Francia

  • Rivalità tra italiani e francesi? Oltralpe riscoprono la figura di Mazzarino

    Nato a Pescina in Abruzzo nel 1602, il cardinale Giulio Raimondo Mazzarino fu promosso dal re di Francia Luigi XIII il giorno dopo la morte di Richelieu al “Conseil du roi”. Come delegato della Santa Sede, Mazzarino un decennio prima si era distinto per il suo dinamismo diplomatico, in particolare in occasione del conflitto franco-ispanico, tanto che nel 1639 Mazzarino si trasferì a Parigi e nel 1641, su proposta di Luigi XIII, Urbano VIII gli concesse il cardinalato, titolo che gli consentì di partecipare al governo in una posizione di rilievo, nonostante le sue origini non altolocate. Rampollo di una  rispettabile famiglia borghese, in grado di assicurargli un buon livello di istruzione, Mazzarino è stato a lungo oggetto di cliché denigratori tramandati dalla memorialistica seicentesca. In “Vent’anni dopo” (1844), Alexandre Dumas li assortì sapientemente: il paragone impietoso con Richelieu, l’irresolutezza mostrata nei confronti della Fronda e nella pace di Westfalia (1648), l’arricchimento personale, il rapporto ambiguo con Anna d’Austria, il machiavellismo. Jules Michelet, nella “Histoire de France au XVII siècle. Richelieu et la Fronde” (1858), descrisse Mazzarino come un avventuriero da commedia, come una sorta di germe patogeno che aveva inoculato in Francia il morbo della doppiezza italiana. Non fortuitamente i politici francesi contemporanei non desiderano essere accostati alla sua figura. Ancora nell’estate del 1995 apparvero sul giornale economico Les Echos 24 “Lettres de mon château”, lettere immaginarie, inviate -tra gli altri- a François Mitterand, Edouard Balladour, Charles De Gaulle, Bill Clinton. Piene di giudizi taglienti sulla politica dell’Eliseo, erano attribuite a un fantomatico “homme de l’ombre et de pouvoir comme l’était Mazarin”.

    Nel 2004 Le Monde rivelò la sua identità: era Nicolas Sarkozy, che Jacques Chirac aveva estromesso dal governo Juppé dopo essere stato eletto presidente della Repubblica. In Italia, invece, il machiavellismo attribuito al cardinale è stato talora esaltato addirittura come un manuale esemplare e Giulio Andreotti ha molto giocato sulle sue presunte affinità con la “leggenda nera” del cardinale.

    Ai suoi tempi in realtà Mazzarino fu molto apprezzato oltralpe, in quanto artefice del  Trattato dei Pirenei (7 novembre 1659) con cui Francia e Spagna, fin lì acerrime nemiche, concordarono di fissare il confine tra loro lungo la catena montuosa. All’indomani del Trattato il parlamento di Parigi tributò al cardinale, elevato al grado di duca e pari di Francia, un solenne omaggio e si sparse addirittura la voce di una sua possibile candidatura al soglio di Pietro. Solo di recente, grazie anche agli studi dedicati a Mazzarino da Simone Bertière, oltralpe la figura del cardinale di originale italiana è tornata a essere valutata come una delle principali personalità della storia transalpina.

  • Decathlon under fire for introducing and then withdrawing Islamic sports attire plans for French market

    French sporting goods retailer Decathlon has controversially decided to withdraw plans to launch a line of clothing with an Islamic veil for Muslim sportswomen after the products’ marketing sparked a major controversy among French politicians.

    The company said on February 26 that it made “a conscious decision” to no longer advertise the product in France. The decision came after the company sparked an earlier row by launching a special hijab, or headscarf, for Muslim women joggers, which reignited the debate over the personal freedoms for observant Muslim women and France’s strict laws that guard the country’s mandated secularism.

    The move from Decathlon, which can be seen as a business decision, raises the question of what happens when the religious freedom of the individual comes head to head with backlash from certain political quarters. According to Decathlon, the launch and Islamic sports garment in France followed a request by the company’s female customers in Morocco, where the product is already being sold.

    The modified sports veil gives female runners “extra comfort and breathability” whilst still “covering their neck and heads” in accordance with certain Islamic laws governing the covering of a woman’s head.

