Elezioni

  • America amara

    Tra poco avrà luogo la più controversa proclamazione del nuovo presidente, e si leggono e ascoltano molte cose a sproposito sull’America – un paese nel quale bisogna esserci stati, averci lavorato, per capirlo appena un po’. O almeno conoscerne la costituzione, la più antica in vigore ed un modello di sintesi – pochi, chiare norme senza fronzoli. Agli originali sette articoli, che regolano i rapporti tra stati e dimensione federale o i poteri del presidente, nel 1791 furono aggiunti i primi dieci “emendamenti”. La paradossale sequenza dei primi due emendamenti spiega molte cose per capire l’America.

    Il primo sancisce i diritti di libera espressione, associazione, culto (e siamo ancora a fine ‘700), e quella libertà della stampa che marcherà fino a oggi l’America che più amiamo. Subito dopo questo manifesto progressista delle libertà USA, il secondo emendamento parla di qualcosa di molto diverso, anche se forse solo in apparenza: il diritto per ogni cittadino di possedere delle armi, confermato ancora nel 2008 dalla Corte Suprema. È probabile che nessun’altro paese al mondo riconosca con rango costituzionale il diritto di andare in giro armati, anche con armi da guerra, tanto importante da essere posto subito le garanzie alla piena espressione della persona. Non sorprenda allora che il Presidente Trump si è fatto ritrarre vestito da borghese e armato di mitra, in un paese dove solo nel corso di quest’anno sono state vendute 17 milioni di armi – per lo più armi da guerra semiautomatiche e automatiche, alcune delle quali possono sparare fino a 15 colpi al secondo.

    Il primo e il secondo emendamento plasmano le due Americhe che ci sono sempre state e continueranno ad esserci. Come ha ricordato un ottimo articolo di Critica Liberale, queste due Americhe si sono combattute in una delle più cruenti guerre civili moderne – oltre 600.000 morti, e un presidente, Lincoln, assassinato tre giorni dopo la resa dei sudisti a mo’ di una  lotta che quindi non doveva finire e ancora continua. Ci sono stati Martin Luther King e il Ku Klux Klan, il Vietnam e la beat generation, ora la vittoria di Biden e il popolo di Trump, che non si disperderà e che ha mietuto simpatie anche tra tanti italiani, desiderosi di simpatizzare per i modi irrituali di una pericolosa follia al potere. Queste due Americhe di rango costituzionale raramente si ritrovano insieme, ma può accadere. Ad esempio, a mio avviso nella seconda guerra mondiale (più che nella prima), dove l’intervento per salvare le democrazie europee in nome di un concetto di libertà che anche in Italia avevamo perso, si è combinato con la forza di un popolo in armi, avvezzo a combattere e dimostratosi una straordinaria macchina militare.

    L’Europa fu salvata da quell’America unita e potente. In questi anni l’Europa ha avuto la saggezza di non seguire Trump quando ha voluto distruggere l’agenda contro i cambiamenti climatici, il multilateralismo, a tratti addirittura la lotta alla pandemia, e l’accordo di libero commercio con l’Europa e quello col Pacifico, il dialogo in Medio Oriente e l’accordo sul nucleare in Iran. Molto altro verrà fuori sulla presidenza Trump – un piccolo assaggio lo ha dato la recente rivelazione di OpenDemocracy degli investimenti di oltre 50 milioni di dollari spesi da gruppi vicini a Trump per contrastare in Africa la contraccezione, l’aborto, l’educazione sessuale. Ora l’Europa ritroverà un alleato più affidabile, ma deve sapere che l’America del secondo emendamento è sempre pronta. E della prima è come lo specchio.

  • Il Perù mette alla porta il presidente Vizcarra

    Fedele alla sua fama di democrazia traballante, il Perù applaude Manuel Merino quale terzo presidente della repubblica della attuale legislatura 2016-2021. Il 10 novembre il Parlamento ha destituito per “incapacità morale” il predecessore, Martín Vizcarra, il quale a sua volta era subentrato nel 2018 al dimissionario Pedro Pablo Kuczynski. Vizcarra era passato indenne meno di due mesi fa attraverso un primo tentativo di estrometterlo dal potere, sempre per ragioni assimilabili a corruttela, ma questa volta ben 9 dei 10 partiti del Congresso (Parlamento) peruviano, hanno votato sì alla destituzione, raccogliendo 105 dei 130 voti disponibili.

    Parte dell’opinione pubblica è subito scesa in piazza a Lima ed in altre città, gridando al ‘colpo di stato’, per una scelta sembrata eccessiva data l’accusa, non ancora provata dalla giustizia, di possibili tangenti ricevute da Vizcarra nel 2011 quando era governatore di Moquegua.

    Arrivato alla presidenza senza contare su una forte base in Parlamento, Vizcarra ha cercato di forzare la mano ai partiti impegnandoli in una riforma delle istituzioni e della giustizia a cui hanno palesemente mostrato di non voler partecipare. Così, secondo alcuni analisti, in vista delle elezioni generali dell’11 aprile 2021, i leader delle formazioni politiche hanno preferito concordare con Merino, presidente del Parlamento e ora capo di stato ad interim, una procedura di destituzione e poi la formazione di una coalizione governativa che contasse su una presenza chiara dei partiti.

