Fisco

  • Italia al 19esimo posto nella Ue per innovazione e seconda per gettito fiscale delle imprese

    L’Italia resta diciannovesima nella classifica stilata dalla Commissione europea dei Paesi più innovatori confermando il risultato dell’anno precedente. Lo comunica l’esecutivo europeo in una nota. Nel quadro europeo di valutazione dell’innovazione, la Svezia si conferma il Paese leader nell’Ue insieme a Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi, Regno Unito e Lussemburgo, mentre la Germania retrocede dal gruppo dei Paesi leader a quello dei ‘forti’ innovatori.

    “Il quadro di valutazione del 2018 dimostra ancora una volta che l’Europa è ricca di talenti e di spirito imprenditoriale – ha commentato Elżbieta Bieńkowska, commissaria per l’industria – ma che deve impegnarsi di più affinché quest’eccellenza si traduca in risultati positivi”. A livello mondiale l’Ue sta recuperando il ritardo nei confronti di Canada, Giappone e Stati Uniti e mantiene il proprio vantaggio sulla Cina che però si sta riducendo progressivamente a causa di un tasso di incremento del rendimento innovativo cinese superiore di quasi tre volte a quello europeo.

    “Le nostre proposte per Orizzonte Europa, il prossimo programma di ricerca e innovazione dell’Ue”- ha aggiunto Carlos Moedas, Commissario per la Ricerca, la scienza e l’innovazione – “permetteranno di accelerare l’innovazione lungo l’intera catena del valore e di individuare e potenziare le innovazioni rivoluzionarie».

    Indietro nell’innovazione, il Belpaese è invece in cima alla classifica europea per incidenza del prelievo fiscale delle imprese sul gettito tributario totale: le aziende italiane versano al fisco 101,1 miliardi di euro l’anno e tra i principali Paesi europei solo l’Olanda (14,2%) registra una incidenza del prelievo fiscale sul gettito fiscale totale superiore (14,1%)., secondo quanto segnala la Cgia di Mestre, sottolineando che con i nostri principali competitor, invece, scontiamo dei differenziali preoccupanti; tutti presentano un “sacrificio fiscale” nettamente inferiore al nostro. Sulle aziende tedesche, ad esempio, grava un prelievo sul gettito totale del 12,3%, sulle spagnole dell’11,6%, su quelle britanniche dell’11,4% e sulle francesi del 10,2%.

  • Tassazione dei dividendi: cosa cambia

    La legge di bilancio 2018 interviene sulla tassazione dei dividendi e dei capital gains eliminando una incoerenza che si era determinata nel sistema impositivo a seguito dell’innalzamento dell’imposta sostitutiva sui redditi di capitale disposta dal DL 66/2014 con decorrenza 1 luglio del medesimo anno. Il nostro breve intervento sarà focalizzato ai dividendi distribuiti dalle società di capitali nazionali partecipate da persone fisiche che detengono la partecipazione non in regime di impresa.

    Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta.

    Prima della recente modifica normativa, le disposizioni fiscali prevedevano due differenti regimi impositivi correlati alla percentuale di partecipazione al capitale sociale a seconda che fosse definita qualificata o meno. Le partecipazioni non qualificate scontavano un’imposta sostitutiva con aliquota fissa, mentre quelle qualificate concorrevano, in misura non integrale, alla determinazione del reddito complessivo del soggetto percettore. Quest’ultimo meccanismo consentiva di evitare la doppia imposizione sui redditi che avrebbero scontato prima l’imposizione sul reddito delle società di capitali e poi quelle sul reddito del socio. Questi sistemi di tassazione, imposta sostitutiva sul 100% o imposta proporzionale su una parte del dividendo distribuito sono cambiati nel corso degli anni determinando, a volte, incoerenze nel sistema.