    Intolerance in politics

    Leading French politicians, however, have lined up to criticise the move, including Health Minister Agnès Buzyn, who told French radio that he “would have preferred that a French brand not promote the veil”. Buzyn’s comments were supported by Nicolas Dupont-Aignan, founder of France’s Eurosceptic nationalist party Debout La France also criticised Decathlon and even asked French shoppers to stop buying the company’s products.

    “I’ve got two daughters who don’t want to live in a country where a woman’s place in society regresses in the same way as it has in Saudi Arabia,” Dupont-Aignan tweeted, adding, “I’m calling for a boycott of the Decathlon brand for promoting this type of clothing”.

    France’s former justice minister, François Bayrou, also joined the chorus of those who called Decathlon’s move ‘provocative’ and suggested that the introduction of a sports hijab was unnecessary. “Muslim women who want to exercise put a knit cap on”, Bayrou said.

    One of the few public figures coming to Decathlon’s defence has been Angélique Thibault, the head Decathlon’s Kalenji jogging range, who said she was inspired to design the piece in the hope that “every woman can run in every district, in every city, in every country, regardless of her sporting level, her state of fitness, her shape, and her budget. And regardless of her culture”.

    The controversy over the status of Islamic cultural norms in France is only the latest in a series of political rows that have centred around the dress code of Muslim women in a country with nearly 10 million Muslims, roughly 6.6% of the population.

    The conservative government of former President Nicolas Sarkozy banned full-face coverings in France in 2010 and was accused by rights groups of stigmatising Muslim women.

    That original ban was followed six years later when scores of mayors in French coastal towns issued beach bans on “burkinis” – full-body swimsuits worn by some Muslim women.

    The bans were swiftly ruled illegal by France’s highest administrative court, but the controversy surrounding the appearance of Islamic beachwear sparked an intense political debate about the French principle of laïcité – secularism built on the strict separation of church and state.

  • Quando le chiese profanate non fanno notizia

    Riportiamo di seguito un articolo di Ermes Dovico pubblicato il 22 febbraio 2019 su La Nuova Bussola Quotidiana.

