A maiuscola) è ancor più che una professione, è  un ministero cui adempiono in tutto il mondo uomini la cui nobiltà d’animo è fuori discussione.

    In questo tempo angoscioso in cui il cannone è tornato a tuonare nel cuore dell’Europa, proprio gli avvocati – quelli di Kiev – sono stati tra i primi a battersi per la libertà: questa volta quella della loro Patria arruolandosi volontari ed imbracciando un fucile invece che un codice.

    La Giunta dell’Unione delle Camere Penali, in nome dei penalisti italiani ha inteso far sentire la propria voce con un documento nel quale vi è una netta presa di posizione “al fianco delle donne e degli uomini della Repubblica dell’Ucraina, e del loro diritto alla vita, alla libertà, all’autodeterminazione”.

    Prosegue affermando che “chi come noi ha dedicato e dedica la propria vita professionale alla difesa dei diritti della persona, oggi non può che essere dalla parte di chi vede negati, con violenza feroce e cinica, i più elementari diritti umani: alla vita, alla integrità dei propri beni, alla libera autodeterminazione di un popolo…al tempo stesso, vogliamo esprimere la nostra fraterna solidarietà e la nostra incondizionata ammirazione nei confronti delle colleghe e dei colleghi russi in queste settimane impegnati, con ben immaginabile rischio personale, in difesa dei propri concittadini, destinatari di arresti ed incriminazioni iperboliche solo per aver manifestato il proprio dissenso da quella scellerata iniziativa del proprio Governo. Ancora una volta, laddove si invoca libertà, dovrà esserci un avvocato libero; dove si minaccia o si nega la libertà del difensore, si minaccia o si nega la libertà e la dignità di un intero popolo”.

    Vale, forse, la pena – per restare ancor più in argomento – ricordare una citazione tratta da un testo di letteratura russa: durante un processo ad ufficiali zaristi, il pubblico ministero apostrofò l’avvocato chiedendogli polemicamente “dove eravate voi avvocati mentre i contadini morivano uccisi dai soldati dello Zar?” e l’avvocato rispose: “eravamo a difendere quei contadini che voi perseguitavate in nome della legge dello Zar”.

    Ecco, c’è da essere orgogliosi di vestire la Toga di avvocato, di essere i difensori delle garanzie dei cittadini e della libertà. E quando qualcuno, con contorsioni concettuali degne del casuismo gesuitico del XVI secolo,  plaude al largo impiego dei ceppi perché inducono al pentimento, sono proprio gli avvocati a saper contrastare tali argomenti richiamandosi al pensiero di Pascal che li ha implacabilmente folgorati superandone la parvenza logica: ma si tratta, appunto di una parvenza, di illusioni verbali.

    Ma non andate a dirlo a Nicola Morra, che pure presiede la Commissione Parlamentare Antimafia, al Professore Conte (professore di che, poi? Forse di diritto e rovescio, istituzioni di uncinetto) e meno che mai al suo prediletto allievo, Alfonso Bonafede: non provate a spiegar loro che si tratta di trucchi epistemiologici rinvenibili nei trattati di Vasquez de la Cruz, Fernandez, Suarez o Squillanti perché penserebbero  che stiate citando calciatori dell’Uruguay campione del Mondo nel 1950.

    Viva la libertà.

  • Tempo di scelta tra la dittatura e la democrazia

    Deve assolutamente esistere una possibilità di togliere

    il potere immediato a chi ne fa cattivo uso.

    Bertrand Russell

    Gli ultimi sviluppi del conflitto in Ucraina, anche durante lunedì, 7 marzo, dimostrano e testimoniano tutta l’aggressività e la crudeltà delle forze d’invasione russa. Nonché dimostrano tutta l’inaffidabilità del presidente russo e dei suoi più stretti collaboratori, facendo riferimento a quanto lui e/o chi per lui dichiarano pubblicamente. Il conflitto, cominciato nelle primissime ore del 24 febbraio scorso, continua, causando ogni giorno centinaia di vittime innocenti e distruggendo tutto con i bombardamenti. I russi non hanno rispettato neanche quanto avevano accordato il 3 marzo scorso riguardo il cessate di fuoco temporaneo e i corridoi umanitari. Centinaia di migliaia di ucraini continuano, ogni giorno, a lasciare il Paese. Sono soprattutto donne e bambini, mentre gli uomini, ma non solo, rimangono a lottare contro gli invasori russi. La loro resistenza, il loro coraggio e i loro sacrifici estremi rappresentano un’ammirevole testimonianza della responsabilità civica e del loro patriottismo.