    Inizialmente le partecipazioni non qualificate venivano incise da un’imposta sostitutiva del 12.5% (fino al 2011), mentre quelle qualificate concorrevano nella misura del 40% alla determinazione del reddito complessivo del socio. Pertanto, ipotizzando un’aliquota del 43% per il Socio qualificato, il dividendo percepito veniva inciso da un carico di imposta pari al 17.2% (100×40%x43%). Quindi la partecipazione qualificata scontava un carico di imposta maggiore rispetto a quella non qualificata. Nel 2012 e fino al 1 luglio 2014 l’imposta sostitutiva sui dividendi è stata pari al 20% dopo di che è salita al 26% come abbiamo già avuto modo di osservare.

    Com’è cambiato nel frattempo il regime impositivo di quelle qualificate? Fino al 2007 la parte imponibile era pari al 40%, dal 2008 al 2016 la percentuale è salita al 49.72% per crescere ulteriormente al 58.14% nel 2017 a seguito della riduzione dell’aliquota IRES.

    Quindi, numeri alla mano, dal 2008 al 2016 il dividendo percepito dal socio “qualificato” era inciso da un’imposta pari al 21.38% che sale al 25 nel 2017.

    Vediamo quindi come dal 2014 in avanti la partecipazione non qualificata fosse colpita da un carico di imposta maggiore di quella qualificata determinando l’inversione delle iniziali posizioni e un evidente incongruenza nel sistema.

    Come abbiamo detto la legge di bilancio pone fine a tutto ciò prevedendo un unico regime impositivo a prescindere dalla percentuale di possesso al capitale sociale: i dividendi con maturazione successiva al 2018 saranno soggetti a imposta sostitutiva del 26%. Per non penalizzare gli imprenditori virtuosi che hanno lasciato abbondanti riserve in azienda contribuendo alla loro capitalizzazione, il legislatore ha previsto un regime transitorio sino al 31 dicembre 2022 periodo durante il quale la distribuzione delle riserve di utili sarà assoggettata al medesimo regime previsto alla data di formazione. Tali soggetti potranno pertanto effettuare un minimo di pianificazione fiscale deliberando e distribuendo utili pregressi entro il 2022.

    Quest’ultima opportunità, ovviamente, dovrà essere attentamente valutata in considerazione dei piani strategici aziendali e delle risorse finanziarie disponibili per evitare che per fruire di un risparmio di imposta si determinino più o meno gravi tensioni finanziarie.

    Come sempre, quindi, la variabile fiscale non può assurgere a unico e esclusivo discrimine per determinare i comportamenti imprenditoriali che devono essere sottesi da uno specifico piano di medio-lungo periodo di cui la tassazione è solamente una delle componenti.

  • Il lavoro dipendente è una risorsa soprattutto per il fisco

    Altro che tutela dei lavoratori, il lavoro dipendente torna utile allo Stato per mettere le mani in tasca a chi è, appunto, lavoratore dipendente. L’Italia è il settimo Paese d’Europa per la pressione fiscale più alta (il fisco si prende il 42,9% del Pil, meno di Francia, Belgio e delle nazioni scandinave, ma più della Germania, che si ferma al 40,4%) e i lavoratori dipendenti, proprio perché dipendenti e dunque con scarsa mobilità, sono uno dei target più facili da raggiungere. La controprova che sia così la forniscono i dati relativi alle imprese: le grandi imprese, quelle con oltre 500 imprese che possono facilmente trasferirsi e sottrarsi così all’esosità fiscale, hanno visto ridursi la quota di prelievo fiscale a proprio carico dal 28,6% del periodo 2009-14 al 22,6% del 2016; le imprese di taglia media sono passate nello stesso periodo da un prelievo pari al 38,4% ad uno del 31,7%. In sostanza, come ha calcolato L’Espresso (da cui attingiamo i dati) nel 2008, tra Ires e Irap le imprese avevano pagato imposte sui profitti per 79,9 miliardi; nel 2016 il gettito di quelle due stesse imposte è sceso invece a 51,1 miliardi, ovvero 28 miliardi in meno di 8 anni prima.