    Nel suo discorso di investitura, dopo aver giurato “per Dio, per la patria e per tutti i peruviani, che eserciterò fedelmente l’incarico di presidente della Repubblica per completare il periodo costituzionale”, Merino ha promesso un “governo di consenso ed unità nazionale” per affrontare i problemi del Paese. Se tutto andrà per il verso giusto Merino trasferirà la banda presidenziale ad un nuovo presidente fra meno di un anno, il 28 luglio 2021.

    Vale la pena ricordare infine che in 30 anni la poltrona di capo dello Stato è stata davvero bollente. Alberto Fujimori, dopo aver chiuso a forza il Parlamento, è stato processato e condannato, come era avvenuto per altri due predecessori (Augusto Leguía e Francisco Morales Bermúdez). Un presidente molto noto, Alan García, è morto suicida mentre era sotto processo, mentre altri tre ex capi di stato (Ollanta Humala, Alejandro Toledo e Pedro Pablo Kuczynski) attendono ancora la soluzione dei problemi giudiziari nei quali sono incappati.

  • L’Algeria boicotta il referendum costituzionale

    Con un’affluenza alle urne ai minimi storici, l’Algeria ha boicottato un referendum che, solo grazie all’assenza di quorum, ha varato riforme costituzionali concepite per placare la protesta popolare che ha scosso per un anno il Paese nordafricano.

    Le riforme per creare “una nuova Algeria” e avallare in maniera plebiscitaria il presidente Abdelmadjid Tebboune sono state approvate con un 66,8% dei consensi ma domenica 1 novembre l’affluenza alle urne è stata solo del 23,7%, la più bassa da quando si vota dopo l’indipendenza ottenuta nel 1962 dall’ex-colonia francese.

    Le riforme includono piani per ridurre a due i mandati presidenziali e per aumentare il potere di parlamento, magistratura e primo ministro. Nomine chiave rimangono però ad appannaggio del presidente e il testo di riforma nel complesso è stato respinto da esponenti dell'”Hirak”, il “movimento” di protesta che per oltre 12 mesi ha riempito le strade dell’Algeria contribuendo (assieme ai decisivi militari) alla caduta del ventennale presidente-autocrate Abdelaziz Bouteflika nell’aprile dell’anno scorso. L’Hirak, che chiede un netto cambio del “sistema” di potere algerino, era basato sui raduni ed è stato fermato solo dall’emergenza Covid.

    Il Movimento aveva esortato al boicottaggio definendo le riforme proposte da Tebboune (eletto nel dicembre scorso) solo “di facciata”. Un parere condiviso peraltro anche da accademici come Cherif Driss, professore di Scienze politiche all’Università di Algeri secondo il quale il testo della riforma “non ha apportato granché rispetto alla vecchia Costituzione”. A suo dire il fatto che in pratica solo il 15% degli algerini abbia detto sì alle riforme è un “fallimento” del “potere” attuale.

    In Algeria, in cui il coronavirus sta avendo negativi effetti economici e sociali esacerbando il malcontento popolare, si è percepita una mancanza d’interesse per il referendum. La consultazione è stata accompagnata da una campagna elettorale a senso unico in cui gli appelli al boicottaggio sono stati alquanto oscurati dai media. In Cabilia, roccaforte dell’Hirak, sono stati segnalati casi di blocco dei seggi da parte di contestatori. Allo scarso afflusso alle urne ha contribuito chiaramente anche la pandemia che peraltro ha costretto il 74enne presidente, gran fumatore) a un ricovero in Germania in seguito alla scoperta di casi positivi nel suo entourage.

  • Alle elezioni per l’Anm vince la corrente progressista dei magistrati, giù il gruppo di Davigo

    Le toghe progressiste di Area sono prime, ma tallonate da Magistratura Indipendente, la corrente che ha avuto a lungo come punto di riferimento Cosimo Ferri e che ha pagato il prezzo più alto al caso Palamara, con tre consiglieri del Csm costretti alle dimissioni. Dimezza la propria rappresentanza Unità per la Costituzione, di cui è stato a lungo leader di fatto il pm romano radiato dalla magistratura per lo “scandalo” delle nomine. E va male anche Autonomia e Indipendenza, il gruppo fondato da Piercamillo Davigo, che alle scorse elezioni aveva fatto il botto, ma che stavolta sconta l’assenza del suo leader: prende gli stessi seggi degli esordienti “Articolo 101”, la neonata formazione che si pone in antitesi alle correnti tradizionali, ma i cui rappresentanti sono già stati in passato all’Anm sotto le insegne di “Proposta B”. E’ il quadro composito che emerge dalle elezioni per il rinnovo dei trentasei componenti del Comitato direttivo centrale dell’Anm, il “parlamentino delle toghe” che già il 7 novembre prossimo è chiamato ad eleggere il nuovo presidente e la nuova giunta destinate a guidare il sindacato dei magistrati per i prossimi quattro anni.

    Ma c’è un altro dato da non sottovalutare. Ed è il calo sensibile dei votanti, che tradisce la “disaffezione” di una parte dei magistrati al sistema delle correnti, uscito con le ossa rotte dal caso Palamara. Nonostante per la prima volta si votasse con modalità telematica, sono stati solo 6.101 magistrati a scegliere i rappresentanti al Comitato direttivo centrale dell’Anm, pari al 85,92% dell’elettorato attivo. Un migliaio in meno (7100) di quelli che si erano registrati nelle scorse settimane e quasi due migliaia in meno rispetto alle elezioni del 2016.

