diritto

  • In attesa di Giustizia: nelle mani degli esperti

    Alzi la mano chi coltiva tra le proprie letture preferite la relazione della Corte dei Conti sulle spese sostenute dallo Stato per errori giudiziari ed ingiuste detenzioni.

    Eppure, anche da un testo come questo – che non si annovera tra i più appassionanti – si possono ricavare informazioni e dati che risultano utili, sebbene di nessun conforto, a comprendere in che condizioni versa l’amministrazione della Giustizia: talvolta con annotazioni davvero sorprendenti, come questa che arricchisce la galleria degli orrori di questa rubrica.

    Partiamo dal brocardo ne procedat iudex ex officio che esprime un fondamentale principio risalente, come intuibile, al diritto romano e da allora applicato anche da giudici contemporanei con il quale è fatto divieto ad un giudice di procedere di sua iniziativa quando manchi la proposizione di una domanda “di parte”: vale a dire del cosiddetto attore nel processo civile e del Pubblico Ministero in quello penale.

    Ciononostante, accade in una cittadina del Sud che un giudice delle indagini preliminari – magistrato con una certa anzianità di servizio – ordini l’arresto di un indagato e di sua figlia per false fatturazioni sebbene il P.M. avesse chiesto la carcerazione solo dell’uomo.

    Per legge è il Pubblico Ministero che cura l’esecuzione degli arresti ma nemmeno lui si accorge che sta per essere incarcerata una persona per la quale non ha fatto richiesta; le Forze dell’Ordine eseguono entrambi i mandati di cattura e solo qualche giorno dopo, in occasione dell’interrogatorio “di garanzia” si riesce a chiarire l’equivoco, chiamiamolo così usando un eufemismo per quello che in sostanza è un sequestro di persona: scarcerazione per assenza dei presupposti di legge.

    Come si vede, non era questione di interpretare una legge confusamente articolata, oppure di fare complicate ricerche di precedenti giurisprudenziali ma solo di leggere con attenzione la richiesta finalizzata a privare della libertà almeno una persona ed applicare un principio millenario ed immutato…e saper contare fino a due.

    Tutto è bene, però, ciò che finisce bene (o quasi): tornata in libertà, la donna è stata in seguito risarcita con circa 21.000€ di cui ora la Corte dei Conti chiede la restituzione a Giudice e P.M., responsabili a tutta evidenza del danno erariale prodotto. Nel rispetto degli interessati non facciamo nomi perché la notizia è sfuggita (chissà come mai?) ai media, a tacer del fatto che ci sono accertamenti ancora in corso.

    Chi vivrà vedrà come andrà a finire, soprattutto se le polizze assicurative dei due magistrati garantiscono anche contro il verificarsi di eventi simili o se dovranno pagare di tasca loro; sarà interessante anche sapere se saranno sottoposti ad un procedimento disciplinare e che futuro avrà la loro carriera ma – come si è detto – tutto è bene ciò che finisce bene e non è fuor di luogo pensare che non vi saranno conseguenze particolari per questi campioni del diritto, forse perché qualcuno sosterrà che si tratta di errorucci dai quali sicuramente si è tratto un arricchimento della esperienza.

    E, come scriveva Niels Bohr – che non era un giurista ma un fisico che, peraltro, ha vinto un Nobel – “Un esperto è uno che ha fatto tutti gli errori possibili nel suo campo”.

  • In attesa di Giustizia: Delitto e castigo

    Sarà vero che in questo Paese non ci sono innocenti ma solo colpevoli che la fanno franca? Per una risposta attendibile, passato il tempo necessario per svolgere le indagini e magari celebrare un processo, bisognerà rivolgersi proprio a chi alimentò quella preoccupazione: Piercamillo Davigo.

    Il riferimento è alla vicenda dei verbali secretati di interrogatori del plurindagato avvocato Amara in cui si parla di una presunta loggia coperta denominata “Ungheria” con il compito – stile P2 – di condizionare apparati dello Stato.

    L’ex P.M. di Mani Pulite, come si ricorderà, ricevette quei verbali quando era componente del C.S.M. dal Sostituto Procuratore di Milano Paolo Storari il quale, lamentando immobilismo investigativo da parte dei vertici della Procura, richiedeva non si comprende bene quale genere di soccorso; un carteggio che il primo non avrebbe potuto avere ed il secondo non avrebbe dovuto trasmettere: non a Davigo di sicuro. Eppure parliamo di uomini i cui genitori hanno fatto tanti sacrifici per farli studiare.

