Euro

  • I venti anni dell’Euro

    Ieri “Il Patto” ha pubblicato un articolo sulla persecuzione dei cristiani, lamentando che su questo argomento il sistema dei media rimanga zitto e non informi, come dovrebbe essere naturale, di quel che succede ogni giorno, contro di essi, nel mondo. Ebbene, oggi ci lamentiamo perché i media hanno perso un’altra occasione. Il 15 gennaio a Strasburgo, il Parlamento europeo ha celebrato i vent’anni dell’entrata in funzione dell’Euro, un’occasione ottima per chiarire ai cittadini la funzione svolta dalla moneta comune, le sue eventuali debolezze, la cause di queste défaillance, i suoi vantaggi e le sue prospettive. Dopo tanto parlare che si è fatto durante la campagna elettorale del marzo scorso, dopo le tante accuse rivolte dai nuovi politici alla moneta comune, responsabile, secondo la loro sprovveduta non conoscenza – di tutti i mali che hanno colpito l’Italia (la povertà, la disoccupazione, la crisi finanziaria, la fuga dei giovani, il ridotto investimento di capitali stranieri nel nostro Paese, ecc.) sarebbe stato più che opportuno ed utile conoscere l’opinione di tanti personaggi esperti e competenti, sulle virtù e sui vizi dell’euro. Dal dibattito parlamentare, tuttavia, sono emerse sostanzialmente due elementi inoppugnabili, nonostante ciò che ne dicono i detrattori o i giovani politici attuali che si permettono di parlare di finanza internazionale avendo soltanto un’esperienza da baristi e da galoppini. Il primo è il suo riconosciuto e straordinario successo. Il secondo attiene alla forza di chi ha attuato questa impresa nella crisi finanziaria globale, la quale è durata dieci anni, cioè oltre la metà della vita dell’euro e di due terzi della sua circolazione fisica. Sono dati inoppugnabili, non opinioni, e Renzo Rosati, su Il Foglio del 16 gennaio, afferma che “la situazione avrebbe stroncato qualsiasi altra istituzione e alleanza multinazionale”. A riprova, cita il caso del dollaro, che fu scelto come moneta dagli Stati Uniti nel 1785, ma che solo dal 1929 la Federal Reserve  ne stampa le banconote e agisce da Banca centrale e prestatrice di ultima istanza. Il dollaro ha impiegato un secolo e mezzo per il suo rodaggio. L’euro soltanto venti anni. La forza a questa impresa l’hanno essenzialmente data soltanto due persone: Angela Merkel e Mario Draghi. La prima ha dovuto battersi anche con il suo governo e con la Bundesbank, talvolta riluttanti verso le decisioni della BCE. Ebbe scontri assai duri con il suo ministro delle Finanze Wolfang Schauble, che tra l’altro aveva un forte impatto sull’opinione pubblica. Il che sta a significare che la posta in ballo era molto alta e che la Cancelliera sfidava anche l’opinione pubblica, certa com’era della bontà delle sue scelte. I fatti le diedero ragione, ma il logorio del potere cominciò a manifestarsi proprio in occasione delle ultime elezioni politiche del 24 settembre 2017, con le quali il candidato socialista Schulz scomparve dalla vita politica. L’euro nel frattempo, con le decisioni di Draghi, resistette all’onda d’urto della crisi e alla cattiva gestione delle banche nell’utilizzo smoderato dei “derivati”. Non solo si è salvato, ma si è  anche rafforzato. Nel suo rapporto  annuale relativo al 2017 della BCE Draghi ha fornito altri elementi di valutazione. Nonostante il rallentamento dell’economia non c’è all’orizzonte nessuna crisi fatale. Anche l’economia tedesca sta sfuggendo alla recessione e la fine del soccorso monetario rappresentato dal Quantitative easing non modifica la situazione di lenta ripresa. Dei 19 Paesi dell’eurozona, sola l’Italia si trova in guai veri. “Gran parte delle sfide  – ha aggiunto Draghi – sono globali  e possono essere affrontate solo insieme. La vera sovranità sta in questa Unione, perché altrimenti andrebbe persa nella globalizzazione. In questo senso l’euro ha dato a tutti i membri la propria sovranità monetaria e un potente motore  di crescita per sostenere i propri standard di vita”. Già, ma l’Italia è in fondo alla classifica della crescita. Di chi la colpa, allora? Ma certo, dell’Euro! Così i governanti scaricano sulla moneta che ha compiuto quei miracoli la responsabilità del loro fallimento. Incredibile! L’Unione europea, infatti, è oggi l’area più ricca e omogenea del mondo, che conta 350 milioni di abitanti, un poco di più degli Usa, ma con un Pil appena al di sotto di quello americano. I due maggiori protagonisti della storia dell’euro sono quasi giunti al termine della loro parabola. Non vediamo nessuno all’orizzonte che possa sostituirli nel portare a termine l’opera iniziata da loro a favore della moneta unica. La BCE dispone di strumenti ancora limitati rispetto alla Federal Reserve, che può intervenire direttamente sul cambio e che continua ad aumentare i tassi, cosa ancora molto problematica per la BCE. Le critiche all’euro sembrano diminuite, anche se l’euroscetticismo di Matteo Salvini l’ha portato ad accusare la BCE di prevaricazione e causa di instabilità per i risparmi. Che al coro contro Strasburgo e l’Unione s’aggiungano Di Maio e Di Battista, è normale. Tra esperti ci si intende. Ma che ad essi si unisca la voce del vicedirettore del Corriere della Sera Aldo Cazzullo, la dice lunga sulla correttezza dell’informazione e soprattutto sulla sua completezza. “Un compleanno nel quale non c’è molto da festeggiare” – ha dichiarato a proposito della seduta speciale del Parlamento europeo sull’anniversario dell’euro. L’opinione è la seguente: solo la Germania ci ha guadagnato. La Francia è stata una delle nazioni più penalizzate e peggio è andata per le altre grandi economie continentali: la spagnola e l’italiana. E’ un’opinione. Ma i numeri contano qualcosa? Pare dicano il contrario. Senza euro e aggancio con la Germania la vulnerabile economia francese non avrebbe retto alla crisi, tanto meno il suo debito pubblico. Quanto alla Spagna, ancora meno. Per l’Italia, giudicate voi. I numeri dell’ultimo sondaggio dell’Eurobarometro ci confortano: nel 2018 gli italiani per l’euro raggiungono il 57%, (12 punti in più rispetto a un anno fa). I contrari sono scesi al 30%. I francesi pro euro sono il 59% e gli spagnoli il 62%. Vorrà pur dire qualcosa, anche senza informazione diretta o con un’informazione incompleta!

