diritto

  • In attesa di Giustizia: inutili rimedi

    Quella verificatasi a Cutro non è la prima e non sarà, purtroppo, l’ultima tragedia del mare cui dovremo assistere a causa della inarrestabile fuga dai paesi di origine di migranti oppressi da guerra, povertà e stenti di ogni genere e quello dei flussi migratori irregolari è un problema molto serio a prescindere da esiti fatali delle traversate cui non è facile per il Governo – qualsiasi governo – trovare un rimedio.

    Certamente non può esserlo, come è stato recentemente fatto, l’aumento delle sanzioni previste per gli scafisti: anzi, è l’ennesima iniziativa del tutto inutile adottata mettendo mano al codice penale.

    Per meglio illustrare quale sia lo spunto di riflessione che la rubrica offre questa settimana, è innanzitutto necessario comprendere bene chi siano davvero i c.d. “scafisti”, intesi come coloro che timonano un malconcio naviglio carico di poveri sventurati verso la destinazione. La figura finisce con il sovrapporsi, confondendosi, con quella dei trafficanti di esseri umani e la differenza non è banale.

    Nella realtà gli organizzatori di questi indegni e lucrosi traffici si guardano bene, come dovrebbe essere facilmente intuibile, anche solo dal mettere un piede su quei barconi della disperazione  condividendo con i passeggeri  i rischi altissimi della traversata: i veri, unici “scafisti” che meriterebbero di essere individuati e severamente puniti sono proprio costoro che, tutt’al più, scortano le carrette del mare fino ai limiti delle acque territoriali del Paese di partenza per poi fare rapido rientro a casa, sui loro motoscafi, abbandonando quei disperati al loro destino. Ecco: questi sono i veri criminali e non li abbiamo mai visti, né mai li vedremo nella assoluta impossibilità di identificarli chiedendo improbabili forme di cooperazione dalle Autorità Giudiziarie del Paese di provenienza.

    Ebbene, la nostra ennesima crociata contro il male che si annuncia con i tradizionali squilli tromba (“stretta sugli scafisti”, “pene più severe per gli scafisti”, “nuovi reati contro gli scafisti”), serve giusto giusto per poter scrivere titoloni sui giornali facendo mostra con i cittadini che anelano giustizia e sicurezza di una muscolatura che a quei delinquenti non fa nemmeno il solletico.

    E vi è di più: negli ultimi dieci anni sono stati arrestati e processati oltre 2500 “scafisti”. Posto che costoro non sono soliti indossare la divisa immacolata ed il cappellino da capitano, essi vengono, a regola, individuati – con intuibile ampio margine di approssimazione – tramite le dichiarazioni degli stessi migranti e dei superstiti, quando accadono naufragi. Orbene, in gran parte dei casi, coloro che sono stati indicati  (ammesso che fossero davvero imbarcati a timonare) altro non sono che migranti come gli altri, che per le più varie ragioni – ed essendo capaci di guidare un natante – si sono detti disposti ad accettare l’incarico dell’ associazione criminale di condurre il barcone; facile immaginare che questo accada per ottenere uno sconto sul costo del viaggio; oppure sono disperati disposti a rischiare la vita ed il carcere per guadagnare qualcosa.

    Per quelli che finiscono nelle nostre mani, spesso individuati con larghissimi margini di incertezza, è tra l’altro già prevista una pena fino a cinque anni di reclusione ma basta che le persone trasbordate siano più di cinque, cioè la normalità del fenomeno, per far scattare l’ipotesi aggravata, un minimo di cinque ed un massimo di quindici anni. Se poi c’è naufragio si aggiunge (almeno) l’omicidio colposo plurimo. Dunque, una aspettativa punitiva già altissima, senza alcun bisogno di novità normative.

    Nel nostro Paese, però, va così: se accade un fatto grave che, magari, interessa anche possibili responsabilità istituzionali, una sola è la risposta: nuove figure di reato, o inasprimento delle pene. E’ un riflesso populista, patrimonio comune dei governi di qualsivoglia colore politico, che usano il diritto penale non per raggiungere un seppur minimo e concreto risultato in termini di dissuasione dal delinquere, ma per lanciare tramite la narrazione mediatica il messaggio di uno Stato che reagisce con implacabile severità. Quale mai sarà il migrante che si rende disponibile a pilotare il barcone perché altrimenti non avrebbe il denaro sufficiente per imbarcarsi, o il disperato che non sa come altrimenti guadagnare nella vita, che recederà dall’intento venendo a sapere (da chi, poi?), che la pena che sta rischiando non è più di 15, ma di 20 anni?

    In compenso va in onda la consueta liturgia dello “Stato che reagisce con fermezza”, ed in attesa che giustizia sia fatta saremo tutti più tranquilli. O, forse, no.

