dittatura

  • Tala Safwan: Egyptian TikToker held in Saudi over ‘immoral’ video

    A popular Egyptian social media influencer has been arrested in Saudi Arabia, accused of posting sexually suggestive content.

    Tala Safwan, who has five million followers on TikTok and some 800,000 on YouTube, drew ire online amid claims a recent video had lesbian undertones.

    But Ms Safwan said that had not been her intention.

    Police in the strictly conservative kingdom however said the video could harm public morality.

    With her short dark hair and expressive face, the young vlogger’s frothy, upbeat style is aimed at teenagers.

    Her videos have catchy, tabloid-like headlines as she discusses TV shows and issues sent in by her followers – mostly about relationships and embarrassing situations.

    She sets up pranks and carries out challenges – just like many other successful content creators around the world.

    But one of her recent videos has drawn a very different reaction.

    In the clip, she’s seen chatting to a female Saudi friend, whom she invites over to her house. Her subsequent remarks have been interpreted by some as being sexually suggestive.

    That set off a big campaign against her, with a hashtag trending on Twitter that translates as “Tala offends society”.

    She responded by saying she’d been misunderstood and denying there was any lesbian subtext in her comments – a subject that is still publicly taboo in Saudi Arabia.

    She said that the clip had been taken out of context from the full video she recorded, in order to cause a scandal.

    As the social media pile-on continued, the police in Riyadh announced that they had arrested a local resident “who appeared in a broadcast talking to another woman with sexual content and suggestiveness that could have a negative impact on public morality”.

    The police did not name Tala Safwan, but included a clip of the video with her face and that of her friend blurred.

    It comes just days after the Saudi media regulator demanded that YouTube remove advertisements that it considers offensive to the country’s Muslim values and principles. The regulator threatened to take legal action if nothing was done.

    The announcement followed complaints by Saudi parents that their children were being exposed to inappropriate content in ads broadcast on YouTube.

  • Messinscene e collaborazioni occulte a sostegno di un autocrate

    Ci sono molte persone nel mondo, ma ci sono ancora più volti, perché ognuno ne ha diversi.

    Rainer Maria Rilke

    Il 22 luglio scorso, in un sontuoso palazzo ad Istanbul, è stato firmato l’accordo tra la Russia e l’Ucraina sull’esportazione del grano ucraino dal porto di Odessa e altri due circostanti. L’accordo prevede lo sblocco dell’esportazione di circa 25 milioni di tonnellate di grano ucraino ed è stato sottoscritto dal ministro della Difesa russo e dal ministro delle Infrastrutture ucraino. Ma lo hanno fatto separatamente: una significativa testimonianza quella dei grandi disaccordi tuttora presenti tra le due parti coinvolte in un sanguinoso conflitto militare dal 24 febbraio scorso. Durante la sottoscrizione dell’accordo erano presenti l’anfitrione, il presidente turco e il Segretario Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), come garanti dell’accordo. Ebbene, proprio un giorno dopo il porto di Odessa, da dove dovevano partire le navi con il grano, è stato bombardato con dei missili russi! Immediate sono state le dure reazioni da parte dei massimi rappresentanti istituzionali dell’Ucraina e dell’ONU, nonché dei singoli Paesi occidentali che hanno condannato la violazione dell’accordo. Mentre da parte della Russia nessun commento sull’attacco. Ma loro hanno comunque negato ogni loro diretto coinvolgimento. Lo ha confermato il ministro turco della Difesa tramite una dichiarazione pubblica. Il ministro turco ha affermato che “…Nel nostro contatto con la Russia, i russi ci hanno detto che non avevano assolutamente nulla a che fare con questo attacco e che stavano esaminando la questione molto da vicino e in dettaglio”. Ed era un esame cosi “molto da vicino e in dettaglio”, mentre da tutte le parti la Russia veniva accusata della violazione unilaterale e irresponsabile dell’accordo che, neanche un giorno dopo, la Russia è stata costretta ad ammettere proprio quello che avevano negato prima. E cioè è stato affermato, tramite i portavoce del ministero degli Esteri e della Difesa, che l’attacco missilistico da parte delle forze armate russe c’è stato, ma non contro i depositi di grano, bensì contro delle infrastrutture miliari ucraine sul porto di Odessa! Bella scusa, che invece accusa. Accusa proprio la consapevole negazione dell’attacco missilistico sul porto di Odessa, intenzionalmente e come al solito fatta dalle istituzioni della Federazione russa domenica 24 luglio. Lo stesso giorno dal Cairo, dove ha partecipato ad un incontro degli ambasciatori della Lega Araba in Egitto, il ministro degli Esteri russo, nonostante un giorno prima la Russia negava del tutto un attacco missilistico sol porto di Odessa, ha garantito che “…la Russia manterrà i suoi impegni sull’export di cereali a prescindere dalla revoca o meno delle restrizioni applicate a Mosca.. Trasmettendo così un messaggio “tra le righe”, secondo il quale l’accordo sull’esportazione del grano continuerà, ma i Paesi occidentali “devono rimuovere gli ostacoli che si sono creati da soli”, riferendosi così alle sanzioni poste.

    Ovviamente e giustamente quanto sta accadendo in Ucraina dal 24 febbraio scorso, sta attirando tutta la dovuta multidimensionale attenzione pubblica ed istituzionale a livello internazionale. Ed è giusto che sia così. Ovviamente però che quello che sta accadendo in Ucraina durante questi mesi, come ci insegna la “logica della ragionevolezza e dell’oggettività”, non si può paragonare alle “faccende di casa” di qualsiasi singolo Paese sempre durante questi mesi, compresa l’Albania. Di certo però che il simbolismo di quello che è successo dopo la firma del accordo sull’esportazione del grano, prima con la negazione dell’attacco missilistico da parte della Russia, poi, in meno di un giorno, con l’affermazione dell’attacco, ma non degli obiettivi bombardati, potrebbe adattarsi benissimo all’atteggiamento del tutto non affidabile, menzognero e truffaldino del primo ministro albanese. Come in tanti casi di accordi ufficialmente presi e firmati, in presenza dei “garanti internazionali” e poi ignorati, cambiati a suo piacimento e finalmente approvati in parlamento con i voti della sola maggioranza governativa. Sono molto significativi, come dimostrazione, due tra tanti casi. Quello delle votazioni, a settembre 2016, delle leggi base per sostenere gli emendamenti costituzionali della riforma di giustizia, che hanno violato palesemente il consenso raggiunto tra tutte le parti e confermato con tutti i voti del parlamento soltanto due mesi fa, il 17 luglio 2016. Ma anche il caso delle leggi in sostegno dell’accordo sulla riforma elettorale, raggiunto tra le parti il 5 giugno 2020 e poi violato con i voti della maggioranza governativa e di alcuni deputati “dell’opposizione di facciata” il 5 ottobre 2020. E tutto ciò è stato voluto ed ordinato direttamente dal primo ministro e/o da chi per lui. Il nostro lettore è stato informato a tempo debito e a più riprese sia del caso delle leggi della “riforma” del sistema di giustizia, che di quelle della riforma elettorale. Il primo ministro, fatti accaduti e che stanno accadendo, fatti ampiamente documentati, fatti pubblicamente noti ed ufficialmente denunciati e depositati alla mano, risulta essere un bugiardo, un ingannatore innato e del tutto inaffidabile. La sua inaffidabilità ha tanti elementi in comune, come ci insegna anche la “logica della ragionevole ed oggettiva proporzionalità”, con l’inaffidabilità del dittatore russo e/o di chi vicino a lui, che hanno messo in atto quanto è accaduto tra il 22 e il 24 luglio scorso con l’accordo del grano.

    Domenica scorsa, il 24 luglio, in Albania è stato messo in atto un ulteriore, pericoloso e preoccupante passo verso il consolidamento della dittatura sui generis. Una dittatura, questa, camuffata soltanto da una facciata pluralistica, che si sta restaurando da alcuni anni in Albania. Una dittatura sulla quale il nostro lettore da anni è stato informato e si sta di continuo informando oggettivamente, dati e fatti alla mano, dall’autore di queste righe. Il 24 luglio scorso in Albania si è svolta la cerimonia dell’insediamento del nuovo Presidente della Repubblica. La sua elezione, il 4 giugno scorso, con solo 78 voti, uno in più da quelli controllati con mano di ferro dal primo ministro, ha testimoniato il necessario appoggio che doveva avere una persona “sopra le parti”, come è stato descritto dal primo ministro il nuovo Presidente della Repubblica. Il nostro lettore è stato informato di questa elezione del 4 giugno scorso. L’autore di queste righe scriveva che si è trattato di “un’elezione basata sul nome risultato dalle ‘proposte chiuse in una busta’ dei deputati della maggioranza. Una scelta “affidata” dal primo ministro ai suoi ubbidienti deputati, ma che in realtà era esclusivamente una scelta sua. E non poteva essere diversamente. L’incognita riguardava solo il nome. Ma l’identikit della candidatura era ben chiaramente disegnato. E prima di tutto doveva avere la fiducia del primo ministro e doveva ubbidire a lui. Anche perché ci sono delle “sfide” da affrontare nel prossimo futuro”. E poi aggiungeva: “Le cattive lingue stanno parlando e dicendo tante cose durante questi ultimissimi giorni sull’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Ma anche di lui stesso, di certi suoi “problemi” con la giustizia e dell’“appoggio” arrivato per la sua selezione ed elezione da oltreoceano. Hanno parlato del “linguaggio del corpo” che, secondo gli specialisti, fanno del nuovo presidente una persona molto riconoscente al primo ministro e che, perciò, potrebbe essergli anche molto ubbidiente”. (Vergognosa, arrogante e sprezzante ipocrisia dittatoriale in azione; 8 giugno 2022). Con l’insediamento del nuovo Presidente della Repubblica, il 24 luglio scorso in Albania il primo ministro sembrerebbe sia riuscito finalmente a controllare anche l’ultima istituzione rimasta fuori dalle sue “dirette influenze”; quella della Presidenza della Repubblica. Un obiettivo tanto ambito e finalmente raggiunto. Una soddisfazione per il primo ministro, ma anche per altri suoi simili nei Paesi vicini e con i quali il primo ministro albanese è in “ottimi rapporti di amicizia”. Sono alcuni accordi internazionali che adesso potrebbero andare avanti senza difficoltà. Uno dei quali è quello con la Grecia e riguarda le aree marine nel mar Ionio, come ha espressamente auspicato il ministro degli Esteri greco pochi mesi fa, riferendosi proprio all’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Chissà perché?! Ebbene, durante il suo primo discorso da Presidente della Repubblica, niente è stato detto sui reali e drammatici problemi che da anni stanno affrontando gli albanesi, compresa la diffusa povertà, la criminalità organizzata, la galoppante corruzione e tanti altri. Niente è stato detto del pauroso e preoccupante spopolamento del paese. Niente è stato detto anche della politica estera dell’Albania e i rapporti con i Paesi vicini. Niente di tutto ciò. Chissà perché?! Le cattive lingue, durante queste ultime ore, stanno dicendo convinte che il discorso letto dal presidente della Repubblica durante la cerimonia del suo insediamento è stato scritto da un “opinionista”, un convinto sostenitore delle “politiche” del primo ministro albanese. E si sa ormai, le cattive lingue in Albania difficilmente sbagliano.

    La scorsa settimana l’opinione pubblica albanese è stata informata della dichiarazione come persona “non gradita” dell’ex presidente della Repubblica (1992-1997), allo stesso tempo ex primo ministro (2005-2013) e attuale dirigente del ricostituito partito democratico, il maggior partito dell’opposizione in Albania. Lo ha reso noto venerdì scorso, 22 luglio, il diretto interessato durante una conferenza stampa. Dopo essere stato dichiarato persona “non gradita” il 19 maggio 2021 dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America, senza dare nessuna informazione concreta, chiesta ufficialmente da alcuni membri del Congresso, sulla quale si basava una simile decisione, la settimana scorsa la stessa decisione è stata presa dal Home Office (ministero degli Interni; n.d.a.) e sottoscritta dal segretario di Stato per gli affari interni del Regno Unito. Ma in questo caso almeno, come ha detto il diretto interessato, si faceva riferimento a due accuse. Una, generica, riguardava i “legami con dei gruppi della criminalità organizzata e dei criminali, che hanno rappresentato un pericolo per la sicurezza pubblica in Albania e nel Regno Unito” e che lui, il diretto interessato, poteva essere “pronto ad usare questi legami per avanzare le sue ambizioni politiche”. L’altra accusa riguardava quella di corruzione dovuta ai rapporti con un cittadino britannico che, secondo l’accusa, l’ex primo ministro “aveva difeso quando contro di lui [del cittadino britannico] sono state pubblicate delle prove incriminanti”. Nel caso degli Stati Uniti l’ex primo ministro ha ormai denunciato il Segretario di Stato statunitense per calunnia. Il nostro lettore è stato informati di questa vicenda a tempo debito (Eclatanti e preoccupanti incoerenze istituzionali, 24 maggio 2021; Irritante manipolazione della realtà, 7 giugno 2021). Mentre il caso reso noto la scorsa settimana è ancora in corso. Ma venerdì scorso, durante la sua conferenza stampa il diretto interessato, l’ex primo ministro e attuale dirigente del ricostituito partito democratico albanese ha trattato in dettagli le due accuse fatte nei suoi confronti dal Home Office, dando anche le sue spiegazioni sulla falsità di simili accuse. Allo stesso tempo, come aveva fatto anche con il Dipartimento di Stato, ha chiesto, sfidando Home Office a rendere pubblica almeno una prova concreta in sostegno delle accuse fatte. E se non potevano far pubbliche delle prove, di consegnare quelle prove, se vi fossero, presso le istituzioni della giustizia in Albania. Tutto rimane da seguire.

    Nel frattempo però l’attuale dirigente del ricostituito partito democratico rappresenta l’unica sola preoccupazione seria per il primo ministro. Lo sta dimostrando spesso lui, nolens volens¸ in queste ultime settimane. Soprattutto dopo la massiccia protesta del 7 luglio scorso, della quale il nostro lettore è stato ormai informato (La ribellione contro le dittature è un sacrosanto diritto e dovere; 12 luglio 2022). Riferendosi alla sopracitata decisione del Home Office, tutto fa pensare a delle messinscene e collaborazioni occulte al sostegno di un autocrate. Di colui che è fiero di avere come “amico” George Soros e come suoi consiglieri ben pagati Tony Blair e sua moglie.