  • Commission hopes euro can challenge greenback’s reserve currency status

    As part of its effort to bolster its international standing amid spats with the United States of tariffs and foreign policy, the European Commission is hoping to promote the euro as an alternative to the supremacy of the dollar for all international transactions, including those involving energy, commodities, and aircraft manufacturing, as well as in derivative operations.

    As part of the drive, the Commission also announced that will also strive to convince African states to denominate their public debt in euros in what would be the first serious challenge to Washington’s economic leadership, which Brussels sees as a way to counter the unilateralist “America First” policies of the Donald J. Trump administration.

    Europe’s efforts to establish a clearinghouse known as a Special Purpose Vehicle (SPV) to safeguard the 2015 Iran nuclear deal – which the US pulled out of earlier this year after accusing Tehran of being in violation of the terms of the agreement, which prompted Washington to re-impose crippling economic sanctions on the Islamic Republic – have fallen completely flat.

    The main guarantors of the Iran nuclear deal – Germany, France, and the UK – have refused to host the proposed clearinghouse, which could be used to help match Iranian oil and gas exports against purchases of EU goods in a barter arrangement that would circumvent the US’ sanctions. This would expose to the three European powerhouses to being subject to stiff penalties imposed by the Americans that would have a potentially devastating effect on the French, German, and British economies, while at the same time severely strain relations with the United States.

    Pressure has also been brought to bear on Austria, Luxembourg, and Belgium to host the SPV, but the three governments have serious misgivings about the practical purpose of the Special Purpose Vehicle, particularly as they fear the depth of the US’ expected retaliation.

    Initially, the European Commission hopes to begin closing energy contracts that are denominated in euros as a way to gradually promote the spread to other international commodities that could be traded in Europe’s common currency. At present, more than 80% of contracts for EU energy imports are priced and paid for in dollars, which currently trades at $1.13 to €1.

  • Il senso dello Stato

    Quale differenza passa tra una persona consapevole del ruolo istituzionale che ricopre ed un altrettanto convinto esponente del mondo accademico ma assolutamente irresponsabile in relazione agli effetti delle proprie dichiarazioni? 300 punti di spread che la nostra Borsa di Milano segna a causa proprio, e  non solo, delle polemiche tra l’Unione Europea ed  il governo in carica, ma anche e soprattutto per l’affermazione da parte di un esponente autorevole di questa maggioranza di governo circa l’intenzione di realizzare il Piano B, cioè l’uscita dall’euro rappresentata dallo schema teorico del ministro Savona inneggiato dal prof. Borghi.

