Euro

  • Dalla Commissione due miliardi di euro a sostegno di STMicroelectronics per la creazione di un nuovo impianto di fabbricazione di semiconduttori

    La Commissione europea ha approvato una misura italiana da 2 miliardi di euro a sostegno di STMicroelectronics (“ST”) per la costruzione e il funzionamento di un impianto integrato di produzione di chip per dispositivi elettrici in carburo di silicio a Catania. La misura rafforzerà la sicurezza dell’approvvigionamento, la resilienza e la sovranità digitale dell’Europa nelle tecnologie dei semiconduttori, in linea con gli obiettivi stabiliti nella comunicazione relativa a una normativa sui chip per l’Europa.

    L’Italia ha notificato alla Commissione il suo piano di sostegno al progetto Catania Campus di ST per la costruzione e la gestione di un impianto integrato di produzione di chip per dispositivi elettrici in carburo di silicio. Il carburo di silicio è un materiale composto utilizzato per fabbricare wafer che fungono da base per specifici microchip utilizzati in dispositivi ad alte prestazioni, come i veicoli elettrici, le stazioni di ricarica rapida, le energie rinnovabili e altre applicazioni industriali. L’impianto integrato coprirà tutte le fasi di fabbricazione, dalla materia prima ai dispositivi finiti, vale a dire transistori di potenza e moduli di potenza.

    L’aiuto prenderà la forma di una sovvenzione diretta di circa 2 miliardi di euro a favore di ST a sostegno dell’investimento totale dell’impresa di 5 miliardi di euro. Il progetto consentirà lo sviluppo di un impianto di produzione su larga scala per chip in carburo di silicio ad alte prestazioni utilizzando wafer di 200 mm di diametro che saranno trasformati in moduli e altri dispositivi utilizzati, ad esempio, dall’industria automobilistica, in Europa e nel mondo. L’impianto dovrebbe funzionare a pieno regime nel 2032.

  • Dalla Commissione UE 750 milioni di euro a sostegno delle imprese italiane

    La Commissione europea ha approvato un regime italiano da 750 milioni di euro a sostegno delle piccole e medie imprese (PMI) e delle imprese a media capitalizzazione nel contesto della guerra della Russia contro l’Ucraina. Tali misure aiuteranno ad accelerare la transizione verde e ridurre la dipendenza dai combustibili.

    Nell’ambito del regime, gli aiuti assumeranno la forma di garanzie statali a sostegno delle PMI e delle imprese a media capitalizzazione colpite dalla crisi energetica, in modo da garantire che i beneficiari abbiano accesso a una liquidità finanziaria sufficiente. La garanzia, che sarà concessa entro il 30 luglio 2024, non supererà 280.000 euro per impresa attiva nella produzione primaria di prodotti agricoli, 335.000 euro per impresa attiva nei settori della pesca e dell’acquacoltura e 2 milioni di euro per impresa attiva in qualunque altro settore.

  • Brics. Avanza il processo di de-dolarizzazione

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su notiziegeopolitiche.net il 5 febbraio 2024

    Gli Usa non possono più ignorare la de-dollarizzazione che i Brics stanno conducendo da qualche tempo. Le sue conseguenze globali non possono più essere sottovalutate, anche dall’Europa. Ostacolare tale processo vorrebbe dire accentuare lo scontro tra blocchi; osservarlo semplicemente, con distacco e supponenza, significherebbe assistere allo sfaldamento dell’attuale sistema globale. Occorrono delle idee coraggiose di riforma dell’attuale sistema e una nuova visione cooperativa e multilaterale, come il progetto di un paniere globale di monete di cui abbiamo più volte anche noi scritto.
    Il commercio dell’energia, petrolio e gas, è effettuato sempre più con l’utilizzo delle monete locali. Non si tratta solo degli accordi in yuan e rubli tra Cina e Russia di cui si parla da anni. Nel 2023 un quinto di tutto il commercio petrolifero mondiale è stato fatto con monete diverse dal dollaro. In generale l’utilizzo del dollaro nei commerci dei paesi Brics è in forte diminuzione, appena il 28,7% nel 2023.
    In Nigeria, futuro membro dei Brics, gli operatori petroliferi, comprese le raffinerie, hanno deciso di utilizzare la naira, e non il dollaro, anche nelle loro operazioni interne sul petrolio e il gas.
    L’India ha firmato un accordo sul petrolio in rupie con gli Emirati arabi uniti (Eau). E’ il secondo partner commerciale degli Eau. Il totale dei loro scambi raggiungerà presto 100 miliardi di dollari. Gli Eau lavorano con 15 paesi per promuovere scambi in monete locali.
    Nuova Delhi intende pagare in rupie anche il petrolio importato dall’Arabia Saudita e opera intensamente per regolare i suoi commerci internazionali con le monete nazionali. Presentata come una grande democrazia, in contrasto con Cina e Russia, e come amica e alleata dell’Occidente, l’India, però, non è seconda a nessuno nel processo di de-dollarizzazione dei suoi commerci.
    Non c’è solo l’utilizzo delle monete locali. Si stima che il gruppo Brics abbia oggi una quota del 22% delle esportazioni globali di merci e servizi. Tuttavia, la maggior parte degli accordi nel commercio internazionale è effettuata nelle valute del G7 attraverso il sistema interbancario Swift.