    Area è dunque la vincitrice con 1785 voti e suo è anche il primo degli eletti, con 739 preferenze: il presidente uscente dell’Anm Luca Poniz, che ha spinto per una linea intransigente nei confronti di tutti i magistrati protagonisti della riunione sulle nomine all’hotel Champagne con Palamara, Ferri e il dem Luca Lotti, ma dialogante sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, alla guida di una coalizione formata da Area, Unicost e Autonomia e Indipendenza, con Magistratura Indipendente all’opposizione.  Numeri che dovrebbero portare il gruppo a 11 seggi, 2 in più di quelli che aveva ottenuto nel 2016. Ottimo risultato anche per Magistratura Indipendente, nella cui lista si erano presentati sotto l’insegna di Movimento per la Costituzione, anche ex esponenti di Unicost (come Antonio Sangermano, in passato pm del caso Ruby): incassa 1648 voti, che dovrebbero portarla a 10 seggi (+2 rispetto a 4 anni fa). Per Unità per la Costituzione – la cui dirigenza ha preso da subito le distanze da Palamara e ha sposato una linea intransigente – invece la batosta è netta. Anche se il suo presidente Mariano Sciacca vede comunque un progresso rispetto alle elezioni suppletive del Csm. Nel 2016 era stata la prima corrente, oggi i suoi consensi si fermano a 1212, con una contrazione di seggi notevole: dai 13 di allora, dovrebbe accontentarsi di soli 7. In calo considerevole anche Autonomia e Indipendenza: dopo il bagno di voti del 2016 trainato essenzialmente da Davigo ottiene 749 preferenze e così gli stessi seggi di “Articolo 101” che di voti ne ha presi 651.Tra i suoi, il primo degli eletti è l’ex consigliere del Csm Aldo Morgigni.

    Difficile capire che prospettive si aprono per il “governo” del sindacato dei magistrati. “Come quattro anni fa il nostro obiettivo è la giunta unitaria”, assicura il segretario di Area Eugenio Albamonte. Ma l’accordo tra tutte le correnti non sembra un traguardo facile.

  • La Ue impone sanzioni contro la Bielorussia ma salva Lukashenko

    L’Unione europea sferra il colpo contro il regime bielorusso, ma solo a metà. Bruxelles, dopo un vertice straordinario dei 27 leader, ha raggiunto l’accordo, superando il veto di Cipro, e ha varato le sanzioni contro 40 funzionari di Minsk accusati a vario titolo di aver contribuito ai brogli elettorali e alla brutale repressione dei manifestanti pacifici che dal 9 agosto sono scesi in piazza per contestare il risultato delle elezioni presidenziali. Nella lista c’è un’assenza che pesa: quella del leader autoritario Alexander Lukashenko, alla guida del paese dal 1994. Tra i sanzionati figurano il ministro dell’Interno Yuri Khadzimuratavich, e i suoi viceministri, accusati della campagna di repressione e intimidazione contro i dissidenti e i giornalisti, oltre a funzionari della sicurezza, membri della commissione elettorale e al direttore del centro di detenzione di Minsk, Ivan Yurievich, “responsabile del trattamento inumano e degradante, compresa la tortura, dei cittadini detenuti in seguito alle elezioni presidenziali”. L’Unione europea spera che queste misure inducano Lukashenko a liberare i detenuti e a impegnarsi al dialogo inclusivo per trovare una via d’uscita pacifica alla crisi. Tuttavia, se Minsk deciderà di tirare dritto, restando sorda alle richieste del popolo bielorusso, Bruxelles è pronta ad alzare il tiro. “L’elenco delle persone prese di mira sarà sotto costante revisione e l’Ue è pronta a imporre ulteriori misure restrittive, se la situazione non migliorerà”, ha ammonito l’Alto rappresentate Ue Josep Borrell. Sulla stessa lunghezza d’onda gli Stati Uniti che hanno imposto sanzioni nei confronti di otto dirigenti bielorussi “in coordinamento con i nostri partner internazionali, il Regno Unito, il Canada e l’Unione europea, per dimostrare la solidarietà della comunità internazionale” e prendere posizione in favore del popolo bielorusso contro le azioni “fraudolente e violente” del governo. La reazione di Minsk è stata tutt’altro che conciliante. Il ministero degli Affari esteri bielorusso ha fatto sapere di essere al lavoro per preparare delle sanzioni reciproche contro l’Unione europea e ha minacciato l’interruzione dei rapporti diplomatici in caso di ulteriore inasprimento delle restrizioni. Una condanna è arrivata anche dal Cremlino, il più stretto alleato di Lukashenko, che ha bollato la mossa di Minsk come una “manifestazione di debolezza più che di forza”. Il portavoce Dmitry Peskov ha accolto invece con favore l’esclusione del leader autoritario dalla lista dei sanzionati, sottolineando che, se Bruxelles lo avesse attaccato direttamente si sarebbe persa qualsiasi speranza di arrivare a un accordo pacifico. La decisione dell’Ue è arrivata al termine del primo giorno di lavori del Consiglio europeo straordinario, dopo un lungo braccio di ferro con Cipro che ha accusato l’Unione di utilizzare un doppio standard di trattamento tra la Bielorussia e la Turchia, colpevole di aver avviato attività esplorative di gas e petrolio nel Mediterraneo orientale, in un tratto di mare su cui Atene e Nicosia rivendicano la sovranità territoriale e lo sfruttamento esclusivo delle risorse energetiche. Dopo una lunga cena tra i leader, Cipro ha ceduto, dando il via libera alle sanzioni contro Minsk e ottenendo in cambio una presa di posizione di Bruxelles contro Ankara, che però si è fermata più alle minacce verbali che ai fatti. “Le elezioni” in Bielorussia “non rispondono agli standard democratici. Vogliamo che ci sia un percorso chiaro e una rapida evoluzione verso elezioni libere e credibili”, è stata la richiesta avanzata dal presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte, “Vogliamo che siano rispettati i diritti di chi protesta in maniera pacifica. Pretendiamo che le autorità prendano atto della situazione”. Intanto la cancelliera Angela Merkel ha fissato per martedì a Berlino un incontro con la leader dell’opposizione bielorussa Svetlana Tikhanovskaya. Il principale argomento di discussione, ha fatto sapere la portavoce della cancelliera, sarà “la situazione nel paese dopo le elezioni presidenziali”.