    Le idee sono sempre una legittima espressione di intelligenza qualunque esse siano, ma proprio in rapporto alla figura istituzionale che una persona ricopre in un determinato periodo devono essere valutate anche negli effetti che possono causare per la Nazione per la quale si lavora e che ovviamente si rappresenta. Non comprendere questa differenza dimostra ancora una volta come la classe politica degli ultimi vent’anni (esattamente come quella attuale) non risulti in grado neppure di comprendere il valore simbolico e istituzionale che si rappresenta, ignorando gli evidenti effetti delle proprie dichiarazioni.

    La ribalta mediatica che offre una carica pubblica ed istituzionale, anche solo rappresentativa del governo in carica, non può limitarsi solo ed esclusivamente ad  un palcoscenico nel quale esprimere la propria opinione rinforzata dalla carica istituzionale o dall’essere ispiratore della maggioranza di governo. Questo privilegio in entrambi i casi inevitabilmente comporta anche degli obblighi di responsabilità nei confronti di quella nazione che questo palcoscenico ha offerto.

    In un paese normale, dotato di un minimo di sensibilità, le proprie idee invece di venire espresse in un momento di difficoltà come quello attuale, per gli evidenti contrasti con l’Unione Europea, troverebbero un secondo momento per la propria declinazione, una volta superata la crisi contingente. Questo atteggiamento di responsabilità può essere considerato “il senso dello Stato“, in altre parole, manifestazione della capacità ma anche della sensibilità istituzionale di valutare eventuali effetti, anche perversi e non voluti, provocati dalle proprie dichiarazioni e anteporre le priorità del proprio status alla propria idea. Viceversa, l’ennesimo comportamento irresponsabile di questo esponente politico dimostra ancora una volta come il declino culturale nostro Paese sia ormai irreversibile.

  • Meno dollaro e più euro nelle transazioni internazionali

    Lo sapevate che le imprese europee comprano aeroplani europei pagando in dollari anziché in euro? Lo ha detto Juncker, il presidente della Commissione europea, nel recente discorso sullo stato dell’Unione europea di fronte al Parlamento europeo e ce lo ricorda Paolo Raimondi, in un articolo pubblicato il 19 settembre su “Italia Oggi”. In un messaggio molto importante dal punto di vista geopolitico, messaggio che non si può ignorare e che, anzi, deve essere ricordato dopo le elezioni europee del maggio prossimo, Juncker ha detto che “l’euro deve avere un ruolo internazionale” e che “E’ già usato in vario modo da più di 60 paesi. E’ tempo che diventi lo strumento monetario di una nuova e più sovrana Europa”. Ed ha aggiunto: “E’ assurdo che l’Europa paghi in dollari l’80% della sua bolletta energetica, cioè circa 300 miliardi di dollari all’anno, quando le nostre importazioni di energia dagli Usa sono pari soltanto al 2% del totale”. Ed ha citato a questo punto l’anomalia del pagamento in dollari di aerei europei da parte di imprese europee. Il dito è stato messo correttamente sulla piaga e bisogna dare atto a Juncker d’averlo fatto con convinzione e con la volontà di modificare la situazione. Tanto la nuova Commissione, quanto il Parlamento europeo che uscirà dalle urne, non potranno più far finta che il problema della prevalenza, molte volte ingiustificata, del dollaro esiste e che va risolto tenendo conto delle nuove realtà venutesi a creare nel mondo, come la presenza dell’euro nel pagamento degli scambi internazionali e dei Brics (Associazione in economia di 5 paesi: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). L’euro potrebbe diventare la leva per una riforma multipolare del sistema monetario internazionale. Perché ciò possa accadere, l’euro deve essere rafforzato con i necessari miglioramenti del sistema e sostenuto da una più forte e più integrata economia europea. In questo modo affiancherebbe con più efficacia le politiche del gruppo dei paesi Brics per cambiare profondamente la governance economica e monetaria del mondo, oggi ancora troppo dominata dal dollaro. Fantasia illuminata, sogni che corrono troppo? Non diremmo. Già ora i Brics operano tra loro con le rispettive monete nazionali, ma il loro peso sarebbe nullo senza una fattiva alleanza con l’Europa e senza l’euro. Le possibilità di modificare il sistema non possono prescindere da questa nuova realtà rappresentata dall’Europa e dalla sua moneta. Tra l’altro, anche l’America ci mette del suo. I conflitti commerciali continui, infatti, combinato con l’unilateralismo monetario della Federal Reserve, rischiano di mettere in ginocchio molte economie emergenti e stanno provocando importanti reazioni in tutti i continenti. La Cina, per esempio, oltre al progressivo uso  dello yuan in molti accordi commerciali internazionali, si dà da fare per scavalcare sempre più il dollaro nel settore dell’energia. Persino la più importante banca d’affari americana, la Goldman Sachs, è convinta che si stia bruscamente passando dagli investimenti stranieri in titoli americani, ai titoli cinesi in Yuan. Nei prossimi cinque anni si prevede il collocamento di titoli cinesi per un valore superiore al trilione di dollari, a scapito dei titoli di stato Usa. Inoltre, tutti i paesi che sono stati colpiti dalle sanzioni di Washington, stanno cercando un’alternativa alla moneta americana. Iran e Iraq hanno già eliminato il dollaro come valuta principale del loro commercio bilaterale. Teheran sta abbandonando la valuta americana per fare i pagamenti internazionali in euro nel settore petrolifero. Anche l’India paga il petrolio iraniano in euro. Anche la Turchia si appresta a passare ai pagamenti in valuta nazionale con i suoi principali partner commerciali come la Cina, la Russia, l’Iran e l’Ucraina. La Russia fa sapere che le sue imprese industriali utilizzeranno le valute nazionali per i pagamenti delle forniture alla Turchia. Anche i paesi petroliferi del Golfo stanno discutendo l’idea di introdurre una moneta unica. Siamo consapevoli che esistono molti ostacoli alla “dedollarizzazione”. L’instabilità dei cambi valutari e la forte svalutazione delle valute in molti paesi in via di sviluppo rispetto al dollaro e all’euro rappresentano ancora un potente freno, ma i comportamenti protezionistici Usa spingono inevitabilmente il resto del mondo alla ricerca di vie alternative al dollaro. Anche il più importante giornale economico della Svizzera, la Neu Zuercher Zeitung, le ha confermato di recente e persino gli economisti della Banca Mondiale dichiarano che ormai il processo contro il dollaro nel mondo è stato avviato e non può più essere fermato. Oggi il 70% di tutte le transazioni del commercio mondiale è fatto in dollari, il 20% in euro e il resto è diviso tra le varie monete asiatiche, in particolare lo yuan cinese. Il commercio di petrolio e di altre materie prime è fatto quasi soltanto in moneta americana. Fino a quando? Non sarà così a lungo. Ecco perché Juncker ha ragione quando auspica un ruolo internazionale per l’euro. Ma questo ruolo non cadrà dall’alto. E’ necessario che l’Europa non stia alla finestra e si decida a muoversi politicamente verso l’obiettivo suggerito dal presidente della Commissione europea.