    Nel settembre 2023 le quote del dollaro, dell’euro e della sterlina, usate nel sistema Swift, si attestavano rispettivamente al 45,58%, 23,6% e 7,32%. Lo yuan è solo la quinta valuta di pagamento su detto sistema (3,71%), appena dietro lo yen giapponese (4,2%). Nel 2020, tramite Swift sono stati trasmessi messaggi finanziari per un valore di 140 trilioni di dollari per eseguire i pagamenti. Invece, meno dello 0,5% del volume delle transazioni è passato attraverso il sistema di pagamento interbancario transfrontaliero (Cips) della Cina.
    Pertanto, la reale indipendenza dei Brics dall’infrastruttura di pagamento internazionale controllata dall’Occidente può essere garantita solo dal proprio sistema di regolamenti multilaterali nelle valute nazionali. Dal 2018 essi lavorano per un progetto, il Brics Pay, che si prefigge anche l’uso di nuove tecnologie come il blockchain e le valute digitali delle banche centrali. Non si tratta di criptovalute. E’ studiato in modo tale da poter utilizzare qualsiasi valuta usata dai membri del gruppo.
    Il Brics Pay ha diversi scopi, principalmente per i pagamenti transfrontalieri nel commercio internazionale tra aziende, banche d’investimento e micro finanza. Esso è stato adottato da diverse istituzioni e aziende nei paesi Brics ed è in costante crescita. La State Bank of India, la russa Sberbank, la Bank of China, la Petrobras e molti altri la utilizzano. Anche l’inglese Standard Chartered Bank ha integrato il Brics Pay nella sua piattaforma di pagamento digitale. Alla base del Brics Pay c’è poi la Nuova Banca per lo Sviluppo, la banca dei Brics, dove sono elaborate tutte le transazioni finanziarie tra le nazioni del gruppo.
    Si ricordi che i Brics rappresentano anche il 15% delle riserve globali di oro. Non poco, anzi una cifra significativa tanto da indurre il gruppo a studiare altri strumenti monetari dove l’oro dovrebbe avere un ruolo importante.
    Non crediamo che il G7 sia pronto ad affrontare riforme radicali come questo tempo richiederebbe.

    * Mario Lettieri, già sottosegretario all’Economia; Paolo Raimondi, economista

  • La Commissione accoglie con favore l’accordo politico sui pagamenti istantanei in euro

    La Commissione accoglie con favore l’accordo politico raggiunto ieri tra il Parlamento europeo e il Consiglio sulla proposta della Commissione di rendere disponibili i pagamenti istantanei in euro a tutti i cittadini e le imprese titolari di un conto bancario nell’UE. Le nuove norme, che aggiornano il regolamento relativo all’area unica dei pagamenti in euro (SEPA) del 2012, mirano a garantire che i pagamenti istantanei siano accessibili, sicuri e trattati senza impedimenti in tutta l’UE. I pagamenti istantanei offrono ai cittadini soluzioni rapide e pratiche nelle situazioni quotidiane, come ricevere rapidamente fondi in caso di emergenza o ripartire in maniera immediata i costi condivisi in vari contesti sociali. Migliorano inoltre la gestione dei flussi di cassa per le pubbliche amministrazioni e le imprese, in particolare le PMI, consentono alle associazioni caritative e alle ONG di accedere rapidamente ai fondi e incoraggiano le banche a sviluppare prodotti e servizi finanziari innovativi.

    I prestatori di servizi di pagamento dei bonifici in euro saranno tenuti a offrire pagamenti istantanei a tutti i clienti, garantendo un costo non superiore a quello dei bonifici tradizionali. Dovranno inoltre verificare che il pagamento sia inviato al beneficiario indicato dal pagatore e segnalare possibili errori o frodi prima di effettuare l’operazione. Le nuove norme inoltre manterranno l’efficacia dello screening per sanzioni mediante una procedura armonizzata. Invece di esaminare le operazioni una per volta, i prestatori di servizi di pagamento istantanei saranno tenuti a effettuare, almeno una volta al giorno, controlli sui clienti sulla base degli elenchi delle sanzioni dell’UE.