    La riduzione del peso fiscale a carico delle imprese ha una logica: più alto è il prelievo, maggiore è l’incentivo alle imprese, che possono permetterselo, di trasferirsi e dunque per non perdere l’intero gettito fiscale l’amministrazione pubblica deve mitigare le proprie pretese. Per un lavoratore, invece, trasferirsi è molto più difficile ed ecco allora che l’amministrazione fiscale non ha mitigato le sue pretese del tutto, ma le ha semplicemente trasferite su un altro obiettivo: dal 2008 al 2016, riferisce L’Espresso, il gettito dell’Irpef, che grava sugli individui, è aumentato (includendo le addizionali versate a Regioni e Comuni) di 11,7 miliardi, per un totale di 183,3 miliardi. In Italia,  prosegue il settimanale riportando i calcoli dell’Ocse, tasse e contributi si mangiano il 47,8% del costo aziendale di un lavoratore (in Germania il 49,4%, in Francia il 48,1%), e questo pone l’Italia sopra la media (36%)  dei 35 Paesi dell’Ocse. Molto meglio dell’Italia fanno la Spagna (39,5), il Giappone, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, tutti poco sopra il 30%.

  • Addio alla scheda carburante

    Tra le novità di maggior impatto della legge di bilancio 2018 (Legge n. 205/2017) possiamo annoverare sicuramente la scomparsa della scheda carburante con effetto dal 1 luglio 2018. Anche in questo caso si tratta di misure varate dal legislatore per contrastare l’evasione fiscale.

    Tutti sappiamo che per dedurre i costi del carburante per autotrazione acquistato nell’esercizio di imprese, arti e professioni e per detrarre la relativa imposta sul valore aggiunto, ai sensi del DPR 444/1997 il soggetto acquirente è tenuto a compilare in modo analitico la scheda carburante che sostituisce a tutti gli effetti la fattura. Facciano attenzione i malintenzionati che proprio questa integrale sostituzione della fattura con la scheda carburante, tra l’altro, comporta l’estensione della normativa sanzionatoria di cui all’emissione di fatture false alle operazioni di falsificazione o manomissione delle schede carburanti.

    Nonostante le conseguenze insite nell’uso distorto delle schede carburanti, evidentemente il malcostume è diffuso tanto che il settore dei carburanti e della certificazione dei relativi corrispettivi presenta, ancora oggi, ampie sacche di evasione. Ed è proprio per questo, riteniamo, che la deducibilità del relativo costo e la detraibilità della relativa IVA subiscano delle decurtazioni legislative che, altrimenti, non troverebbero ragion d’essere.

    Tutto ciò non è stato sufficiente. Con l’intento appunto di contrastare questi fenomeni il legislatore ha imposto, con decorrenza 1 luglio 2018, l’obbligo di pagamento del carburante con moneta elettronica per consentirne la deducibilità del costo. Inoltre, con la medesima decorrenza, gli acquisti di carburante effettuati da soggetti titolari di partita iva dovranno essere certificati tramite fattura elettronica (anticipando l’obbligo della fattura elettronica generalmente previsto per il 1 gennaio 2019).

    Con riferimento alla tracciabilità dell’acquisto tramite moneta elettronica già era intervenuto il Decreto sviluppo del 2011 prevedendo l’esonero dall’obbligo di compilazione della scheda carburante per coloro che si impegnassero ad effettuare i pagamenti dei rifornimenti esclusivamente con carte di credito o di debito intestate al titolare dell’impresa. Nonostante tale previsione sia tutt’ora in vigore e non sia stata formalmente abrogata, di fatto lo sarà con l’entrata in vigore delle nuove norme più sopra presentate.

    Non pochi saranno i problemi pratici: si pensi alle possibili code connesse con i tempi di emissione della fattura elettronica, ai rifornimenti presso le stazioni automatiche.  Probabilmente una semplificazione in tal senso dovrà essere concessa ai contribuenti. Una soluzione operativa potrebbe essere quella di stipulare contratti di netting con le compagnie petrolifere: in modo semplice il contribuente potrebbe effettuare i rifornimenti nei circuiti convenzionati, pagare con l’apposita carta e ricevere a fine mese la fattura elettronica dei rifornimenti effettuati.