    Fonte: “Italia Oggi”del 19 settembre 2018

  • Leave campaign violated campaign funding rules

    Vote Leave has been referred to the police and fined £61,000 (€69,000) for violating campaign funding rules. The Leave campaign is accused of overspending by £675,315 (€702,000) by funneling money through the pro-Brexit youth group BeLeave. The founder of BeLeave has also been fined £20,000 (€22,500) and referred to the police. Vote Leave won the June 2016 referendum by 52-to-48%. The referendum was not legally binding, but it is politically binding. Campaigners denounced the report of the Electoral Commission as politically motivated. The campaign’s upper spending limit was £7million or just under €8 million.

    Labour Party opposition is calling for the resignation of ministers that were members of the Leave campaign; some MPs even called for a second EU referendum.

    Vote Leave find the Electoral Commission report “politically motivated.” The Electoral Commission defended its report, underlining that there was “due process” and a three month investigation behind the report.

  • Sei mesi al gennaio 2019

    Solo sei mesi, questi sono gli ultimi sei mesi del 2018 in cui l’Italia potrà giovarsi del Quantitative Easing che ci ha permesso di vivere in assoluta sospensione dalla valutazione dei nostri parametri economici e finanziari, quindi in sospensione dalla realtà. Una situazione assolutamente anomala, nata dalla crisi finanziaria del novembre 2011 e protrattasi fino a tutto il 2018 e  che ci ha permesso di creare 346 (!) miliardi di nuovo debito pubblico non per finanziare la ripresa o fattori competitivi ma semplicemente per sgravi fiscali lasciando completamente inalterata le dinamiche della pubblica amministrazione che rappresentano il vero problema della mancanza di crescita italiana. E qualcuno ha pure il coraggio di affermare che l’Italia viveva in un clima di austerità imposto dall’Europa quando gli ultimi sette anni dimostrano essenzialmente come siano le modalità della spesa e non la spesa in quanto tale ad essere il problema italiano.

    In altre parole, esattamente come quando la Banca d’Italia finanziava il debito pubblico per legge (una visione tanto cara i nuovi sovranisti del ritorno alla Lira), dal 2011 in poi la Bce ha acquistato  a scatola chiusa e senza batter ciglio il nostro debito pubblico ad interessi progressivamente inferiori grazie all’inondazione di  nuova liquidità sui mercati finanziari. Una condizione favorevole ed assolutamente nuova dal dopoguerra ad oggi per i vari governi in carica che avrebbe dovuto spingere i governi Letta, Renzi e Gentiloni, grazie ai risparmi sul costo al servizio del debito, ad utilizzare appunto tali risparmi per la riduzione debito stesso. Invece di ridurre il debito il governo Renzi è riuscito addirittura a raddoppiare la velocità di crescita del debito pubblico rispetto al governo precedente: da 2230 euro/secondo ai 4463, sempre al secondo.