  • In attesa di Giustizia: il diritto è l’arte di ciò che è buono e giusto

    Tradotta dal latino jus est ars boni et aequi, questa espressione denota  l’aspirazione del diritto verso valori morali ed etici che nel diritto romano venivano sintetizzati anche con la locuzione honeste vivere alterum non laedere, suum cuiqe tribuere che troviamo scolpita in bassorilievo anche sul frontone del Palazzo di Giustizia di Milano: proprio uno dei luoghi meno adatti, ma non il solo del tutto inidoneo. La nostra rubrica, dal canto suo, può considerarsi una sorta di galleria degli orrori che settimanalmente avviliscono le esortazioni che provengono dalla saggezza dei latini, talvolta con più di un esempio. Questa volta sono due.

    Il primo si ricollega al tema delle inchieste nei confronti della Juventus, già condannata ad una pena illegale in quanto non prevista dall’ordinamento sportivo per il tipo di illecito contestato.

    Sul versante della giustizia ordinaria, Ciro Santoriello – che è il P.M. cui è affidata l’indagine “Prisma” relativa alle plusvalenze in cui hanno avuto largo impiego le intercettazioni  –  è diventato  “vittima” proprio della registrazione di un’intervista resa a margine di un convegno del 2019 in cui il magistrato parlava del calcio e delle sue storture bilancistiche. In quella occasione, Santoriello affermò di essere tifosissimo del Napoli aggiungendo che da Pubblico Ministero era contrario ai ladrocini e perciò  antijuventino e di odiare la squadra bianconera. Vabbè…una boutade tra il serio ed il faceto, che appena è riemersa è stata rapidamente strumentalizzata dai trasformisti della informazione decontestualizzandole.

    Ciro Santoriello, però, è un P.M. di grande spessore ed esperienza e quelle frasi avrebbe, forse, dovuto evitarsele a prescindere dal fatto che venivano pronunciate dialogando con un avvocato tifoso interista e dalla indisponibilità di una sfera di cristallo in cui leggere che – anni dopo – avrebbe indagato il top management della Juve per falsità nei bilanci. Oggi, una battuta infelice gli si ritorce contro appannando l’immagine di chi, sebbene parte processuale e non giudice, dovrebbe apparire in qualche misura super partes e la cui professionalità deve risultare immune dal sospetto che possa esservi differenza tra un’indagine puntigliosa e l’accanimento.

    Senza strepito mediatico, però, in questi ultimi giorni è successo di molto ma molto peggio: abbiamo un avvocato di Roma in ospedale dal 31 di gennaio per essere operato  per un cancro in metastasi, non per farsi la blefaroplastica e sembrare più carino, e abbiamo un’udienza a Genova cui l’avvocato avrebbe dovuto partecipare se non fosse stato ancora ricoverato, in convalescenza per quella sciocchezzuola.

    L’avvocato fa spedire ad un Collega amico e fidato il certificato del reparto di chirurgia, affinchè chieda un rinvio per legittimo impedimento, pur senza inviare  una preventiva istanza (comprensibile in quello stato con cui si affronta un cimento simile) ma l‘operazione, la patologia ed il resto, erano sul certificato.

    Il Tribunale rigetta la richiesta e procede a sentire dei testimoni con la partecipazione di un avvocato che  poco o nulla sa della causa e – bontà sua – rinvia per la discussione.

    Secondo questo sensibilissimo giudicante l’avvocato avrebbe dovuto segnalare il problema  due settimane prima, per  fare le contro-citazioni ed evitare ai testi l’incomodo di presentarsi in tribunale: magari venivano dalla parte opposta della città, forse addirittura da Camogli. Tutto  questo anche se dell’operazione si era avuta certezza nemmeno dieci giorni prima.

    Eh! ma erano venuti i testi… e per il tribunale (le minuscole sono tutte volute), un cancro metastatizzato, da solo non basta, nemmeno se documentato. Vergogna, ammesso che sia un turbamento possibile per certi soggetti.

    Di fronte ad esempi  come questi – e la rubrica ne offre più di quanti vorrebbe e meno di quanti potrebbe – si affievolisce la speranza di avere un giudice equanime e distaccato, al di sopra delle parti, sensibile solo alla delicatezza del ministero che gli è affidato e sereno di fronte al tormento del giudizio mentre il popolo italiano, quello nel cui nome viene esercitata la giustizia, assiste abbacinato solo dal fascino mediatico di chi si pone come un pubblico vendicatore.

  • In attesa di Giustizia: (in)giustizia sportiva

    Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me…i giudici sportivi devono essere dei cultori  della Critica della Ragion Pratica per essere riusciti a condannare la Juventus ad una pena che, per l’illecito  che le è stato attribuito non esiste: un po’ quello che successe a Norimberga, allorquando i gerarchi nazisti furono processati per “crimini contro l’umanità”, delitto che, in sé e per sé non era contemplato da nessuna norma giuridica sebbene attenesse alla legge morale; ma, insomma, quella era Norimberga e il Tribunale finì per darne una definizione aggiungendo l’omicidio, lo sterminio di massa, la persecuzione su base razziale, politica o religiosa.