    Concludiamo con un’osservazione: se pur condivisibile lo spirito della norma, ancora una volta sembrano aumentare le difficoltà amministrative dei contribuenti senza comunque che venga a crearsi il legame tra la targa del mezzo e il relativo rifornimento di carburante che consentirebbe la certezza di escludere usi fraudolenti. Allo stato dei fatti, forse, sarebbe stato sufficiente rendere obbligatoria la tracciabilità dei pagamenti così come previsto dal regime opzionale istituito dal decreto sviluppo.

  • Il Grande Fratello fiscale si fa ancora più intrusivo col Risparmiometro

    Equità fiscale, ridistribuzione, solidarietà sociale, partecipazione della cittadinanza, si può girare la torta come si vuole ma tutti sanno che il fisco è il Grande Fratello. Una sensazione? No, la realtà: è infatti in arrivo il Risparmiometro, strumento con cui il fisco potrà effettuare controlli ove ritenga che risparmi e reddito sembrano incongruenti..

    L’idea alla base di questo strumento è quella di individuare il denaro percepito in nero e mai versato in banca (perché sui conti correnti il fisco ha già accesso e dunque versare il nero non conviene, perché agevola il fisco a verificare l’incongruenza della dichiarazione dei redditi), sulla base del volume dei risparmi annui del contribuente.

    Il risparmiometro dovrebbe analizzare conti correnti, conti deposito titoli e/o obbligazioni, conti a deposito a risparmio libero vincolato, rapporti fiduciari, gestioni collettive del risparmio, gestioni patrimoniali, certificati di deposito e buoni fruttiferi, conti terzi individuali e globali, carte di credito, prodotti finanziari emessi dalle assicurazioni e acquisti e vendita di oro e metalli preziosi. In sostanza serve a valutare tutti i rapporti finanziari riconducibili ai contribuenti tramite codice fiscale presente in anagrafe tributaria. È già in vigore?

    Il nuovo strumento è in via di sperimentazione, nel 2018 verranno effettuati i primi controlli selettivi sui contribuenti persone fisiche relativamente ai redditi dichiarati nel 2013-2014, per poi passare alle società nel 2019.

  • L’eredità

    In un periodo di transizione come quello attuale nel quale l’intera compagine politica per un proprio tornaconto elettorale spara a zero previsioni e promesse senza alcuna copertura finanziaria, e spesso neppure normativa, guardare ed analizzare i fattori più importanti nel medio e nel lungo periodo, anche con uno sguardo rivolto al passato, può fornire degli elementi utili per analizzare il presente e soprattutto il medio/lungo termine futuro.
    L’eredità che ci lascia questo governo, che a parole afferma, come da sempre i governi precedenti, di avere favorito l’attività delle PMI lascia veramente esterrefatti se non basiti. Risultano infatti 871 gli adempimenti burocratici per l’anno in corso ai quali le PMI risultano costrette ad adempiere. Mentre sono 215 le imposte che sempre le imprese si vedono costrette a pagare, frutto di una creatività applicata al mondo fiscale unica nel suo genere in tutto il mondo.

    Un dato tuttavia lascia veramente perplessi soprattutto in prospettiva futura. Dal 1996 al 2016, quindi in circa vent’anni, la pressione fiscale complessiva risulta aumentata del 80,3% mentre l’inflazione manifesta un aumento del 43%. Due dati importanti e indicativi i quali quindi dipingono, al di là delle dichiarazioni degli ultimi governi, la situazione passata e la sua evoluzione fino ai giorni nostri. Di qui l’importanza risulta fondamentale soprattutto in prospettiva futura. Emerge chiaro ed evidente infatti come a fronte di un aumento della pressione fiscale dell’80% sostanzialmente i servizi resi dalla pubblica amministrazione ai cittadini come alle imprese ed alle aziende nel loro complesso risultino scaduti a livelli assolutamente insopportabili e deprimenti per lo sviluppo economico e la stessa qualità della vita. In questo senso basti ricordare che nell’ultima classifica del World Economic Forum l’Italia non sia compresa per qualità di vita neppure tra le prime venti nazioni del mondo.
    In più basta ricordare come la spesa per il welfare italiano risulti di venti punti superiore a quella scandinava che rappresenta il modello più efficiente e sicuramente più costoso all’interno dell’Unione Europea. Logica conseguenza è che se sono aumentate le spese per un sistema complesso dei servizi contrariamente questi diventano sempre più scadenti. La problematica risulta perciò relativa all’erogazione di questi servizi.
    In altre parole emerge assolutamente evidente come non sia più sostenibile né politicamente e tanto meno economicamente una organizzazione della pubblica amministrazione che tra sistema centrale regionale, provinciale e comunale ha preso le sembianze ormai di una piovra assolutamente impenetrabile.