    Chi scrive queste righe è convinto che la dichiarazione di persona “non gradita” dell’ex primo ministro è la solita messinscena ben ricompensata. Il tempo, quel gentiluomo, lo dimostrerà. Come ha dimostrato che ci sono molte persone nel mondo, ma ci sono ancora più volti, perché ognuno ne ha diversi.

  • La ribellione contro le dittature è un sacrosanto diritto e dovere

    La disobbedienza, agli occhi di chiunque abbia letto la storia,

    è la virtù originale dell’uomo. È attraverso la disobbedienza che il

    progresso si è realizzato, attraverso la disobbedienza e la ribellione.

    Oscar Wilde

    Sono tanti, tantissimi gli insegnamenti della storia dell’umanità, i quali ci testimoniano che i regimi totalitari, le dittature non si affrontano, non si combattono e non si vincono con dei comportamenti e mezzi democratici. La storia, quella grande e infallibile maestra, da secoli ormai ci insegna che le dittature si sconfiggono e si sradicano solo e soltanto con la disobbedienza, con le rivolte e con la ribellione degli oppressi. Siano quelle classiche, oppure le “dittature moderne” camuffate sotto le apparenze ingannatrici di pluralismo e di democrazia. Ovunque i sacrosanti diritti vengono meno, il dovere di disobbedire e di ribellarsi diventa, altresì, sacrosanto e giustificato. Se adesso ci sono dei Paesi evoluti, dove funziona lo Stato democratico, dove si garantisce quella che Montesquieu, nel 1748, chiamava la divisione dei poteri e dove quella divisione è reale e funziona, è anche perché in alcuni di loro e nel corso dei secoli, i diritti sono stati difesi con determinazione. Quanto è accaduto in Francia dal 1789 in poi né è una significativa testimonianza. Ma anche quanto è accaduto, prima ancora, in Inghilterra. Molto significativa è stata la disobbedienza al re Giovanni da parte di un gruppo di nobili, ormai noti anche come i “nobili ribelli”, che si sopo opposti al re e alla dinastia dei Plantageneti che controllava tutto e tutti. Era il 15 giugno del 1215 quando i “baroni ribelli” hanno presentato al re Giovanni un documento allora chiamato Magna Carta libertatum (Grande Carta della libertà; n.d.a.) e comunemente nota come Magna Carta. Proprio così, da allora i “baroni ribelli” pretendevano che alcuni diritti fossero stati rispettati. Il re, dopo alcune resistenze, cercando anche l’appoggio del Papa Innocenzo III, è stato costretto ad accettare le richieste dei “baroni ribelli”. Richieste che prevedevano e dovevano garantire la tutela dei diritti della chiesa, la protezione dei civili dalla detenzione ingiustificata, il funzionamento di una rapida giustizia e la limitazione dei diritti di tassazione feudali della monarchia. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Ma se in Inghilterra adesso la monarchia, rappresentata da settant’anni ormai dalla regina Elisabetta II, rispetta i diritti e la divisione dei poteri, è anche grazie a quello che fecero i “baroni ribelli’, circa otto secoli fa. Un significativo esempio del funzionamento della democrazia nel Regno Unito è stato dato anche la scorsa settimana. Giovedì scorso, 7 luglio, il primo ministro è stato costretto a dare le proprie dimissioni, non solo come capo del governo, ma anche come dirigente del Partito conservatore. Lui è stato accusato di ammettere, dopo averlo negato prima, che un suo fedelissimo, l’ex vice capogruppo parlamentare del partito conservatore, era stato indagato in passato “per comportamento inappropriato nei confronti degli uomini”. Ma sul primo ministro pesavano anche le clamorose sconfitte durante le ultime due elezioni di circoscrizione. Non è stato da meno neanche il cosiddetto “scandalo delle multe”, legato a varie multe prese per i festeggiamenti a Downing Street durante la chiusura dovuta alla pandemia, nonché le accuse di aver mentito in Parlamento. Una significativa dimostrazione che testimonia come i politici eletti e rappresentanti del popolo, esercitando con grande responsabilità il loro potere conferito, riescono a costringere il capo del governo a dimettersi. E lo hanno fatto in tanti, ministri e altri rappresentanti del governo, i quali da lunedì scorso, dando le proprie dimissioni, hanno chiesto anche al primo ministro di fare altrettanto. E tutto questo perché nel Regno Unito le regole della democrazia funzionano e si rispettano.

    La scorsa settimana sono ricominciate con forza e determinazione le proteste in Sri Lanka. Era dal marzo scorso che i manifestanti pacifici chiedevano le dimissioni del presidente del Paese e di suo fratello, il primo ministro. Proteste quelle di marzo e aprile scorso che hanno costretto il presidente a “convincere” suo fratello, il primo ministro, a dare le dimissioni. Proteste che però non si sono placate con quelle dimissioni. Anzi! Durante le proteste della scorsa primavera era accaduta una cosa del tutto inattesa. Hanno protestato insieme anche i rappresentanti dei diversi gruppi religiosi del Paese e cioè i buddisti, i musulmani, gli induisti e i cattolici. Una cosa inattesa quella perché le profonde divisioni ed i conflitti tra le varie comunità religiose hanno causato in passato anche dei violenti scontri tra di loro e dei loro sostenitori. Dopo le proteste della passata primavera, la scorsa settimana sono state annunciate nuove proteste pacifiche. Proteste che si sono svolte sabato scorso. Migliaia di manifestanti, arrivati nella capitale da tutte le parti dello Sri Lanka, hanno circondato il palazzo presidenziale ed altri edifici governativi. Il motivo della protesta era sempre lo stesso; la peggiore crisi finanziaria che da tempo sta affliggendo il Paese e la mancanza della liquidità in moneta straniera, che ha reso impossibile l’importazione di carburante, di cibi essenziali e di medicine. Una crisi dovuta agli abusi di potere e alla continua corruzione ai più alti livelli istituzionali, a partire dal presidente dello Sri Lanka e della sua famiglia. Una vera e propria dinastia quella, che annovera sette fratelli i quali hanno avuto degli incarichi importanti politici ed istituzionali. Famiglia che spesso è stata accusata di abuso di potere, di corruzione e di nepotismo. Il solo fatto che nell’aprile scorso lo Sri Lanka aveva, come presidente e come primo ministro, due fratelli né è una molto significativa ed inconfutabile testimonianza di tutto ciò. Sabato scorso, per dissuadere i manifestanti pacifici, sono stati usati gas lacrimogeni e cariche delle truppe speciali, ma niente è servito a fermare la determinazione dei cittadini. Sabato scorso i manifestanti sono riusciti finalmente a passare i cordoni di sicurezza militare e di polizia che circondava gli edifici tra i più importanti del Paese, tra cui la casa del Presidente, quella del primo ministro, data poi alle fiamme, ed il ministero delle Finanze. Durante la giornata sono state annunciate sia l’allontanamento dalla capitale ad uno “sconosciuto posto sicuro” del presidente, sia la sua disponibilità a dimettersi il 13 luglio prossimo. In seguito, nel pomeriggio di sabato scorso, anche il primo ministro ha dato le sue dimissioni dall’incarico avuto dal presidente tre mesi fa. Un altro significativo esempio che dimostra come la disobbedienza popolare contro un regime corrotto si possa trasformare in proteste. Ed in seguito, durante sabato scorso, anche in ribellione. Nel frattempo, dalle immagini trasmesse dai media e in rete, si vedevano gli ambienti lussuosi della casa presidenziale. E si vedevano anche decine di manifestanti che si tuffavano nella piscina del presidente. Dalle immagini si evidenzia molto chiaramente il lusso esagerato nel quale viveva la famiglia presidenziale, mentre la gente soffriva la fame. Adesso, dopo quanto è accaduto sabato scorso in Sri Lanka, rimane da seguire, nel prossimo futuro, ma anche oltre, come si evolveranno sia la situazione politica, sia quella economica e finanziaria nel Paese asiatico.

    La scorsa settimana, e proprio la sera di giovedì 7 luglio, nella capitale dell’Albania si è svolta una massiccia protesta pacifica. Decine di migliaia di cittadini, arrivati da tutte le parti del Paese, hanno riempito la viale principale della capitale, quella che porta all’edificio del Consiglio dei Ministri. Un edificio che quel giorno, dietro ordini ben precisi, era stato “sigillato” con delle porte e finestre metalliche per paura di essere preso d’assalto. Ma non era quella l’intenzione degli organizzatori della protesta. Almeno non quella volta, la sera di giovedì scorso. La protesta è stata organizzata dal maggior partito dell’opposizione, il ricostituito partito democratico. Il primo partito di opposizione che, dal dicembre 1990, ha organizzato tutte le proteste contro la dittatura comunista che hanno portato poi alla caduta del regime. Un partito però, che, sfortunatamente e vergognosamente, per alcuni anni era diventato “un’impresa familiare” della persona che dal 2013 aveva usurpato la direzione del partito ed una “stampella” del primo ministro. Un partito che poi, dal settembre 2021, ha cominciato un impegnativo percorso di ricostituzione. Un processo quello che nonostante la ricostituzione delle strutture locali e centrali del partito, continua ancora. Il nostro lettore è stato informato di tutto ciò nei mesi precedenti.

    I cittadini che hanno partecipato alla protesta massiccia e pacifica di giovedì scorso nella capitale albanese avevano tanti e ben validi motivi per disobbedire e protestare. Da anni in Albania si sta soffrendo una grave e preoccupante realtà. Realtà determinata da una galoppante corruzione che sta coinvolgendo tutti quegli che gestiscono la cosa pubblica. Partendo dal primo ministro e dai suoi “fedelissimi leccapiedi”. Realtà causata da un pauroso abuso di potere da parte di tutti quelli che esercitano dei poteri pubblici. Partendo dal primo ministro e dai suoi “fedelissimi leccapiedi”. Realtà che ha determinato, tra l’altro in questi ultimi anni, un continuo flusso demografico verso altri paesi dell’Europa. Si tratta soprattutto di giovani, di persone istruite e professionalmente abili, che lasciano tutto e tutti e vanno via, in cerca di una vita migliore. Solo in questi ultimi anni, dati ufficiali alla mano, i richiedenti asilo in diversi Paesi europei provenienti dall’Albania sono tra i primi, insieme con i siriani e gli afgani. Mentre in termini relativi, e cioè tenendo presente il numero complessivo della popolazione, gli albanesi diventano i primi. Il che ormai sta provocando degli effetti drammatici e non solo demografici, ma anche economici ed altro. Solo questo fatto verificato e facilmente verificabile rappresenta una pesante accusa per il malgoverno. L’Albania si sta paurosamente spopolando! Solo questo fatto dovrebbe essere un assordante campanello d’allarme per tutte le persone responsabili, per tutti gli albanesi patrioti. Solo questo fatto dovrebbe essere un buon motivo, non solo per protestare, ma per ribellarsi contro il nuovo regime restaurato in Albania. L’autore di queste righe ha spesso informato il nostro lettore di questa preoccupante realtà e delle sue paurose conseguenze, che hanno già cominciato ad evidenziarsi.

    Nonostante la vera, vissuta e sofferta realtà albanese, il primo ministro continua a governare. Ovviamente non sarebbe il caso di paragonare la realtà albanese con quella del Regno Unito, dove il primo ministro il 7 luglio scorso ha rassegnato le proprie dimissioni. Ma il primo ministro albanese non ha nessuna intenzione di dimettersi. Come hanno fatto sabato scorso il presidente ed il primo ministro dello Sri Lanka, paragonabili con il loro simile in Albania per il modo di abusare del potere. E guarda caso, sia in Albania che in Sri Lanka, tutte le fallimentari riforme sono state promosse e sostenute da una persona (e/o da chi per lui), da un multimiliardario speculatore di borsa statunitense e fondatore delle Fondazioni della Società Aperta. Quelle economiche promosse in Sri Lanka nel gennaio 2016. Mentre, allo stesso tempo, si promuovevano la “riforma” del sistema della giustizia ed altre “iniziative” in Albania. Ma anche nei Balcani occidentali.

    L’11 luglio, Papa Francesco ha inviato un messaggio ai partecipanti alla Conferenza della Gioventù dell’Unione europea che si sta svolgendo a Praga. Riferendosi alla guerra in Ucraina, il Pontefice ha detto: “Ora dobbiamo impegnarci tutti a mettere fine a questo scempio della guerra, dove, come al solito, pochi potenti decidono e mandano migliaia di giovani a combattere e morire. In casi come questo è legittimo ribellarsi!”.

    Chi scrive queste righe è fermamente convinto che la ribellione contro le dittature è un sacrosanto diritto e dovere. La storia, quella validissima maestra, ci insegna che nessuna dittatura è stata vinta con dei mezzi democratici. Le dittature si rovesciano con la ribellione. L’autore di queste righe non smetterà mai di ricordare la convinzione di Benjamin Franklin, secondo il quale ribellarsi ai tiranni significa obbedire a Dio. Condividendo anche quando scriveva Oscar Wilde e cioè che è attraverso la disobbedienza che il progresso si è realizzato, attraverso la disobbedienza e la ribellione.

  • Vergognosa, arrogante e sprezzante ipocrisia dittatoriale in azione

    Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia.