    Dall’inizio di febbraio a oggi si contano attacchi profanatori ad almeno sei chiese francesi, dal sud al nord del Paese, con statue di Gesù e Maria fatte a pezzi, croci disegnate con escrementi, tabernacoli violati e Ostie consacrate sparse per terra, a conferma che si è voluto colpire il cuore della fede cattolica. Il tutto avviene nella quasi totale indifferenza di media e istituzioni, sia Oltralpe che da noi.
    L’Europa si va scristianizzando senza che molti se ne curino, anzi, e altrettanta indifferenza si constata riguardo alla crescita degli atti anticristiani, a partire da quella che era una volta la cattolicissima Francia. Dal sud al nord del Paese transalpino, solo dall’inizio di febbraio a oggi si contano almeno una decina di attacchi profanatori, avvenuti per la gran parte all’interno di chiese, alcune delle quali oggetto di più sacrilegi in pochi giorni. Episodi documentati da quotidiani locali e raccolti sul sito dell’Observatory on intolerance and discrimination against christians in Europe (Osservatorio sull’intolleranza e la discriminazione contro i cristiani in Europa).
    Tra le chiese più colpite c’è quella di San Nicola, a Houilles (nell’Île-de-France, la regione settentrionale che comprende Parigi) profanata tre volte nel giro di una settimana, cioè il 29 gennaio, l’1 e il 4 febbraio. Qui i vandali si sono scatenati prima su una statuetta di Cristo che porta la croce – oggetto di due attacchi consecutivi – poi hanno ridotto in frantumi una statua della Beata Vergine con Gesù Bambino. Il 10 febbraio in un’altra chiesa dedicata a San Nicola, stavolta a Maisons-Laffitte (sempre nell’Île-de-France), il tabernacolo è stato gettato a terra; la polizia ha tratto in arresto un uomo di 35 anni, che ha ammesso il sacrilegio compiuto. Il 3 febbraio le Ostie consacrate erano intanto state sparse sul pavimento della bella chiesa di Notre-Dame a Lusignano, nella Francia centrale, e il 5 febbraio era stato vandalizzato un crocifisso di legno posto sul ciglio di una strada nel comune di Labastide, nella fascia pirenaica dell’Occitania.
    Lo stesso giorno, ancora in Occitania, altre due chiese hanno subito atti gravemente offensivi verso Dio. Un incendio è stato appiccato nell’antica cattedrale di Lavaur (XIII secolo) dedicata a sant’Alano, bruciando la tovaglia dell’altare e il presepe prima che il fumo allertasse il segretario parrocchiale, con il successivo intervento dei pompieri: nello stesso luogo una croce è stata trovata sul suolo e un’altra con il braccio di Gesù rovinato. «Dio perdonerà, io no», ha detto nell’occasione il sindaco di Lavaur, Bernard Carayon, come riferito dal quotidiano La Croix. Sempre il 5 febbraio, su un muro della chiesa di Notre-Dame des Enfants, a Nîmes, è stata tracciata con degli escrementi una croce, appiccicandovi dei pezzi di Ostie consacrate. Il tabernacolo è stato inoltre danneggiato e altre Ostie distrutte. Tre giorni più tardi il vescovo di Nîmes, Robert Wattebled, ha diffuso un comunicato per annunciare un rito penitenziale prima della ripresa delle celebrazioni e chiedere a tutti i cattolici di associarsi nella preghiera di riparazione.
    Il 9 febbraio è stato dissacrato il tabernacolo della chiesa di Notre-Dame di Digione, in Borgogna: anche qui le sacre Particole sono state disseminate sul suolo, macchiando la tovaglia dell’altare e strappando il Messale. Come ha spiegato al giornale Le Bien Public un sacerdote della parrocchia, padre Emmanuel Pic, chi ha profanato la chiesa di Notre-Dame ha voluto colpire «il cuore della fede cattolica». Infatti, ha aggiunto padre Emmanuel, «non è stato rotto nulla di valore, ma è l’intento a essere molto scioccante. Questo è ciò che caratterizza la profanazione». I vandali, volendoli chiamare riduttivamente così, hanno cioè deciso di attaccare la santa Eucaristia perché sanno che essa è «un simbolo molto forte (per i parrocchiani), in quanto le Ostie consacrate durante la Messa non sono più un semplice pezzo di pane» ma si sono convertite interamente nel Corpo di Cristo. Dopo il sacrilegio di Digione, l’arcivescovo ha presieduto personalmente una Messa di riparazione.
    Almeno sei chiese, dunque, profanate nel giro di pochissimi giorni da una parte all’altra della Francia: difficile dire se tutti i sacrilegi siano collegati tra di loro, ma certo non si tratta di casi isolati né di un’ondata temporanea. Per stare ai dati diffusi dal ministero dell’Interno francese, nel 2018 si sono registrati 1.063 fatti anticristiani, in aumento rispetto ai 1.038 dell’anno precedente. Nel 2016, secondo il rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre, gli attacchi a siti cristiani in territorio transalpino erano stati 949, tra cui ricordiamo il caso più eclatante: l’uccisione, avvenuta il 26 luglio, di padre Jacques Hamel, oggi Servo di Dio (e di cui la Chiesa potrebbe presto riconoscere il martirio), assalito e sgozzato da due islamisti mentre celebrava Messa a Saint-Étienne-du-Rouvray (in Normandia), in una chiesa dedicata al protomartire santo Stefano.
    Come ha raccontato alla Nuova BQ una madre italiana di nome Barbara, che spesso si trova ad andare in Francia, il clima anticristiano è ben percepito Oltralpe malgrado se ne parli poco: «In ben tre occasioni ho trovato la polizia e l’esercito a proteggere le chiese. L’ho notato perché erano gli orari delle Messe. L’ultimo episodio risale a un anno fa, ad Aix-en-Provence. Quando sono passata davanti a una chiesa, durante la Messa vespertina del sabato, ho trovato uomini dell’esercito. Mi sono fermata a chiedere perché fossero lì, chiedendo se ci fosse qualche personalità in visita. Mi hanno risposto che erano lì “a protezione, per la tranquillità dei fedeli”». Barbara aggiunge che già in precedenza «a proteggere le chiese negli orari della Messa, avevo trovato la Gendarmerie, una prima volta a Marsiglia e una seconda a Nizza. Era una presenza molto forte, notevole: più auto disposte in modo da fare da scudo, attorno alla chiesa. Controllavano i passanti. Spesso si soffermavano a controllare quelli che, all’apparenza, erano arabi». Tre città diverse, dunque, e «ad Aix-en-Provence non c’è neppure una grande comunità musulmana. Sia nel 2017 che nel 2018 ho notato questa presenza armata lontano da date di attentati terroristici, non in coincidenza con allerte particolari, dunque. Nulla di cui abbiano parlato i media».
    Davanti a numeri e fatti come questi sarebbe il minimo denunciare pubblicamente la situazione di odio al cristianesimo che si va radicando in Francia e nel resto d’Europa – andando a sommarsi ai contesti più gravi di persecuzioni, tra l’Africa e l’Asia – ma le istituzioni rimangono in prevalenza silenti e lo stesso fa la gran parte del circo mediatico, tanto pronto a montare su altre campagne spesso ideologiche. Finora, rispetto a questi ultimi atti sacrileghi, la “voce” – tardiva – del governo si è fatta sentire con un messaggio via Twitter del primo ministro Edouard Philippe, scritto il 13 febbraio prima di un incontro programmato con i vescovi: «In una settimana, in Francia, 5 chiese degradate [6, ndr]. Nella nostra Repubblica laica, i luoghi di culto sono rispettati. Tali atti mi scioccano e devono essere condannati all’unanimità». Cinguettio a parte, pressoché il nulla da chi ha il potere. E pressoché il nulla anche dai media di casa nostra, fatta eccezione per qualche testata di area cattolica.
    La situazione della “laica” Francia, stretta tra multiculturalismo e secolarizzazione galoppante, è che la dimenticanza di Cristo si accompagna alla perdita di amore (quello vero, che arriva fino alla Croce) e ragione, finendo per lasciare spazio ai loro opposti. Che poi hanno una chiara matrice diabolica, sia che si tratti di satanisti sia che si tratti di fondamentalisti islamici, e non è un caso che coloro che in questi giorni hanno profanato le chiese abbiano voluto dissacrare i tabernacoli e quindi, come già osservava padre Emmanuel, il cuore della nostra fede: la Presenza reale di Nostro Signore nel Santissimo Sacramento. I nemici di Dio ne sono consapevoli. Per porre rimedio a tanto male serve che ce ne ricordiamo anche noi, riscoprendo il tesoro di grazie che Gesù ci ha lasciato con l’Eucaristia.