    Ma tant’è: con buona pace del segreto istruttorio e del rispetto delle procedure quegli atti si sono diffusi come le figurine dei calciatori della Editrice Panini; dopo Davigo entrarono nella disponibilità della sua segretaria, poi di alcune redazioni di quotidiani ed in ultimo – scambiati nella discreta penombra della tromba delle scale del Consiglio Superiore – persino nelle mani del raffinato giurista a cinque stelle posto alla Presidenza della Commissione Parlamentare Antimafia. Insomma, di chiunque tranne che dei possibili destinatari istituzionali.

    C’è voluto un po’ ma infine Piercamillo Davigo è stato iscritto nel registro degli indagati per rivelazione di segreti di ufficio dove già compare il nominativo di Storari il quale nel frattempo ha sperimentato, dall’altra parte della scrivania cui è abituato, la piacevolezza di un interrogatorio di quattro ore.

    Sarà interessante vedere come andrà a finire, se alla compagnia si aggiungeranno altri nomi più o meno illustri, se verrà contestato (e ci starebbe tutto) anche il più grave reato di ricettazione, se vi sarà un processo e, chissà, delle condanne.

    Rispettosi della presunzione di innocenza, non azzardiamo valutazioni circa rimproverabilità del comportamento e colpe dei coinvolti in una storia, peraltro, dai contorni quantomeno ambigui: tuttavia è possibile trarre subito una prima conclusione riferita a Piercamillo Davigo.

    Questa è una vicenda in cui, colpevoli o innocenti, nessuna la farà franca: certamente non Davigo che sconterà comunque una punizione anche se verrà assolto, un trattamento che ha il sapore del feroce contrappasso. Dovrà, infatti, nominare un difensore, sarà quindi costretto a frequentare un avvocato, ad affidarsi a lui – spregevole appartenente alla disprezzatissima genia degli azzeccagarbugli – persino a ringraziarlo e financo a pagarlo (questo forse: i magistrati hanno spesso la manina corta).

    Delitto e castigo anche se innocente: novello Raskolnikov, Piercamillo per sentirsi un po’ più a suo agio potrebbe forse scegliere di farsi difendere dal noto docente del nulla applicato al diritto autoproclamatosi avvocato degli italiani o persino da Don Fofò Bonafede: ma non è così stupido, si rivolgerà ad altri e berrà l’amaro calice fino in fondo, espierà una pena che sarà per lui così dolorosa, disumana, da suggerire di rivolgersi alla Corte dei Diritti dell’Uomo…ma Davigo non lo farà mai, sopporterà stoicamente una volta ma non una di più la vicinanza di un avvocato.

    Passi il delitto (che, seppur commesso, lui che è assistito dal dogma della infallibilità non ammetterà mai) ma, in fondo, anche al castigo c’è un limite e persino l’inflessibile Piercamillo Davigo potrebbe questa volta percepirne, soggettivamente, un eccesso di rigore.

  • In attesa di Giustizia: a volte ritornano

    Tiepida la notizia che Maria Angiuoni, l’ex P.M. che per prima si occupò del sequestro di Denise Pipitone, è stata indagata a sua volta per false dichiarazioni dopo essere stata ascoltata in relazione alle sue bizzarre investigazioni private sulla sparizione della bimba siciliana, troppo occupato il C.S.M. nel bandire un concorso per otto autisti da destinare ad altrettanti Consiglieri i cui tormentati arti inferiori non possono sopportare l’affronto di spostarsi utilizzando i mezzi pubblici messi a disposizione da Virginia Raggi; è bastata una settimana senza nemmeno un arresto, senza sputtanamenti per prove a discarico nascoste alle difese, senza regolamenti di conti più o meno palesi tra correnti diverse della magistratura associata, per ridare fiato al massimo cultore del giacobinismo manettaro e coraggio ad una paio di zombie di cui, nell’agone politico, nessuno sentiva la mancanza. A volte ritornano.

    Ricorda, allora, Piercamillo Davigo che dopo una condanna ancora appellabile non si può più seriamente parlare di presunzione di innocenza e parla di effetti devastanti come conseguenza di una modifica referendaria delle norme sulla carcerazione preventiva, paventando un futuro in cui orde di criminali lasciati liberi potranno scorrere in armi le campagne.

    Nel mentre che il sipario si alza su questo teatrino che non ha nulla di nuovo, neppure quanto a falsità (peraltro, abilmente ammannite) riappaiono sulla scena due filosofi della corrente di pensiero secondo cui il fatto prova il reato e l’unica spiegazione plausibile di un fatto è un reato.

    Parliamo di Antonio Ingroia, insuperabile collezionista di fallimenti politici, e di Antonio Di Pietro che sembrano volersi mettere nuovamente in gioco cavalcando l’onda della secessione grillina.

    Sì, a volte ritornano, proprio come in una raccolta di racconti firmata da Stephen King; per fronteggiare l’orrore ed alimentare la speranza può quindi essere di conforto proporre – a dieci anni esatti di distanza – lo scritto di un Magistrato, Giuseppe Maria Berruti.