    Tommaso Campanella; da ‘Delle radici de’ gran mali del mondo’

    Con queste parole comincia l’ottava poesia di una raccolta di 89 poesie filosofiche scritte dal frate domenicano Tommaso Campanella circa quattro secoli fa e pubblicata nel 1915. Il frate ha avuto una vita sofferta e travagliata, accusato e processato per cinque volte, per eresia, dall’Inquisizione romana. Nel 1595 dopo il quarto processo subì una prima condanna di due anni di confino in un convento domenicano sul colle Aventino a Roma. Poi, nel 1599 è stato arrestato e messo sotto tortura per affermare di aver ideato e organizzato l’insurrezione contro i governanti spagnoli della Calabria. Dopo il quinto processo e dopo aver molto sofferto, per tanti mesi, durante ed in seguito alle tante crudeli torture, è stato condannato a 27 anni di reclusione, che passò nella prigione di Castel Nuovo a Napoli. Nel 1626, dopo l’intercessione di Papa Urbano VIII presso il re Filippo IV di Spagna, Tommaso Campanella è stato scarcerato e portato a Roma presso il Sant’Uffizio. La sua definitiva liberazione è avvenuta nel 1629. Ma i suoi guai non finirono, nonostante per cinque anni divenne il consigliere del Pontefice per le questioni di astrologia. Nel 1634 una nuova trama lo mise di nuovo di fronte al pericolo di un nuovo arresto e condanna per eresia. Riuscì però ad essere salvato, grazie a degli aiuti dalla Santa Sede e dell’ambasciatore francese. Fuggendo in Francia, fu accolto alla corte di Luigi XIII, avendo anche l’importante appoggio e protezione del ben noto cardinale Richelieu. Visse per cinque altri anni a Parigi nel convento di Saint-Honoré, dove morì nel 1639. Una vita quella sua piena di sofferenze e di privazioni, durante la quale però riuscì a imparare molto, nel bene e soprattutto nel male. Tutte quelle dirette esperienze di vita lo resero una persona con mente aperta e che andava oltre i canoni della Chiesa cattolica del tempo. Le sue tantissime opere ne sono una significativa testimonianza. La maggior parte delle sue opere, il frate domenicano Tommaso Campanella le scrisse durante gli anni della sua prigionia, trattando diversi argomenti naturalistici, filosofici, teologici e letterari. Era proprio in quel periodo che egli scrisse anche le sue poesie filosofiche. Molto significativa, tra le tante altre, anche la poesia Delle radici de’ gran mali del mondo. Una poesia dedicata ai “tre mali estremi”. Tommaso Campanella era convinto che “…tutti i mali del mondo pendono dalla tirannide, falsa possanza, e dalla sofistica, falsa scienza, e dall’ipocrisia, falso amore”. La poesia comincia con la strofa “Io nacqui a debellar tre mali estremi: /tirannide, sofismi, ipocrisia; /ond’or m’accorgo con quanta armonia/Possanza, Senno, Amor m’insegnò Temi” (temi, o themis, secondo la mitologia greca, è la figlia di Urano e di Gea, nonché sposa di Zeus. Per la sua irremovibilità Temi si invocava quando qualcuno doveva prestare un giuramento; n.d.a.). Poi elenca altri mali, ma per l’autore tutti sono minori ai “tre mali estremi”. Perché, come scrive nelle seguenti strofe della sopracitata poesia, “Carestie, guerre, pesti, invidia, inganno,/ingiustizia, lussuria, accidia, sdegno,/tutti a que’ tre gran mali sottostanno,/che nel cieco amor proprio, figlio degno/d’ignoranza, radice e fomento hanno”. E la poesia finisce con l’ultimo verso, che esprime anche il credo del coinvolgimento sociale del frate domenicano, affermando, alla fine della poesia, che “Dunque a diveller l’ignoranza io vegno”. Dunque estirpare, strappare l’ignoranza, dove radicano i “tre mali estremi”, la tirannide, i sofismi, e l’ipocrisia, era una delle missioni civiche di Tommaso Campanella.

    Quei “tre mali estremi” sono ben presenti, purtroppo, da alcuni anni, anche in Albania. La vera, vissuta e sofferta realtà quotidiana ne è una inconfutabile testimonianza. Fatti accaduti e che stanno accadendo, anche in questi ultimissimi giorni alla mano, lo confermano. L’autore di queste righe da anni ormai sta denunciando la pericolosa restaurazione e il preoccupante consolidamento di un nuovo regime, di una tirannide. Il nostro lettore è stato spesso informato dell’attivo funzionamento in Albania di una dittatura sui generis. Una dittatura, camuffata in questi ultimi anni, anche da una necessaria parvenza di pluripartitismo, “garantita” dalla presenza in parlamento di un’opposizione “stampella” del primo ministro. Una dittatura come espressione di una alleanza tra il potere politico rappresentato istituzionalmente dal primo ministro, la criminalità organizzata, non solo locale e certi raggruppamenti occulti locali ed internazionali. La realtà albanese conferma la definizione stessa della dittatura, data dai diversi dizionari, di diverse lingue del mondo. Secondo quelle definizioni si asserisce che “La dittatura può essere una forma autoritaria o totalitaria di governo che, nella sua accezione moderna, accentra il potere in un solo organo, se non addirittura nelle mani del solo dittatore, non limitato da leggi, costituzioni, o altri fattori politici e sociali interni allo Stato”. Ebbene, dati e fatti accaduti e che tuttora stanno accadendo, anche in queste ultimissime giornate, dati e fatti documentati e denunciati pubblicamente alla mano, dimostrano che in Albania il potere è nelle mani di una sola persona, del primo ministro. Di colui che se ne strafotte delle leggi in vigore e della stessa Costituzione. In Albania i tre poteri, quegli enunciati da Montesquieu, già dal 1748, nel suo libro Spirito delle leggi, e cioè il potere legislativo, quello esecutivo ed il potere giudiziario, sono ormai controllati da una sola persona, dal primo ministro e/o da chi per lui. Nel periodo in cui visse Montesquieu non esisteva quello che adesso viene comunemente considerato come il quarto potere, e cioè i media. Ebbene, il primo ministro albanese controlla la maggior parte dei media, come risultava anche dall’ultimo rapporto ufficiale della nota organizzazione Reporters Sans Frontières (RSF, Reporter Senza Frontiere; n.d.a.). Anzi, la situazione dei media e dei giornalisti in Albania, per il 2021, anno analizzato da RSF e reso pubblico lo scorso 3 maggio, è peggiorato sensibilmente ed è diventato molto preoccupante. Con questa vera, vissuta ma anche e, purtroppo, sofferta realtà si confrontano quotidianamente gli albanesi. E questa realtà è anche la vera ragione per cui centinaia di migliaia di albanesi stanno lasciando il Paese, richiedendo asilo in diversi altri Paesi europei. Con tutte le gravi conseguenze derivanti e non solo demografiche. Secondo i rapporti ufficiali delle istituzioni internazionali specializzate, da alcuni anni risulta che gli albanesi sono tra i primissimi, insieme con i siriani e gli afghani, come richiedenti asilo. Spetta al nostro lettore perciò di trarre le conclusioni!

    In quanto ai sofismi, che Tommaso Campanella nella sua poesia Delle radici de’ gran mali del mondo, considera come uno dei “tre mali estremi”, quegli non mancano nei discorsi pubblici e nelle dichiarazioni del primo ministro albanese. Anzi, sono sempre più presenti, visto che lui, nelle sue inevitabili e tantissime “fatiche di Sisifo”, cerca di nascondere gli enormi abusi di potere, la corruzione galoppante e miliardaria, anche in questi tempi difficili, legati prima con la pandemia e adesso, da tre mesi, con la guerra in Ucraina. Ragion per cui il primo ministro fa uso dei suoi vizi innati; mentire ed ingannare come se niente fosse. Perché le bugie e gli inganni sono le uniche speranze che il primo ministro albanese ha per andare avanti. Sono le sue ultime speranze anche per nascondere i legami e la connivenza del potere politico con la criminalità organizzata locale e/o internazionale. E quando diventa necessario, il primo ministro usa, senza impedimento alcuno, anche l’ipocrisia. E come lui fanno tutti i suoi “fedelissimi leccapiedi”, ministri, deputati e altri ancora. Compresi anche i tanti “opinionisti profumatamente pagati”. E purtroppo, di fronte ad una simile e preoccupante realtà vissuta e sofferta quotidianamente in Albania, il sistema “riformato” della giustizia “non vede, non sente e non capisce niente”. E perciò non reagisce. Sono tante, tantissime le denunce ufficialmente consegnate presso le istituzioni del sistema “riformato” della giustizia, che da alcuni anni ormai “attendono” di essere “spolverate”. Fatti accaduti e che stanno accadendo, fatti documentati e pubblicamente denunciati alla mano, testimoniano semplicemente ed inconfutabilmente che il primo ministro controlla personalmente e/o tramite chi per lui, anche il sistema “riformato” della giustizia. Così lui controlla personalmente i tre poteri enunciati da Montesquieu ed, in più, anche il quarto potere, i media. Perciò quella che è stata restaurata da alcuni anni in Albania, se non è una dittatura, una tirannide, allora cos’è?!

    Di tutti i “tre mali estremi” secondo Tommaso Campanella, il frate domenicano, e cioè della tirannide, dei sofismi e dell’ipocrisia è stata data una diretta e palese testimonianza durante questi ultimissimi giorni in Albania. L’occasione era l’elezione, in Parlamento, del nuovo presidente della Repubblica. Dopo il “fallimento programmato” delle tre precedenti sessioni, per mancanza di “consenso” tra la maggioranza governativa e l’opposizione “stampella” e, perciò per mancanza dei 3/5 dei voti, l’elezione è diventata sicura durante la sessione prevista per sabato scorso, 4 giugno. Un’elezione basata sul nome risultato dalle “proposte chiuse in una busta” dei deputati della maggioranza. Una scelta “affidata” dal primo ministro ai suoi ubbidienti deputati. Ma che in realtà la scelta era esclusivamente quella sua. E non poteva essere diversamente. L’incognita riguardava solo il nome. Ma l’identikit della candidatura era ben chiaramente disegnato. E prima di tutto doveva avere la fiducia del primo ministro e doveva ubbidire a lui. Anche perché sono delle “sfide” da affrontare nel prossimo futuro. Il caso ha voluto però, che durante la scorsa settimana, alla fine della quale si doveva eleggere il nuovo presidente della Repubblica, un altro presidente, quello che ha esercitato il massimo incarico istituzionale dal 2012 fino al 2017, è stato seppellito. Mentre sempre durante la scorsa settimana l’attuale presidente, in carica fino al 24 luglio prossimo, non era in Albania, ma in una visita ufficiale in Turchia. Cosa che ha poi generato anche delle discussioni giuridiche, riguardo alla validità di un suo indispensabile decreto firmato proprio in Turchia sabato scorso. Lo stesso giorno in cui poi, nel pomeriggio, è stato eletto in Parlamento il suo successore. Decreto che doveva liberare il candidato dall’incarico ufficiale che aveva avuto fino a venerdì scorso; incarico dal quale è stato dimesso. Un obbligo costituzionale quello, visto che il candidato, ormai il nuovo presidente della Repubblica dalla sera del sabato scorso, era il capo dello Stato maggiore dell’esercito.

    L’elezione del nuovo presidente della Repubblica ha generato molte polemiche di vario genere. Sono state tante le discussioni giuridiche sulla validità del sopracitato decreto presidenziale. Sono state tante anche le discussioni giuridiche sulla regolarità delle procedure che hanno portato alla votazione in Parlamento del nuovo presidente. A proposito, nella sessione di sabato scorso erano presenti in aula 83 deputati dai 140 tali. Hanno votato per il nuovo presidente 78, mentre 4 sono stati contrari. C’è stata anche un’astensione. Il primo ministro, sulla carta, aveva sicuri 74 voti dei suoi deputati e 3 altri del suo alleato. Un voto è arrivato dall’opposizione “stampella”. Le cattive lingue stanno parlando e dicendo tante cose durante questi ultimissimi giorni sull’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Ma anche di lui stesso, di certi suoi “problemi” con la giustizia e del “appoggio” arrivato per la sue selezione e elezione da oltreoceano. Hanno parlato del “linguaggio del corpo” che, secondo gli specialisti, fanno del nuovo presidente una persona molto riconoscente al primo ministro e che, perciò, potrebbe essergli anche molto ubbidiente.

    Chi scrive queste righe è convinto che durante questi ultimi giorni si è fatto uso di tanti sofismi e di tanta ipocrisia. Anzi è stata evidenziata proprio una vergognosa e sprezzante ipocrisia della dittatura, o tirannide, in azione. Ragion per cui diventa molto significativo, diventa un messaggio, il primo verso della poesia Delle radici de’ gran mali del mondo di Tommaso Campanella. E cioè che “Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia”. Un obbligo ed un dovere morale, civico e patriottico quello, per tutti gli albanesi onesti.

  • Da quale pulpito arrivano quelle minacciose prediche?

    Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica

    Montesquieu; dal libro Spirito delle leggi

    L’arroganza, la prepotenza e l’uso delle offese volgari da coatto sono delle ben note caratteristiche comportamentali del primo ministro albanese. Caratteristiche pubblicamente manifestate sempre ed ogniqualvolta lui si trova in difficoltà, cercando di spostare e tergiversare l’attenzione pubblica. Sono delle manifestazioni consapevolmente attivate, con degli obiettivi ben determinati. Ma non di rado scaturiscono anche dallo sfogo del suo perturbato subconscio. Lo ha fatto spesso anche in queste ultime settimane, cercando di apparire “critico con le “ingiustizie”. Con quelle ingiustizie attuate, guarda caso, dal “riformato” sistema di giustizia in Albania che, invece, ha l’obbligo istituzionale di condannarle. Il primo ministro ha “criticato” proprio quel sistema che, dal 2016 in poi, lo ha sempre e fortemente applaudito come una significativa “storia di successo”! Avendo, in quella ardua impresa, simile alle fatiche di Sisifo, anche il continuo appoggio istituzionale dei soliti “rappresentanti internazionali”, l’ambasciatrice statunitense in primis, spesso in palese violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche. Chissà perché?! Ma le cattive lingue ne hanno parlato di quelle “alleanze” e di servizi profumatamente ricompensati. Trovandosi in vistose difficoltà, il primo ministro albanese, non a caso, ha scelto una simile “strategia offensiva”. Sì, perché, dopo quasi nove anni di governo, non ha niente di concreto da dimostrare agli albanesi come un successo. Non ha niente da dimostrare agli albanesi come un impegno pubblicamente preso e poi realizzato. Non ha nessun risultato nella lotta contro la criminalità organizzata. Anzi! Perché, grazie alla sua ben nota, documentata e pubblicamente denunciata connivenza con la criminalità organizzata, il primo ministro albanese e i suoi sono riusciti a condizionare, controllare e manipolare i risultati elettorali, sia delle elezioni politiche che di quelle amministrative. Il nostro lettore è stato informato da anni e a più riprese di questa preoccupante realtà. La “vittoria” elettorale del 25 aprile 2021, fatti accaduti, documentati e pubblicamente denunciati alla mano, ne è una testimonianza molto significativa, tra le tante altre. E, guarda caso, le istituzioni del sistema “riformato” di giustizia, proprio quelle che in queste ultime settimane sono diventate l’obiettivo delle “forti accuse” del primo ministro, non hanno per niente reagito. Anzi, hanno chiuso occhi, orecchie e cervello ed hanno steso un velo pietoso di fronte alle tante denunce pubblicamente fatte ed ufficialmente consegnate.