  • Sconfitte, vittorie e sconfitte travestite da vittorie

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’On.Michele Rallo

    Vengo meno alle mie consolidate abitudini e, questa settimana, scrivo il pezzo per “Social” il lunedí, dopo i primi dati del referendum e delle regionali.

    È troppo presto per una analisi compiuta dei risultati, ma alcune considerazioni possono comunque farsi. In ordine sparso – naturalmente – e chiedo scusa ai lettori per il carattere disordinato delle righe che seguono.

    Referendum. Gli ultimi dati parlano di una vittoria dei SI di 70 a 30, o giú di lí. Di Maio canta vittoria con toni addirittura epici. Da un certo punto di vista ha ragione: la maggioranza degli italiani ha dato credito alla narrazione dell’antipolitica grillina. Troppo poco, peró, per cantare vittoria: i risultati delle regionali puniscono severamente i Cinque Stelle, ridimensionandoli ulteriormente e impietosamente. I grillini sono ormai incamminati stabilmente sul viale del tramonto, un viale in discesa ripida, ripidissima, con traguardo finale il precipizio.

    Decisione sbagliata. Per fare un dispetto (o per credere di farlo) al “palazzo”, gli italiani hanno votato contro i loro stessi interessi. Se ne accorgeranno presto, quando vedranno che intere province saranno rimaste senza una propria rappresentanza parlamentare, alla mercé del tornaconto delle vicine metropoli.

    Regionali: tre a tre, e palla al centro. Apparentemente, il risultato finale è di parità: tre a tre. Ma il pareggio è solo apparente, perché il Centro-destra sale e il Centro-sinistra scende. Vediamo il dettaglio.

    Il Centro-destra a quota 15 (su 20). Il Centro-destra si è rafforzato notevolmente nelle due regioni che giá controllava (Veneto e Liguria) e ne ha conquistato agevolmente una terza (le Marche). Amministra ormai 15 regioni su 20, con ció confermando di essere una solida maggioranza nel paese. Chissá se in Alto Loco se ne sono accorti.

    Il Centro-sinistra a quota 5 (su 20). Il Centro-sinistra si è rafforzato solamente nella Campania dello “sceriffo” De Luca, ha mantenuto le posizioni in Puglia con Emiliano, ha limitato i danni nella rossa Toscana (conservando la presidenza ma con uno scarto dimezzato rispetto a quello del 2015), ed è infine franato rovinosamente nelle Marche (altra regione rossa passata al Centro-destra, come l’Umbria qualche mese fa). Oltre alle 3 conservate oggi, il Centro-sinistra ne mantiene ancora 2: l’Emilia-Romagna e il Lazio. Quest’ultima regione è stata conquistata da Zingaretti nel lontano (politicamente) 2018. Il fratello di Montalbano se la tiene stretta – la regione – rinunciando anche a fare il Ministro, pur di non dimettersi da governatore e andare incontro ad elezioni anticipate (e a sicura sconfitta). Ma qualcosa in regione comincia a scricchiolare.

    Il Centro-destra non è riuscito a politicizzare il voto. Il Centro-destra ha vinto, ma non è riuscito a stravincere. Ció ha consentito al Centro-sinistra di gabellare la sconfitta per una mezza vittoria. Merito principalmente di due bravi amministratori – De Luca ed Emiliano – che sono riusciti a depoliticizzare il voto, evitando che la gente votasse contro l’incapacitá del governo nazionale a gestire la crisi economica e occupazionale, o contro la politica suicida dei porti aperti all’invasione migratoria.

    L’elettorato premia i buoni amministratori. Questo è un altro fattore che non andrebbe dimenticato: in tutte le elezioni di carattere amministrativo (regionali comprese) la gente tende a votare per chi ha dimostrato di sapere amministrare bene, mettendo in secondo piano le ragioni di schieramento politico. In Campania e in Puglia, De Luca ed Emiliano sono stati rieletti anche con l’appoggio – alla luce del sole – di ampie fasce di elettorato di destra.