  • Per le banche europee in arrivo frenata dei ricavi

    Le banche europee, ed italiane, hanno messo a segno una crescita dei risultati in termini di ricavi ed utili in questi mesi grazie, ma non solo, all’aumento dei tassi da parte della Bce ma ora sembrano aver raggiunto il picco visto che stanno adeguando e lo faranno ancor più nel corso dell’anno, il costo della raccolta verso l’alto. Un andamento segnalato anche dal presidente dell’Abi Antonio Patuelli secondo “cui con la ripresa dell’inflazione è più che naturale che la parte eccedentaria dei depositi in conto corrente, utili per pagamenti, sia indirizzata verso vere forme di investimento finanziario o industriale”. Per il banchiere “non sono cresciuti solamente i tassi di interesse delle banche centrali e quelli sui prestiti, ma anche i tassi sulle varie forme di investimento della liquidità. Infatti, le banche commerciali sono inevitabilmente competitive, nelle offerte dei rendimenti per forme di investimento finanziario a medio e lungo termine, con i tassi sui titoli di Stato”.

    Per le banche quindi l’ultima parte del 2023 si presenta con una luce meno favorevole. Secondo un’analisi di Bloomberg il picco dei ricavi è giunto al suo massimo e la pressione di clienti, opinione pubblica e politica sta imponendo agli istituti di credito di ritoccare verso l’alto i rendimenti applicati sulla raccolta, restringendo così quella forbice fra tassi attivi e passivi che ha permesso al comparto di trarre beneficio dai numerosi rialzi della Bce, il cui tasso è passato dall’1,2% di inizio 2022 al 3,2%. Le stime dei ricavi complessivi degli istituti di credito europei per il 2023 sono così passate in un anno da 557 miliardi (+16%) e quelle degli utili a 144 miliardi (+31,4%). Gli istituti hanno ritoccato più lentamente i tassi sui nuovi depositi rispetto a quelli sui nuovi mutui ipotecari nei mesi scorsi. In particolare secondo calcoli sui dati Bce i rendimenti sono saliti di 66 punti base, appena il 18% rispetto agli aumenti della Bce. Ma in prospettiva si tratta di un beta che si ridurrà visto che le banche dovranno trattenere i propri clienti ed evitare impatti sulla liquidità oltre che convogliarli verso prodotti di investimento più remunerativi. A questo andranno aggiunti altri fattori di rischio per i bilanci bancari come le pressioni inflazionisti sui costi, l’andamento del mercato immobiliare commerciale, le minusvalenze dei portafogli dei titoli sovrani.

  • Nuove proposte per sostenere l’uso del contante e presentare un quadro per l’euro digitale

    La Commissione europea ha presentato due proposte per fare in modo che i cittadini e le imprese possano continuare ad accedere alle banconote e alle monete in euro, utilizzandole per i pagamenti in tutta la zona euro, e per definire il quadro relativo a un possibile nuovo formato digitale dell’euro che in futuro potrebbe essere emesso dalla Banca centrale europea, in aggiunta al contante.

    Il 60% delle persone intervistate vorrebbe continuare a poter utilizzare il contante, un numero crescente di consumatori sceglie di pagare digitalmente, utilizzando carte e applicazioni di banche e altre imprese digitali e finanziarie. Questa tendenza è stata accelerata dalla pandemia di COVID-19.

    Per rispecchiare queste tendenze, la Commissione ha proposto due serie di misure complementari per fare in modo che le persone abbiano sia la possibilità di pagare in contanti sia quella di pagare in maniera digitale quando vogliono utilizzare la moneta della banca centrale:

    una proposta legislativa sul corso legale del contante in euro per salvaguardare il ruolo del contante e garantire che sia ampiamente accettato come mezzo di pagamento e che rimanga facilmente accessibile alle persone e alle imprese in tutta la zona euro;

    una proposta legislativa che istituisce il quadro giuridico per un possibile euro digitale, a integrazione delle banconote e delle monete in euro. Oltre alle attuali opzioni sul mercato privato, ciò offrirebbe alle persone e alle imprese una scelta in più per effettuare pagamenti digitali nella zona euro con un formato di valuta pubblica ampiamente accettato, economico, sicuro e resiliente, in aggiunta alle soluzioni di tipo privato attualmente esistenti. Anche se la proposta odierna, una volta adottata dal Parlamento europeo e dal Consiglio, istituirebbe il quadro giuridico per l’euro digitale, spetterà in ultima istanza alla Banca centrale europea decidere se e quando emetterlo.