    “La vicenda nata dalle indagini palermitane (di Antonio Ingroia, n.d.r.) e sfociata negli attacchi al Quirinale, dimostra la necessità di cambiare profondamente il meccanismo giudiziario. Sono un Magistrato, sono stato componente del C.S.M.: i magistrati non possono avere la coscienza tranquilla. Hanno rifiutato il tentativo di autoriformarsi attraverso il loro governo autonomo e si trattava dell’ultima possibilità di affrontare il cambiamento. La grande intuizione del potere diffuso del giudice singolo, cioè della libertà del giudice singolo di interpretare la legge, si giustifichi solo con il possesso di una professionalità assoluta, controllata e controllabile: altrimenti diventa una volgare domanda di irresponsabilità alla quale si contrappone la barbarie della responsabilità civile diretta che trasforma il cittadino in avversario in giudizio nel momento stesso in cui entra nella stanza del giudice. La vicenda spaventosa del Presidente della Repubblica ascoltato in una conversazione di Stato dimostra che non c’è più tempo e mi auguro che le culture liberali e costituzionali facciano la parte che la Storia impone.”

    Nell’Ordine Giudiziario, come si vede (lo scritto è del 24 giugno 2011) e come in questa rubrica si è sempre sostenuto, vi sono personalità di prim’ordine, capaci di lucide e lungimiranti analisi, di autocritica severa e costruttiva e nel ritorno alla ribalta di figure come questa, piuttosto che degli indignati in servizio permanente effettivo, si deve confidare perché si possa parlare, prima ancora che di attesa di Giustizia, di rinascita dello Stato di Diritto, di un sistema che più che di riforme ha necessità di essere rifondato.

  • Nasce la Procura europea, seguirà 3mila casi all’anno

    E’ operativa dal primo giugno la Procura europea, il nuovo organismo destinato a contrastare le frodi sui fondi Ue ha preso vita dopo alcuni mesi di ritardo ma in tempo per monitorare l’utilizzo dei miliardi di euro del Recovery Fund che stanno per essere distribuiti. Il suo lancio non è stato senza intoppi. Inizialmente previsto per la fine del 2020, è stato rinviato in particolare perché i 22 Stati partecipanti hanno tardato a nominare i loro procuratori delegati. Due non lo avevano ancora fatto alla vigilia dell’entrata in funzione dell’organo: Slovenia e Finlandia.

    L’Ufficio del procuratore generale europeo – Eppo in inglese -, guidato dall’ex capo della procura anti-corruzione romena Laura Kovesi, lavorerà “in completa indipendenza dalla Commissione, da altre istituzioni e organi dell’Ue, nonché dagli Stati membri”.

    L’organismo sovranazionale ha il compito di indagare, ma anche perseguire e assicurare alla giustizia i responsabili di reati che incidono sul bilancio dell’Ue. Un potere senza precedenti, che l’Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf) non aveva. Si tratta dei reati di appropriazione indebita di fondi europei e corruzione, frode transfrontaliera dell’Iva che coinvolge almeno due Stati membri e importi superiori a 10 milioni di euro, riciclaggio di denaro. Per le sole frodi Iva transfrontaliere, l’Ue stima un danno annuo tra i 30 e i 60 miliardi di euro. Per gli altri reati le stime si aggirano intorno ai 500 milioni di euro all’anno. La Procura europea prevede di trattare circa 3 mila casi all’anno.

    L’Eppo si compone di un livello centrale, con sede in Lussemburgo. Al vertice, Laura Kovesi circondata da un collegio di 22 procuratori, uno per Stato partecipante. Dei 27 Paesi dell’Ue, Ungheria, Polonia, Irlanda, Svezia e Danimarca non sono parti interessate. I procuratori hanno prestato giuramento a settembre e sono responsabili della supervisione delle indagini
    e dei procedimenti giudiziari. Le attività’ vengono svolte sul campo dai procuratori aggiunti negli Stati membri.

    Finora sono stati nominati 88 vice procuratori in 20 Paesi, il che è sufficiente per l’inizio dei lavori. In Francia ce ne sono 4, in Italia 15, in Germania sono 11. Possono agire su tutto il territorio nazionale, organizzare il sequestro di beni, emettere mandati di cattura, avviare procedimenti.