    Il primo ministro albanese non ha fatto niente, ma proprio niente, per combattere la galoppante e ben diffusa e radicata corruzione che sta divorando tutto. Il primo ministro albanese e/o chi per lui, abusando del potere conferito, hanno messo in atto un consapevole, programmato e pauroso sperpero del denaro pubblico, con tutte le gravissime conseguenze, ormai a portata di mano. Il primo ministro albanese non ha bloccato l’aumento del debito pubblico, come aveva promesso nel 2013, quando ha cominciato a governare. Ma, peggio ancora, lui e/o chi di dovere hanno messo in moto un pericoloso e gravissimo aumento del debito pubblico. Debito che ha continuamente generato un profondo fosso finanziario, difficilmente colmabile, visti i continui abusi, con tutte le preoccupanti conseguenze non solo per il prossimo futuro, ma anche a medio e lungo termine. Si tratta di un periodo, questo attuale, che ha portato allo scoperto scandali e abusi milionari che coinvolgono direttamente, almeno istituzionalmente, sia il primo ministro, sia altre persone molto vicine a lui. Tra le quali anche la sua eminenza grigia, il segretario generale del Consiglio dei ministri. Il nostro lettore è stato informato nelle ultime settimane proprio di queste realtà e di questi scandali, quello dei tre inceneritori compreso (Misere bugie ed ingannevoli messinscene che accusano, 4 aprile 2022; A ciascuno secondo le proprie responsabilità, 26 aprile 2022; Diaboliche alleanze tra simili corrotti, 9 maggio 2022).

    Il primo ministro albanese ha scelto, non a caso, proprio la riunione dell’assemblea del suo partito, svoltasi il 7 maggio scorso, per “tuonare”, con delle dirette critiche, contro i massimi rappresentanti delle istituzioni del sistema “riformato” della giustizia. Come aveva fatto un mese fa, il 9 aprile, durante il congresso del suo partito. Il primo ministro ha scelto di “attaccare fortemente” proprio quei rappresentanti che hanno avuto il suo pieno e consapevole consenso e supporto quando sono stati selezionati e poi sono stati votati in parlamento, controllato sempre dal primo ministro. Queste verità, relative alla selezione e alle nomine dei rappresentanti delle nuove istituzioni del sistema “riformato” della giustizia in Albania sono ormai pubblicamente note. Verità testimoniate dai fatti documentati dal momento della costituzione delle nuove istituzioni del sistema “riformato” della giustizia e poi dall’insediamento degli “attentamente vagliati” dirigenti di quelle istituzioni. Ebbene, il 7 maggio scorso, durante la riunione dell’assemblea del partito, pienamente controllato con mano forte dal primo ministro, lui ha “fortemente criticato” i massimi rappresentanti di una di quelle nuove istituzione del sistema “riformato” di giustizia. Anzi, dell’istituzione per eccellenza del sistema, la Struttura Speciale contro la Corruzione e la Criminalità Organizzata. Una Struttura della quale fanno parte sia la Procura Speciale contro la Corruzione e la Criminalità Organizzata, sia l’Ufficio Investigativo Nazionale. Ma nelle sue “forti critiche ed accuse” il primo ministro si è riferito in generale alla Struttura, senza specificare i suoi componenti. Anche perché non gli servivano dato che si trattava di una sua buffonata propagandistica, l’ennesima. Il primo ministro, invece di trattare i tanti gravi problemi con i quali si stanno affrontando ogni giorno gli albanesi, compresi anche l’abusivo, sproporzionato, continuo e drammatico aumento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità, che stanno ulteriormente impoverendo gli albanesi, si è scatenato contro i dirigenti della Struttura Speciale contro la Corruzione e la Criminalità Organizzata. Ma viste le tante difficoltà con le quali si sta confrontando lui, i suoi più stretti collaboratori ed alcuni dei suoi ministri/ex ministri, al primo ministro serviva uno “spettacolo pubblico” del genere. Il sistema giudiziario dovrebbe essere uno dei tre poteri indipendenti in uno Stato democratico, insieme con quello legislativo ed esecutivo. Ma questa divisione dei poteri, chiaramente formulata da Montesquieu nel suo libro Spirito delle leggi, pubblicato nel 1748, purtroppo non funziona più in Albania. Nel suo libro Montesquieu scriveva: “Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti […]. Perché non si possa abusare del potere occorre che […] il potere arresti il potere”. Lungimirante qual era e riferendosi alla vitale necessità della divisione reale dei tre poteri, Montesquieu aveva previsto ed espresso nel 1748 la sua convinzione che “Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica”. Dai tantissimi fatti accaduti e che stanno tuttora e purtroppo accadendo, fatti denunciati, verificati, verificabili e ormai di dominio pubblico alla mano, risulterebbe che quanto aveva previsto ed espresso Montesquieu si sta attuando in Albania. Sì, perché in Albania, da alcuni anni, è stata restaurata e si sta consolidando una nuova dittatura sui generis. Una dittatura come espressione della pericolosa alleanza tra i massimi dirigenti del potere politico, rappresentato istituzionalmente dal primo ministro, con la criminalità organizzata e certi raggruppamenti occulti locali e/o internazionali. L’autore di queste righe, informando il nostro lettore, da anni sta evidenziano e denunciando, nel suo piccolo, una simile, pericolosa e gravissima realtà. E non solo per gli albanesi, ma anche per gli altri Paesi europei, come risulta dai dati ufficiali pubblicati nei diversi rapporti delle istituzioni specializzate internazionali e di alcuni singoli Stati.

    Tornando a quanto ha detto pubblicamente il 7 maggio scorso il primo ministro albanese, durante la riunione dell’assemblea del partito da lui diretto e personalmente gestito, bisogna sottolineare un evidente e semplice fatto. Un fatto che tutti sanno, ma che il primo ministro ha fatto finta che non esista. E cioè il diretto e personale controllo, proprio da parte sua, dei massimi dirigenti delle istituzioni del sistema “riformato” della giustizia in Albania e della loro sudditanza nei confronti del “dirigente massimo”. E per far credere a tutti il contrario, cioè che lui non controlla il sistema “riformato” di giustizia, ha messo in scena l’ennesima buffonata propagandistica. Una buffonata che però non ha raggiunto l’obiettivo preposto e non ha prodotto l’effetto desiderato. Ragion per cui, sempre in vistosa difficoltà, il primo ministro, due giorni dopo, l’11 maggio scorso, ha convocato una conferenza con i giornalisti. Al suo fianco c’era anche il ministro della Giustizia. Ma come ci insegna la saggezza umana millenaria che la lingua batte dove il dente duole, anche il primo ministro albanese ha cercato di giustificare quanto aveva pubblicamente dichiarato due giorni fa, durante la riunione dell’assemblea del suo partito, sui dirigenti delle nuove istituzioni del sistema “riformato” di giustizia. Rivolgendosi ai giornalisti presenti, lui ha detto, tra l’altro, che quanto aveva dichiarato “…alcuni lo hanno considerato [come] pressione sulla giustizia, alcuni altri lo hanno considerato [come] paura, oppure perdita del potere. …”. E poi, siccome lui sa benissimo ed è ben consapevole del diretto coinvolgimento suo e dei suoi più stretti collaboratori in diversi scandali milionari, noti anche all’opinione pubblica, locale ed internazionale, il primo ministro, riferendosi a se stesso e agli altri rappresentanti del suo partito, ha dichiarato che “… per noi non ci sono degli intoccabili e che chiunque di noi, che possa avere un conto aperto con la giustizia, troverà [sempre] una porta chiusa nella nostra casa politica”. E poi, sempre dando ragione alla saggezza umana millenaria, secondo la quale la lingua batte dove il dente duole, ha cercato di convincere tutti che lui personalmente non è stato coinvolto in questa riforma (della giustizia; n.d.a.) “…per dire una cosa e farne un’altra. E neanche per usare politicamente la giustizia e neanche per attaccare politicamente gli avversari politici…”. Le ennesime bugie, gli ennesimi tentativi di ingannare, l’ennesima bufala propagandistica, durante la quale il subconscio del primo ministro albanese ha contraddetto ed evidenziato quello che la sua parte razionale ha cercato di nascondere e camuffare. Ed il simbolismo di questa contraddizione era il ministro della Giustizia, seduto proprio al suo fianco durante quella conferenza con i giornalisti. Quel ministro che alcuni anni fa è stato pubblicamente accusato e denunciato, presso le nuove istituzioni del sistema “riformato” della giustizia, come parte attiva delle manipolazioni elettorali. Uno scandalo, quello, reso noto anche da diverse intercettazioni telefoniche, pubblicate da diversi media locali ed internazionali.  Ma la Struttura Speciale contro la Corruzione e la Criminalità Organizzata, quella “attaccata” dal primo ministro, purtroppo non ha mai indagato sul caso, facendo proprio finta che non esistesse. E poi, la domanda di un giornalista, che si riferiva proprio a questo fatto, evidenziando che la persona al suo fianco “…oggi è il ministro della Giustizia e non di fronte alla giustizia”, ha messo in vistosa difficoltà il primo ministro, l’innato bugiardo ed ingannatore. Dopo quella domanda il primo ministro non ha risposto più alle altre ed è andato via.

    A chi scrive queste righe, riferendosi al comportamento del primo ministro albanese, viene naturale la domanda; da quale pulpito arrivano quelle minacciose prediche? Da quello istituzionale del capo del governo, oppure da quello di un dittatore che vuol controllare tutto e tutti? Giustizia compresa. Bisogna tenere sempre presente però, che una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica, come giustamente scriveva Montesquieu. E chi scrive queste righe ne è veramente convinto.

  • Misere bugie ed ingannevoli messinscene che accusano

    La propaganda è veramente un’arma, come i cannoni o le bombe, e imparare a difendersene è importante come trovare riparo durante un attacco aereo.

    George Orwell

    L’efferata aggressione russa in Ucraina continua, mietendo migliaia di vittime innocenti, a causare ingenti danni materiali. Una inconfutabile e purtroppo orribile testimonianza della spietatezza degli invasori russi è stata resa pubblicamente nota domenica scorsa. Nella cittadina di Bucha, che si trova nelle vicinanze della capitale ucraina, è stata scoperta una fossa comune dentro la quale sono stati trovati dei cittadini uccisi, alcuni addirittura con le mani legate dietro la schiena e con un colpo d’arma da fuoco dietro la testa. Il capo dei soccorsi locali, che ha organizzato ed attuato il recupero dei corpi, secondo fonti mediatiche, ha dichiarato: “Qui, in questa fossa, sono sepolte 57 persone”. Le orrende e crudeli immagini di quello che è stato subito considerato e denominato come il massacro di Bucha hanno suscitato l’indignazione e la reazione dell’opinione pubblica ed istituzionale a livello internazionale. Quelle immagini potrebbero rappresentare un’ulteriore prova e testimonianza a supporto delle accuse di genocidio attuato da parte delle forze armate russe in Ucraina. Ovviamente, e come hanno fatto dall’inizio della guerra in Ucraina, lo scorso 24 febbraio, i rappresentanti istituzionali e la propaganda governativa russa hanno negato tutto, scaricando tutte le responsabilità ed incolpando gli ucraini. Una strategia mediatica e propagandistica quella, scelta consapevolmente ed attuata accuratamente, dall’inizio di quella che il dittatore russo, sempre per motivi propagandistici, ha denominata “operazione speciale”. E non solo con delle dichiarazioni smentite dalla vera, vissuta e tragica realtà, ma anche con una continua diffusione di notizie false. Dopo il massacro di Bucha, il ministro degli Esteri ucraino ha chiesto la presenza, al più presto possibile, di una missione della Corte penale internazionale (il Tribunale per i crimini internazionali con sede all’Aia, in Olanda; n.d.a.). Il ministro, durante un’intervista, ha dichiarato: “Urge che la Corte penale internazionale e altre organizzazioni inviino missioni a Bucha e nelle altre città e villaggi liberati della regione di Kiev per lavorare con la polizia ucraina nella raccolta di ogni possibile evidenza dei crimini di guerra russi”. Nel frattempo il presidente ucraino continua a denunciare le atrocità dei russi, che hanno causato migliaia di vittime e immensi danni materiali e a chiedere degli aiuti di ogni genere. Il presidente ucraino ha chiesto anche ieri “aiuto, ma non col silenzio”. Mentre, riferendosi all’orrendo massacro, ha detto: “…Voglio che ogni madre di ogni soldato russo veda i corpi delle persone uccise a Bucha…”. La spietata ed orribile aggressione russa in Ucraina, proprio quella che il dittatore russo classifica e chiama, con irritante ed offensivo cinismo, “operazione speciale”, giustamente sta attirando tutta la dovuta ed indispensabile attenzione dell’opinione pubblica, delle istituzioni internazionali e dei singoli Stati. Anche il nostro lettore, da quando è cominciata l’invasione dell’Ucraina da parte delle forze armate russe, è stato sempre, continuamente, oggettivamente e responsabilmente informato da molti validi colleghi. Compreso anche l’autore di queste righe che, nel suo piccolo, ha cercato di dare il suo modesto contributo. Ragion per cui egli si ferma qui, per trattare, nei seguenti paragrafi, un caso che è ritornato la scorsa settimana all’attenzione dell’opinione pubblica, prima in Italia e poi anche in Albania. Un caso che evidenzia le misere bugie e le ingannevoli messinscene, messe in atto due anni fa, che continuano però ad accusare e che continueranno a farlo, finché la vera giustizia, al di sopra delle parti, non sia attuata e rispettata.

    Era il 29 marzo del 2020. Un gruppo di 30 medici ed infermieri, partiti dall’Albania, arrivarono a Verona, dove sono stati ufficialmente accolti. In seguito il gruppo partì e raggiunse Brescia, dove era stato prestabilito che essi prendessero servizio, a fianco dei loro colleghi italiani. Era il periodo in cui la pandemia aveva cominciato a farsi sentire con delle gravi e preoccupanti conseguenze in Italia, soprattutto nelle regioni del nord. Era anche il periodo in cui, nonostante gli effetti della pandemia in Albania non fossero simili a quelli in Italia, la situazione doveva essere affrontata con la dovuta serietà e responsabilità. Cosa che però e purtroppo non è stata fatta. L’autore di queste righe ha informato allora il nostro lettore di tutto ciò. Così come ha evidenziato, denunciato e condannato allora anche una clamorosa, irresponsabile, vergognosa ed ingannatrice messinscena mediatica, con un unico protagonista: il primo ministro albanese.