    Ermes Dovico

  • France looks to push back against surge of anti-Semitism

    Marches against anti-Semitism have been taking place throughout France after 80 Jewish grave were desecrated in the French city of Alsace earlier this month. The demonstrations are part of a growing wider awareness in France about the rise of anti-Semitism in a country with one of the world’s largest Jewish populations.

    The most recent act of vandalism took place in the village of Quatzenheim, close to the border with Germany. The headstones were painted with Nazi symbols and references to the Elsassisches Schwarzen Wolfe (Black Alsacian Wolves), a notorious neo-Nazi separatist group that operated in the Alsace region in the 1970s.

    One of the marches against anti-Semitism that took place in Paris was attended by Prime Minister Edouard Philippe and two former Presidents,  François Hollande and Nicolas Sarkozy, along with a few members from the controversial Yellow Vest movement.

    The Yellow Vest movement has been dogged by accusations of anti-Semitism ever since the group led violent protests in the streets on central Paris late last autumn. Most recently, a video from tied to the Yellow Vest movement featured a character who referred to himself as a  “dirty Zionist” went viral on social media.

    Yellow Vest protesters also launched anti-Semitic abuse at Ingrid Levavasseur, who tried to lead a list of the protest movement in the coming European Parliament elections.

    Recently the headquarters of daily Le Monde was sprayed with graffiti that used anti-Semitic slogans in reference to President Emmanuel Macron‘s former job as a Rothschild investment banker. Other graffiti across Paris called Macron a “Jews’ Bitch” and a “Jewish pig.”