    I Paesi hanno difficoltà a indagare sui reati transfrontalieri. Per ottenere informazioni da altri Stati, devono fare rogatorie, che a volte richiedono settimane, quando vanno a buon fine. Passaggi non più necessari con la Procura europea. “Possiamo semplicemente fare una telefonata o inviare un’email al nostro collega in Slovacchia o in Italia”, spiega il vice procuratore tedesco, Marcus Paintinger. “E’ un grande valore aggiunto”. E diventa fondamentale alla luce della partenza del gigantesco piano di ripresa da 750 miliardi di euro e sui chi bisognerà vigilare per evitare frodi. L’accusa “seguirà molto da vicino l’attuazione del Next Generation Eu in modo da garantire che tutti i fondi vengano utilizzati per aiutare le nostre economie a superare la crisi”, ha affermato il commissario europeo alla Giustizia, Didier Reynders.

  • In attesa di Giustizia: peccati capitali

    Ira: la tragedia del Mottarone dopo l’iniziale, doloroso, sgomento ha suscitato un’ondata di indignazione nella opinione pubblica che si è andata accrescendo mano a mano che prendevano corpo i sospetti circa una inadeguata manutenzione dell’impianto cui ha fatto il paio la scellerata opzione di sopperire con uno stratagemma tecnico, che avrebbe impedito continui fermi delle cabine in movimento, ad una interruzione totale del servizio per indispensabili interventi di ripristino. Peccato comprensibile e perdonabile.

    Accidia: non erano esattamente beni spirituali quelli da perseguire ma da parte di qualcuno sembra essersi mostrato un indolente approccio al tema della sicurezza di esercizio ed una incomprensibile indifferenza rispetto al rischio elevatissimo di mettere a repentaglio – come poi è accaduto – vite umane.

    A fare il paio con l’accidia, l’avarizia: il movente che traspare sarebbe (il condizionale è d’obbligo mentre le indagini sono in una fase iniziale) legato alla volontà di risparmiare sui costi di riparazione evitando nel contempo le perdite di incassi determinate dal mancato funzionamento della funivia in un periodo cruciale dal punto di vista economico.

    Sarà, poi, così? Una svolta nell’accertamento delle responsabilità si era proposta con straordinaria velocità: tanto è vero che, a pochi giorni dal disastro, vi erano già dei presunti colpevoli raggiunti da una richiesta di fermo. Il fermo, peraltro, è un istituto diverso dall’arresto sebbene con caratteristiche concrete del tutto identiche: privazione della libertà e carcere.

    La legge, infatti, prevede come presupposto il pericolo di fuga che non deve consistere nella generica supposizione che a nessuno faccia piacere la prospettiva della galera suggerendo di sottrarvisi: devono, viceversa, evidenziarsi comportamenti concreti che dimostrino tale intenzione come potrebbe essere un repentino allontanamento da casa, il prelievo improvviso di consistenti risorse in contanti, la richiesta di un visto consolare per un Paese con il quale non vi siano accordi di estradizione.

    Dunque, posto che nulla di tutto ciò era stato dimostrato, bene ha fatto il Giudice a non convalidare i fermi e a non emettere un ordine di custodia (come, pure era stato chiesto contestualmente) se non nei confronti di chi aveva confessato la manomissione del freno di sicurezza. Le accuse di quest’ultimo rivolte agli altri indagati non sono a loro volta apparse riscontrate ed, anzi, pare che siano state in parte smentite da testimoni ed in parte motivate dall’interesse ad alleggerire la propria posizione coinvolgendo soggetti a livello gerarchicamente superiore.

    La confessione è la regina delle prove scriveva Mario Pagano nei Principi di Diritto Penale e Logica dei Probabili…ma erano altri tempi: un ordinamento moderno impone che le ammissioni di colpa che coinvolgono altre persone vengano verificate con prudenza poiché potrebbero essere determinate da ragioni diverse da una leale collaborazione con l’Autorità Giudiziaria; persino la confessione del fatto proprio non deve essere, come si suol dire, “presa per oro colato” tanto è vero che il codice prevede anche il reato di autocalunnia.

    Tristezza: un tempo i peccati capitali erano otto. Il buon cristiano aveva il dovere della letizia. Orientamento etico superato ma stato d’animo insuperabile di fronte alla tragica fine di tante vite umane: il dolore, tuttavia, non può e non deve trovare conforto nella caccia ad un colpevole purchessia, la giustizia è qualcosa di ben diverso dalla vendetta sociale ed anche se gli animi sono gravidi di dolore non deve in alcun modo darsi spazio allo sconcerto per il provvedimento di un Giudice equilibrato ed in tutto coerente con quello che la legge prevede e che, comunque, non è ancora una sentenza di assoluzione.  “Ad metalla, ad bestias” lasciate che sia il grido delle truppe cammellate davighiane, la Giustizia è un’altra cosa ed è quello che merita la memoria delle vittime.