    Conte salvo e Zingaretti se la cava. Il risultato politico complessivo, comunque, è sconfortante, almeno dal mio punto di vista. Il governo Conte, infatti, potrebbe sopravvivere. Se cadrá, cadrá per altre ragioni; non per il “quadro politico”, che traballa ma regge. E Zingaretti rimane alla segreteria del PD, salvato da due governatori che non lo amano affatto (e che lui non ama).

    I grillini in rotta. Se la cava anche Di Maio, almeno fino a quando riuscirá a nascondere dietro il risultato referendario lo squagliamento dei voti grillini. I Cinque Stelle hanno perso anche il terzo posto nella classifica fra i partiti – ormai stabilmente tenuto da Fratelli d’Italia – e sono adesso una forza politica a tutti gli effetti “minore”, marginale, il cui unico obiettivo è quello di restare sopra la soglia di sbarramento del 5% per evitare di scomparire del tutto. Il colpo di grazia potrebbe arrivare da un momento all’altro, per un qualche incidente di percorso; ma, se non dovesse arrivare prima, giungerá comunque con le elezioni amministrative di Roma, fissate per la primavera prossima.

    Che farà Conte? Giuseppi – ci scommetto – rinuncerá definitivamente alla possibilitá di conquistare la leadership dello sconquassato movimento grillino, e si butterá sull’altro progetto: quello di un partito tutto suo (e di Casalino). Finora è stato bravo a navigare a vista, disinnescando i molti ordigni sulla sua strada. Ha esteso a tutto il 2020 il blocco dei licenziamenti, manovrando con la cassa integrazione. Ha evitato, cosí, la paventata grande crisi sociale di autunno. E speriamo che alla grande crisi non si arrivi neanche nel gennaio del 2021.

    Corso di sopravvivenza. Il governo di Giuseppi II non ha un’anima. Si rege solo su un matrimonio di convenienza fra PD e grillini, entrambi interessati a una cosa soltanto: scongiurare le elezioni anticipate. Per evitare questo “pericolo”, tutto fa brodo. Anche una sconfitta travestita da mezza vittoria. Ma fino a quando sará possibile continuare con i giochi di prestigio?

  • Il mistero di alcuni Sì

    Molte sono state le dichiarazioni e le spiegazioni per il Sì e per il No al Referendum, quello che resta, apparentemente, un mistero è come leader di partiti, quali Fratelli d’Italia e Lega oltre al Pd, nonostante il parere contrario di molti loro simpatizzanti, elettori ed anche dirigenti, si ostinino a fare propaganda per il Sì. La vittoria del Sì imporrà il cambio della Costituzione che, in un paese democratico, dovrebbe essere fatta o da una costituente ad hoc o da un parlamento appena eletto con un governo guidato da un Presidente del Consiglio votato dai cittadini. La Costituzione rappresenta il presente ed il futuro di tutti noi e non può essere modificata per piccoli o grandi interessi di parte perché la democrazia è un bene comune che va difeso oggi più che mai.

    La vittoria del Sì comporta la perdita, per molti territori, dei propri rappresentanti e perciò sarà particolarmente complesso varare quella nuova legge elettorale che deve garantire a tutti una adeguata rappresentanza e sarà difficile trovare un accordo tra partiti così divisi sul sistema di voto e tutti convinti a non voler ridare ai cittadini il diritto di scegliersi il proprio rappresentante. Se infatti la preferenza richiede regole certe e particolari attenzioni, per evitare che alcuni acquisiscano in modo scorretto i voti, è altrettanto vero che la nomina dei parlamentari, che di fatto avviene da anni da parte dei capi partito, ha ridotto il Parlamento ad un organismo non più in grado di svolgere la sua funzione legislativa, come dimostra il silenzio di questa legislatura.

    Anche Cottarelli ha convintamente ricordato che la vittoria del Sì non darà nessun risparmio economico, ci sarà invece la perdita secca di un altro po’ di libertà mentre a passi rapidi si va verso un’oligarchia che non rappresenta certo l’élite culturale, morale e politica dell’Italia. Siamo in un momento, non breve, di particolare difficoltà per la salute e per l’economia e andrà ripensata la nostra società nel suo complesso ma una cosa è certa la democrazia, la vita di una nazione, nel contesto europeo ed internazionale, non si difende con populismi di varia natura, come troppi stanno facendo.

    Votare No al Referendum è l’inizio di un nuovo cammino che potranno intraprendere insieme tutti coloro che, venendo anche da esperienze culturali e politiche diverse, credono che l’Italia debba essere una repubblica democratica, parlamentare, basata su un sistema economico che sappia coniugare la libertà d’impresa con le necessarie riforme sociali che ancora mancano.