    Ora da dicembre, o meglio da gennaio 2019, il presidente Mario Draghi ha confermato che sospenderà il Q.E., magari riducendolo gradualmente aggiungiamo noi. Allora l’Italia tornerà sulla terra e verrà di nuovo sottoposta all’analisi dei fondamentali economici in rapporto alla sostenibilità del debito. In questo ritrovato contesto di normalità risulterà interessante capire e vedere chi finanzierà il nostro debito pubblico e soprattutto quali saranno gli interessi che verranno richiesti agli operatori finanziari, anche in considerazione del fatto che dall’otto giugno 2018 i titoli del debito pubblico vengono considerati più a rischio di quelli della Grecia!

    Un fatto di una gravità epocale che non ha suscitato nessuna reazione del mondo politico, sia espressione della maggioranza che dell’opposizione. Ancora oggi si illude il Paese parlando di  riforme relative alla flat Tax, al ritorno alla Lira, alla riduzione delle accise e al mantenimento dell’Iva attuale quando il contesto macroeconomico relativo alla sostenibilità del debito pubblico italiano si sta deteriorando davanti ai nostri occhi. Basteranno sei mesi per comprendere quale sia la reale situazione economico-finanziaria del nostro Paese che già ora viene percepito come a rischio in quanto i tassi di interesse sul finanziamento al nostro debito continuano a crescere.

    Logica conseguenza di questa situazione che si aggraverà progressivamente e renderà necessaria sicuramente, se non alla fine di quest’anno ma nei primi tre mesi all’anno successivo, una ulteriore manovra correttiva che permetta di trovare la copertura finanziaria per sostenere l’aumento dei tassi di interesse sul debito.

    Sei mesi. Solo sei mesi per il ritorno alla realtà economica ordinaria. Sei mesi che seguono vent’anni di ordinaria follia.

  • Eredita 3 miliardi, ma sono in lire e valgono come carta straccia

    Luigi C., 48enne banchiere, da un giorno all’altro si è ritrovato un’eredità di circa 3 miliardi, ma in lire, e dunque priva di alcun valore.

    Il signor Luigi, orfano e praticamente solo, aveva un nonno che si era trasferito in Svizzera ed aveva aperto un conto corrente alla banca UBS, con tanto di una cassetta di sicurezza in cui custodiva titoli di stato e banconote italiane. Una volta morto il nonno, il nipote ha aperto quella cassetta e vi ha trovato banconote da 500mila lire per un totale di quasi 3 miliardi del vecchio conio. Recatosi alla Banca d’Italia s’è visto rifiutare il cambio in euro perché il termine per cambiare lire in euro è scaduto: lo Stato infatti aveva fissato un termine decennale dall’entrata in vigore dell’euro entro il quale era possibile cambiare valuta. Quindi, considerando l’approvazione della moneta unica, chiunque aveva delle lire poteva cambiarle fino al 2012. Il signor Luigi si è quindi rivolto all’associazione fondazioneitalianarisparmiatori per avviare una battaglia legale. «Dell’esistenza di detta somma io stesso non aveva mai avuto, naturalmente, contezza prima di allora. La Banca deve prendere contatti con la scrivente Fondazione al fine di procedere alla conversione delle lire in euro in favore del signor Luigi, per un totale di euro 1.549.370,70, con l’avvertimento che in difetto ci vedremo costretti a porre in essere le opportune azioni a miglior tutela dei diritti del nostro assistito (…) qualsiasi termine di prescrizione o decadenza decorre da quando il soggetto è posto in grado di far valere il proprio diritto, quindi nei casi in esame i dieci anni per il cambio lire/euro decorrono dal giorno del ritrovamento delle somme in lire».

  • Gli Stati africani pensano a un loro euro, ma la Nigeria si chiama fuori

    Una moneta unica per l’Africa, forse anche digitale, è stata proposta dal presidente sudafricano Cyril Ramaphosa a seguito di una riunione dell’Unione africana in Ruanda, dove 44 Paesi si sono dati appuntamento per firmare il trattato sull’area continentale di libero scambio africana.