  • In attesa di Giustizia: il ponte delle spie

    Glavnoe, Razvedyvatel’noe Upravlenie, siglato G.R.U., tradotto in italiano Direttorato principale per l’informazione, è il servizio segreto delle Forze Armate russe (fino al 1991, sovietiche) ed è tutt’oggi una componente molto importante del sistema di intelligence della Federazione Russa, specialmente perché non è stato mai ristrutturato, diviso e persino diversamente denominato come accaduto al Comitato per la Sicurezza dello Stato, meglio noto come K.G.B.

    Sospettato, tra l’altro, di essere stato, di recente, artefice di attacchi informatici a livello globale e di interferenza nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, ha nel suo DNA le competenze nello sviluppo di nuove tecnologie: fu, infatti, Stalin a chiedere ai suoi ingegneri di concentrarsi sulle modalità di danneggiamento dei paesi nemici a distanza.

    Come dire: non si tratta di un cimelio dell’U.R.S.S. bensì di una struttura pienamente operativa e la circostanza che il russo coinvolto nella spy story con un ufficiale della nostra Marina Militare fosse anch’egli un militare con il grado di colonnello fa pensare che la sua reale funzione nel nostro Paese – con adeguata copertura diplomatica – fosse quella di operativo del G.R.U.

    Questa vicenda sta tenendo banco ormai da giorni proprio per la sua originalità con il retrogusto da Guerra Fredda, quella guerra che sembrava ormai conclusa da decenni, da quando – come disse Margaret Thatcher – Ronald Reagan la vinse “senza sparare un colpo”.

    Intelligenza con una potenza straniera, e nel provvedimento di arresto del Capitano Walter Biot si legge di una sua elevata pericolosità, giudizio che non può che ricollegarsi alla natura delle informazioni che passava ai russi. Tanto è vero che il Governo sta considerando di mettere il segreto di Stato su quei dati che, verranno – di conseguenza – omissati negli atti giudiziari.

    Walter Biot si è avvalso del diritto al silenzio durante l’interrogatorio davanti al G.I.P. ma poche ore dopo ha fatto sapere che vuole essere sentito dai P.M., annunciando due argomenti: la irrilevanza dei documenti sottratti dal punto di vista della compromissione della efficienza militare delle nostre forze armate e la sua condizione di indebitamento.

    Non è consuetudine, in questa rubrica, anticipare giudizi soprattutto quando non si dispone di documentazione completa: tuttavia, proprio dalle poche battute del Capitano Biot traspare una implicita confessione (difficile, peraltro, negare essendo stato colto “con le mani nel sacco”) volta a minimizzare e impietosire: mutuo, figli, animali domestici da mantenere con lo stipendio della Marina e poche scartoffie senza valore rifilate ai russi.

    Due conclusioni si possono trarre a questo punto: la prima è che lo spionaggio è punito con l’ergastolo se il fatto ha compromesso il potenziale bellico dello Stato, una decina di anni in assenza di questa aggravante. Quindi, di fronte all’innegabile è meglio cercare una via di uscita dal “fine pena mai”. La seconda è che tutti i pari grado di Walter Biot guadagnano circa 2.200 euro netti al mese ma per mettere insieme il pranzo con la cena non diventano dei traditori in cambio del corrispettivo di un paio di mensilità extra.

    E il G.R.U. metterebbe in piedi un’operazione di spionaggio compromettendo agenti operativi di alto grado e mettendo dei soldi, ancorchè non molti, sul piatto per informazioni che si possono trovare digitando su Google?

    La verità sarà un’altra, quasi certamente non quella che intende offrire Walter Biot, ma per la posta in gioco, forse, non la sapremo mai del tutto; resta la triste considerazione che il traditore della Patria che ha giurato di proteggere è il peggiore dei servitori infedeli dello Stato. Anche se per pochi soldi (anzi, peggio…), anche se per informazioni di scarso valore.

    La pena che verrà inflitta al Capitano della Marina lascerà intuire qualcosa: poi bisognerà vedere se la sconterà tutta o se – come ai tempi della Guerra Fredda – verrà magari liberato e scambiato con qualcuno, forse sul Ponte Umberto che attraversa il Tevere proprio di fronte alla Corte d’Appello Militare.

  • In attesa di Giustizia: immunità di gregge o del pastore?

    In epoca di pandemia l’immunità di gregge sembra essere un obiettivo primario da raggiungere ma, a quanto pare, ci sono forme di immunità – in qualche modo collegate all’emergenza sanitaria – che sono state conseguite addirittura in anticipo: argomento che vale la pena essere affrontato non prima di avere richiamato gli sviluppi di una indagine clamoroso, in realtà non l’unica ma solo l’ultima in ordine di tempo, che ha come sfondo l’acquisto ed il commercio di dispositivi di protezione individuale.