    Al tempo stesso è evidente come il diverso andamento dell’inflazione all’aumento della pressione fiscale rispetto all’inflazione di fatto dimostra che oltre ad essere folle il piano economico degli attuali ministri Padoan e Calenda, che si dichiarano favorevoli all’aumento dell’IVA in modo da far aumentare l’inflazione, questo fosse anche sostanzialmente errato nella sua applicazione reale. Negli ultimi vent’anni, infatti, l’inflazione è aumenta di poco più del 50% (+43% rispetto al +80%) rispetto all’aumento della pressione fiscale dimostrando l’effetto (ormai disconosciuto a questi “economisti”) deflattivo per i consumi nazionali e quindi in un secondo momento sul calcolo dell’inflazione stessa. Perché se è vero che una maggiore inflazione determina sotto il profilo semplicemente nominale un miglior rapporto tra debito e PIL, un effetto tanto ricercato dall’attuale governo in quanto relativo al breve termine, al tempo stesso emerge come l’inflazione abbia un effetto deprimente relativamente i consumi. In particolar modo se tale inflazione risulta un’infezione in fiscale, cioè legata ad una maggiore pressione fiscale, non si manifesta con un miglioramento dei servizi e di conseguenza deprime i consumi in quanto, lo si ricorda, l’inflazione stessa determina una diminuzione del potere d’acquisto da parte dei consumatori.

    Tornando quindi al presente, ma ragionando in prospettiva di medio e lungo termine, emerge paradossale come ancora oggi nessuno si esponga su come coprire finanziariamente le clausole di salvaguardia che ci attendono a fine anno. Al tempo stesso non si percepisce nessun riferimento al molto probabile aumento dei tassi di interessi nell’arco di 12 mesi unito ad una diminuzione della fiducia degli investitori finanziari internazionali che farà aumentare lo spread. Ancora una volta l’Italia e soprattutto la classe politica si sta dimostrando assolutamente inadeguata alle sfide che la stanno aspettando senza per di più il benevolo patrocinio del presidente della BCE Mario Draghi.
    Comprendere i contenuti presenti nell’eredità degli ultimi vent’anni dovrebbe rappresentare la base per avviare una politica di rinnovamento economico e sviluppo per il futuro.