  • Cenerini: in campo perché ragiono con la mia testa

    Ha iniziato la sua attività politica nel 1995 e nel 2001 ha aderito ad Alleanza Nazionale, Fabio Cenerini ha ricoperto diversi incarichi a La Spezia, sua città di origine: consigliere nazionale ANCI, coordinatore provinciale di Alleanza Nazionale, coordinatore vicario del Popolo della Liberà, consigliere comunale e vicepresidente del consiglio comunale a la Spezia. Dal 2017 capogruppo di Forza Italia nel consiglio comunale spezzino e, da quest’anno, responsabile provinciale dello stesso partito. Alle prossime elezioni regionali del 20 e 21 settembre si candida come consigliere regionale per la Liguria con Giovanni Toti Presidente. Al Patto Sociale racconta le ragioni della sua scelta ed espone il suo programma.

    Il suo impegno politico per la sua città è noto, cosa l’ha spinta a scendere in campo per la sua Regione?E’ stata proprio l’esperienza maturata nel corso degli anni, che spesso si è scontrata con tanta approssimazione che ho visto e vedo in giro, che mi ha spinto ad effettuare questa scelta. Credo però che la motivazione principale sia il fatto che ragioni con la mia testa e abbia sempre il coraggio di dire quello che penso prendendo anche posizioni scomode.

    Ospedale, cantieri navali, commercio, turismo, ambiente i punti di forza del suo programma. Per ciascuno di essi cosa propone concretamente?

    Partiamo dall’ospedale: dopo la giunta Burlando che dal 2005 al 2015 non ha fatto praticamente nulla al riguardo, il centrodestra dovrà fare celermente la gara e procedere con la sua realizzazione. La salute è un diritto, la provincia di La Spezia merita maggiore attenzione ed una sanità efficace e moderna ed in parte ciò avverrà con la realizzazione del nuovo ospedale.

    Cantieri e turismo: il porto commerciale è una delle realtà più importanti e brillanti della città, occupa migliaia di persone e va difeso e tutelato. La prevista attuazione del prp permetterà l’ampliamento e lo sviluppo di questo importante scalo, rendendolo sempre più competitivo. Nel contempo verrà restituita alla città calata Paita dove vedranno la luce il nuovo terminal crociere e il fronte mare, che ne cambieranno il volto. Il turismo delle crociere, temporaneamente bloccato a causa del Coronavirus, ha rivitalizzato Spezia e l’ha resa davvero turistica con una importante e nuova fonte economica per chi ha investito in attività come bed&breakfast e ristoranti. Non vanno dimenticati i cantieri navali pubblici e privati, in particolare quelli per la nautica da diporto, vero fiore all’occhiello per la nostra città che la rende famosa nel mondo.

    Capitolo ambiente: via la centrale Enel da La Spezia, da quasi sessant’anni brucia carbone, noi ne respiriamo i residui e molti hanno pagato con la vita! Di certo i tumori non ci sono solo per Enel, ma sicuramente è una concausa. Enel può produrre energia in zone meno abitate, da qui la posizione contraria anche ai turbogas, che inquinano meno ma inquinano. Ovviamente andrà tutelata l’occupazione diretta e dell’indotto, che comunque non lo sarebbe con il turbogas, 30/40 persone occupate a fronte delle 150 attuali.

    Parlando di commercio, mi sono fermamente opposto all’esecuzione del progetto per la realizzazione del centro Commerciale ‘Le Terrazze’, il più grande della Liguria e sproporzionato per La Spezia, che ha messo in crisi il piccolo commercio. Relativamente alla nuova piazza del mercato, ho bloccato il progetto della mia maggioranza perché non prevede parcheggi, mentre invece va realizzato contestualmente un parcheggio al servizio della piazza e del centro città. Rassicuro i residenti preoccupati per l’inquinamento che con il parcheggio diminuirà perché si arriverà e si troverà posto, mentre oggi le auto girano in colonna a passo d’uomo ed è da questo che deriva l’inquinamento.

    Non è particolarmente clemente con i suoi avversari di sinistra. Perché? Cosa condanna del loro operato?

    La sinistra per anni ha tolto parcheggi per pedonalizzare, senza realizzarne. In compenso ha dato il via libera al più grande centro commerciale della Liguria, “Le Terrazze”, con centinaia di parcheggi gratuiti. Inoltre, in merito all’Enel, l’azienda va avanti con arroganza grazie alla sinistra che a La Spezia è ambientalista a parole mentre a Roma ne asseconda le richieste. E sempre grazie alle folli politiche nazionali della sinistra anche in città siamo letteralmente invasi da stranieri che, nella stragrande maggioranza, non si integrano.

  • Un bue che dovrebbe dire cornuto ad un altro bue

    Quando si ferma un dittatore, ci sono sempre dei rischi.
    Ma ci sono rischi maggiori nel non fermarlo.

    Margaret Thatcher

    Il bue che dice cornuto all’asino è un modo di dire, molto diffuso in Italia e, in altre forme lessicali, anche in altri paesi del mondo. Un modo di dire che rispecchia, come sempre accade, la saggezza popolare che ci viene tramandata da secoli. Un modo di dire che addita tutti coloro che vedono i difetti degli altri, senza essere mai consapevoli dei propri. Oppure, peggio ancora, fingendo di non capirli. Una sua versione la troviamo anche nelle Sacre Scritture. Secondo l’evangelista Luca, Gesù chiede ai suoi discepoli: “Può forse un cieco guidare un altro cieco?”. E poi prosegue: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non t’accorgi della trave che è nel tuo?” (Vangelo secondo Luca; 6/39-41).