    Il contante in euro ha corso legale nella zona euro. La proposta intende definire a livello normativo cosa implichi questo corso legale, concentrandosi in particolare sulle “due A”: accettazione e accesso. Anche se il contante è, in media, ampiamente accettato in tutta la zona euro, sono emerse problematiche in alcuni settori e in alcuni Stati membri. Alcune persone hanno difficoltà ad accedere al contante, ad esempio a causa della chiusura di sportelli ATM e filiali bancarie.

    La proposta della Commissione intende fare in modo che il contante continui ad essere ampiamente accettato in tutta la zona euro e che le persone vi abbiano sufficiente accesso per poter pagare in contanti, se lo desiderano.

    Gli Stati membri dovranno garantire che i pagamenti in contanti siano ampiamente accettati e che l’accesso al contante sia effettivo e sufficiente. Dovranno monitorare la situazione, riferire in merito e adottare misure per affrontare gli eventuali problemi individuati. Se necessario, la Commissione potrebbe intervenire per specificare le misure da adottare.

    La proposta garantirà che tutti nella zona euro siano liberi di scegliere il metodo di pagamento che preferiscono e abbiano accesso ai servizi di base per il contante. In tal modo verrà salvaguardata l’inclusione finanziaria dei gruppi vulnerabili che tendono a fare maggiore affidamento sui pagamenti in contanti, come gli anziani.

    Per adeguarsi alla crescente digitalizzazione dell’economia, la Banca centrale europea (BCE), come molte altre banche centrali in tutto il mondo, sta valutando la possibilità di introdurre l’euro digitale a integrazione del contante. L’euro digitale offrirebbe ai consumatori un’alternativa in più per i pagamenti a livello europeo, in aggiunta alle opzioni attualmente esistenti. Ciò si tradurrebbe in una scelta più ampia per i consumatori e un ruolo internazionale più forte per l’euro.

    Come avviene oggi con il contante, l’euro digitale sarebbe disponibile insieme ai mezzi di pagamento privati esistenti a livello nazionale e internazionale, come carte o applicazioni, e funzionerebbe come un portafoglio digitale. Nella zona euro le persone e le imprese potrebbero pagare con l’euro digitale ovunque e in qualsiasi momento.

    Va sottolineato che tale sistema sarebbe disponibile per i pagamenti online ma anche offline, permettendo quindi pagamenti da un dispositivo all’altro anche senza connessione Internet, come capita ad esempio in aree remote o nei parcheggi sotterranei. Le operazioni online offrirebbero lo stesso livello di protezione dei dati dei mezzi di pagamento digitali esistenti, mentre i pagamenti offline garantirebbero un elevato livello di riservatezza e protezione dei dati per gli utenti, in quanto consentirebbero loro di effettuare pagamenti digitali rivelando meno dati personali rispetto a quelli che vengono trasmessi oggi quando si paga con carta, proprio come avviene quando si paga in contanti o si preleva contante da uno sportello ATM. Effettuando pagamenti offline con l’euro digitale, nessuno potrebbe vedere cosa si stia acquistando.

    Le banche e gli altri prestatori di servizi di pagamento in tutta l’UE distribuirebbero l’euro digitale alle persone e alle imprese, fornendo gratuitamente alle persone fisiche i servizi di base in euro digitale. Per promuovere l’inclusione finanziaria le persone fisiche che non dispongono di un conto bancario potrebbero aprire e detenere un conto presso un ufficio postale o un altro ente pubblico, come un ente locale. Sarebbe un sistema facile da utilizzare, anche per le persone con disabilità.

    Gli esercenti in tutta la zona euro sarebbero tenuti ad accettare l’euro digitale, eccezion fatta per i piccolissimi esercenti che potranno scegliere di non accettare pagamenti digitali, dal momento che per loro il costo da sostenere per introdurre una nuova infrastruttura per accettare pagamenti in euro digitale sarebbe sproporzionato.

    L’euro digitale potrebbe inoltre costituire una solida base per ulteriori ammodernamenti, consentendo alle banche, ad esempio, di fornire soluzioni innovative ai clienti.

    L’ampia disponibilità e l’uso di una valuta digitale emessa dalla banca centrale rappresenterebbero elementi fondamentali anche per la sovranità monetaria dell’UE, in particolare nel caso in cui altre banche centrali nel resto del mondo iniziassero a sviluppare valute digitali, oltre ad essere un elemento importante nel contesto dello sviluppo del mercato delle criptovalute.

    La proposta definisce il quadro giuridico e gli elementi essenziali dell’euro digitale che consentirebbero alla Banca centrale europea, previa adozione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio, di introdurre eventualmente una valuta digitale che sia ampiamente disponibile e utilizzabile. Spetterà alla BCE decidere se e quando emettere l’euro digitale; questo progetto richiederà dunque un ulteriore e importante lavoro tecnico da parte della BCE.