    «Siamo più che mai determinati ad avere una sola moneta nella regione», ha dichiarato il presidente del Ghana, Nana Akufo-Addo, il quale ha ospitato lo scorso febbraio i capi di Stato africani con i vari governatori delle rispettive Banche centrali. «Vogliamo facilitare il commercio, ridurre i costi delle transazioni e dare una spinta alle attività economiche fra i 15 Paesi membri. Tale politica economica – ha continuato Akufo-Addo – sarà fondamentale per migliorare i livelli di vita di milioni di persone, razionalizzando le diverse istituzioni esistenti e riducendo i criteri economici di convergenza nella regione». Anche il presidente attuale dell’Ecowas (la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale), il togolese Faure Gnassingbé, ha dichiarato di sostenere il progetto. La Nigeria però intanto ha deciso di rimanere fuori dalla ‘zona di libero scambio’ (Zlec) lanciata nel summit nella capitale ruandese, Kigali per eliminare le tasse doganali e aumentare il livello degli scambi intra-africani di circa il 60% entro il 2022. «Avere una moneta unica entro il 2020 potrebbe essere una mossa troppo affrettata», ha affermato uno scettico Godwin Emefiele, governatore della Banca centrale nigeriana.

    Attualmente, ci sono oltre 40 valute diverse in Africa e il continente ha dovuto affrontare innumerevoli difficoltà economiche, tra cui la più notevole è stata quella dello Zimbabwe. Da qui l’idea delle valute digitali che sta cominciando a decollare in Africa, con il Sudafrica in testa.

  • Granitiche illusioni

    Sembra incredibile come nessuno dei programmi presentati dai partiti alle prossime elezioni del  4 marzo tragga ispirazione dalle due maggiori economie mondiali come quelle statunitense e cinese.

    Probabilmente sarà passata inosservata la scelta del governo cinese di limitare le operazioni finanziarie dei gruppi nazionali al di fuori dei confini della Repubblica Popolare, con l’intenzione dichiarata ed evidente di mantenere e sviluppare gli asset interni in modo di favorire lo sviluppo dell’economia nazionale. Questa strategia tradotta in termini, o meglio, in parametri economici significa favorire le operazioni che dimostrino una ricaduta occupazionale o possano diventare un fattore competitivo per le aziende cinesi che competono nel mercato globale.

    Tra le righe emerge una posizione perlomeno dubbiosa riguardante il postulato del mercato assolutamente cara alla visione ultraliberista che vede automaticamente nel principio o nel postulato in base al quale tutto quanto fornisca reddito e dividendi agli azionisti un volano per lo  sviluppo economico generale. Paradossale in questo senso allora il giubilo della classe politica italiana quando i nostri asset risultano oggetto di acquisizioni, magari proprio da operatori cinesi, non comprendendo neppure il senso della perdita del controllo di questi importanti poli industriali logistici infrastrutturali ma anche immobiliari nella futura elaborazione delle strategie di sviluppo economico.

    In più  l’Italia prima l’Europa adesso hanno intenzione di togliere i dazi per esempio sul riso asiatico ponendo in ulteriore difficoltà settore della risicoltura a causa della concorrenza sleale, espressione dell’ effetto del dumping fiscale, normativo e igienico sanitario di cui godono i paesi asiatici.

    La sintesi di questi due aspetti, come la vendita di asset e l’apertura a prodotti espressione evidente di dumping,  è espressione della fede assoluta nella “filosofia o meglio dottrina economica” di matrice bocconiana – liberista che vede nella completa apertura dei mercati senza nessuna azione  compensativa ad equilibrare l’effetto dumping. Questa fede poi colpevolmente pone il trade come espressione massima della catena di creazione del valore quando invece risulta evidente come la filiera intesa nella sua articolata complessità di know how industriali e  professionali contribuisca in massima parte alla creazione del valore (anche culturale, come espressione della cultura contemporanea di una nazione). Viceversa, questa dottrina pseudo-liberista (che annulla i traguardi dello sviluppo economico, industriale e culturale occidentale) esprime un ulteriore limite quando indica nella ricerca di una maggiore produttività la chiave di lettura per compensare gli effetti devastanti del dumping sociale, normativo e retributivo.

    Tornando al contesto elettorale italiano poi si inseriscono le varie riforme fiscali le quali da una parte prevedono un abbassamento del cuneo fiscale di un punto all’anno, una scelta i cui effetti risultano assolutamente marginali relativamente invece ad una riduzione, anche minima, del carico fiscale sulle imprese. La scelta invece della riduzione del cuneo fiscale conferma e sottende la volontà della classe politica di mantenere il proprio potere che viene esercitato essenzialmente attraverso la spesa pubblica finanziata dal carico fiscale il quale con questa riforma rimane invariato. Logica conseguenza infatti ci indica che ogni riduzione del carico fiscale automaticamente determina una riduzione della capacità di spesa e di conseguenza di centralità della politica all’interno del perimetro economico.