    Era il periodo in cui i cittadini albanesi erano stati costretti a rimanere chiusi in casa, abbandonati e delusi dal comportamento irresponsabile e preoccupante delle istituzioni. E tutto ciò in un Paese dove la maggior parte delle famiglie aveva delle scarsissime risorse finanziarie per affrontare degli “scenari apocalittici”, come venivano descritti dal loro primo ministro. Il quale però non diede alle famiglie bisognose nessun supporto concreto. Era un periodo però in cui, come scriveva l’autore di queste righe, il primo ministro aveva scelto “…di essere ogni giorno, e fino alla nausea, l’unico comunicatore mediatico, ‘l’uomo sapiente di tutto’ e ‘l’uomo onnipotente’ che decide di tutto e per tutti”. Era però un periodo in cui “…in tutte le sue apparizioni video, con le sue parole, consapevolmente o perché non riesce a rendersi conto, sta inculcando paura e sta generando terrore psicologico tra i cittadini segregati in casa”. Il primo ministro allora parlava soltanto di “scenari apocalittici”, di “guerre micidiali con un nemico invisibile” e di tanto altro. Ed è arrivato fino al punto di minacciare, addirittura, gli albanesi che sarebbero stati “tritati come carne di cane” dalla pandemia se non avessero ubbidito ai suoi ordini! L’autore di queste righe scriveva convinto allora, nel marzo del 2020, che “…Fatti accaduti alla mano, sembrerebbe che al primo ministro interessi soltanto l’apparizione mediatica e le immagini di facciata per usi puramente propagandistici”. E guarda caso, a fine marzo 2020, si presentò o si creò proprio l’occasione. Era il 29 marzo quando i media albanesi ed italiani annunciarono la partenza e l’arrivo in Italia di 30 medici ed infermieri che avrebbero dovuto assistere i loro colleghi italiani per combattere la pandemia. L’autore di queste righe era convinto allora, come lo è anche oggi che si trattava di “…una ghiotta opportunità per il primo ministro albanese di apparire mediaticamente a livello internazionale”. Tenendo presente la grave situazione pandemica in Italia in quel periodo, l’autore di queste righe scriveva “…I medici e infermieri che hanno scelto di affiancare i loro colleghi italiani hanno fatto un atto che merita rispetto. Ma l’uso mediatico del primo ministro è stato un atto vergognoso. E anche irresponsabile”. Allora era il periodo in cui, vista la propagazione preoccupante della pandemia, anche in Albania la presenza dei medici e degli infermieri stava diventando sempre più indispensabile. Anche perché da anni in Albania era stata evidenziata e denunciata a più riprese “…l’allarmante carenza, non solo in infrastrutture, di materiali e apparecchiature indispensabili ad affrontare la pandemia”. Così come, da alcuni anni allora, era stata denunciata a più riprese “…l’evidente carenza in risorse umane specializzate, medici ed infermieri compresi”. Si trattava di specialisti, i quali “…in seguito alle ben note e fallimentari politiche del governo nel settore della Sanità, […] hanno purtroppo scelto di lasciare il Paese ed andare a lavorare in altri Paesi, soprattutto in Germania”. E questo, allora come oggi, era ed è un fatto ben noto a tutti in Albania. Ed era proprio in una simile ed allarmante situazione pandemica che stava affrontando il Paese, quando il primo ministro albanese, decise di mandare in Italia 30 medici ed infermieri. L’autore di queste righe scriveva convinto che gli “scenari apocalittici”, di cui stava parlando da non pochi giorni allora il primo ministro albanese “non si affrontano con la propaganda, con le bugie, con gli inganni mediatici e con l’ipocrisia”. Perché “…I cittadini impauriti, psicologicamente terrorizzati, segregati in casa e minacciati di multe salatissime per le loro tasche ormai vuote hanno bisogno di certezze e garanzie. Perché i cittadini non devono sentire degli aberranti avvertimenti da parte del loro primo ministro, secondo i quali saranno “tritati come carne di cane” dalla pandemia se non obbediscono ai suoi ordini!” (Decisioni ipocrite e pericolose conseguenze; 30 marzo 2020).

    Riferendosi sempre all’arrivo in Italia del gruppo dei 30 medici ed infermieri, l’autore di queste righe informava allora il nostro lettore che “…Quell’evento è stato accompagnato da un impressionante rendiconto mediatico, seguito da un’altisonante eco, sia televisivo che della carta stampata”. Aggiungendo però che “…Al centro di tutto ciò non erano però e purtroppo i medici e gli infermieri, come giustamente e doverosamente doveva essere. No. Era, invece, il primo ministro albanese”. Considerando, perciò, tutto come “…semplicemente l’ennesima buffonata mediatica dalla quale il primo ministro albanese ha cercato di trarre vantaggio”. L’autore di queste righe esprimeva per il nostro lettore la sua ferma convinzione, secondo la quale “…Purtroppo si è trattato di una messinscena mediatica, della quale, però, i cittadini italiani sono stati ingiustamente e immeritatamente non solo disinformati, ma anche ingannati”. Un inganno quello, nolens volens, messo in atto dai media in Italia che hanno presentato il primo ministro albanese come un “modello interessante di positività.” (Obiettivi mascherati di una messinscena mediatica, 6 aprile 2020).

    Ebbene, due anni dopo e proprio il 28 marzo scorso sul Corriere della Sera è stato pubblicato un articolo di Andrea Galli, intitolato Covid Lombardia, la missione albanese nel 2020 tra festini e multe (con un benzinaio infiltrato tra i medici). In quel articolo si denunciava che “Sopra il mar Adriatico, la squadra di Tirana viaggiò a bordo di un aereo in compagnia – non esiste nessuna indagine in quanto all’epoca e anche dopo non si vollero compiere accertamenti -, di soldi in contanti. Più di quelli, molti di più, ma tanti di più, che sarebbero serviti per vivere a Brescia, poiché gli albanesi furono ospiti come lo furono i russi, costatici 3 milioni di euro”. In seguito si evidenziava che però “…se già erano stati notori i bagordi e i festini alcolici degli albanesi nell’hotel che li ospitò a Brescia rimediando perfino surreali multe per gli assembramenti, e se anche in quel caso vi fu a monte un accordo tra il là premier (Edi Rama) e quello italiano Giuseppe Conte (con ruolo apicale del ministro degli Esteri Luigi Di Maio), ecco, bisognerà che qualcuno chiarisca cosa diavolo ci faceva un benzinaio nel gruppo di trenta medici e infermieri, al cui interno in ogni modo spiccarono giovani professionisti di valore”. L’autore dell’articolo pubblicato il 28 marzo scorso sul Corriere evidenzia, tra l’altro, che “…Analisti internazionali avevano sintetizzato l’essenza della delegazione quale mossa geopolitica, legittima e regolare, del premier Rama, classiche manovre diplomatiche per avanzare crediti e acquisire ulteriori punti nella corsa a entrare nell’Unione europea”. E non a caso egli sottolineava che “…a ritroso si deve per la cronaca evidenziare l’azione di collante del famoso avvocato albanese Engieli Agaci, difensore spesso di grossi narcotrafficanti e uomo assai ascoltato dalle nostre istituzioni”. Guarda caso però, quel “famoso avvocato albanese” è anche il segretario generale del Consiglio dei ministri in Albania e anche l’eminenza grigia del primo ministro.

    Chi scrive queste righe, con ogni probabilità, continuerà la settimana prossima a trattare questo argomento, perché è convinto che aiuterà molto a comprendere la gravissima realtà albanese, dovuta al consolidamento della dittatura sui generis in Albania. Una dittatura questa basata sulla connivenza del potere politico con la criminalità organizzata e certi clan occulti locali e internazionali.  Una realtà che la propaganda governativa cerca di “annientare”. Come sta facendo la propaganda del dittatore russo, da quando ha cominciato l’invasione dell’Ucraina. Aveva ragione George Orwell, secondo cui “La propaganda è veramente un’arma, come i cannoni o le bombe, e imparare a difendersene è importante come trovare riparo durante un attacco aereo.

  • I rapporti ambigui con i dittatori minacciano la libertà

    Mi chiedi cos’è la libertà? Non essere schiavi di nessuno, di nessuna necessità.

    Seneca

    “Va, pensiero, sull’ali dorate […] del Giordano le rive saluta, di Sionne le torri atterrate. Oh mia Patria sì bella e perduta! O membranza sì cara e fatal!”. Va pensiero è una delle arie operistiche più famose, nota in tutto il mondo e, per molti, rappresenta anche un inno alla libertà. Un’aria che viene cantata dal coro nella quarta scena del terzo atto dell’opera Nabucco di Giuseppe Verdi. Lo cantavano gli ebrei, fatti prigionieri e portati come schiavi in Babilonia da Nabucodonosor, il re degli assiri. Il librettista dell’opera, Temistocle Solera, ha preso ispirazione dalle scritture ebraiche, facendo riferimento ad un lungo assedio del Tempio di Gerusalemme, dove si erano ritirati i leviti e gli abitanti della città. Un assedio quello, messo in atto dall’esercito assiro guidato dal re Nabucodonosor. Essendo riuscito finalmente ad entrare nel Tempio, dopo aver portato fuori tutti gli ebrei fatti prigionieri, il re ha dato ordine di incendiarlo. Portati come schiavi in Babilonia, gli ebrei sono stati costretti a fare dei pesanti lavori. E mentre lavoravano sulle rive del fiume Eufrate, gli ebrei, disperati, ricordavano con nostalgia la loro patria perduta. Ricordavano il fiume Giordano e la loro amata città di Sionne (Gerusalemme; n.d.a.) con le sue torri distrutte. Zaccaria, il gran sacerdote di Gerusalemme, anche lui fatto prigioniero insieme con tutti gli altri ebrei, cerca di dare loro coraggio. Egli diceva agli ebrei di non disperarsi e “di non piangere come femmine” e profetizzava tempi migliori. Invece Nabucodonosor, il re degli assiri, dopo aver visto la statua del suo idolo, il dio Belo, cadere a pezzi senza che nessuno l’avesse toccata, aveva considerato quello un segno divino e decise di liberare gli ebrei. L’opera Nabucco è stata messa in scena per la prima volta il 9 marzo 1842 (esattamente 180 fa mercoledì scorso) al Teatro alla Scala di Milano. Era un periodo in cui l’Italia non era ancora unita e la città di Milano veniva amministrata dall’Impero austriaco. Era proprio il periodo del Risorgimento italiano. La prima dell’opera ebbe un grande successo e da allora l’aria Va pensiero è diventata un inno alla libertà, un’ispirazione alla libertà dagli occupatori e all’unità nazionale.

    Sabato scorso, 12 marzo, i cantanti del coro e gli strumentisti dell’opera di Odessa, sulla piazza davanti al teatro, hanno cantato proprio quell’aria, Va peniero. Insieme con loro cantavano anche i cittadini che si trovavano lì. Erano delle immagini commoventi ed impressionanti. Quel sabato gli ucraini, che dal 24 febbraio scorso stanno subendo la feroce aggressività del esercito russo, hanno cantato l’inno della libertà e dell’unità nazionale. Dando così anche un forte e eloquente messaggio per tutti. E con loro hanno cantato tantissimi altri, seguendo in televisione le immagini trasmesse dalla piazza di fronte al Teatro dell’Opera di Odessa.

    Nel frattempo e da 20 giorni ormai, in Ucraina si sta combattendo. Il dittatore russo non si ferma, nonostante le richieste fatte da tanti capi di Stato e di governo di diversi Paesi occidentali. Anzi, ogni giorno che passa, gli attacchi delle forze armate russe, con continui bombardamenti dei centri abitati in diverse città ucraine, hanno fatto migliaia di vittime civili, compresi anche tanti bambini. Ormai la capitale ucraina da giorni si trova sotto assedio. Così come altre città sparse su tutto il territorio. Bisogna sottolineare però anche l’ammirevole resistenza delle truppe armate ucraine e dei tanti cittadini che stanno combattendo come volontari per difendere la madre patria. Una significativa espressione della loro responsabilità civica e del loro patriottismo. E mentre gli uomini combattono contro gli invasori russi, ad oggi sono circa 2.6 milioni di ucraini, anziani, donne e bambini soprattutto, che hanno lasciato il paese. Arrivano alle frontiere dei Paesi confinanti, stremati e dopo molte ore di viaggio, spesso a piedi, con il minimo indispensabile in qualche borsa e soffrendo il freddo e tanto altro. Un preoccupante ma forzato esodo questo che, di per se, rappresenta un altro grave dramma umana per gli ucraini. Bisogna evidenziare e apprezzare però anche la grande disponibilità dei governi dei Paesi confinanti dove arrivano i profughi ucraini. Così come anche la grande disponibilità e l’ospitalità di associazioni, comunità religiose, nonché di tantissimi semplici cittadini, nei confronti dei profughi che scappano dalla guerra in Ucraina. Un numero quello dei profughi che, visto quanto sta accadendo e si prevede che possa accadere, con ogni probabilità, crescerà ulteriormente con il tempo e rappresenterà un problema logistico serio da affrontare e risolvere.

    Anche oggi pesanti bombardamenti stanno devastando diverse città ucraine. Si combatte anche nelle periferie della capitale. Domenica, purtroppo, è stato ucciso dai soldati russi, vicino alla capitale, un giornalista statunitense mentre, filmando tanti ucraini in fuga, faceva con grande professionalità il suo dovere. Come lo stanno facendo, dal 24 febbraio scorso, anche centinaia di altri suoi colleghi, da molti Paesi del mondo, rappresentanti di tantissime agenzie mediatiche e giornalistiche. Giornalisti, operatori, fotografi ed altri che lavorano in condizioni, non di rado, veramente estreme, pericolose, mettendo così continuamente a repentaglio la propria vita. E tutto ciò per dare, in tempo reale, le vere notizie da dove si combatte in Ucraina e per smentire le tante notizie false che diffonde la propaganda russa dall’inizio dell’invasione, ma anche da prima ancora. Facendo perciò di questo conflitto, oltre ad una micidiale guerra armata e con migliaia di vittime da ambe le parti, anche una guerra di propaganda e di notizie false. Nel frattempo in diverse città della Russia, si continua a protestare contro la guerra in Ucraina. Migliaia di cittadini, consapevoli del reale rischio di essere arrestati dalla polizia politica del dittatore russo, come è successo ormai durante tutte le precedenti proteste, anche in questi ultimi giorni hanno di nuovo protestato.