    In sintesi, e per avviare la riflessione, sono stati inflitti alla Juventus quindici punti di penalizzazione senza che sia stato formalizzato uno specifico illecito sportivo connesso al tema delle plusvalenze e la motivazione della sentenza altro non fa che confermare un clima di giustizialismo diffuso che è andato a toccare anche il settore sportivo.

    Il provvedimento dice, senza spiegarsi oltre, che è vero: la norma che si assume violata nel capo di imputazione non c’è ma i documenti arrivati dalla Procura di Torino (relativi ad un processo ancora da celebrarsi ed in cui verificare la fondatezza dell’accusa…) sembrano descrivere – in ogni caso – una realtà fatta  di imbrogli. Ed ecco che l’insulto alla legge morale supplisce alla mancanza di una contestazione scritta.

    Formalismi avvocateschi? Nossignori: ai bianconeri è stato ascritta l’inosservanza dei doveri di lealtà e probità sportiva: definizione un po’ generica se l’addebito viene mosso senza specificare in cosa siano consistiti e…si badi bene: stiamo parlando, e non ve n’è dubbio, di alterazione di scritture contabili.   Secondo il codice sportivo, per  arrivare ad una penalizzazione si sarebbe dovuto sostenere, e possibilmente dimostrare con delle perizie, che quei falsi erano intesi a dissimulare una situazione di insolvenza risalente al 2020 che avrebbe impedito alla Juve di iscriversi al campionato  successivo.

    L’ipotesi è  fantasiosa prima ancora che totalmente inesplorata: comunque sia, in mancanza di imputazione  e  di prove a supporto, la sanzione non avrebbe dovuto essere la penalizzazione in classifica ma una multa, salata ma pur sempre sopportabile dalla famiglia Agnelli.

    Anche in questa sede un ruolo decisivo lo hanno svolto le intercettazioni telefoniche, ovviamente fatte nell’indagine penale e trasferite al giudice sportivo senza che siano state ancora periziate (cioè verificato, come prevede la legge, che ciò che è stato manoscritto dagli agenti addetti all’ascolto corrisponda a ciò che è stato effettivamente detto e registrato). E’, a questo punto, inutile rilevare che il giusto processo per le società sportive è un traguardo ancora lontano da raggiungere e che la motivazione della sentenza di condanna della Juventus assomiglia di più ad una supercazzola che ad un funambolismo giuridico: certamente non a quella che dovrebbe essere la sostanza di un provvedimento reso al termine di un giudizio serio.

    Lo sport è qualcosa che appartiene alla vita di tutti noi e di tutti i giorni: per alcuni è una passione, un hobby, per molti altri è un lavoro da atleta o da dirigente e la pretesa che disponga di un ordinamento giuridico che non emuli il codice penale su base analogica dei tempi dell’URSS e sia affidato a giudici competenti non è fuor di luogo.

    Può darsi che questa rubrica torni in argomento e la questione  potrebbe essere meno stucchevole di un commento all’affaire Cospito: carcere duro o no per  un gentiluomo d’altri tempi ritenuto responsabile di aver piazzato due ordigni, di cui uno ad alto potenziale nell’assalto ad una Scuola Allievi dei Carabinieri?

    In attesa di Giustizia sportiva per ora è tutto, a voi studio centrale.

     

  • Giovani, inclusione, Milano capitale delle professioni

    “Il futuro dell’Avvocatura è anche quello della Giustizia per la irrinunciabile funzione di difesa dei diritti dei cittadini”. E’ quanto si legge nel programma della lista “Diritti al Futuro” che si presenta a Milano alle prossime elezioni per il rinnovo dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati che si svolgeranno, n tutta Italia, il 7, 8 e 9 febbraio. Per conoscere nel dettaglio la loro proposta abbiamo intervistato l’avv. Manuel Sarno, autore della nostra rubrica ‘In attesa di Giustizia’, che è  tra i 16 candidati della lista.

    Avvocato, il vostro programma parte dai giovani, e ve ne sono tanti che ogni anno si avviano alla professione forense, e dalle opportunità da fornire loro. Quali sono e come sarà possibile realizzarle?

    La stessa scelta del nome “Diritti al Futuro” oltre ad alludere all’evoluzione del diritto e della legislazione, di cui un Consiglio dell’Ordine si deve occupare anche in termini contributo al dibattito politico sulle riforme e di offerta formativa per gli avvocati, sottintende la centrale vocazione a sostenere le fasce più giovani della classe forense che affrontano la professione in un periodo di grande crisi e competitività di un settore che annovera circa un terzo degli avvocati complessivamente esercenti in tutta la UE.

    Ai più giovani è dovuto il trasferimento di esperienza, la effettività di una  guida durante la pratica ed, in seguito, offerta l’opportunità di crescere. Diritti al Futuro, nel suo programma, prevede tra le altre cose di dar loro supporto economico  mediante una tendenziale gratuità della formazione continua, la possibilità di ottenere un “prestito d’onore” garantito dall’Ordine per avviare attività in proprio ed anche la eliminazione della tassa annuale di iscrizione per coloro che non raggiungano determinate soglie di reddito.

    Proponete Milano come capitale europea delle professioni. Che vuol dire?