    Last year, French police recorded a 74% surge in anti-Semitic crimes.

  • La France aurait-elle oublié la liberté économique?

    Texte d’opinion publié le 7 novembre 2018 sur Capital.fr.

    Dans le confort de notre richesse occidentale, notre quotidien tend à nous faire oublier la principale source de notre niveau de vie élevé: la liberté économique. Des millions d’individus dans le monde nous l’envient, alors qu’ils subissent quotidiennement la pauvreté et l’oppression politique qui découle de l’absence de liberté en général. La liberté est une source de bienfaits, paradoxalement à redécouvrir dans une France qui peine à rétablir ses équilibres économiques.

    La liberté économique engendre la prospérité

    L’avantage le plus évident d’un régime de liberté économique est qu’il est le plus susceptible de mener à la prospérité générale, c’est-à-dire à des revenus et niveaux de consommation élevés ou croissants pour la plus grande partie de la population.

    La croissance économique dépend principalement de la qualité des institutions, et donc de la liberté économique. Hong Kong en fournit une bonne illustration. Ce minuscule pays dépourvu de ressources naturelles a toujours trôné au sommet de l’indice mondial de liberté économique publié chaque année par l’institut Fraser. Une liberté qui rime rétrospectivement avec enrichissement : alors que le PIB par habitant de Hong Kong équivalait à 58 % du niveau français en 1950, il en représentait 130 % en 1997 au moment de sa rétrocession à la Chine.

    Depuis quelques décennies, plusieurs gouvernements de pays pauvres ont heureusement permis une plus grande liberté économique, permettant à des milliards d’êtres humains de profiter de la croissance qu’elle facilite. Ainsi, entre 1981 et 2015, la proportion de la population mondiale vivant dans l’extrême pauvreté a chuté de 42 à 10 %.

    Un enjeu humain et sociétal

    Une production et des revenus par habitant plus élevés permettent aux individus d’adopter le mode de vie qu’ils préfèrent, plus matérialiste pour certains, plus spirituel pour d’autres. Certains choisissent plus de loisirs et moins de consommation. Bref, un revenu par habitant supérieur signifie plus d’opportunités pour plus de gens.

    Les pays les moins économiquement libres sont aussi ceux où la liberté politique est la plus restreinte. La liberté économique et les autres composantes de la liberté individuelle font généralement partie d’un tout. On observe effectivement une forte corrélation entre l’indice de liberté économique et l’indice de liberté politique de l’organisation Freedom House comparant les pays selon les droits politiques et les droits civils.

    Bien sûr, la liberté économique n’est pas une condition suffisante de la liberté individuelle en général. On connaît des États autoritaires qui permettent une large mesure de liberté économique. C’est le cas par exemple de Singapour. En revanche, la liberté économique semble bien constituer une condition nécessaire de la liberté individuelle : on imagine difficilement une liberté individuelle conséquente si les individus se voient dicter quoi acheter et vendre et où travailler.

    Une notion à redécouvrir en France ?

    Évidemment, un certain niveau d’intervention de la part de l’État est inévitable, notamment pour les échanges qui imposent à des tiers des coûts significatifs qui ne sont pas compensés par des avantages plus élevés : c’est ce que l’on appelle les «  externalités négatives  ». Un exemple se trouve dans les cas de pollution qui ne peuvent aisément être résolus par des droits de propriété librement transférables. Ceci étant dit, il est préférable de viser un minimum d’interventions afin de ne pas perdre les bénéfices de la liberté économique.

    Les politiques publiques devraient donc s’appuyer sur une forte présomption en faveur de la liberté. Cette présomption ne devrait être mise de côté que dans les rares cas où il est possible de montrer que l’intervention publique profite pratiquement tout le monde. En cas de doute, la liberté économique devrait prévaloir.