    Nel frattempo in Albania domenica scorsa, 6 marzo, si sono svolte le elezioni amministrative parziali in sei comuni. I cittadini dovevano eleggere i nuovi sindaci, dopo che i loro predecessori, tranne uno, sono stati costretti a lasciare il posto, oppure rimossi, per motivi giuridici, di corruzione e altro. E tutti loro rappresentavano il partito del primo ministro attuale. Bisogna sottolineare che il mandato dei sindaci eletti durerà soltanto un anno, fino alle nuove elezioni amministrative previste per il 2023. In più, si è trattato soltanto di elezioni dei sindaci e non dei consiglieri comunali, essendo quelli attuali eletti ormai nelle precedenti elezioni amministrative del 2019. Elezioni che sono state boicottate in un modo del tutto inspiegabile ed ingiustificato, dopo una decisione politica presa dai dirigenti dell’opposizione. Il nostro lettore è stato informato a tempo debito. Domenica scorsa in lizza c’erano i rappresentanti della maggioranza governativa e quelli delle due fazioni del partito democratico albanese, il maggior partito dell’opposizione. Fazioni quelle ufficializzate dal dicembre scorso, dopo il congresso dell’11 dicembre ed, in seguito, dal referendum, svoltosi una settimana dopo, il 18 dicembre, per approvare le decisioni prese dallo stesso congresso convocato dalla maggioranza dei sui delegati, come previsto dallo Statuto del partito. Tutti i delegati del congresso, dal settembre scorso, hanno aderito a quello che da allora è ormai noto come il Movimento per la ricostituzione del partito democratico albanese. Un Movimento quello nato per ripristinare tutti i valori e i principi che sono stati riconosciuti ed incorporati nello Statuto dalla costituzione del partito democratico il 12 dicembre 1990, come primo partito di opposizione alla dittatura comunista. I delegati del congresso dell’11 dicembre hanno anche tolto il mandato rappresentativo a colui che, dal 2013, era diventato il capo del partito ma il suo operato, le sue alleanze e i suoi accordi occulti con il primo ministro, i cui contenuti sfuggono ai più, sono risultati fatali, in seguito, non solo per il partito democratico, ma anche per il percorso democratico della stessa Albania. Non solo: rimasto in una evidenziata e verificata minoranza, circondato da alcuni pochi ubbidienti seguaci, l’usurpatore della dirigenza del partito democratico e i suoi hanno messo in scena un [anti]congresso proprio il 18 dicembre scorso. Ma, sempre fatti accaduti alla mano, quel congresso tutto poteva essere tranne che un raduno di membri ed elettori del partito democratico, diventando così vergognosamente e pubblicamente una misera messinscena ed una bufala per salvare la faccia e la sedia. L’usurpatore della dirigenza del partito democratico albanese, in tutta questa sua impresa ingannatrice ha avuto tutto il necessario appoggio del primo ministro e delle strutture governative. Comprese anche le “comparse” per riempire gli spazi che potevano rimanere vuoti senza la loro presenza.