    Il riferimento è all’inchiesta romana, coordinata da quell’eccellente magistrato del Pubblico Ministero che è Paolo Ielo, in cui insieme ad altri risulta coinvolto Mario Benotti (patron del consorzio Optel e di Microproducts) per la fornitura di milioni di mascherine da produttori cinesi, mascherine che – tra l’altro – dovrebbero avere un costo industriale incoerente con il prezzo poi praticato in rivendita, garantendosi così marginalità fuori dall’ordinario.

    Nulla che debba sorprendere più di tanto poiché in questo sventurato Paese le disgrazie e le calamità naturali sembrano costituire un richiamo formidabile per gli sciacalli: qualcosa era già successo, per esempio, in occasione della ricostruzione successiva al terremoto in Abruzzo ed anche ora, dagli ascolti telefonici, sembrerebbe che il proseguimento della pandemia e delle restrizioni precauzionali conseguenti sia stato tra gli auspici di imprenditori di modesto livello etico.

    Siamo solo in una fase di indagine, gli sviluppi potranno confermare o smentire le iniziali ipotesi di accusa e la presunzione di non colpevolezza deve essere riconosciuta a tutti ma, non c’è dubbio, il portato delle conversazioni e le ulteriori evidenze sin qui acquisite in merito al rapporto costi/ricavi propongono un quadro inquietante.

    Nel decreto di perquisizione della Autorità Giudiziaria romana destinato ai soggetti inquisiti ed alle rispettive aziende si legge che allo stato non vi è prova che gli atti della struttura commissariale siano stati compiuti dietro elargizione di corrispettivo il che, tradotto, significa che comunque si indaga per verificare se si siano realizzati fatti di corruzione per indurre all’acquisto mediante pubbliche commesse Il Commissariato per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contrasto dell’emergenza epidemiologica: tutto ciò anche perché risultano centinaia di intercettazioni tra gli indagati e Domenico Arcuri il quale – come lamentano due di essi al telefono – si sarebbe improvvisamente sottratto alla interlocuzione, circostanza ritenuta sintomatica della imminenza di qualche problema in arrivo. A pensar male si fa peccato ma non si sbaglia avrebbe detto Giulio Andreotti ma tale repentina interruzione dei rapporti senza che vi sia, corrispettivamente, una qualche segnalazione di possibili anomalie nelle relazioni commerciali da parte dell’autorità commissariale è vagamente sospetta, come traspare dalla porzione del decreto di sequestro che è stata richiamata.

    Arcuri, intanto, già gode di una forma di immunità che non è quella di gregge ma del pastore: intrufolata – alla maniera dell’ormai ex avvocato degli Italiani – in un decreto Cura Italia c’è una norma che si cura, invece, di munire il Commissario Arcuri di poteri di spesa assai vasti e di un vero e proprio scudo rispetto a sgradite curiosità della Corte dei Conti. Nel frattempo, pure spendendo denaro pubblico per acquisti sovrapprezzati, vi è da pensare che al Commissario Arcuri sia in astratto riconoscibile il benefit di 50.000 € all’anno per obiettivi raggiunti che il suo incarico prevede…sempre che, prima dell’incasso un Commissario di altro genere non vada a bussare alla sua porta.

  • In attesa di Giustizia: giustizia feudale

    Quando questo numero de Il Patto Sociale andrà in stampa (si fa per dire) alla guida del Governo dovrebbe ormai esserci Mario Draghi e nella compagine, con certezza, mancherà Alfonso Bonafede: un bene per il Paese ma, paradossalmente, un pregiudizio per questa rubrica privandola della possibilità di commentare le sistematiche castronerie di cui si è mostrato capace.

    D’altronde, dire che la fine dell’Esecutivo sia stata determinata da un sabotaggio di Italia Viva è una mera esemplificazione: l’iniziativa di Renzi ne è stata solo la causa formale e la crisi affonda le sue radici nella inefficienza dell’azione di governo, partitamente in ambiti molto sensibili quali l’organizzazione del programma vaccinale, la gestione del piano Next Generation e – naturalmente per quanto qui interessa – l’amministrazione della Giustizia.

    L’opacità delle menti di coloro cui sono state affidate le sorti dell’Italia ha sortito interventi confusi e inadatti a fronteggiare l’emergenza determinando, piuttosto, un significativo aggravamento della crisi di efficienza in cui, comatosamente, già versava quest’ultimo settore.

    Invece di dar vita ad una disciplina organica e strategicamente pensata per consentire la prosecuzione della attività dei tribunali in tempi di pandemia l’emergenza è stata affidata a disarmoniche e cervellotiche previsioni, mutanti nel tempo ed interpolate nei decreti ristori, che ha determinato forme di supplenza peggiorative della situazione.

    Il riferimento è ad una sorta di delega verso il basso della potestà normativa che si è concretizzata – se ne è trattato anche in altri numeri de Il Patto Sociale – in una babele di protocolli e decreti di sapore feudale perché emanati e sottoscritti alla “periferia dell’Impero” dai Capi degli Uffici Giudiziari in assenza di un qualsivoglia coordinamento anche nell’ambito del medesimo territorio.

