Riceviamo e pubblichiamo un articolo di di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** apparso su ‘ItaliaOggi’ il 23 maggio 2020
Gli investimenti diretti esteri (Fdi è l’acronimo in inglese) possono avere un ruolo molto importante per lo sviluppo economico, per l’aumento della produttività e dell’occupazione e per l’integrazione internazionale. Perciò, tutti i Paesi sono interessati ad attrarli. Vari centri studi, tra cui quelli dell’Ocse e del Fmi, ritengono che ammontino a oltre 40 mila mld di dollari.
Però, di questi, almeno 15 mila miliardi, pari a quasi il 40% del totale, sarebbero «investimenti fantasma», registrati in alcuni Paesi noti come dei paradisi fiscali, allo scopo, soprattutto, di evitare di pagare le tasse o per pagarne il meno possibile. La situazione, anche in questo campo, invece di essere stata sottoposta a controlli e a restrizioni, è peggiorata dopo la Grande Crisi del 2008, quando la percentuale era del 30%.
Altri studi confermano che, oltre ai citati investimenti diretti esteri, anche il 40% dei profitti delle stesse multinazionali finisce nei paradisi fiscali. Ciò avviene nonostante che dal 1985 al 2018 il «global corporate tax rate», la media mondiale della tassazione sui profitti delle imprese, sia scesa dal 49 al 24%. Nel 2015 il profitto globale delle multinazionali è stato di 1.700 miliardi di dollari. Si calcola che di questi il 36%, circa 600 miliardi, sia stato «dirottato» nei paradisi fiscali.
Si possono definire «investimenti fantasma» perché sono trasferimenti, oltre i vari confini, fatti da imprese che fanno parte dello stesso gruppo internazionale, passando attraverso dei «contenitori» vuoti localizzati nei paradisi fiscali. Questi contenitori sono dei veicoli che non sono coinvolti in alcuna attività reale. Servono soltanto per i giochi fiscali. È sorprendente che la metà degli investimenti fantasma transiti in due Paesi dell’Ue, Olanda e Lussemburgo, ben noti paradisi fiscali! Cosa sicuramente scandalosa e inaccettabile, ancora di più adesso che l’Europa si trova in grave emergenza economica per gli effetti della pandemia Covid-19. Se a loro si aggiungessero Hong Kong, le Virgin Islands britanniche, Bermuda, Singapore, le isole Cayman, la Svizzera, l’Irlanda e Mauritius, questo gruppo di dieci Paesi sarebbe responsabile per l’85% degli «investimenti fantasma».
Nel piccolo Lussemburgo, per esempio, arrivano investimenti esteri pari a 4mila mld $, tanto quanti gli Usa e più di quelli della Cina. Naturalmente per attrarre così tanti investimenti virtuali i paradisi fiscali e i centri off-shore offrono un livello di tassazione molto basso, molto più basso dei Paesi dove sono realizzate le attività reali. Offrono, inoltre, una serie di altri servizi, quali l’anonimato, la scarsa trasparenza e un sistema giuridico a dir poco compiacente. Offerte molto apprezzate da chi vuole evadere o eludere la tassazione ed evitare controlli più stringenti sulle proprie attività.
Negli anni Ottanta, l’Irlanda aveva una tassa sui redditi d’impresa del 50%. Oggi è del 12,5%. La legge irlandese si presta anche a «soluzioni fiscali creative». Si pensi all’operazione chiamata «doppia birra irlandese con un panino olandese», che prevede il trasferimento dei profitti di multinazionali registrate in Irlanda e in Olanda verso le isole Cayman. In questo modo sembra che le corporation in questione arrivino addirittura a pagare zero tasse, o quasi. Inoltre, in Irlanda il rapporto profitto/salari è pari all’800%, poiché le imprese straniere registrate nel Paese possono dire di avere dei profitti altissimi in rapporto ai pochi lavoratori dipendenti in loco.
Spesso economisti e analisti male informati o interessati portano l’Irlanda, per la sua bassa tassazione e la sua crescita del Pil, come esempio di gestione virtuosa. Ma dimenticano di dire che gli alti ricavi derivano soprattutto dagli investimenti esteri che arrivano nel Paese proprio per la bassa tassazione. È stato calcolato che, se tutti i Paesi del mondo applicassero la stessa tassa sui redditi delle imprese, le fughe verso i paradisi fiscali quasi scomparirebbero. Ciò produrrebbe un aumento delle entrate fiscali del 15% nei Paesi Ue e del 10% negli Usa e una loro diminuzione del 60% nei paradisi fiscali.
Queste problematiche sono emerse prepotentemente anche in Italia in seguito alla richiesta di credito avanzata al governo dalla Fiat per ben 6,3 miliardi di euro. Fca, com’è noto, opera in Italia ma ha la sede legale in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna. In Europa la concorrenza relativa alla tassazione dei profitti delle multinazionali ha assunto aspetti intollerabili. Si pensi soltanto che ben 6 Paesi, Irlanda, Lussemburgo, Belgio, Olanda, Malta e Cipro, che hanno fatto parte del gruppo originario dell’Unione prima della sua estensione all’Est Europa, sono considerati paradisi fiscali!
Una seria riforma fiscale a livello europeo, che valga per tutti i 27 Paesi Ue, non è più rinviabile. È necessaria, urgente e decisiva per l’effettiva realizzazione dell’Europa unita e federale.
*già sottosegretario all’Economia **economista