    Da quando è cominciata l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo, il 24 febbraio scorso, molti specialisti, analisti ed opinionisti hanno continuamente analizzato l’evoluzione del conflitto armato. Ma hanno messo in evidenza anche i rapporti non spesso trasparenti tra alcuni “grandi del mondo” e il dittatore russo. Rendendo pubblici determinati fatti accaduti, non si può non pensare anche all’ipocrisia e al “doppio gioco” di coloro che parlano e professano i principi morali e della democrazia mentre stabiliscono rapporti ambigui con diversi dittatori in altrettante diverse parti del mondo. Rapporti che possono mettere in pericolo e minacciare anche la libertà di altri popoli. Come gli ambigui rapporti che da anni sono attivi anche con il dittatore russo. Il che poi, dal 24 febbraio scorso, sta realmente mettendo in serio pericolo la sovranità dell’Ucraina e la libertà dei suoi cittadini. Spesso si parla di interessi e di scambi reciproci che riguardano rifornimenti energetici ed altro. Ma, purtroppo, fatti accaduti da anni alla mano, risulterebbe che le gravi conseguenze dell’ambiguità e della mancata trasparenza dei rapporti con alcuni dittatori, per delle “ragioni geopolitiche e geostrategiche”, vengono sempre sofferte, spesso anche con delle ingenti perdite di vite umane, da milioni di cittadini innocenti. Come sta accadendo in queste ultime settimane in Ucraina. Ma da quanto sta accadendo in queste ultime settimane in Ucraina bisogna, anzi è indispensabile, trarre anche delle conclusioni, seriamente analizzate ed elaborate e non solo di natura geopolitica e geostrategica. Bisogna tenere ben presente anche le espresse ambizioni del dittatore russo per ricostituire la “Grande Russia”. Ragion per cui bisogna fare di tutto dai “grandi del mondo” per fermare, a tutti i costi, l’invasione definitiva dell’Ucraina. Perché se no, la Russia farà poi, a tempo debito, lo stesso anche con altri Paesi confinanti. Come ha fatto precedentemente con alcuni Paesi indipendenti, facenti parte dell’Unione sovietica, ma non solo. E se non si farà di tutto adesso, in questi prossimi giorni o settimane, per fermare il dittatore russo, allora le gravissime conseguenze, nel prossimo futuro, potrebbero non risparmiare anche diversi altri Paesi europei, e non solo, almeno economicamente.

    Nel frattempo, da mercoledì scorso in Albania sono cominciate le proteste. Questa volta contro l’innalzamento abusivo, sproporzionato e del tutto ingiustificato del prezzo dei carburanti e dei generi alimentari. Proteste che da mercoledì scorso e quotidianamente vengono organizzate dai cittadini, tramite annunci in rete, non solo nella capitale, ma anche in diverse città. Proteste durante le quali si stanno denunciando gli abusi con i prezzi da parte dei soliti “clienti del governo”. Il primo segnale di quello che è successo con i prezzi lo ha dato precedentemente il primo ministro, parlando di guerre e di scenari apocalittici. Il che ha permesso agli oligarchi di agire indisturbati, sicuri del supporto del governo. Noncuranti neanche degli obblighi sanciti dalle leggi in vigore che costringono loro di garantire riserve che, nel caso dei carburanti, devono essere per tre mesi. Il primo ministro però, durante i suoi interventi in rete, si è “dimenticato” di tenere presente questi obblighi legali. Mentre l’innalzamento immediato dei prezzi dei carburanti non ha seguito neanche l’andamento quotidiano dei prezzi nelle borse internazionali. Il che ha inconfutabilmente e semplicemente testimoniato l’abuso con i prezzi. Abuso e truffe che vengono evidenziate anche dalle banche dati ufficiali delle stesse istituzioni governative. Ma il primo ministro albanese, dal 2013, quando ha cominciato a governare, fatti accaduti, documentati e denunciati alla mano, ha dimostrato di non essere credibile in quello che dice e che scrive. In più, dalle analisi specializzate fatte da quando si è verificato l’innalzamento dei prezzi in Albania, che secondo il primo ministro è legato al conflitto in Ucraina, si evidenzierebbero non solo degli abusi scandalistici dei prezzi dei carburanti, degli alimentari, di altri prodotti e di servizi, ma anche ben altro. Si evidenzierebbe anche la mancata volontà di intervenire con dei meccanismi previsti e sanciti dalla legge per controllare e bloccare l’innalzamento abusivo e speculativo dei prezzi. Chissà perché?! Ma invece di intervenire, continua a fare quello che lui ha fatto sempre quando si trova in difficoltà. Passa la responsabilità agli altri, per salvare se stesso. E nel caso delle proteste di questi ultimi giorni ha reso colpevoli i cittadini che “non hanno vergogna e protestano” mentre in Ucraina si combatte (Sic!). In questi ultimi giorni, sia il primo ministro che alcuni suoi ministri si stanno rendendo veramente ridicoli ed incredibili con le loro irresponsabili, vergognose e ingannatrici dichiarazioni pubbliche. Nel frattempo però, la polizia di Stato, che purtroppo da anni risulta essere una polizia politicizzata, ha arrestato i manifestanti pacifici, in palese violazione con quanto prevede la legge. Così come in Russia, nonostante lì la legge preveda altrimenti. E come in Russia dove, oltre alla guerra sul campo in Ucraina, si sta mettendo in atto anche la “guerra di propaganda” con le notizie false, anche in Albania il primo ministro e/o chi per lui sta attivando la sua propaganda governativa con delle falsità. Purtroppo, in Albania da anni sono centinaia di migliaia i cittadini che stanno lasciando il Paese. Come gli ucraini in queste settimane. Ma in Albania non c’è nessuna guerra come in Ucraina. In Albania però, da anni, è stata restaurata una dittatura sui generis, rappresentata dal primo ministro, come espressione della pericolosa alleanza tra il potere politico, la criminalità organizzata e certi raggruppamenti occulti, oligarchi dei carburanti compresi.

    Chi scrive queste righe avrebbe molti altri argomenti riguardanti l’innalzamento abusivo dei prezzi da analizzare e poi informare il nostro pubblico. Lo farà però in seguito. Ma, nel frattempo, egli è convinto che i rapporti ambigui dei “grandi del mondo” con i dittatori potrebbero minacciare la libertà dei popoli. Anche degli ucraini e degli albanesi. Ed è anche convinto che se, come pensava Seneca, la libertà significa non essere schiavi di nessuno, di nessuna necessità, l’aria Va pensiero esprima maestosamente proprio la vitale e sacrosanta voglia di libertà e dell’unità nazionale.

  • I dittatori devono essere trattati come tali e mai tollerati

    Fin quando ci saranno delle dittature, non avrò il coraggio di criticare una democrazia.

    Jean Rostand

    La storia, come sempre, ci insegna. Anche nel caso della Russia. Ci insegna che il territorio della Russia è stato occupato, sia quando era un Impero, che in seguito, quando era diventata l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, o semplicemente l’Unione sovietica. Il territorio russo è stato occupato dalle armate di Napoleone Bonaparte nell’ambito di quella che è nota come la campagna di Russia. Un’occupazione che iniziò il 23 giugno 1812 e finì, con una disastrosa sconfitta di Bonaparte, il 14 dicembre 1812. Dopo 129 anni, è stata attuata un’altra occupazione del territorio, questa volta da parte delle armate naziste del Terzo Reich, di quella che era diventata l’Unione sovietica (dal 1922, dopo il crollo dell’Impero zarista dei Romanov ed in seguito alla guerra civile in Russia; n.d.a.). Un’occupazione quella, nonostante i due Paesi avessero firmato a Mosca, il 23 agosto 1939, il trattato di non aggressione di durata decennale noto come Patto Molotov-Ribbentrop. L’occupazione dell’Unione sovietica cominciò il 22 giugno 1941 in seguito all’operazione Barbarossa. Un’occupazione che finì, sulla carta, l’8 maggio 1945, dopo la resa incondizionata del Terzo Reich. E queste sono le sole due occupazioni del territorio russo.

    La storia ci insegna però anche delle invasioni, da parte degli eserciti russi, di territori altrui. Invasioni sia durante il secolo passato, quando si chiamava ancora Unione sovietica, sia in seguito, quando divenne, dal 1991, la Federazione Russa, o semplicemente Russia. La storia ci testimonia e ci insegna che, addirittura dal 1939, l’Unione sovietica prima e la Russia poi non ha mai smesso di attaccare e di invadere altri Paesi. Lo ha fatto nel novembre 1939, quando attaccò la Finlandia. Quel conflitto tra l’Unione sovietica e la Finlandia, noto anche come la guerra d’inverno, ebbe fine nel marzo 1940. L’accordo di pace di Mosca tra i due Paesi diede all’Unione sovietica dei territori e alcune isole nel golfo di Finlandia. Ma prima ancora di attaccare la Finlandia, l’Unione sovietica, nell’ambito del patto Molotov-Ribbentrop, aveva attaccato ed occupato la parte orientale della Polonia. Sempre nell’ambito di quel patto, la Germania aveva occupato la parte occidentale della Polonia il 1o settembre 1939. L’occupazione della Polonia orientale da parte dell’Unione sovietica cominciò il 17 settembre 1939, calpestando il patto di non aggressione tra i due Paesi, firmato il 25 luglio 1932, con durata fino al 31 dicembre 1945. Un’occupazione che durò fino al 22 giugno 1941, quando l’Unione sovietica venne occupata, a sua volta, proprio dalla Germania nazista, nonostante tra i due Paesi fosse in vigore il patto Molotov-Ribbentrop di non aggressione di durata decennale. Si attuò così un meritato “castigo” all’Unione sovietica, subendo sulla propria pelle quello che, soltanto due anni prima, aveva fatto subire alla Polonia. Patti di non aggressione reciproche alla mano!

    Dopo la fine della seconda guerra mondiale, un’altra guerra, nota ormai come la “Guerra fredda”, iniziò, dal 1947, tra l’Unione sovietica e gli Stati Uniti d’America e i Paesi dell’Europa occidentale. Una guerra quella, per fortuna senza scontri armati tra i due blocchi, che durò fino al crollo del muro di Berlino ed il seguente sgretolamento della stessa Unione sovietica. Ma anche durante quel periodo, l’Unione sovietica non smise di attaccare e di invadere altri Paesi. Correva l’anno 1956 quando in Ungheria i cittadini si ribellarono contro il regime comunista ungherese, che seguiva le direttive dell’Unione sovietica. La ribellione popolare iniziò il 23 ottobre 1956. Ma quello che stava accadendo in Ungheria non poteva essere tollerato dell’Unione sovietica. Ragion per cui il 4 novembre 1956 un ingente contingente militare dell’Unione sovietica entrò ed invase Budapest e altre parti dell’Ungheria. Dopo alcuni giorni di scontri armati con tante vittime, il 10 novembre 1956 l’Unione sovietica prese di nuovo il controllo del Paese, costituendo anche un nuovo governo ubbidiente. Dodici anni dopo un’altra invasione si mise in atto. Questa volta contro un altro Paese membro del Trattato di Varsavia. Si trattava della Cecoslovacchia. Formalmente le truppe dell’invasione appartenevano all’Unione sovietica e ad altri quattro Paesi membri, anch’essi, del Trattato di Varsavia. Ma, si sa, era proprio l’Unione sovietica che comandava. Nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 prese via l’invasione, il cui obiettivo era quello di fermare i processi della democratizzazione e della liberalizzazione della società cecoslovacca, messi in atto da quella che ormai viene nota come la “Primavera di Praga”. Le truppe d’invasione insanguinarono le piazze, prendendo il controllo e costituendo un altro governo, sempre controllato dall’Unione sovietica. Ormai si sa quanto accadde allora a Praga. Il simbolo, però, della resistenza antisovietica diventò un giovane studente di filosofia, Jan Palach. Con un estremo atto di abnegazione, il 16 gennaio 1969, arrivato nella piazza San Venceslao, in pieno centro di Praga, si cosparse di benzina e si diede fuoco con un accendino, diventando una torcia umana. Jan Palach morì tre giorni dopo. Ma la seria degli interventi militari attuati dall’Unione sovietica purtroppo non si fermò. Undici anni dopo, il 24 dicembre 1979 cominciò un’altra invasione, quella contro un altro Paese indipendente, l’Afghanistan. Un’invasione con l’obiettivo di deporre l’allora presidente della Repubblica democratica dell’Afghanistan, che non era visto di buon occhio dall’Unione sovietica. Al suo posto volevano un’altro presidente, ubbidiente all’Unione sovietica. Quell’invasione però diede vita ad un vasto movimento di vari raggruppamenti di guerriglieri afghani, noti come i mujaheddin. L’occupazione dei territori dell’Afghanistan durò per dieci lunghi anni. Il 15 febbraio 1989 ebbe fine l’occupazione sovietica, con la ritirata di tutti i suoi contingenti. Ragion per cui viene considerata anche come il “Vietnam sovietico”.

    Gli interventi armati portati in atto dall’Unione sovietica seguirono anche dopo, quando si costituì, dal 1991, la Federazione Russa. Sono note quelle che ormai si chiamano le due guerre cecene. La prima iniziò nel 1994, quando le truppe armate della Russia entrarono in Cecenia e attaccarono Groznyj. Ma dopo lunghe e devastanti battaglie e scontri armati tra le parti e dopo la determinata resistenza dei ceceni, nonché la reazione massiccia dell’opinione pubblica, la Russia decise di ritirarsi nel 1996 e di firmare un trattato di pace nel 1997. Purtroppo i conflitti tra la Russia e la Cecenia non finirono con quel trattato di pace. Nel 1999 le truppe armate russe ritornarono ad invadere, cercando di controllare i territori conquistati dai separatisti ceceni, dando così inizio alla seconda guerra cecena. Formalmente il conflitto armato ebbe inizio dopo le incursioni militari nel Caucaso settentrionale, parte della Federazione, di raggruppamenti armati delle sedicenti Brigate Internazionali Islamiche. La reazione armata delle truppe russe è stata immediata. Un anno dopo, nel maggio del 2000, la Russia ha preso il controllo del territorio in Cecenia. Ma la presenza delle forze russe ha scatenato la reazione dei guerriglieri locali nel Caucaso settentrionale. Reazione che ha causato ingenti danni ai russi. Nel aprile 2009, dopo dieci anni di continui e sanguinosi conflitti armati, la Russia considerò finita la sua missione militare in Cecenia. Ma non smisero le sue ambizioni d’invasione. L’occasione si presentò quando la Georgia entrò, all’inizio dell’agosto 2008, con le sue truppe armate nell’Ossezia del Sud, una regione autonoma del suo territorio. Non tardò la reazione della Russia che intervenne militarmente contro la Georgia. Le forze armate russe arrivarono molto vicino alla capitale Tbilisi. Il 15 agosto 2008 fu firmato un “cessate il fuoco” tra la Russia e la Georgia. Secondo gli impegni ufficialmente presi, la Russia si doveva ritirarsi dal territorio della Georgia, mentre quest’ultima non doveva usare la forza militare contro l’Abcasia e l’Ossezia del Sud, le due regioni filorusse che nel 1991 avevano proclamato la loro indipendenza. Tre le due regioni e la Georgia i conflitti armati iniziarono dal 1991, per poi diventare violenti tra il 7 e l’8 agosto 2008. Il che portò a quella che viene nota come la guerra tra la Russia e la Georgia. La Russia però non rispettò gli accordi del 15 agosto 2008 e in seguito proclamò la costituzione di una “zona cuscinetto” intorno all’Abcasia e l’Ossezia del Sud. Così facendo la Russia non ha mai, in seguito, ritirato completamente e come prestabilito, le sue truppe dalla Georgia.