    Gli esiti sono stati disastrosi a prescindere dalla impossibilità per gli operatori di settore di comprendere il da farsi a seconda di dove e come si doveva, per esempio, depositare un atto o richiedere le copie di un fascicolo. Più recentemente, tra l’altro, si è rilevata anche esistenza di atti “dimenticati” perché, pur formalmente inviati ad un indirizzo pec corretto sono rimasti sospesi nel web a causa di confusa e complessa ripartizione interna degli indirizzi tra cancellerie di un medesimo Ufficio, giusta la disposizione di un Presidente di Corte d’Appello.

    Ed è stata proprio la latitanza del Governo a determinare – senza peraltro alcun rispetto della gerarchia delle fonti –  il ricorso a rimedi sovente rivelatisi peggiori del male.

    Nel frattempo sono decine se non centinaia di migliaia i fascicoli che rimasti del tutto fermi o arenati intasando i ruoli di udienza con semplici rinvii per la mancanza o imperfezione di qualche notifica: ed all’orizzonte non si vede alcuna prospettiva migliore anche perché gli strumenti promessi e preannunciati come di imminente consegna per consentire il lavoro agile ai funzionari amministrativi non si sono ancora visti.

    L’aggravamento della situazione è tale che, per quanto possa essere competente il Guardasigilli che Mario Draghi sceglierà, risolverla si presenta come un’impresa disperata e complicata anche dalla esigenza di porre fine al devastante “diritto protocollare” che nel frattempo è invalso evitando che il superamento con norme omogenee sul territorio determini ulteriori difficoltà per problemi di interpretazione circa l’efficacia o meno nel tempo di talune disposizioni.

    Forse la soluzione per ritornare ad una parvenza di normalità (almeno nel settore penale) può rinvenirsi in un’amnistia a maglie larghe: si tratta di un male più che mai necessario, e che – tipicamente – segnala l’incapacità dello Stato, di questo Stato e di quel Governo di fornire un adeguato servizio Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: in attesa del giusto processo

    Il furore intellettuale e la diuturna applicazione allo studio di professori reali o presunti, giuristi da Carnevale di Viareggio, politicanti giacobini e garanti della Costituzione assopiti hanno offerto un contributo forse decisivo all’affossamento del processo penale in micidiale sinergia con l’emergenza epidemiologica.

    Tra ciò che è stato fatto e quello che si poteva fare e non si è fatto, sarebbe stata meno dannosa una invasione delle locuste mirata nei Tribunali: la Costituzione ha ceduto il passo ai D.P.C.M., il diritto processuale a protocolli improvvisati ed alla fascinazione di nuove tecnologie approssimativamente impiegate.

    Da ultimo, con il D.L. n. 149 del 09.11.2020 si è celebrata la messa in requiem dei giudizi penali di appello nel contingente periodo di pandemia: salvo che non sia fatta espressa richiesta di trattazione in udienza e con discussione gli appelli vengono relegati a mero esame degli atti, senza contraddittorio, da parte della Corte; è una evidente manovra di abbrivio verso l’agognata eliminazione del secondo grado di giudizio.

    Dalla scorsa primavera siamo, poi, stati costretti a convivere con la burocratizzazione del procedimento penale, ormai regolato da protocolli adottati in maniera del tutto disomogenea dai vari uffici giudiziari: e se è vero che – a livello locale e nell’assenza di legislazione – sono stati spesso preceduti da un vivace confronto fra tutte le parti a vario titolo coinvolte, è altresì vero che rischiano di essere il viatico verso un pericoloso appiattimento della giustizia penale agli stessi.

    Il risultato finale cui si è arrivati, infatti, ha finito con l’essere ben altro rispetto a quello che i soggetti interessati nell’elaborazione dei protocolli si erano prefissati: una diffusa disparità, a tutti i livelli, distrettuale, nazionale e tra i vari uffici giudiziari. Ovvero prassi differenti e difformi, e ciò tocca inevitabilmente il principio di legalità.

    Uno strumento di salvezza vi sarebbe ed è la riserva di legge – inserita nella Costituzione – che prevede che la disciplina di una determinata materia sia regolata dalle legge primaria e non da fonti di tipo secondario – e ancor meno da protocolli locali: bisognerebbe però, innanzitutto conoscere e poi rispettare la Costituzione, infine applicarla non senza un briciolo di buon senso nel legiferare. Ah, già, anche di competenza.

    La riserva di legge assicura che in materie particolarmente delicate, come i diritti fondamentali del cittadino (quali il diritto alla difesa e al giusto processo), le decisioni vengano prese dall’organo più rappresentativo del potere sovrano, ossia dal Parlamento, così come previsto dall’articolo 70 della Costituzione.