    Il sogno nel cassetto, per il quale vi è un progetto realizzabile anche grazie al ricorso a fondi comunitari, è quello della creazione a Milano di una “Casa dell’Avvocatura e delle Professioni”: un vero e proprio edificio che sia non solo una sede con spazi attrezzati e disponibili temporaneamente per i professionisti in trasferta per motivi di lavoro da altre città d’Italia e di Europa ma  per loro un vero e proprio punto di riferimento, incontro e confronto di respiro europeo volto a dare sempre più centralità e standing internazionale alla Milano dell’EXPO e delle Olimpiadi, così facendo anche opera di crescita culturale e condivisione di esperienze e tradizioni.

    Puntate ad un Ordine inclusivo e sostenibile, parole che ascoltiamo di frequente ormai…

    Noi siamo ciò che siamo stati, i valori di cui siamo portatori dopo anni  di professione devono essere lo spunto per guardare ad un domani in cui non si riconoscano più diversità di qualsiasi natura: all’interno dell’Ordine degli Avvocati per prima cosa e come esempio per la società, assumendo un ruolo guida anche rispetto al tema della sostenibilità intesa da ogni punto di vista. Gli avvocati hanno il dovere di fare cultura, di impegnarsi nel sociale e di farlo ogni giorno: è nel loro DNA, è un modi di difendere anche questo.

    Per cominciare, in maniera emblematica, abbiamo scelto di candidare sedici colleghi equamente divisi: otto donne e otto uomini, con buona pace delle quote rosa perché guardiamo avanti, superando di slancio indicazioni normative di rispetto della rappresentatività, guardiamo al futuro, ad un futuro in cui non sarà più necessario guardare ad un  disposto di legge o parlare di inclusione se non ad un qualcosa che è già stato realizzato.

  • In attesa di Giustizia: comici involontari

    Uno dei più subdoli principi su cui fondare la responsabilità degli accusati fu teorizzato ai tempi di Mani Pulite e da allora largamente condiviso e applicato: soprattutto in presenza di qualcuno da condannare a tutti i costi pur senza avere uno straccio di prova.

    Qualcosa, tuttavia, sembra stia cambiando: la Procura di Latina indaga sulle presunte malefatte di una cooperativa i cui amministratori avrebbero malversato fondi pubblici, golosamente intascati invece di distribuirli come salario ai dipendenti ed impiegarli a vario titolo per la corretta gestione della attività. Del dovuto riserbo e del rispetto del segreto istruttorio neanche a parlarne, e fin qui niente di nuovo: di questo aspetto dovremo riparlare.

    La grande novità cui si deve plaudire è  proprio il superamento in questo caso del principio del “non poteva non sapere” a vantaggio di uno stivalato difensore dei braccianti, dei poveri e degli oppressi sebbene sia legato da strettissimi vincoli con le indagate principali che, non solo lo lascia indenne da informazioni di garanzia (e di ciò, nel rispetto delle regole, vi è da compiacersi), ma provoca alternati sussulti di inatteso garantismo da parte di quella sinistra che vi aveva abdicato ab immemorabile. Bene ma non benissimo posto che l’autodifesa – di avvocati per ora sembra non esserci bisogno – non si è basata sulla strenua negazione dell’illegalità ma sulla assoluta inconsapevolezza di quanto pare accadesse all’interno dei componenti dello stato di famiglia ed è culminata con la illustrazione di un diritto che, sino ad ora, non risulta canonizzato né da codici né da pensatori illuminati e progressisti come – tanto per citarne uno –  Martin Luther King: il diritto all’eleganza. Insomma, la moglie di Cesare è un modello al di sopra di ogni sospetto che non conosce oblio e c’è chi tra lacrimevoli sfoghi riesce a regalare momenti di involontaria comicità.

    Questa settimana, poi, il Ministro della Giustizia ha osato preannunciare lo stimolo ad alcune riforme di matrice apertamente liberale subito intese come una dichiarazione di guerra alla magistratura, risultando in particolare intollerabili le affermazioni a proposito di separazione delle carriere tra giudicanti ed inquirenti e buon governo dello strumento delle intercettazioni.

    L’indomita reazione è stata affidata – tra i primi – al Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati il quale ha pianto per le bestemmie alla Costituzione uscite dalla bocca del Guardasigilli, dimenticando che – sia pure timidamente ma in maniera chiara – la nostra Carta fondamentale all’articolo 107 già delinea la netta distinzione tra Giudici e P.M.;  per non farsi mancare nulla, a proposito di intercettazioni, ha ricordato che una legge intesa a regolarne la pubblicità e punire chi ne fa oggetto di indebita divulgazione. Peccato che abbia omesso di rilevare che i casi di indagine e condanna per questo illecito uso di materiale investigativo siano statisticamente irrilevanti: un’altra pièce comica che si risolve in straordinario assist per un finale da avanspettacolo con Macario affidato al Direttore del quotidiano che, non a caso, ha come azionisti di riferimento proprio un comico in pensione oltra ad un impomatato leguleio.