    Se poi si aggiunge che parallelamente alla diminuzione di un punto di cuneo fiscale si obbliga l’azienda alla sottoscrizione di un fondo di compensazione per lavoratori disagiati del 0 5% si comprende chiaramente come questa cosiddetta riforma fiscale a favore delle PMI altro non rappresenta che il gioco delle tre carte che lascia sostanzialmente invariata la pressione fiscale.

    Evidentemente anche  in questo caso la politica seguita dalla amministrazione statunitense, che ha ridotto decisamente la Corporate Tax con effetti benefici sia per gli azionisti che per l’economia reale – avendo aumentato i dividendi per azione ma contemporaneamente avendo avviato una nuova politica di  bonus elargiti dalle aziende anche con nuove assunzioni, frutto di nuovi piani di investimento liberati dalla riduzione fiscale statunitense – non viene presa in considerazione.

     

    Viceversa il combinato tra flat tax e reintroduzione della lira con un disavanzo di oltre 68 miliardi che verrebbe coperto dall’ennesimo condono, questa volta fiscale (che la storia insegna come i risultati dei condoni siano sempre al di sotto delle aspettative) rappresenterebbe una miscela esplosiva in quanto il valore di una valuta viene stabilito in rapporto ai fondamentali economici del paese, alla stabilità economica, alla sua crescita unita alla gestione del debito e della spesa pubblica.

    La stessa politica monetaria tanto invocata (il vecchio sogno della svalutazione competitiva che viene indicato come la soluzione di ogni problema di crescita)  per giustificare il ritorno alla lira non trae alcun insegnamento dai risultati eccezionali ottenuti dalla economia svizzera la quale, a fronte di una rivalutazione del franco svizzero (e divenuto valuta di rifugio, quindi con un conseguente apprezzamento) lasciato libero di fluttuare sul mercato della banca centrale di Berna, ha comunque permesso risultati in regola per il 2016/17 relativi all’export. A dimostrazione, ancora una volta, che la politica monetaria ha un influsso minimo rispetto invece al ruolo attribuibile alla sintesi felice di una buona amministrazione pubblica che opera in favore delle PMI.

    In questo senso si ricorda sempre agli illustri economisti che mentre nel 2014 il debito pubblico cresceva ad un ritmo di  2100 euro al secondo, nel 2017 la crescita del debito pubblico risulta quasi raddoppiata, raggiungendo l’impressionante cifra di 4463 euro al secondo e portandosi ormai alla soglia dei 2300 miliardi di debito, ai quali ovviamente vanno aggiunti i 55 miliardi di deficit fuori bilancio che automaticamente fanno salire la somma, dal 2011, di 355 miliardi di nuovo debito.

    Un mix di fattori assolutamente esplosivi che andrebbero ad incrementare il costo del debito immediatamente dopo l’entrata in vigore di tali riforme azzerando in sei mesi il valore di tutti quanti i risparmi posseduti in lire.

    Una sintesi micidiale, anche in considerazione del fatto che dal 1996 al 2006 l’andamento dell’inflazione risulta in aumento del 40%  mentre la pressione fiscale dell’80%. Per cui, al di là della buona fede che deve essere assolutamente riconosciuta a tutti gli ideatori delle proposte di politiche economiche, rimane evidente che gli impatti di queste “strategie” non vengano considerati in un contesto internazionale nel quale i potenziali finanziatori del nostro nuovo debito chiederebbero sicuramente maggiori contropartite economiche in rapporto alla sottoscrizione del debito.  Anche perché comunque entro il 2018 sarà necessaria una manovra aggiuntiva di 30 miliardi di cui 18-20 per annullare l’aumento dell’Iva ed un’altra di circa 5 – 10 miliardi per far fronte alla crescita dei tassi di  interesse per sottoscrivere i titoli del nostro debito. Mai come ora le granitiche illusioni vendute dai programmi dei contendenti elettorali distolgono l’attenzione dalle vere problematiche relative al contesto internazionale nel quale il nostro paese si troverà ad operare qualsiasi sarà l’esito elettorale.

  • La storia si ripete

    Può sembrare paradossale introdurre in ambito economico il parametro temporale. Tuttavia talvolta questo può risultare indicatore delle dinamiche di crescita economica o di altri fattori. Seguendo questa approccio si consideri il tempo necessario per bere un caffè: in un bar mediamente affollato il tempo medio risulta di due minuti. Il prezzo pagato va da 1,10 a 1,30 euro, a seconda della località come della centralità del bar stesso. Risulta però illusorio credere che questo realmente sia il prezzo pagato in quel frangente di tempo dal consumatore italiano. Dal momento dell’ordinazione al momento della consumazione del caffè infatti il debito pubblico è aumentato di 252.000 euro, ad una cifra quindi di 2.100 euro al secondo. Quindi il fattore temporale, al di là delle cifre, ci dimostra come la questione debito pubblico risulti assolutamente la problematica principale ignorata da tutti i programmi politici elettorali che i partiti stanno presentando in queste settimane dimostrandosi assolutamente incapaci di affrontare la questione.