    Per quanto non sia un’assemblea arricchita dalla presenza di uomini come Einaudi e Calamandrei, il Parlamento appare emarginato e – forse – non può che imputare a se stesso tale stato poiché, pur disponendo di strumenti per aprire dibattiti, tavole di confronto e per ribadire a gran voce il proprio primato – anche politico -, annichilisce di fronte alla deriva della giustizia penale territoriale e feudale, ad una decretazione d’urgenza senza visione prospettica e strategica.

    Il processo penale ha una sua sacralità che deve essere preservata e le battaglie a sua difesa, oggi più che mai, sono battaglie per i diritti. E’ un compito in cui debbono gli avvocati con atti di coraggio, tornando ad essere sentinelle della giustizia e guardando ad un orizzonte non troppo lontano da noi: la Costituzione.

  • In attesa di Giustizia: scandalo a Brescia

    Una cronaca giudiziaria miope e impreparata, se non in mala fede nella spasmodica ricerca della notizia che incrementi ascolti e vendite, ha gridato allo scandalo a causa di una sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Brescia con la quale è stato prosciolto per vizio totale di mente un anziano, Antonio Gozzini, accusato dell’omicidio della moglie.

    L’ossessione giustizialista di cui è preda questo paese, è stata così alimentata dopo il levarsi di molte ed indignate voci senza che nessuna si sia soffermata a considerare un dato banale: quando viene riconosciuta la incapacità di intendere e di volere si viene prosciolti, semplicemente non si è imputabili.

    Da un passaggio della arringa difensiva in favore di Antonio Gozzini in cui si è alluso a una forma di gelosia delirante è stato fantasiosamente distillato il concetto che l’uomo sia stato assolto perché la gelosia è considerata una scriminante e la decisione della Corte bresciana è stata tacciata di un arretramento plurisecolare della giurisprudenza determinando la sgomentata reazione del quarto potere al cospetto dell’ennesimo femminicidio impunito: questa volta a causa di giudici che riportano la loro decisione a una tradizione giuridica simile a quella vigente tra i boscimani che condannava la donna ad una posizione subordinata, prossima alla schiavitù.

    Tutto ciò, si badi bene, senza che siano state depositate le motivazioni della sentenza: e per evitare questo starnazzante disaccordo sarebbe stato – viceversa – sufficiente fare governo di semplice buon senso.

    Buon senso con cui considerare che è impossibile una persona possa essere stata assolta semplicemente perché ha un delirio di gelosia…salvo che non sia lo stesso giudice meritevole di un accertamento psichiatrico.

    Una sentenza di quella natura, infatti, è ovvio che sia stata preceduta da una perizia psichiatrica che ha accertato la incapacità di intendere e di volere dell’imputato, qualunque fosse la natura della patologia. Almeno questo un cronista giudiziario dovrebbe saperlo: ma se ignora basilari fondamenti del processo penale non è del tutto ingiustificata la reazione del cittadino che legge i giornali. In effetti, ci sarebbe da indignarsi ma non per quello che si è verificato, piuttosto per come è stato raccontato.

    Si tratta di un problema ormai incistato del nostro sistema: il rapporto tra processo e mass media, la assoluta approssimazione con cui vengono trattate le vicende processuali; e va a finire che non solo note influencers finiscono ingannate intervenendo a sproposito (e la domanda è: perché intervengono, a prescindere?) ma anche il giurista cui è affidata la Guardiania dei Sigilli della Repubblica cade vittima di una informazione largamente imperfetta. Rincorrendo gli umori dell’opinione pubblica (dato a cui siamo ormai rassegnati), l’Onorevole Bonafede preannuncia che manderà gli Ispettori a Brescia…ma perché, perché? In fondo lui è il Ministro della Giustizia, è un avvocato: è, forse, chiedere troppo che prima rifletta sul fatto che – alla base di quella sentenza – potrebbe esservi anche un problema di genetica molecolare, scienza che studia l’influenza del profilo genetico sul comportamento degli individui, di relazione tra sintomi psicopatologici ed alterazioni della attività cerebrale?

    Sì, questo sarebbe chiedere troppo ad Alfonso Bonafede ma non lo è che – prima di parlare, di prendere iniziative – si procuri se non la motivazione della sentenza (che ancora non è depositata) una copia della perizia psichiatrica: di questa, come di tutte, per comprendere contenuto e valutazione finale si può tranquillamente saltare tutta la parte illustrativa molto tecnica – destinata ai periti di parte – e passare direttamente a quella con scritto in grassetto  “Conclusioni” che sono sinteticamente redatte a prova di cretino. Dunque, vanno benissimo.

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