    Tuona Marco Travaglio, dalle colonne de Il Fatto Quotidiano, chiama alle armi il popolo dei giusti e degli onesti per fronteggiare con adeguata durezza e la proverbiale profondità di pensiero qualsivoglia iniziativa intesa a stravolgere le riforme volute dal migliore Ministro della Giustizia degli ultimi trent’anni nei cui confronti si è consumato l’estremo oltraggio…e chi sarà mai? Claudio Martelli, Giovanni Conso? Nossignori: Alfonsino Bonafede, e non siamo su scherzi a parte.

    Con ciò, il buonumore accompagnerà tutti nelle prossime Festività.

  • In attesa di Giustizia: No Martini, No Party

    Bisogna ammettere che, come esordio del Governo in materia di giustizia, c’era da aspettarsi di meglio: trascurando per questioni di spazio oltre che di complessità tecnico giuridica quanto deciso circa il rinvio della entrata in vigore della “Riforma Cartabia”, stretta nella morsa tra impreparazione degli Uffici Giudiziari a mandarla a regime ed il rispetto dei tempi per conseguire i fondi del PNRR, ed i limiti da porre all’ergastolo ostativo, è il decreto anti rave party che merita commento fatta la premessa maggiore che, curiosamente ma non troppo, proviene dal Ministero dell’Interno e non da quello della Giustizia e sembra proprio scritto da uno di quei questurini di altri tempi che facevano carriera nell’Ufficio Affari Riservati.

    Tecnica redazionale ed impiego della lingua italiana a parte, una norma che preveda come reato «l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica e la salute pubblica consiste nella invasione arbitraria di terreni … allo scopo di organizzare un raduno quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica» è il trionfo delle ovvietà inutili. Inutili anche perché esistono già altre figure di reato applicabili ed aderenti all’ipotesi concreta di un rave party e soprattutto per il motivo che così come descritte le condotte rimproverabili sono pericolosamente generiche e sottratte al principio costituzionale di tassatività della norma. Tanto è vero che si è dovuti subito intervenire offrendo una prima interpretazione (il decreto è legge in vigore fino ad avvenuta conversione o mancata tale nel termine previsto) che tranquillizzi gli organizzatori di addii al celibato, autorizzi contests di barbecue all’aperto, consenta la celebrazione delle sagre di paese con somministrazione di vini sfusi e salamelle artigianali. Chissà, poi, a chi e come spetterà il compito di attestare il numero dei partecipanti (che, per integrare il nuovo crimine, non devono essere inferiori a 50) da cui, pure, dipende l’illegalità degli eventi verbalizzando il conteggio e distinguendoli da eventuali passanti o curiosi, umarell, come si dice a Milano,…o magari agenti sotto copertura della narcotici.

    Non è finita: questo nuovo reato viene addirittura fatto rientrare nel catalogo di quelli previsti nel codice antimafia ai fini della applicabilità di misure di prevenzione personale: il che, tradotto, significa che ad un rave party è riconosciuto il potenziale genetico dello stesso allarme sociale di una cosca mafiosa, di una associazione finalizzata alla tratta di esseri umani o di un sequestro di persona a scopo di estorsione.

    Vedremo che destino avrà il decreto in sede di dibattito parlamentare mentre già si levano i primi mea culpa insieme ad auspici e promesse che venga migliorato in Aula. Non sarebbe male se ciò avvenisse metabolizzando il canone costituzionale che all’articolo 17 sancisce la libertà di riunione dei cittadini, e che limita il potere di veto da parte dello Stato, previo avviso dell’evento all’Autorità, esclusivamente a “comprovati motivi di sicurezza ed incolumità pubblica” che sono cosa ben diversa dai motivi di “ordine pubblico”: categoria giuridicamente molto più ampia della “sicurezza pubblica”.

    Detta tutta, quei raduni, di cui generalmente si ha notizia anticipata, sono l’apoteosi della illegalità, durante i quali accade di tutto a prescindere dalla occupazione abusiva di terreni e luoghi: spaccio di droga, mescita di alcolici ai minorenni, violenze di varia natura. Cose che succedono – tra l’altro e quotidianamente – nelle zone della “movida” di città grandi e piccole e rispetto alle quali è necessaria innanzitutto la prevenzione, questa sì affidata alle Forze dell’Ordine con gli strumenti di cui già dispongono e quale che sia il contesto in cui si registrano situazioni simili.

    Iniziare meglio era sicuramente più facile che partorire un esempio di muscolare sciatteria normativa insensibile ai limiti costituzionali: e quanto all’arsenale punitivo è più che bastevole quello già esistente, nel caso con qualche minimo ritocco evitando di arricchire il codice penale con un reato da sbirri da operetta alla cui formula manca solo la causa di non punibilità per chi si presenti senza una bottiglia di spumante da condividere: no Martini? No rave party.