    La storia ci insegna poi che questa situazione per molti fattori è simile a quella degli anni ’80, che culminò con il terribile quinquennio ‘87/’92 nel quale si assistette all’esplosione debito pubblico grazie all’intesa politica che prevedeva  per tutti i deficit degli enti locali e delle aziende a loro collegate la copertura finanziaria dello Stato. Una situazione talmente disastrosa finanziariamente e  politicamente che portò il governo amato nel 1992 ad un prelievo forzoso su tutti i conti correnti del 6×1000 al fine di cercare una nuova fonte di liquidità e che venne definito una “rapina di Stato”.

    Può sembrare incredibile ora per i sostenitori dell’inflazione fiscale, come i ministri economici dell’attuale governo o gli economisti che incitano ad un uscita dell’Italia dall’euro – ed in questo ricordiamo gli esponenti della Lega e del Movimento 5 Stelle – come l’ancora di salvezza attuale del nostro sistema finanziario rappresentato da una massa debitoria che macina 181 milioni al giorno  sia rappresentato proprio dall’euro stesso. In questo contesto economico e valutario infatti l’unico modo nel quale la componente finanziaria mondiale può manifestare la propria mancanza di fiducia nel controllo dei conti statali italiani è rappresentato da un aumento dello spread esattamente come avvenne nel novembre 2011.

    Un’azione assolutamente legittima e che non deve far credere a qualche tipo di complotto nei confronti dell’Italia in quanto si ricorda per l’ennesima volta che le regole le fanno i creditori e mai i debitori, che siano privati cittadini o stati nel loro complesso. Viceversa, se l’Italia dovesse rinnovare il proprio debito e pagare gli interessi con una valuta diversa dall’euro, la lira, nel giro di tre mesi si avvierebbe una spirale inflazionistica rispetto alla quale quella legata al mondo dell’economia jugoslava dominata da Tito e dell’America Latina, Argentina in particolare, risulterebbero assolutamente risibili.

    Tornando quindi all’unione terribile dell’elemento economico a quello temporale è evidente come il debito venga percepito dall’intera classe politica come un fattore ma soprattutto come un elemento i cui costi non verranno assolutamente pagati dalla stessa classe politica ma semplicemente dai contribuenti elettori.

    Il fatto poi che in nessuno di questi programmi elettorali esista un vero e proprio approccio allo sviluppo delle nostre PMI e tantomeno nessuna politica che faciliti gli investimenti, come del resto l’uscita da ogni classifica di attrattività di investimenti dell’Italia dimostra, testimonia e certifica l’assoluta miopia delle politiche economiche degli ultimi trent’anni, espressione di governi assolutamente incompetenti.

    Il debito si può ridurre in molti modi: attraverso l’inflazione, che determina automaticamente una perdita di capacità di acquisto dei contribuenti molto cara, e ministri tecnici dell’attuale governo (paradossale poi se questa risulti legata ad un aumento della pressione fiscale), oppure attraverso l’introduzione di una valuta debole la quale nel giro di sei mesi annullerebbe tutti i risparmi della classe media italiana.

    L’unica soluzione è quella di ridare sviluppo e slancio all’unico fattore che crei valore aggiunto,

    cioè il settore industriale ed in particolare quello delle PMI, molto forti nel prodotto e probabilmente un po’ meno per quanto riguarda la propria internazionalizzazione e la gestione manageriale. Un settore comunque che nella sua articolata complessità, composto da piccole, medie e grandi aziende, deve ritrovare dal canto proprio una nuova capacità di liberarsi dai giochi politici nei quali troppo spesso i vertici di Confindustria si sono avventurati e tornare all’orgoglio di essere industriali. Le politiche fiscali e monetarie possono o potrebbero ottenere un qualche risultato solo ed esclusivamente se successive ad un rinnovato controllo della spesa pubblica e di conseguenza della creazione nuovo debito pubblico.

    Negli anni ‘80 si diceva che la politica rappresentava una tassa occulta dell’attività delle imprese.

    Ora probabilmente la stessa politica rappresenta una delle cause dell’incapacità di trovare nuovo slancio per un settore come quello del made in Italy che presenta delle potenzialità inespresse assolutamente incredibili.

    N.B. Una piccola nota aggiuntiva di colore: nei tre minuti che a voi avete gentilmente dedicato alla lettura di questo mio intervento il debito risulta aumentato di 378.000 euro.

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