    Quell’usurpatore ha beneficiato anche del sostegno della propaganda governativa e degli analisti ed opinionisti a pagamento, controllati dal primo ministro e/o da chi per lui. Proprio quelli che, fino a qualche mese fa, avevano fatto dell’usurpatore un bersaglio facile da attaccare e ridicolizzare. Con il supporto del sistema “riformato” della giustizia l’usurpatore della dirigenza del partito democratico è riuscito a rimandare, chissà per quando, una decisione obbligata dalla legge del tribunale di Tirana, con la quale di doveva formalizzare quanto deciso dal sopracitato congresso dell’11 dicembre scorso. Un “prezioso” supporto quello da parte del sistema “riformato” di giustizia, personalmente controllato dal primo ministro e/o da chi per lui per la sua “stampella”. Il nostro lettore è stato informato di questi sviluppi a più riprese durante i mesi precedenti (Il doppio gioco di due usurpatori di potere, 14 giugno 2021; Usurpatori che consolidano i propri poteri, 19 Luglio 2021; Meglio perderli che trovarli, 13 settembre 2021; Agli imbroglioni quello che si meritano, 1 novembre 2021; Un misero e solitario perdente ed un crescente movimento in corso, 22 novembre 2021; Il vizio esce con l’ultimo respiro, 13 dicembre 2021).

    Ma quello del primo ministro, non era un supporto senza beneficio. Anzi, era ed è proprio il primo ministro ad essere direttamente interessato che l’usurpatore della dirigenza del partito democratico continuasse ad avere ancora in uso il timbro e la sigla del partito. E, cercando di salvare la faccia, la fazione facente capo all’usurpatore della dirigenza del partito democratico ha presentato il suo candidato in tutti i sei comuni per le elezioni amministrative parziali del 6 marzo scorso. Ma i consiglieri e gli strateghi elettorali del primo ministro avevano un altro obiettivo: quello di usare la sigla del partito democratico come una diversione, un inganno durante le elezioni per confondere i votanti e facilitare la vittoria dei propri candidati.

    Questa volta il primo ministro e i suoi non si sono “impegnati pubblicamente” durante la campagna come nelle altre precedenti elezioni. Il che, comunque, non significa che lui abbia rinunciato al “vizio” di manipolare, condizionare e controllare il risultato elettorale. Anzi! Anche durante questa campagna elettorale, nonché durante la giornata delle elezioni, sono stati verificati, documentati e denunciati dai media non controllati e dai rappresentanti della Commissione per la ricostituzione del partito democratico diversi casi di uso abusivo del potere amministrativo, dell’uso abusivo di tutti i mezzi a disposizione, in piena violazione delle leggi in vigore. Tra le tante denunce fatte c’è stata una che coinvolgeva direttamente e personalmente uno dei sei candidati della maggioranza governativa. Da una registrazione telefonica, resa pubblicamente nota il 4 marzo scorso, si sentiva chiaramente una richiesta abusiva del candidato sindaco a “scopo elettorale” a suo favore. Ebbene, in qualsiasi altro Paese democratico, dove il sistema della giustizia risulta essere uno dei tre poteri indipendenti, le istituzioni del sistema giudiziario avrebbero avviato subito un’inchiesta sul caso. Ma non in Albania però, dove purtroppo il sistema “riformato” è selettivo e agisce dietro ordini arrivati dai massimi livelli del potere politico ed istituzionale.

    Durante la campagna per le elezioni amministrative parziali del 6 marzo scorso, purtroppo sono stati verificati anche degli interventi a “gamba tesa” dell’ambasciatrice statunitense in Albania. Interventi in violazione dell’articolo 41 della Convenzione di Vienna per le relazioni diplomatiche. Lo ha fatto da quando è stata accreditata, appoggiando il primo ministro. Ma negli ultimi mesi, guarda caso, ha appoggiato, sempre abusando del suo stato istituzionale, anche l’usurpatore della dirigenza del partito democratico. Lo ha fatto “generosamente” anche durante l’ultima campagna elettorale. Questi atteggiamenti dell’ambasciatrice statunitense, in palese violazione del suo mandato istituzionale, ormai sono noti anche al nostro lettore. L’autore di queste righe ricorda al nostro lettore però cosa è accaduto in Italia, dopo che l’ambasciatore statunitense aveva chiesto ai cittadini italiani di votare ‘No’ durante il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Ormai si sa l’immediata reazione di tutti i partiti politici contro la richiesta dell’ambasciatore. Così come si sa anche la sua giustificazione e le scuse da lui chieste subito dopo.