  • In attesa di Giustizia: sequel

    Questa settimana – non diversamente dalle altre – c’è stato solo l’imbarazzo della scelta circa l’argomento da trattare in questa rubrica; alla fine “in concorso” sono rimaste due vicende: la prima è quella di una donna condannata e incarcerata (ed è tutt’ora in galera, a Roma in attesa di una soluzione) per un reato prescritto da anni al momento della pronuncia della sentenza. Vicenda che, senza entrare nei dettagli, è sufficiente commentare “complimentandosi” con il P.M., il giudice, il Sostituto Procuratore Generale che ha posto il visto sulla decisione e – naturalmente – anche con il difensore per avere offerto un rarissimo (per fortuna) esempio di corale e fatale disattenzione (o ignoranza anche di banali nozioni aritmetiche?).

    La seconda, è stata prescelta perché è lo squallido sequel da B movie di una storia già raccontata tempo fa su queste colonne ed anche del più recente commento alla giustizia disciplinare “domestica” – e addomesticata – del C.S.M. Qualcuno, forse, ricorderà questo racconto di quanto accaduto al Tribunale di Asti dove si celebrava un processo per violenza sessuale di un padre sulla figlia, con la madre accusata di non averlo impedito: giunti alla conclusione e data la parola alle parti, discussero il PM, chiedendo una pena molto severa  ed i due difensori della madre, rinviandosi ad altra udienza per sentire quello del padre.

    Tuttavia, alla udienza successiva, il Tribunale entrò in aula per leggere direttamente il dispositivo di condanna degli imputati ad 11 anni di reclusione. Gli avvocati presenti e lo stesso P.M. fecero notare che il difensore del secondo (e principale) imputato non aveva mai discusso ed il Presidente, dettosi dispiaciuto dell’incidente, con impeccabile nonchalanche accartocciò il foglio contenente il dispositivo appena pronunciato per dare la parola all’ultimo difensore. Quest’ultimo,  ovviamente,  oppose un rifiuto, rilevando l’abnormità di quanto accaduto. Il Tribunale, che tanto aveva già deciso, depositò egualmente la sentenza, che ovviamente non potrà che essere annullata dalla Corte di Appello (con comodo, eh! Stiamo aspettando solo da un paio di anni).

    Questo scempio finì, comunque, al CSM e si apprende da notizie di stampa di questi giorni che si è concluso il procedimento disciplinare con la sanzione della censura, per di più – e il mistero si infittisce- nei riguardi del solo Presidente; prosciolti gli altri due giudici.

    Non è ancora nota la motivazione della bizzarra (è un eufemismo) decisione ma non può farsi a meno di rilevare che la censura è poco più di una tirata di orecchie che staglia impietosamente la considerazione che il CSM nutre delle questioni di principio messe in discussione.

    Questioni delicatissime: è inaccettabile che tre giudici abbiano potuto ritirarsi in camera di consiglio, discutere tra di loro della fondatezza dell’accusa condannando un imputato ad undici anni di reclusione senza averne mai ascoltato l’unico difensore.

    Una sola è la spiegazione dell’accaduto: totale indifferenza di quel Tribunale (dunque di tre giudici, non uno solo) alle argomentazioni nell’interesse di quell’imputato ed un Tribunale pronunzi una sentenza nei senza aver ascoltato e vagliato la sua difesa, nega in radice la propria stessa funzione perché non è uno sciamano, chiamato ad interpretare il giudizio  divino.

    Insomma, si tratta di un fatto di inconcepibile gravità punito con un buffetto sulla guancia di uno solo dei responsabili, pur avendo partecipato in tre allo scempio. La conseguenza che dobbiamo trarne è che, per il Consiglio Superiore della Magistratura, questa non è la condotta più grave che un giudice possa assumere, anzi, è una delle meno gravi, figurarsi le altre. Se qualcuno ha una spiegazione diversa…

  • L’istituto del referendum

    L’istituto del referendum rappresenta, in una democrazia delegata, l’unica occasione per permettere ai cittadini esprimersi in merito ad un determinato argomento.

    Nel nostro ordinamento ha delle limitazioni essendo prevista solo la possibilità di abrogare una legge già in vigore, escludendo invece determinate materie come quella fiscale.

    Tuttavia, di fronte al  senso di inadeguatezza che questa classe politica  è riuscita a trasmettere ai propri deleganti nella storia recente del nostro Paese, va anche sottolineato come lo stesso istituto del referendum abbia inevitabilmente acquisito anche le caratteristiche di strumento di pressione politica proprio nei confronti di quel  Parlamento istituzionalmente indicato a legiferare per materie di forte rilevanza politica e sociale.

    I referendum sulla giustizia nascono proprio da questa ultradecennale incapacità della classe politica di riformare il settore della giustizia avendo, e con un grande ritardo, percepito il senso di sfiducia dei cittadini stessi nei confronti del complesso sistema giudiziario italiano. Il referendum rappresenta l’ultima arma democratica in mano ai cittadini.

    Esiste un’altra limitazione relativa alle tematiche oggetto del referendum, come già detto, che esclude la materia fiscale mentre all’interno delle democrazie dirette come, per esempio la Svizzera, si possono  proporre anche  quesiti referendari  relativi alla introduzione di un limite agli stipendi degli amministratori delegati.