    Durante il mese d’agosto appena passato sono accadute molte cose nel mondo. Alcune hanno, giustamente, attirato l’attenzione delle cancellerie e delle istituzioni internazionali, nonché quella dell’opinione pubblica. Non poteva passare inosservato neanche quanto è accaduto in Bielorussia durante e dopo le elezioni presidenziali del 9 agosto scorso. Elezioni svolte in un clima di dura repressione contro l’opposizione messa in atto dalle strutture dello Stato. Ha vinto di nuovo, con l’80.23 %, Aleksander Lukashenko, in potere dal luglio del 1994. Dal 9 agosto in poi i cittadini stanno protestando contro le manipolazioni e i brogli elettorali, affrontandosi con la violenza delle forze di polizia e di altre strutture repressive specializzate. Proteste che sono continuate anche durante la scorsa settimana. Quanto è accaduto e sta accadendo in Bielorussia rappresenta una seria preoccupazione per tutti. Perché una dittatura, ovunque essa sia costituita, rappresenta sempre una seria preoccupazione non solo per chi ne soffre direttamente le conseguenze.

    Tutte le cancellerie occidentali hanno fortemente condannato la farsa elettorale in Bielorussia. Così come hanno fatto anche le più importanti istituzioni internazionali. Comprese quelle dell’Unione europea e l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione europea). Sono state molte e unanimi le dichiarazioni pubbliche dei capi di Stato e di governo, subito dopo le elezioni e in seguito. Tutti hanno condannato la farsa elettorale del 9 agosto scorso, l’uso sproporzionato e ingiustificato della violenza conto i manifestanti e gli arresti di migliaia di essi. E’ stato chiesto anche il diretto coinvolgimento dell’OSCE in una missione di verifica di tutte le [presunte] avvenute manipolazioni e irregolarità prima, durante e dopo le elezioni del 9 agosto. Ma anche sulle atroci repressioni messe in atto contro i manifestanti, da parte delle forze di polizia e delle truppe speciali. Quelli sono anche degli obiettivi statutari dell’OSCE. Ragion per cui, il 28 agosto scorso, è stata tenuta a Vienna una seduta speciale del Consiglio permanente dell’OSCE. Seduta convocata dal presidente di turno dell’OSCE che, guarda caso, quest’anno è proprio il primo ministro albanese, essendo anche ministro degli esteri.

    E qui comincia il bello! Perché proprio lui con le elezioni libere, oneste e democratiche ha un rapporto “speciale”, come il diavolo lo ha con l’acqua santa! Un fatto questo, ormai verificato e evidenziato a più riprese, dal 2013 ad oggi, da diversi rapporti internazionali. Compreso anche l’ultimo in ordine di tempo. E cioè il Rapporto finale dell’OSCE stessa sulle elezioni [votazioni moniste] per l’amministrazione pubblica del 30 giugno 2019 in Albania. Il nostro lettore è stato informato sulle clamorose manipolazioni e le palesi violazioni prima, durante e dopo quelle elezioni (Riflessioni dopo le votazioni moniste, 1 luglio 2019; Votazioni moniste come farsa, 8 luglio 2019). Violazioni sia delle procedure e di quanto prevede la legislazione elettorale in vigore, ma anche della Costituzione stessa. In un paese però, come è l’Albania, dove da più di tre anni ormai la Corte Costituzionale [volutamente] non funziona più!

    Durante la sopracitata seduta del Consiglio permanente dell’OSCE è stato concordato sulla necessità di inviare una missione in Bielorussia, in seguito a quanto è successo e sta succedendo dal 9 agosto in poi. E’ stato unanimemente sottolineato però che quella missione avrà luogo soltanto dopo l’approvazione ufficiale da parte delle autorità bielorusse. Autorizzazione che, ad oggi, non è stata rilasciata. Non solo, ma il presidente Lukashenko ha fatto sapere, a più riprese, che niente di tutto ciò potrà accadere. Lo ha fatto sapere, anche senza parlare, quando si è fatto vedere con un fucile in mano e con un giubbotto antiproiettile sul corpo.

    Sono tante le somiglianze del presidente bielorusso con il primo ministro albanese. E non solo quelle che hanno a che fare con le elezioni. Loro somigliano molto nel modo in cui affrontano le proteste dei cittadini, che scendono in piazza per chiedere ed ottenere il rispetto dei propri sacrosanti diritti. Loro somigliano nel modo in cui reprimono quelle proteste. Compresi anche i tanti denunciati e spesso anche documentati casi di torture e maltrattamenti nei confronti dei manifestanti arrestati. Loro somigliano nel vistoso calo della loro presunta e pretesa “popolarità”, in seguito ai tanti scandali, ai tanti abusi con il potere, ai tanti fallimenti economici e tanto altro. Ma loro somigliano, in questi giorni, anche nella loro determinata intenzione di aggrapparsi al potere, non importa come. Lo sta dimostrando in questi giorni il presidente bielorusso, non solo con le sue dichiarazione, ma anche con degli atti concreti. Così come lo sta facendo anche il primo ministro albanese. Quest’ultimo, visto il diffuso malcontento popolare sempre in crescita, ha tolto la maschera e sta facendo di tutto per avere un terzo mandato. Ha addirittura stracciato e calpestato, nell’arco di meno di due mesi, anche l’accordo raggiunto il 5 giugno scorso sulla riforma elettorale. Il primo ministro albanese, in grosse e vistose difficoltà, ha chiesto alcuni giorni fa ai “suoi fedelissimi” di darsi da fare per avere i voti, costi quel che costi e con tutti i modi. La criminalità organizzata è a sua disposizione, com’è stata anche durante le precedenti elezioni. Anche perché, così facendo, la criminalità organizzata difende i suoi investimenti miliardari. Tutto ciò perché l’unico modo che garantisce a lui “l’incolumità” dopo tanti, continui e innumerevoli scandali e abusi, potrebbe essere soltanto un’altra la vittoria elettorale.