  • L’opposizione ideologica al MES non fa bene al Paese e neanche alla salute degli italiani

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’On. Nicola Bono

    L’On. Giorgia Meloni, nel recente Question Time, ha ribadito la sua contrarietà all’utilizzo del Meccanismo di Stabilità Europeo ed ha lasciato nel vago i tempi di ratifica del Trattato, malgrado l’Italia sia rimasta l’unico Stato a non averlo ratificato.

    Ma cosa si cela dietro questa scelta?

    Non certo preoccupazioni di inesistenti conseguenze, se perfino Tremonti, del suo stesso partito, ha escluso l’esistenza di qualsivoglia rischi paventati nel passato per l’Italia, che sono stati totalmente rimossi con la radicale modifica del MES che, appunto, essendo oggi altra cosa, impone l’esigenza di una nuova ratifica.

    E poi, basta leggere il dossier per verificare come funziona adesso il meccanismo di stabilità e per prendere atto della totale inesistenza di pericoli simil Grecia.

    L’unica condizione è che i fondi concessi vengano usati per spese sanitarie dirette e indirette, rafforzare la sanità territoriale, ma anche la prevenzione sanitaria in altri campi, come la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro e delle scuole, e non sono previsti altri vincoli.

    L’unico controllo è, prima della concessione del prestito, la valutazione del debito preesistente del Paese da finanziare, che deve essere sostenibile, cosa che l’Italia ha notoriamente avuto riconosciuto; in ogni caso, nella peggiore delle ipotesi, qualora non venisse riconosciuto, l’unica conseguenza sarebbe la mancata concessione del prestito, e la questione finirebbe lì.

    Appare quindi evidente che il rifiuto dell’utilizzo del MES sia unicamente la scelta di una posizione ideologica, che è il problema di sempre di questo governo e cioè l’ossessione di caratterizzare ogni atto con il “bollino dell’identità”, anche quando viene meno la causale per invocarla.

    Ma si può morire per il feticcio di una presunta posizione identitaria storicizzata, ed oggi sul MES mal riposta? La posizione di contrasto al MES è sempre stata esagerata e strumentale a sostegno della postura euroscettica che caratterizzava il partito del Premier ai tempi dell’opposizione, ma che, almeno in apparenza, sembrava essere stata archiviata in questi mesi di governo.

    Vale davvero la pena sostenere un comportamento non certo consono ad un Paese fondatore dell’Unione Europea, che rischia di fare riemergere i dubbi e le preoccupazioni sul reale sentimento di sincera adesione alle logiche europeiste del principale partito di governo, atteso che il grido “mai al MES”, non a caso, in parlamento ha registrato l’unica adesione da parte del Movimento 5 Stelle, che è certamente la compagine politica italiana più euroscettica?

    Come si concilia tale posizione e il gravissimo ritardo della ratifica, con l’andare a Bruxelles per la riunione del Consiglio Europeo e chiedere aiuto immediato per la crisi dei flussi migratori, o per insistere sull’esigenza del debito comune per il sostegno delle imprese europee in concorrenza con il resto del mondo?

    Il ritardo della ratifica è un atto di ostilità gratuito a tutti gli altri Paesi del Trattato MES, anche perché l’adozione dell’Italia consentirebbe agli altri l’utilizzo immediato, senza alcun obbligo per noi di fruirne.

    Ed invece è proprio questo il punto e cioè, davvero l’Italia potrebbe fare a meno delle risorse del MES, almeno come ama ripetere il Premier, fino a quando resterà al governo?

    Il punto politico infatti, in base al disastro della nostra sanità, non è tanto la ratifica, ma piuttosto l’utilizzo dei 37-40 Mld di euro, che oggi potrebbero se richiesti e spesi con velocità e intelligenza, riuscire a recuperare le falle mostruose del nostro sistema e consentire di riportare il rapporto dell’assistenza medica e ospedaliera in Italia di nuovo a livelli di civiltà, salvando migliaia di vite umane, altrimenti a rischio.

    Per questo il rifiuto di queste somme non è compatibile e sopportabile con lo stato in cui versa la sanità italiana, massacrata da oltre vent’anni da una politica sciagurata, che ha imposto tagli draconiani al settore, impoverito il personale con paghe più basse del 18% in termini di potere di acquisto, riducendo gli operatori sanitari italiani, ad una delle categorie meno pagate del settore d’Europa, al punto di perdere in 10 anni oltre 10.000 medici fuggiti all’estero, priva di programmazione e strategia, con enormi territori ridotti a “deserti sanitari”, con il collasso ormai generalizzato dei pronto soccorso, luoghi ormai ridotti ad inferno dantesco, di eterne attese e violente e continue aggressioni al personale, liste di attesa che tolgono ogni speranza e, di conseguenza, un clima di sconforto generale, ed una sensazione di imminente implosione dell’intero sistema.