    In questo contesto, allora, proponendo un referendum relativo all’abrogazione del reddito di cittadinanza si entra  all’interno di una quanto mai complessa materia sociale ed economica in quanto si  contrappongono fasce di popolazione con redditi diversi ed interessi contrapposti il cui esito potrebbe influire sulla disponibilità economica di una delle parti interessate.

    In altre parole, la contrapposizione politica in ambito referendario non dovrebbe mai scendere sul piano della sussistenza economica e della possibilità di fornire o limitare gli  strumenti finanziari di cui una fascia di popolazione ne beneficia. Viceversa una classe politica consapevole dovrebbe spendersi per trovare gli strumenti legislativi per la sua corretta applicazione o per un’eventuale modifica se non addirittura abrogazione ma  in sede parlamentare come limpida espressione del potere legislativo.

    Ecco quindi, ancora una volta, il referendum, il quale andrebbe assolutamente riformato non tanto nel numero necessario per ottenere l’approvazione quanto nelle materie oggetto dello stesso per porre le basi normative finalizzate ad un avvicinamento del  nostro sistema, ormai impantanato da 111.000 leggi, ad un modello il più possibile vicino ad una democrazia diretta.

  • In attesa di Giustizia: Bipartisan

    Cauti nella critica e generosi nella lode, in questa rubrica abbiamo magnificato in più occasioni le intraprese del Premier che ha conseguito il titolo di Professore Ordinario con i Punti Fragola dell’Esselunga (qualcuno sostiene con la raccolta, per tempo oculatamente fatta dai genitori, degli indimenticati punti VDB) e del suo discepolo prediletto: l’ilare giureconsulto assurto al seggio di via Arenula.

    Equità vuole che non vengano dimenticate altrettanto mirabolanti azioni di governo, volte a rendere l’Italia un Paese migliore, riferibili ad Esecutivi del passato: questa è una settimana dedicata all’amarcord.

    In una stagione che, climaticamente, inizia ad essere più che mai favorevole agli sbarchi di migranti sulle coste siciliane – tema sempre di attualità – è cosa buona e giusta celebrare come meritano gli interventi di inizio millennio intesi a contrastare il fenomeno.

    La premessa d’obbligo è che, all’epoca, il nostro arsenale normativo disponeva di una legge caratterizzata – se non altro – da una certa chiarezza: la c.d. “Turco-Napolitano” che in quattro punti essenziali affronta il problema. Nei primi articoli statuisce che ai cittadini stranieri sono garantiti i medesimi diritti spettanti agli italiani secondo le convenzioni ed i canoni di diritto internazionale, nonché quello di partecipazione alla vita pubblica locale riservato a coloro che fossero regolarmente soggiornanti. Viene, quindi, fatta una netta distinzione tra regolari ed irregolari.

    L’articolo 4 prevede che l’ingresso nel territorio dello Stato è consentito solo a chi sia munito di un passaporto o valido ed equipollente documento, il successivo contiene la disciplina per il rilascio del permesso di soggiorno e l’articolo 10…i respingimenti di coloro che risultino privi di tali requisiti deputati alla Polizia di Frontiera: in fondo, i medesimi principi enunciati da Matteo Salvini in maniera più pittoresca.

    Legge chiara ma, purtroppo, inefficace perché prevedeva la notifica del decreto di espulsione al soggiornante irregolare (che lo cestinava appena uscito dalla Questura) incorrendo poi nella difficoltà operativa di eseguire materialmente il provvedimento rintracciandolo e rimandandolo al Paese di provenienza.

    Ecco allora, nel 2002, abbattersi sui clandestini la implacabile “Bossi-Fini” con la previsione di nuovi reati, pene più severe e carcere per tutti. Nihil novi sub sole: il ricorso ai soliti strumenti del diritto penale che non fanno paura a nessuno con qualche “curiosità” degna di nota: per esempio la previsione dell’arresto obbligatorio per chi non avesse ottemperato al decreto di espulsione.

    Senonchè, il reato era ed è previsto come contravvenzionale e per le contravvenzioni (che non sono quelle per divieto di sosta, che si chiamano sanzioni amministrative, ma una categoria degli illeciti penali) la legge proibisce la carcerazione preventiva…il risultato fu che le Forze dell’Ordine dovevano obbligatoriamente eseguire arresti, compilare verbali, sottrarre risorse ad altri impieghi e trasmettere tutto in Procura dove il P.M. non poteva fare altro che disporre la liberazione immediata dell’arrestato. Questo, almeno, finché qualcuno se ne accorse e la legge fu modificata: nel frattempo aveva tanto inutilmente quanto inesorabilmente intasato i tribunali.

    Non ammonito da riflessioni salutari, il Governo pensò allora di ricorrere diversamente al mito della sanzione penale, ipotizzando il ricorso all’arresto in flagranza del clandestino al momento dello sbarco.