    Ma la strategia espansionistica della Russia continuò. Il seguente obiettivo fu la Crimea. Era il 27 febbraio del 2014 quando delle truppe armate russe, senza insegne, entrarono in Crimea, prendendo possesso di siti strategici in tutta la penisola. In seguito è stato proclamato e costituito un governo filorusso in Crimea. La Russia ha ufficialmente riconosciuto il 18 marzo 2014 Sebastopoli e la repubblica di Crimea come parte della Federazione russa. A quella decisione della Russia si opposero duramente sia l’Ucraina che gli Stati Uniti d’America, l’Unione europea ed altri Paesi. Il che ha portato all’espulsione della Russia dal Gruppo G8. Alla Russia sono state imposte diverse sanzioni da parte degli Stati Uniti d’America, dall’Unione europea e da altri Paesi. Però, fatti accaduti alla mano, quelle sanzioni si sono rivelate un’arma a doppio taglio, con dei risultati, purtroppo, non simili a quelli prestabiliti e desiderati. Il resto è storia di questi ultimi giorni.

    Si, perché sembra la Russia non abbia mai smesso di attuare le sue ambizioni di invadere territori che non le appartengono. Ne è un’altra testimonianza, purtroppo, quanto è accaduto la settimana scorsa. Nelle primissime ore del 24 febbraio è cominciata una vasta invasione militare del territorio ucraino da parte delle forze armate della Russia. Invasione che era stata annunciata alcune ore prima dal presidente russo durante un suo intervento televisivo. E, all’occasione, ha minacciato non solo gli ucraini, ma tutto il mondo. Lui, perentorio, ha dichiarato che “…Chiunque provi a interferire deve sapere che la nostra risposta sarà immediata e porterà a conseguenze mai sperimentate nella storia”! Da allora sono passati cinque giorni e gli sviluppi si susseguono. Ma sembrerebbe che il piano russo non abbia portato i risultati prestabiliti ed attesi. Questo grazie soprattutto alla determinazione e allo spiccato patriottismo dei semplici cittadini ucraini. Gli esempi sono ormai di dominio pubblico e hanno commosso l’opinione pubblica in ogni parte del mondo. Opinione che ha, allo stesso tempo, fortemente condannato la decisione del presidente russo. Ne sono una eloquente dimostrazione e testimonianza anche le massicce manifestazioni nelle piazze di molte città europee la scorsa domenica, ma anche prima. Nel frattempo il presidente ucraino ha dato un personale esempio di determinazione e di patriottismo. Egli ha anche saputo dire con poche e chiare parole delle verità che altri avrebbero preferito non venissero note pubblicamente. Ha fatto una semplice domanda il 24 febbraio scorso, rivolgendosi ai “grandi del mondo” e chiedendo: “Chi è pronto a combattere con noi? Non vedo nessuno. Chi è pronto a dare all’Ucraina una garanzia di adesione alla NATO? Tutti hanno paura”. Oppure, reagendo all’offerta statunitense di metterlo al sicuro, ha semplicemente detto: “La battaglia è qui. Mi servono munizioni, non un passaggio”! Il conflitto è tuttora in corso e gli sviluppi si susseguono. Tutto potrebbe accadere, auspicando però che di nuovo si verifichi la metafora di Davide e Golia.

    Chi scrive queste righe non può non pensare, tra l’altro, anche dell’ipocrisia e dell’ambiguità verificate durante l’operato di alcuni dei “grandi del mondo” in questi giorni. Egli non può neanche ignorare determinati interessi economici e lobbistici e le derivate conseguenze. Chi scrive queste righe è convinto però che i dittatori devono essere trattati come tali e mai tollerati. Tornando agli insegnamenti della storia, egli nota che tutte le invasioni e le occupazioni da parte dell’Unione sovietica prima e poi dalla Russia sono state fatte sempre da dittatori come Stalin, Bréžnev e Putin. Ragion per cui chi scrive queste righe, parafrasando Jean Rostand, afferma che fin quando ci saranno dei dittatori, non si dovrebbe avere mai il coraggio di criticare una democrazia.

  • Ricattabile ostaggio dei propri peccati

    Quando i bugiardi giurano, la verità piange con tutti e due gli occhi.

    Proverbio

    Anastasio Somoza era il capostipite di quella che dal 1937 e fino al 1979 divenne la dinastia Somoza in Nicaragua. È stato lui che nel 1934, nelle vesti del comandante della Guardia National ordinò l’uccisione di Augusto Sandino, il quale aveva guidato la lotta contro l’occupazione del Nicaragua dagli Stati Uniti d’America. Un’occupazione, nell’ambito di quelle che venivano allora chiamate le “guerre della banana”, iniziata nel 1912 e conclusa nel 1933.  Somoza, con un colpo di Stato nel 1936, proclamò se stesso presidente con poteri straordinari. In seguito ha chiesto ed attuato l’abolizione dei partiti, lo scioglimento del parlamento e l’abrogazione delle elezioni. In più Somoza ha ottenuto per se stesso il diritto di scegliere il suo successore, costituendo così la dinastia dittatoriale Somoza. Dinastia che, tra l’altro, continuò a perseguitare i seguaci di Sandino, i quali nel 1961 costituirono quello che venne chiamato il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale. Si trattava di un movimento comunista, che in seguito diventò un partito politico di orientamento marxista. Nel frattempo, nonostante non fossero più presenti militarmente in Nicaragua, gli Stati Uniti d’America continuarono a dare sostegno alla dittatura, considerando i Somoza come validi collaboratori. Ma, allo stesso tempo, gli Stati Uniti d’America consideravano e trattavano i dittatori nicaraguensi anche come fattori determinanti per la garanzia della stabilità nella regione. Era il 12 marzo 1947 quando il presidente statunitense Truman proclamò la dottrina che da allora porta il suo nome. Una nuova dottrina che sanciva l’abolizione definitiva della dottrina Monroe (presentata davanti al Congresso dall’allora presidente Monroe, il 2 dicembre 1823; n.d.a.) e proclamava i nuovi principi della politica estera degli Stati Uniti d’America dopo la fine della seconda guerra mondiale. Una politica estera che doveva fare fronte alla nuova realtà geopolitica dopo la divisione del mondo in due blocchi avversari. La dottrina Truman rimase attiva fino al definitivo sgretolamento dell’Unione sovietica nel 1991. Ma dalla metà degli anni ’40 del secolo passato in poi è rimasta famosa una frase, attribuita all’allora presidente statunitense Roosevelt. Una frase che, nonostante chi fosse il vero autore, leggermente modificata è stata in seguito usata in varie occasioni legate a delle preoccupanti realtà geopolitiche. Riferendosi al dittatore Anastasio Somoza, il presidente Roosevelt avrebbe detto: “Sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”! Ed è proprio questa frase che rappresenta molto significativamente l’approccio geopolitico, geostrategico e pragmatista, spesso anche con gravi conseguenze, della politica estera degli Stati Uniti d’America. Quanto è accaduto in Afghanistan, dal 2001 e fino al vergognoso ritiro dal Kabul delle truppe statunitensi il 15 agosto 2021 e la costituzione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, con tutte le gravi conseguenze evidenziate continuamente rappresenta una significativa ed eloquente testimonianza.

    Gli obiettivi della politica estera statunitense, in varie parti del mondo, sono seguiti e portati avanti da determinate istituzioni e dai rappresentanti diplomatici accreditati presso ogni singolo Paese. Rappresentanti che sono obbligati a rispettare la Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche che sancisce tutti i diritti e gli obblighi del corpo diplomatico accreditato. Tutti i diritti devono essere garantiti dallo Stato accreditario, così come tutti gli obblighi devono essere rispettati dai rappresentanti diplomatici dello Stato accreditante, ambasciatore/capo missione in testa. Purtroppo questo non si verifica ovunque. Perché, almeno in Albania, fatti accaduti e che tuttora stanno accadendo alla mano, risulterebbe che negli ultimi anni gli ambasciatori statunitensi hanno spesso ignorato e calpestato, non di rado anche con arroganza e prepotenza, quanto prevede l’articolo 41 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche. Ovviamente tutto ciò è stato reso possibile con la consapevole complicità dei massimi rappresentanti del potere politico in Albania, in cambio del “consenziente silenzio” e dei richiesti ed ottenuti “appoggi” a tempo debito.

    Quanto è accaduto e continua ad accadere con la riforma del sistema di giustizia in Albania ne è una significativa dimostrazione e testimonianza. Una riforma che formalmente prese via con l’approvazione unanime, il 22 luglio 2016, da parte di tutti i 140 deputati del Parlamento albanese, di alcuni emendamenti costituzionali. Ma in seguito, e cioè dal settembre 2016, la maggioranza governativa, capeggiata dall’attuale primo ministro, non ha più rispettato gli accordi concordati con gli altri partiti ed ha approvato con solo i propri voti alcune leggi necessarie per rendere realmente operativa la riforma. Leggi che hanno permesso anche la costituzione di alcune nuove istituzioni del sistema della giustizia. L’autore di queste righe ha informato da anni il nostro lettore, cercando sempre di essere oggettivo, di quello che stava e sta accadendo con la riforma del sistema di giustizia in Albania. Fatti accaduti e che tuttora stanno accadendo alla mano, risulta che questa riforma è stata ideata ed in seguito approvata e resa operativa anche con il diretto, attivo e non di rado improprio coinvolgimento dei “rappresentanti internazionali” in Albania, gli ambasciatori statunitensi e dell’Unione europea in testa. Ignorando e calpestando spesso però anche quanto prevede l’articolo 41 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche. Non è mancato, quando necessario, neanche il “sostegno istituzionale” di alcuni alti rappresentanti della Commissione europea. Risulta però, sempre fatti accaduti e che stanno tuttora accadendo alla mano, che questa riforma abbia permesso al primo ministro e/o a chi per lui di controllare il sistema “riformato” della giustizia. Ragion per cui, sempre dati, fatti accaduti e che stanno accadendo alla mano, comprese molte denunce ufficialmente depositate presso le nuove istituzioni del sistema “riformato” della giustizia e mai trattate, risulterebbe che questa riforma sia diventata realmente un voluto ed attuato fallimento.

    Bisogna sottolineare che con l’approvazione all’unanimità dal Parlamento, il 22 luglio 2016, di tutti i voluti emendamenti costituzionali riguardanti la riforma del sistema di giustizia, per la prima volta nella Costituzione dell’Albania è stata sancita anche la presenza di quella che si chiama Operazione Internazionale di Monitoraggio. Questa struttura è composta da esperti della giurisprudenza da Paesi membri dell’Unione europea e degli Stati Uniti d’America ed è coordinata dalla Commissione europea. Il suo compito è quello di garantire un processo imparziale e professionalmente svolto per la rivalutazione dell’integrità morale e professionale dei giudici e dei procuratori del sistema di giustizia in Albania. Un processo comunemente noto come vetting (vaglio, controllo; n.d.a.) che purtroppo è stato tutt’altro che imparziale e professionalmente svolto e che ha causato molti ritardi e danni. Tant’è vero che ormai viene fortemente sconsigliato dalle istituzioni dell’Unione europea alla Macedonia del Nord e al Kosovo! E, guarda caso, il processo di vetting è stato criticato ultimamente anche dal presidente della Commissione parlamentare per la Riforma di giustizia, deputato dell’attuale maggioranza governativa. Lui è “estremamente insoddisfatto con il ritmo del lavoro della Commissione Indipendente della Qualifica (struttura incaricata dalla Costituzione per attuare il processo del vetting; n.d.a.) e della stessa Operazione Internazionale di Monitoraggio in questo processo […] Quali sono gli strumenti e le garanzie per rafforzare l’imparzialità e l’obiettività decisionale?”.

    Si tratta di un processo, quello del vetting, che, come sancito nella Costituzione dopo l’approvazione dei sopracitati emendamenti, doveva essere garantito da determinate istituzioni, il cui mandato doveva finire entro il giugno 2022. Nella stessa Costituzione sono state previste e sancite anche le istituzioni che dovevano sostituire quelle precedenti. Bisogna sottolineare di nuovo che tutto è ormai previsto nei minimi dettagli dalla Costituzione e dalle derivanti leggi in vigore e che riguardano il sistema “riformato” della giustizia. Ma qui arriva il bello. Sì, perché da una proposta fatta dalla maggioranza governativa nell’ottobre 2021 è stato chiesto il prolungamento del periodo di funzionamento delle istituzioni del vetting. Per attuare quella proposta, trattandosi di un emendamento della Costituzione, non bastano i voti della maggioranza governativa. Sono indispensabili anche i voti dell’opposizione. Il nostro lettore è stato informato di tutto ciò (Agli imbroglioni quello che si meritano; 1 novembre 2021). Così come è stato informato anche degli sviluppi, a partire da settembre 2021, nel partito democratico albanese, il maggior partito dell’opposizione ed il primo partito oppositore alla dittatura comunista, costituito nel dicembre 1990. Sviluppi che hanno, da dicembre scorso, delegittimato colui che dal 2013 aveva usurpato la direzione del partito. Il nostro lettore è stato informato spesso in questi ultimi anni dei danni causati, non solo al partito democratico e all’opposizione, ma anche al Paese, nonché degli accordi occulti, a partire dal 17 maggio 2017, almeno quelli pubblicamente noti, tra il primo ministro e l’usurpatore del partito democratico.