    Insomma una serie infinita di inadeguatezze che hanno ridotto il settore al punto da essere dichiarato dall’OCSE a rischio tenuta e quanto prima impossibilitato a garantire le cure a tutti.

    A fronte di questo scenario, il governo ha fatto poco o nulla, non riuscendo neanche a regolare il problema gravissimo dei “medici a gettone”, che guadagnano molto di più dei medici di ruolo, fino a ben 100 euro lordi l’ora, contro i 52 dei medici di organico, a causa dei vuoti del personale, specie nei pronto soccorso, dove li sostituiscono e spesso senza offrire garanzie di competenza, ovviamente a scapito dei pazienti.

    Ma anche con il PNRR il governo non è riuscito a dare granché alla sanità, specie alla medicina del territorio, avendo stanziato un finanziamento di 2 miliardi di euro per le case di comunità e 1 miliardo di euro per gli ospedali di comunità, e cioè ben poca cosa, chiaramente insufficiente a qualsivoglia inversione di tendenza.

    E ciò anche alla luce dei rilievi dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, che ha rilevato l’insufficienza dei fondi sia per riequilibrare le disomogeneità regionali, sia per garantire il pagamento del personale, presente e futuro.

    Davanti a questo disastro biblico, ed al prezzo esagerato di vite umane pagate per la pandemia, ma anche per carenze della sanità in generale, ciò che c’è da fare è l’esatto contrario di ciò che si è fatto negli ultimi vent’anni, e quindi investire su un maggior numero di medici e infermieri, realizzare più presidi territoriali, organizzare la medicina dei territori, incoraggiare di nuovo i giovani a intraprendere le carriere sanitarie, anche con l’eliminazione dei numeri chiusi  per l’accesso all’Università e fornire servizi sanitari veri ai cittadini e, quindi, la priorità è chiaramente uno sforzo eccezionale per il recupero del settore, utilizzando l’unica risorsa possibile che è esattamente il MES, con i suoi 37-40 miliardi a tasso zero per 10 anni, da utilizzare per qualsiasi necessità collegata al settore sanitario, comprese le spese per il personale, oltre che per le strutture, attrezzature e macchinari.

    L’Italia lo merita e lo meritano gli italiani, ma soprattutto lo deve il governo che non deve mai dimenticare che la politica è l’arte della soluzione dei problemi di una società e che nessuno ha il diritto di mettere a repentaglio la salute e la vita dei cittadini, per privilegiare logiche strumentali, paventando pericoli inesistenti.

    Per tali ragioni il Governo e la sua maggioranza, insieme alle opposizioni, facciano la cosa giusta, e ratifichino immediatamente il trattato del MES e ne utilizzino subito le fondamentali risorse per ricreare una Sanità degna della nostra tradizione, che possa con certezza garantire la salute e la vita degli italiani, in modo efficace, rapido ed equo in tutto il Paese.

  • Il debito mondiale alle stelle

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 3 febbraio 2023

    L’aumento dei tassi d’interesse e la stagflazione, cioè la situazione che si crea quando la stagnazione economica si combina con l’aumento dell’inflazione, stanno mettendo inevitabilmente la struttura del debito sotto pressione. A giugno si calcolava che il debito mondiale globale, pubblico e privato, fosse pari a 300 mila miliardi di dollari, cioè il 350% del pil mondiale. Nel 1999 era di 200 mila miliardi. Negli Usa il rapporto è del 420%, più alto di quello della Grande Depressione degli anni Trenta e dell’immediato dopoguerra. Tale percentuale riguarda tutte le economie avanzate. In Cina è del 330%.

    I debiti in sé non sono un problema se servono a sostenere gli investimenti per lo sviluppo industriale e tecnologico. Il rischio si manifesta quando crescono in maniera sproporzionata e sono prevalentemente speculativi e sganciati dall’economia reale.

    La crescita del debito mondiale ha colpito numerosi settori, come le famiglie, le imprese, le banche, soprattutto quelle cosiddette “ombra”, i governi e persino interi Paesi. In particolare i debitori chiamati zombie, gli insolventi, che sono stati mantenuti a galla dalla prolungata politica del tasso di interesse zero. Da quando la Fed e le altre banche centrali hanno iniziato ad alzare i tassi d’interesse nel tentativo di stabilizzare i prezzi, gli zombie vedono il costo del loro debito crescere costantemente. A ciò bisogna aggiungere l’erosione dei redditi, dei risparmi e della ricchezza, immobiliare e mobiliare, liquefatta dall’inflazione.