    Orbene, i sostenitori di questa opzione – parliamo di Ministri e Parlamentari della Repubblica – non avevano considerato quanto prevede la Costituzione e cioè che gli arresti in flagranza devono essere convalidati o meno da un giudice entro al massimo 96 ore.

    Alzi la mano chi, anche senza avere dimestichezza tecnica con la materia, ritiene possibile che uno sventurato G.I.P. di Agrigento o di Ragusa (per fare degli esempi) possa celebrare decine se non centinaia di udienze nel volgere di una manciata di ore e redigere anche le ordinanze conseguenti…a tacer del fatto che si sarebbe dovuto, comunque, trovare posto in carcere per queste torme di sventurati nuovi giunti. Forse, si confidava nel fatto che il Guardasigilli – un ingegnere – ne potesse progettare e realizzare di nuove e capienti, a tempo di record.

    A qualcuno, però, nelle stanze dei bottoni venne, fortunatamente ed in tempo utile, di consultarsi con un amico magistrato la cui fragorosa risata offrì risposta al quesito. E spontanea sorge la domanda: ma, i Capi di Gabinetto, gli innumerevoli magistrati fuori ruolo assegnati a Ministeri e Authority, hanno studiano giurisprudenza alle serali al buio?

    I Governi successivi continuarono a ritoccare in qualche modo – e con i risultati che ben conosciamo –   quella che è divenuta una variopinta arlecchinata normativa e gli scafisti, ben compreso con chi hanno a che fare, ringraziano.

    Malcontate, sono circa duecentocinquantamila le leggi vigenti nel nostro Paese (la media negli altri Membri UE è di circa 1/10) ed a queste si aggiungono circolari interpretative, direttive, protocolli di intesa e regolamenti…fatevi una domanda e datevi la risposta del perché la Giustizia non funziona.

  • Sofia Goggia: la tutela bipolare

    Campionessa olimpica a Pyeongchang nel 2018, tre volte vincitrice della Coppa del Mondo (DL), vincitrice di due ori mondiali e medaglia d’argento a Pechino 2022. Questo rappresenta una parte del palmarès di Sofia Goggia, atleta bergamasca di sci alpino alla quale un giornalista in vena di interessi da basso ventre non ha chiesto quali possano essere le difficoltà per una atleta di livello mondiale nella gestione di un rapporto in ambito sentimentale o semplicemente relazionale. Spinto, invece, da un irrefrenabile prurito inguinale e da una quasi maniacale e voyeristica ricerca di intimità rubata voleva sapere se fosse a conoscenza di casi di omosessualità all’interno della nazionale femminile e di quella maschile.

    Il desiderio di avere delle informazioni dirette relative alle “tendenze” sessuali degli atleti (ma solo se omosessuali) rappresenta il livello del giornale che ospita tale intervista e, ancora oggi, testimonia una penosa attenzione riservata ad un argomento (l’omosessualità) assolutamente privato tanto quanto l’eterosessualità.

    Il caso di cui molti dibattono da quel lunedì pasquale parte dalla ricerca maniacale di un povero giornalista di creare del sensazionalismo e magari un caso sulla base di presunti comportamenti sessuali del mondo dello sci alpino e confermati dalla campionessa azzurra.

    La prima considerazione parte quindi dal ridicolo livello espresso tanto dal giornalista quanto dal Corriere della Sera i quali dimostrano una ancora oggi morbosa attenzione per le sole tendenze omosessuali degli atleti, convinti di suscitare un interesse esattamente come quello di cui risultano pervasi entrambi.

    Il successivo coro scomposto, poi, di proteste assolutamente sguaiato ed eccessivo che ha visto come protagoniste tanto giornaliste quanto esponenti di associazioni Lgbt dimostra il livello di massimalismo ideologico del nostro Paese, molto più adatto ad un regime dittatoriale che non ad una democrazia liberale.

    La diversità e la stessa lontananza di opinioni, andrebbe ancora una volta ricordato, rappresentano una ricchezza di un paese in quanto stimolano il confronto dal quale prende corpo un inevitabile arricchimento, quindi proprio per questo degni di ogni tutela.

    Il concetto di diversità e lontananza che il mondo del politicamente corretto vorrebbe tutelare emerge solo quando risulti espressione di una attitudine sessuale, ma la medesima tutela viene disattesa invece se si manifesta in forma legittima quanto criticabile di opinioni.

    E’ inaccettabile un comportamento così ambiguo e bipolare il quale da una parte tende a tutelare la sola diversità definita sulla base di comportamenti sessuali e privati (1) ma contemporaneamente tende a non riconoscerla se tale diversità si manifestasse nell’ambito di legittime opinioni (2).

    Mai come adesso la bipolarità evidente prende forma come in una insostenibile forma di prevaricazione sessuale, cioè basata sulla tutela della diversità in relazione alle sole attitudini sessuali ma non applicata alla diversità di opinioni.

    E che altro potrebbe essere se non una forma di violenza quella che riconosce un diritto solo se esercitato nella sfera sessuale escludendo ogni altra tutela se espresso in contesti lontani dalla sessualità?

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