    I risultati delle elezioni amministrative parziali del 6 marzo sono stati ufficialmente resi ormai noti. I rappresentanti della maggioranza governativa hanno vinto cinque dei sei comuni, dove si votava per eleggere solo il sindaco. Uno dei nuovi sindaci che hanno avuto il mandato è anche colui che, come risultava dalla sopracitata registrazione telefonica, aveva chiesto favori elettorali! Basta solo questo caso per capire quello che la propaganda governativa cerca di nascondere. I risultati ufficiali delle elezioni del 6 marzo hanno sancito anche la significativa vittoria del candidato del Movimento per la ricostituzione del partito democratico nella città simbolo dell’anticomunismo in Albania. Ma quello che bisogna sottolineare e che è altrettanto significativo riguarda il deludente, bensì atteso, risultato elettorale della fazione del partito democratico facente capo all’usurpatore della dirigenza del partito. La vistosa differenza tra i candidati delle due fazioni testimonia in modo palese e senza ambiguità chi sono i veri rappresentanti del partito democratico, così come toglie ormai ogni “giustificazione” all’usurpatore. Adesso anche il timbro e la sigla del partito devono essere consegnati ai legittimi aventi diritto. L’importanza, quella vera e a lungo termine, di queste elezioni parziali amministrative in sei comuni, riguarda il chiarimento finale e per sempre: chi rappresenta il partito democratico albanese. Si sapeva che il primo ministro, come ha fatto anche in precedenza, avrebbe messo in moto la sua ben collaudata macchina elettorale, con l’appoggio della criminalità organizzata e dei milioni provenienti dalle attività illecite e dal riciclaggio dei denari sporchi, condizionando e controllando il risultato elettorale. Così come è successo anche durante le elezioni del 25 aprile scorso, delle quali il nostro lettore è stato informato a tempo debito. Ma il risultato delle elezioni del 6 marzo scorso ha palesemente dimostrato che il Movimento per la ricostituzione del partito democratico albanese ha avuto un convincente e schiacciante appoggio elettorale, mentre l’usurpatore ha registrato l’ennesima sconfitta, la quinta e senza nessuna ben che minima vittoria, facendo lui così, a livello personale, veramente pena. Nel frattempo però un’altra “perdente illustre” di queste elezioni è anche l’ambasciatrice statunitense, dopo il suo investimento personale, in palese violazione della Convenzione di Vienna, schierandosi così apertamente in appoggio dell’altro “perdente illustre”, l’usurpatore della dirigenza del partito democratico. Proprio di colui che purtroppo, in tutti questi anni, ha facilitato il compito del primo ministro albanese e delle sue alleanze occulte, per restaurare una nuova ma sempre pericolosa dittatura.

    Chi scrive queste righe, fatti accaduti, documentati, denunciati, verificati e verificabili alla mano, è convinto che in Albania ormai è stata restaurata una nuova dittatura sui generis come espressione di una pericolosa alleanza del potere politico, istituzionalmente rappresentato dal primo ministro, con la criminalità organizzata e determinati raggruppamenti occulti locali e internazionali. Chi scrive queste righe è altrettanto convinto che ormai lo scontro non è più quello tra le diverse ideologie. Lo scontro, sia a livello locale che più ampio, come nel caso dell’Ucraina, è quello tra le dittature e le democrazie e/o delle “tendenze democratiche” di società che, dopo una travagliata storia, stanno cercando di avviare dei processi democratici. Perciò per i cittadini e coloro che essi rappresentano è proprio il tempo di scelta tra la dittatura e la democrazia. E come in Russia, anche in Albania i cittadini devono reagire. Perché come era convinto Bertrand Russell, deve assolutamente esistere una possibilità di togliere il potere immediato a chi ne fa cattivo uso. E l’uso cattivo del potere lo sta facendo in Ucraina il presidente russo. Mentre in Albania il primo ministro.