    L’ultima volta che l’economia mondiale ha sperimentato la stagflazione è stato negli anni Settanta. Allora, però, i tassi debitori erano più bassi. Oggi, invece, si potrebbe parlare del rischio di “choc da stagflazione”. Anche perché non si pensa di ridurre i tassi d’interesse per alimentare la domanda, le produzioni e i consumi.

    Vi sono poi degli eventi geopolitici che hanno avuto e continuano a creare choc negativi nell’offerta: la pandemia, la guerra in Ucraina, certe problematiche interne cinesi, ecc. Rispetto alla grande crisi finanziaria del 2008 e del periodo iniziale del Covid, questa volta non si potrà intervenire con salvataggi pubblici ai settori in difficoltà. Il rischio è generalizzato.

    Alcuni economisti americani, come il professore di Harvard, Kenneth Rogoff, già capo economista del Fmi, vorrebbero distogliere l’attenzione dalle aree di crisi degli Usa, dove, per esempio, il debito delle grandi imprese è diventato un enorme cancro e dirigerla altrove. In particolare Rogoff ha scelto il Giappone e l’Italia come focolai di crisi, perché, a suo dire, l’aumento dei tassi d’interesse renderebbe per loro sempre più difficile garantire il servizio sul debito pubblico.

    Anche i Paesi emergenti sono sotto pressione. Essi sono direttamente influenzati dalle politiche monetarie della Federal Reserve. Alti tassi d’interesse, un dollaro forte, la fuga di capitali, la svalutazione delle monete locali e l’inflazione stanno rendendo molto difficile la gestione del loro debito. The Economist ha identificato ben 53 Paesi vulnerabili che sono crollati sotto il peso del debito o sono a rischio di farlo. Non è un caso che la Banca Mondiale sostiene che il 60% dei Paesi emergenti o poveri è diventato debitore ad alto rischio.

    Poiché i governi non sono intenzionati a tagliare i bilanci o ad aumentare le tasse per ovvi motivi sociali e politici, ancora una volta la patata bollente passa nelle mani delle autorità monetarie. Cresce perciò la richiesta che le banche centrali tornino a monetizzare i deficit. In altre parole, un altro periodo di quantitative easing!

     

    Altri, invece, vorrebbero globalizzare gli allargamenti monetari e finanziari facendo giocare un ruolo centrale al Fmi. Pochi mesi fa il Fmi aveva emesso una montagna di Diritti speciali di prelievo, la sua moneta, equivalenti a 650 mld di dollari. L’intervento era stato abilmente presentato come necessario al sostegno dei Paesi più poveri. In realtà, all’Africa sub sahariana sono andati soltanto 32 mld. Infatti, la distribuzione è stata fatta in rapporto al pil dei Paesi.

    Le politiche attuali potrebbero posporre le crisi ma non evitarle. Per una più adeguata gestione del debito è da farsi almeno l’introduzione di strumenti atti a contenere le varie forme di speculazione.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Un euro sempre meno utilizzato

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 31 gennaio 2023.

    Il mercato dei cambi valutari, il cosiddetto foreign exchange FX, una parte importante della bolla finanziaria e dei derivati, vive una crescente fibrillazione. Il rischio di una grave crisi è grande. A dirlo è la Banca dei Regolamenti Internazionale di Basilea nella sua recente «Triennual Survey».

    Il turnover nei mercati FX è in forte rialzo a livello globale. Nell’aprile 2022 il fatturato è stato pari a 7.500 miliardi di dollari al giorno, un volume 30 volte superiore al pil globale giornaliero. Il 14% in più rispetto al 2019. Circa il 90% delle operazioni è fatto con la valuta americana. L’euro ha una quota del 31%, in forte calo rispetto al 39% del 2010. La valuta cinese è passata da meno dell’1% di venti anni fa a oltre il 7% di oggi.

    Secondo la Bri, a rendere più difficile la gestione è la maggiore frammentazione del trading sui cambi perché si è passati a forme bilaterali di negoziazione elettronica. La Bri parla di uno spostamento da forme visibili ad altre più opache. Una delle principali fonti di vulnerabilità è l’indebitamento in dollari insito nei mercati valutari. A differenza della maggior parte dei derivati, quelli sulle valute comportano lo scambio di capitale e quindi danno luogo a obblighi di pagamento (debiti) pari all’intero importo del contratto.

    A metà del 2022 questo indebitamento in dollari ammontava globalmente a 85 mila miliardi. Se si aggiungono tutte le monete, i debiti arrivano a 97.000 miliardi di dollari, cioè pari al pil globale del 2021 e tre volte il commercio mondiale.