    Riferendosi alla presidenza di turno dell’OSCE esercitata quest’anno dall’Albania, l’autore di queste righe esprimeva, tra l’altro, nel gennaio di quest’anno, la sua convinzione che “Il governo albanese e i suoi rappresentanti ufficiali non sono in grado e perciò non possono garantire l’osservanza e l’adempimento di tutti gli obiettivi istituzionali dell’OSCE. Una simile situazione imbarazzante si poteva e si doveva evitare.” (Una presidenza del tutto inappropriate; 20 gennaio 2020). Chi scrive queste righe è convinto che le dittature e i dittatori si somigliano. Similia cum similibus comparantur. E comparando, si trovano tante cose in comune tra il presidente bielorusso e il primo ministro albanese. Chi scrive queste righe non sa se ci sarà un incontro tra Lukashenko e una rappresentanza guidata dal primo ministro albanese, nella veste del presidente di turno dell’OSCE. Ma nel caso un incontro del genere avvenisse il primo ministro albanese si troverebbe nelle condizioni del bue che dovrebbe dire cornuto ad un altro bue, suo simile. L’autore di queste righe è convinto però che sia per i cittadini bielorussi che per quegli albanesi valgono sempre le parole di Margaret Thatcher. E cioè che “Quando si ferma un dittatore, ci sono sempre dei rischi. Ma ci sono rischi maggiori nel non fermarlo”. Spetta ai cittadini di fare la loro scelta e agire di conseguenza.

  • Democrazia alla pechinese, Hong Kong rinvia di un anno le elezioni

    Hong Kong rinvia di un anno le elezioni in programma per il 6 settembre. La governatrice pro-Pechino Carrie Lam ha annunciato il rinvio al 5 settembre del 2021, motivandolo con il peggioramento della situazione legata al coronavirus. “L’annuncio che devo fare oggi è la decisione più difficile che ho dovuto prendere negli ultimi sette mesi”, ha detto Lam, definendola una “decisione essenziale” basata “unicamente su ragioni di pubblica sicurezza”. La mossa giunge in un periodo politicamente molto teso, all’indomani dell’esclusione dal voto di 12 candidati pro-democrazia fra cui il giovane attivista Joshua Wong, già leader della Rivoluzione degli ombrelli del 2014 e tra i volti delle proteste del 2019. “La nostra resistenza continuerà e speriamo che il mondo possa stare con noi in questa imminente battaglia in salita”, ha affermato Wong. Che ha anche definito il rinvio “la più grande frode elettorale della storia di Hong Kong”. Per la governatrice di Hong Kong, che ha precisato di avere l’appoggio della Cina, “non ci sono state valutazioni politiche”. Ma l’opposizione è di tutt’altro parere: un gruppo di 22 deputati ha diffuso una dichiarazione in cui accusa il governo di usare la pandemia come scusa per ritardare il voto. E anche Human Rights Watch (Hrw) ha criticato l’amministrazione locale: “È una mossa cinica per contenere un’emergenza politica, non un’emergenza sanitaria”, e questo consente alla governatrice di “negare alla gente di Hong Kong il loro diritto a scegliere il proprio governo”, ha dichiarato la direttrice del gruppo in Cina, Sophie Richardson. A Hong Kong dall’inizio di luglio è stato registrato un boom di contagi da coronavirus: giovedì risultavano 3.100 casi (su 7,5 milioni di abitanti), un numero più che raddoppiato rispetto ai dati del 1° luglio. Ragion per cui il governo ha inasprito le misure di distanziamento sociale, limitando la possibilità di incontri in spazi pubblici a due persone e vietando la possibilità di mangiare nei ristoranti dopo le 18. Ma Human Rights Watch sottolinea che non è stato fatto “nessun tentativo di valutare metodi alternativi di voto o di assicurare il rispetto del diritto di voto di tutti”. Lo slittamento è un duro colpo per l’opposizione: nelle ultime elezioni distrettuali di novembre il blocco pro-democrazia aveva ottenuto una vittoria schiacciante e aveva intenzione di cavalcare questa spinta per ottenere la maggioranza nel Consiglio legislativo di Hong Kong (LegCo). Sperava di capitalizzare alle urne l’attuale malcontento per la gestione della maggioranza pro Pechino, in particolare dopo che a fine giugno è entrata in vigore la controversa legge per la sicurezza nazionale, in base alla quale ai candidati che violano la legge può essere impedito di correre alle elezioni. Il testo è considerato un tentativo di Pechino di ridurre il dissenso nell’ex colonia britannica, dopo mesi di proteste pro-democrazia e contro il governo.

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