  • Fiscalità: il fattore competitivo

    Si è appena aperta una delle campagne elettorali tra le più disarmanti, mediocri e prive di contenuti reali da parte di una moltitudine di partiti i quali, invece di proporre soluzioni “sostenibili finanziariamente”, cercano con la loro comunicazione banale di suscitare l’interesse in elettori ormai demotivati e inclini all’estensione.
    Eppure la realtà economica e politica presenta degli esempi che potrebbero rappresentare un argomento interessante di confronto per quanto riguarda le diverse strategie economiche proposte dai vari schieramenti.
    Invece di parlare della solita manfrina dell’evasione fiscale o della affascinante ma per ora irrealizzabile flat tax (il cui ingresso nel sistema fiscale italiano dovrebbe essere successivo ad una manovra di revisione completa della spesa pubblica e non precedente) sarebbe interessante comprendere gli interessanti effetti della riforma fiscale della attuale amministrazione degli Stati Uniti. La riduzione della Corporate tax voluta dal presidente Trump, nonostante l’atteggiamento schizzinoso e superbo di molti economisti, anche europei, spiazzati completamente dai molteplici effetti di tale riforma fiscale, dovrebbe per questo motivo risultare al centro della discussione politica italiana. La Apple, per esempio, ha deciso di investire negli Stati Uniti creando un nuovo centro ed assumerà 20.000 nuovi addetti. Viceversa Wall Mart, nonostante la chiusura di circa 70 punti vendita diventati economicamente insostenibili a causa della concorrenza dell’e-commerce, ha deciso di aumentare la paga base a 11 $ all’ora e di distribuire 1000 dollari di bonus agli oltre 150.000 dipendenti. La stessa FcA sostenendo e facendo propria la filosofia del “reshoring produttivo” sostenuto nello specifico dalla riforma fiscale dell’amministrazione statunitense ha deciso di riportare la produzione dei Pick Up all’interno degli Stati Uniti e di investire oltre un miliardo di dollari e di distribuire un bonus di 2000 dollari ai propri dipendenti.
    In altre parole, il semplice abbassamento dell’aliquota fiscale relativa ai profitti dell’azienda si è riverberata nella creazione di nuovi posti di lavoro e di nuovo benessere per i lavoratori con evidente miglioramenti del PIL nel breve medio e lungo termine. Dimostrando ancora una volta quella tesi, sostenuta da chi scrive ormai da troppi anni, in base alla quale per avviare una vera ricollocazione delle attività produttive (il reshoring produttivo utilizzato dal mondo della politica e dell’economia come un semplice argomento privo di contenuti se non sostenuto da attività normative e fiscali idonee) la leva fiscale unita a quella normativa rappresentano gli strumenti più efficaci. Quest’ultima poi permette la certificazione della filiera.
    In questo senso allora tutti i documenti elaborati presentati dal Ministero dell’Economia e relativi allo sviluppo delle filiere anche attraverso l’integrazione digitale perdono ogni valore se il prodotto che ne scaturisce (sintesi unica di creatività ed innovazione tecnologica, quindi espressione culturale contemporanea) non trova una propria tutela normativa che lo ponga al riparo dalla concorrenza dei prodotti di paesi a basso costo di manodopera e soprattutto fornisca una garanzia ai consumatori che lo richiedono ormai in tutto il mondo globale.
    Risulta inutile infatti parlare di industria 4.0 come di interconnessione digitale se poi il prodotto di questo ingegno non possa trovare una propria tutela normativa anche a tutela dei consumatori che sempre più richiedono prodotti espressione della filiera nazionale come espressione culturale e quindi valoriale.
    In questo contesto infatti suscita veramente sorpresa il coro univoco di sostegno al progetto del Ministero dell’Economia che non prende in alcuna considerazione la tutela del prodotto, sia esso fisico o immateriale.
    Ennesima testimonianza dello strabismo ormai diventata una patologia comune a tutti i commentatori ed economisti italiani.
    In perfetta continuità poi in Italia non si riesce nemmeno a comprendere gli effetti virtuosi di politiche fiscali i cui effetti sono sotto gli occhi di qualsiasi attento osservatore. Si continua invece a parlare dell’abolizione di tasse più o meno antipatiche, come di reddito di inclusione o di cittadinanza, o di pensioni minime.
    Il termine sviluppo economico e le scelte politiche, anche fiscali, attraverso le quali si possa incentivarlo risulta assolutamente al di fuori di questo triste e mediocre contesto elettorale.
    All’interno di un mercato globale la fiscalità rappresenta un fattore competitivo che interviene attraverso la sua modulazione come un fattore che può aumentare il Roe di qualsiasi investimento ed incide profondamente nella sua valutazione, oltre a determinare un diverso calcolo della produttività del sistema economico nella sua articolata complessità. Escludere tale politica fiscale dalla discussione politica per inseguire disegni assolutamente insostenibili finanziariamente e soprattutto irrealizzabili rappresenta l’ulteriore conferma di un declino culturale della nostra classe politica e dirigente.

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