  • In attesa di Giustizia: potere assoluto

    Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède, chi era costui? Non chiedetelo a Fofò Bonafede né al suo mentore – il professore, specializzatosi in DPCM emanati via Facebook, che ha preso il titolo con i punti fragola dell’Esselunga – e forse neppure a spiegar loro che è più noto come Montesquieu, il nome gli direbbe qualcosa, figuriamoci se ne conoscono il pensiero, maturato negli anni del regno del Re Sole. In quel tempo il filosofo e giurista francese si rese conto che chi ha il potere è portato ad abusarne e così teorizzando la separazione dei poteri perché “il potere potesse limitare il potere”.

    Il secolo dei lumi influenzò anche il costituente americano Alexander Hamilton (inutile parlarne con Toninelli che crede sia un pilota di Formula 1) il quale scrisse che il potere giudiziario è il meno pericoloso perché non controlla le forze armate e il bilancio.

    La indispensabile funzione di bilanciamento della separazione dei poteri, nel nostro Paese e ai giorni nostri, peraltro è stata svilita e superata dall’esondazione funzionale dell’ordine giudiziario che ha fatto di quella italiana una società amministrata di fatto da una giustizia penale con l’ambizione alla popolarità.

    Il supporto del più retrivo populismo ha dapprima alimentato il mito dei protagonisti di Mani Pulite, dei loro superstiti e degli emuli togati ma non ha impedito la attuale crisi di autorevolezza della giurisdizione che deve confrontarsi con il dato inconfutabile della irragionevole durata del processo, continui episodi di illegittima diffusione di dati che dovrebbero essere riservati e che risultano lesivi della dignità delle persone e della presunzione di innocenza. A tacere degli scandali a ciclo continuo che, ormai, non riguardano più solo il settore delle nomine ai vertici degli Uffici Giudiziari bensì svelano intese occulte per orientare l’esito dei processi, l’avvio stesso delle indagini, a seconda dell’avversario del momento che si intende colpire. E con ciò, addio al principio costituzionalizzato che predica l’indipendenza dell’ordine giudiziario.

    In buona sostanza, preferendolo al pensiero illuminista, dal 1992, le Procure si sono ispirate a quello di Mao Zedong secondo cui il potere viene dalla canna del fucile. O, meglio, dal tintinnio delle manette, secondo la visione Davighiana del mondo.

    Ed al peggio non c’è limite: le ultime rivelazioni di Luca Palamara lumeggiano l’inquietante esistenza di un dark web in cui allignano faccendieri di ogni provenienza e dei quali una parte della magistratura finisce con il divenire talvolta ispiratrice, altre braccio armato.

    Forse, il procedimento a carico del P.M. milanese Fabio de Pasquale (per il quale è stata anche chiesta una proroga per proseguire gli accertamenti) potrebbe far luce su un episodio paradigmatico: quello legato al processo a carico dei vertici di ENI per una colossale tangente asseritamente volta ad ottenere lo sfruttamento di un giacimento petrolifero nigeriano. Furono tutti assolti, e – a quanto pare – per conseguire il successo non sono state sufficienti indagini “a senso unico” inquinate da testimoni falsi e prove a discarico occultate. Come dire: la madre di tutte le porcate il cui accertamento potrebbe costituire un argine alla opaca e dilagante influenza della magistratura perché va a colpire la Procura milanese, gettandola nel totale discredito grazie anche alla oscura vicenda collegata dell’insabbiamento dei “verbali Amara” sulla esistenza della cosiddetta Loggia Ungheria.  E chi si fida più della magistratura se crolla anche il tempio le cui vestali predicavano la rettitudine? Infatti, il consenso è crollato al 37%.

    L’ordine giudiziario ha acquisito un ruolo diverso da quello prefigurato dalla Costituzione ed è diventato un potere che al compito di dare giustizia ha affiancato quello di predicare le virtù ma un potere determinato ad autalimentarsi e conservarsi grazie allo strapotere dell’accusa, indifferente a qualsiasi separazione dagli altri, manifestando la tendenza a diventare assoluto e le cui virtù – francamente – sanno un po’ di tappo.

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