    Per i soggetti non bancari fuori degli Usa, per esempio i fondi d’investimento, si stimano 26 mila miliardi di obblighi di pagamento tenuti fuori bilancio, il doppio del loro debito in dollari registrato in bilancio. Nel 2016 erano 17.000 miliardi. Le banche non statunitensi hanno circa 39.000 miliardi di tali obblighi fuori bilancio rispetto a quelli registrati nei bilanci pari a 15.000. Sono più di 10 volte il loro capitale.

    Le operazioni sulle valute, quindi, creano debiti in dollari in gran parte a brevissimo termine che non compaiono nei bilanci e mancano nelle statistiche sul debito. Lontano dagli occhi, afferma la Bri, non dovrebbe tuttavia significare lontano dalla mente. In passato ci sono stati persino casi di fallimento di alcuni attori coinvolti.

    La Bri sottolinea che ogni giorno dello scorso aprile un terzo del fatturato FX, circa 2.200 miliardi di dollari, era a rischio. Un aumento del 16% in tre anni. In definitiva la Bri invita le banche centrali e i governi ad approntare con urgenza regole stringenti. Evidentemente ritiene che le parole e le danze degli sciamani della finanza non bastino.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La Croazia è il ventesimo Paese della Ue ad adottare l’euro

    La Croazia entra in Eurolandia e adotta la moneta unica 10 anni dopo l’ingresso nell’Unione europea, avvenuto il primo gennaio 2013 con l’impegno da subito di guardare alla valuta dell’Unione come obiettivo. Si tratta del ventesimo Paese dell’Ue ad aderire all’euro dopo Lituania (2015), Lettonia (2014) ed Estonia (2011).

    L’iter era stato avviato dal governo croato nell’ottobre del 2017, con la richiesta di ingresso nel meccanismo di cambio europeo, presupposto per l’adozione dell’euro. Già all’epoca il target era stato collegato a quello dell’ingresso nella zona Schengen, raggiunto in contemporanea: il Consiglio dell’Ue ha infatti dato il via libera il 9 dicembre all’ingresso di Zagabria nello spazio di libero scambio, che raggiunge ora 27 Paesi (23 Ue più Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein).

    Il viaggio della Croazia verso l’euro ha visto a luglio 2019 l’Eurogruppo avviare la procedura di controllo e accompagnamento del Paese sulle misure proposte per aderire al meccanismo di cambio. Un anno dopo, a luglio del 2020 Eurogruppo e Banca centrale europea hanno invece incluso Zagabria negli Accordi europei di cambio, fissando già il tasso centrale a 7,53450 kune per euro.

    A settembre 2021 la Croazia ha quindi firmato un memorandum d’intesa con la Commissione europea e gli altri stati della zona euro, definendo i passi per coniare la moneta unica. L’esecutivo Ue ha quindi dato la propria valutazione positiva sul raggiungimento dei criteri di convergenza quest’anno a inizio giugno, poi condivisa dall’Eurogruppo. Il 24 giugno anche il Consiglio europeo ha approvato l’adozione dell’euro da parte della Croazia. “L’euro è l’espressione monetaria del nostro destino comune e ha fatto parte del nostro sogno europeo. Ora il sogno diventa realtà per la Croazia”, ha sottolineato il presidente del Consiglio europeo Charles Michel.

    L’atto finale per l’ingresso della Croazia nell’euro è stato deciso nel Consiglio dell’Ue il 12 luglio fissando il cambio della kuna croata a 7,53450 per 1 euro, confermando dunque quello fissato per l’ingresso nel meccanismo di cambio. Dopo neanche 18 anni i croati salutano dunque la kuna, introdotta nel Paese solo nel 1994 (e da subito agganciata al marco tedesco), dopo il dinaro croato che subentrò nel 1991 al dinaro jugoslavo.

    Dal 5 settembre scorso i prezzi nel Paese sono riportati sia in euro sia in kune, e lo saranno fino alla fine del prossimo anno. Per le prime 2 settimane del 2023, poi, circoleranno sia l’euro e sia la kuna. Restano vietati gli aumenti di prezzo connessi alla transizione all’euro. Con l’imminente ingresso nell’eurozona, la Croazia in autunno ha anche volontariamente presentato la propria bozza programmatica di bilancio alla Commissione, presa in esame e ampiamente promossa nel pacchetto di autunno che apre il ciclo economico annuale. Contestualmente all’ultima riunione ordinaria dell’Eurogruppo, poi, il Consiglio dei governatori del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) ha approvato la richiesta della Croazia di entrare nel fondo ‘salva Stati’.

     

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