    Ebbene, giovedì scorso, il 10 febbraio, il Parlamento ha approvato l’emendamento dell’articolo 179/b della Costituzione che sancisce il prolungamento, fortemente voluto dal primo ministro, del periodo di funzionamento delle istituzioni del vetting, proprio con i voti dei deputati controllati dall’ormai delegittimato usurpatore del partito democratico! Un emendamento quello “applaudito” anche dall’ambasciatrice statunitense, che si sta investendo molto personalmente, violando palesemente anche la Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, per far credere che la riforma del sistema di giustizia in Albania sia stato un continuo e crescente successo (Sic!). Bisogna però evidenziare che era lo stesso usurpatore della direzione del partito democratico il quale, nella primavera del 2017, rivolgendosi al primo ministro, lo stesso di adesso, e riferendosi al sopracitato processo del vetting, dichiarava “perentorio” che si trattava di un complotto che “è stato scoperto” e che era “…un progetto mafioso nel quale sono coinvolti alti diplomatici a Tirana […] che hanno preso in ostaggio gli esperti dell’Unione europea”! Non si sa esattamente, anche se si presume chi fossero gli “alti diplomatici” che avevano preso in ostaggio [quali?] esperti dell’Unione europea. Ma fatti accaduti e che stanno accadendo anche in questi ultimi giorni alla mano, cresce continuamente la convinzione che l’usurpatore della direzione del partito democratico è una persona ricattata e ricattabile. E guarda caso, proprio da alcuni “alti diplomatici” in Albania. Le cattive lingue dicono che si tratta soprattutto dell’ambasciatrice statunitense. E non solo le cattive lingue, che raramente hanno sbagliato, ma anche tanti altri sono convinti che l’usurpatore della direzione del partito democratico albanese è un ricattabile ostaggio dei propri peccati. Alcuni di quei peccati sono attualmente oggetto di investigazione anche da parte dei procuratori belgi. Ma le cattive lingue dicono che si tratta anche di molti altri ancora.

    Chi scrive queste righe è convinto che l’ambasciatrice statunitense in Albania, come i suoi predecessori, chissà perché (?!), sta appoggiando palesemente un autocrate come il primo ministro. Sta appoggiando un dittatore ed una dittatura. Suonano perciò attuali le parole, attribuite a Roosevelt e riferite ad Anastasio Somoza. E cioè che “Sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”! Mentre riferendosi al ricattabile ostaggio dei propri peccati, l’usurpatore del partito democratico, chi scrive queste righe si ricorda della saggezza popolare, secondo la quale quando i bugiardi giurano, la verità piange con tutti e due gli occhi.

  • Amicizie occulte e sudditanze pericolose

    La maggior parte dei tiranni sono stati demagoghi,
    che  si sono acquistata la fiducia del popolo con le calunnie.

    Aristotele; Politica

    Un proverbio cinese ci avverte che bisogna fare molta attenzione a chi arriva con un regalo perché chiederà sicuramente un favore. Una saggezza millenaria quella, che si verifica spesso, non soltanto tra gli esseri umani, ma anche quando si tratta di rapporti governativi tra Paesi diversi. E soprattutto quando quelli che governano e gestiscono la cosa pubblica hanno stabilito tra di loro dei rapporti occulti e delle sudditanze ed ubbidienze pericolose.

    Una settimana fa, lunedì 17 gennaio, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è stato in Albania per una visita ufficiale, anche se, realmente, è stata proprio una visita per incontrare ed accordarsi con il suo “amico e discepolo”, il primo ministro albanese. Con colui che non nasconde, anzi, esprime pubblicamente la sua “ammirazione” per l’illustre ospite. Colui che proprio quel lunedì dichiarava che era “…molto orgoglioso di potersi considerare amico del presidente Erdogan”. Guarda caso, il protocollo di Stato aveva escluso dagli incontri, anche quello, protocollarmente obbligatorio, tra i due omologhi. E cioè dell’ospite, nella qualità di Presidente della Turchia e del Presidente albanese. Una “inedita protocollare” che non è stata mai spiegata e chiarita da chi di dovere, nonostante l’espresso interessamento pubblico e mediatico.

    Durante quella breve ma intensa visita in Albania il 17 gennaio scorso, il presidente turco era venuto anche per inaugurare quanto aveva “generosamente regalato” in precedenza, durante la visita del primo ministro albanese in Turchia, il 6 – 7 gennaio 2021. Si è trattato di 522 unità abitative in una località colpita dal terremoto del 26 novembre 2019. Dei regali per il povero e bisognoso popolo albanese. Ma soprattutto dei “regali” per il suo amico e discepolo, il primo ministro. Si è trattato e si tratta di “regali”, di supporto, anche elettorale, come nel caso di un ospedale in una città albanese, bastione del partito del primo ministro. Un’altra promessa fatta dal presidente turco al suo “fratello ed amico” albanese nel gennaio 2021, proprio tre mesi prima delle elezioni politiche del 25 aprile. L’ospedale è stato ormai inaugurato l’anno scorso, come promesso. Chissà però in cambio di quali favori quei “regali”?! E dei favori fortemente voluti e richiesti, anche pubblicamente, ci sono e come!

    Lunedì 17 gennaio, il presidente turco ha inaugurato la restaurazione, con dei finanziamenti turchi, di una moschea nel pieno centro della capitale albanese. Ma come ci insegna il sopracitato proverbio cinese, non è mancata neanche la richiesta del presidente turco, dopo i regali fatti. Una richiesta per il suo “fratello”, per il suo “amico”, per il primo ministro albanese; una sola, ma all’esaudimento della quale il presidente turco ci tiene fortemente e in maniera determinata. Una richiesta fatta anche prima. Una richiesta però, che mette in serie difficoltà il primo ministro albanese perché lo mette tra due “fuochi” dai quali si guarda ben attentamente di non essere “bruciato”: sia dal “fuoco” del suo “amico”, il presidente turco, sia dal “fuoco” dei Paesi occidentali e degli Stati Uniti d’America. Si tratta di una richiesta, quella pubblicamente fatta dal presidente turco, che riguarda tutto quello e quelli che hanno a che fare con colui che, fino al 2012, era un suo caro amico e stretto collaboratore. Colui che però, dal 2013, ha denunciato pubblicamente diversi scandali di corruzione, che vedevano direttamente coinvolto l’attuale presidente turco e/o i suoi familiari. E proprio per quella ragione, da quel periodo lui diventò un pericoloso nemico da perseguire e combattere, ad ogni costo. Quel nemico è Fethullah Gülen. Ed insieme con lui tutti i suoi collaboratori e sostenitori, compresi tutti gli appartenenti dell’organizzazione FETÖ (Fethullahçı Terör Örgütü – Organizzazione del Terrore Gülenista; n.d.a.), ovunque loro si trovino nel mondo. Anche in Albania. Il presidente turco considera Gülen l’ideatore e l’organizzatore del fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016 in Turchia. Ormai lui è il principale ricercato dalla giustizia turca, accusato di terrorismo. Da anni ormai Gülen si trova negli Stati Uniti d’America. Ragion per cui la Turchia ha chiesto, a più riprese, alle autorità statunitensi la sua estradizione. Estradizione che è stata però sempre rifiutata. Non solo, ma sia gli Stati Uniti che tutti gli Stati membri dell’Unione europea hanno fermamente condannato le accuse di Erdogan nei suoi confronti. Questo acerrimo nemico del presidente turco, un noto politologo e predicatore dell’Islam, è anche il fondatore di una ben altra organizzazione, il Movimento Gülen. Egli è, allo stesso tempo, tra i fondatori dell’Associazione per la Lotta contro il Comunismo, nonché il fondatore di una rete di scuole e altre strutture di insegnamento privato, ben radicate sia in Turchia che in altri paesi, Albania compresa. Ma il presidente turco, nonostante la protezione personale data al suo principale nemico dagli Stati Uniti d’America, non demorde mai e, determinato, usa ogni occasione ed ogni mezzo per colpire e danneggiare sia il suo nemico che i suoi collaboratori e sostenitori, compresa la rete di scuole da lui fondate. Ragion per cui il presidente turco continua ad insistere con la sua richiesta per combattere i sostenitori del Movimento Gülen e sradicare le strutture scolastiche da lui fondate e finanziate. Presenti anche in Albania. E così facendo, da anni, sta mettendo in seria difficoltà anche il primo ministro albanese, suo “discepolo” perché essendo il nemico del presidente turco protetto dagli Stati Uniti e sostenuto anche dai Paesi europei il primo ministro albanese, il “fratello e amico” del presidente turco, cerca in tutti i modi di esaudire le ripetute richieste del suo “idolo”, ma cerca anche, possibilmente, di fare tutto senza dare nell’occhio dell’altra parte. Mentre il presidente turco, determinato ed agguerrito com’è, non perde occasione di ripetere e pretendere che la sua richiesta sia presa e trattata con la dovuta attenzione ed esaudita prima possibile. Lo ha fatto determinato, ma anche con una certa arroganza e prepotenza, lunedì 17 gennaio, parlando ai deputati presenti nell’aula del Parlamento albanese. Riferendosi ai collaboratori e ai sostenitori del suo acerrimo nemico, il presidente turco ha detto che “…questo gruppo mantiene ancora la sua presenza in Albania nel settore dell’istruzione, della sanità, delle organizzazioni religiose e nel settore privato”. Poi ha “avvertito” i deputati che gli appartenenti alle organizzazioni fondate dal suo nemico rappresentano anche un “pericolo per la sicurezza nazionale dell’Albania”, come per la Turchia. E con dei “messaggi tra le righe”, riferendosi sempre ai suoi nemici, considerandoli come dei “terroristi che hanno le mani coperte di sangue”, ha ribadito che “mentre ci sono tante questioni tra noi di cui parlare, discutere e intraprendere dei passi verso il nostro futuro comune, a noi (presidente turco e i suoi; n.d.a.) dispiace che stiamo perdendo tempo per una simile cosa. Speriamo che durante il nostro prossimo incontro di turno, questa questione possa essere cancellata dalla nostra agenda!”.

    Parte integrante, molto importante e significativa della visita del presidente turco in Albania, lunedì scorso 17 gennaio, ben preparata e gestita dal “protocollo ufficiale”, era proprio, come sopracitato, anche la cerimonia per la restaurazione, con dei finanziamenti turchi, della moschea sulla piazza principale, in pienissimo centro di Tirana. Una cerimonia con la quale si è conclusa la breve visita del presidente turco e nella quale però il “protocollo ufficiale” non aveva previsto la presenza dei rappresentanti della Comunità musulmana dell’Albania. In realtà in quella cerimonia tutto parlava turco. Da colui che invitava a parlare tutti quelli che era previsto parlassero, alle scritture sul podio fino alle scenografie sui muri “ristrutturati” della moschea. Anche la preghiera è stata recitata in lingua turca da un alto religioso turco. Mentre la ragione della vistosa e molto significativa mancanza, durante quella cerimonia, dei rappresentanti della Comunità musulmana dell’Albania era “semplicemente” dovuta al fatto che il presidente turco considera loro come sostenitori del suo sopracitato acerrimo nemico.

    La visita del presidente turco lunedì scorso, 17 gennaio, in Albania ha suscitato molte contestazioni espresse pubblicamente da analisti, opinionisti, ma anche da molti semplici cittadini. E non solo per il fatto che quella visita coincideva proprio con il 554o anniversario della morte dell’Eroe nazionale albanese, Giorgio Castriota. Di colui che per 25 anni consecutivi, dal 1443 e fino al 1468 (morì da malattia il 17 gennaio 1468), ha combattuto e vinto contro gli eserciti ottomani, alcune volte guidate personalmente dai sultani dell’epoca. Tenendo presente anche l’agenda della visita e le dichiarazioni del presidente turco il 17 gennaio scorso in Albania, la “coincidenza” sulla data scelta a molti è sembrata proprio come una sfida che l’ospite ed il caro “amico” del primo ministro faceva agli albanesi, i quali sono molto legati al loro Eroe nazionale. In più, sia il presidente turco che il suo anfitrione, il primo ministro albanese, durante quella visita, con le loro dichiarazioni hanno cercato di camuffare e di nascondere le vere ragioni della visita stessa. Hanno detto delle frasi che ne contraddicevano altre e non riuscivano a nascondere i veri obiettivi geostrategici della Turchia in Albania e nei Balcani. Tutto come previsto nella ormai nota Dottrina Davutoglu. Una dottrina quella che, da più di dieci anni ormai, è diventata parte integrante ed attiva della politica estera della Turchia. La Dottrina Davutoglu, fortemente sostenuta anche dall’attuale presidente turco, si basa sul principio dell’istituzione di una specie di Commonwelth degli Stati ex ottomani, dal nord Africa fino ai Balcani. Secondo questa dottrina, la Turchia dovrebbe diventare un “catalizzatore e motore dell’integrazione regionale”. La Turchia deve non essere “un’area di anonimo passaggio” ma diventare “l’artefice principale del cambiamento”. Mentre Erdogan, prima da primo ministro e poi da presidente, continua deciso all’attuazione di questa dottrina. Da alcuni anni l’autore di queste righe ha informato il nostro lettore, non solo della Dottrina Davutoglu, ma anche dei rapporti di “amicizia occulta” tra il presidente turche e il primo ministro albanese e di quelle che egli considera come delle “sudditanze pericolose”. (Erdogan come espressione di totalitarismo, 28 marzo 2017; Relazioni occulte e accordi peccaminosi, 11 gennaio 2021; Diabolici demagoghi, disposti a tutto per il potere, 18 gennaio 2021).

    Chi scrive queste righe da tempo è convinto della pericolosità delle amicizie occulte e dei rapporti di ubbidiente sudditanza che crea e segue il primo ministro albanese con altri suoi “simili”. Compreso anche il presidente turco. Simili soprattutto per il loro comportamento con il potere istituzionale e per i loro rapporti con i principi della democrazia. Simili per la loro arroganza e prepotenza e per il loro modo despotico di calpestare i sacrosanti diritti innati, acquisiti e riconosciuti dell’essere umano. Ma simili anche per le loro capacita demagogiche con le quali cercano e spesso anche riescono ad ingannare i propri cittadini. Confermando così quanto pensava Aristotele circa cinque secoli fa. E cioè che “La maggior parte dei tiranni sono stati demagoghi che si sono acquistata la fiducia del popolo con le calunnie”.

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