    Paradoxalement, ce message peut paraitre révolutionnaire en France, pays ayant retenu la notion de Liberté dans sa devise. Nous sommes seulement le 57ème pays sur 162 en termes de liberté économique. Au sein de l’Union européenne nous sommes parmi les derniers en la matière, en 24ème position sur 28. A l’exception de la Hongrie, de la Slovénie, de la Croatie et de la Grèce, tous nos voisins font plus confiance que nous à la liberté économique. Notre propension à nous en défier, en préférant miser sur des politiques « volontaristes » explique sans doute en partie pourquoi nous peinons aujourd’hui à retrouver une croissance significative. Le chômage et les déficits publics restent endémiques chez nous, nous restons les 25ème sur 28 pays de l’Union européenne sur ces deux domaines. Des contreperformances qui montrent qu’au lieu de chercher, en vain, à organiser la prospérité à coups de lois et de décrets, nous aurions probablement plus de chances de l’obtenir en libéralisant notre économie…

    Nicolas Marques est directeur général de l’Institut économique Molinari et Alexandre Moreau, analyste en politiques publiques à l’Institut économique de Montréal.

  • Gilets jaunes : une structuration est-elle possible ?

    A l’heure où le Grand débat national  est lancé, Elie Michel, politologue au département de science politique de l’Université de Lucerne, analyse la crise que traverse notre pays. Fortement contestataire, le mouvement des Gilets jaunes dure depuis maintenant trois mois. Mais est-il en mesure de se structurer, et que dit-il de notre organisation politique comme du lien entre classe politique et citoyens ?

    Que dit le mouvement des Gilets jaunes sur les partis politiques et les corps intermédiaires? Comment expliquer leur audience quasi-nulle dans ce moment que nous vivons?

    Je pense que cela vient de la nature-même du mouvement des Gilets jaunes. Tout a commencé sur Internet, par un processus de désintermédiation du politique. Sur les réseaux sociaux on fait de la politique par soi-même: on s’exprime, on s’organise, on se rassemble. Par conséquent, les corps intermédiaires deviennent inutiles. Ce mouvement s’est cristallisé sur le rejet des partis politiques – qui atteint un niveau record en France – et pas seulement sur le rejet d’Emmanuel Macron. Néanmoins, ce mouvement est né de manière très décentralisée, et d’ailleurs il n’y a pas un mouvement des Gilets jaunes, il y en a une multitude. Leur émergence est aussi la conséquence de l’élection présidentielle de 2017. Les partis sont très faibles, ils ont volé en éclats, les oppositions à l’Assemblée nationale sont très faibles. Le RN ne compte que huit parlementaires, LFI une vingtaine de députés, le PS est devenu inaudible… L’ensemble des partis sont affaiblis, y compris LaREM qui n’est pas un parti très fortement constitué. LaREM n’a ni base populaire, ni réellement de cadres formés: c’est un double problème.

    Nous voyons défiler les « actes » successifs des Gilets jaunes, la dizaine sera bientôt dépassée… depuis ses débuts, comment évolue le mouvement? Est-ce qu’il se structure?

    Le mouvement est très disparate, très hétérogène, il est très difficile d’identifier ses revendications. Sa grande force est d’arriver à mobiliser dans la rue une protestation qui a démarré sur internet, tout en gardant la composante réseaux sociaux. Ce ne sont pas les manifestations les plus nombreuses de l’histoire politique, mais elles sont constantes, régulières. De plus, les Gilets jaunes s’implantent là où les mouvements sociaux prennent rarement: dans des villes moyennes, des zones péri-urbaines, voire rurales. En revanche, on ne peut pas dire qu’ils soient en train de se structurer. Maxime Nicolle, Eric Drouet… les quelques figures qui émergent refusent une organisation centralisée et ils ont refusé la main tendue du Mouvement italien 5 étoiles (M5S). On compte à ce jour au moins une quarantaine d’associations et de petits partis Gilets jaunes, mais je ne crois pas que cela fasse la différence dans la mobilisation. Peut-être cela évoluera-t-il avec les élections européennes. Mais c’est aussi l’ambition de ce mouvement de paraîtrespontané. Si l’on devient ce que l’on a rejeté, on perd cette force spontanée de rejet de la politique classique.

    Cela semble difficile de perdurer dans ces conditions… Des mouvements de ce type ont-ils réussi la conversion dans d’autres pays ?

    Cela semble très difficile pour eux en effet. Il y a deux exemples que l’on peut comparer: le premier est le M5S. On note beaucoup de traits communs dans la manière dont le mouvement a débuté, une contestation de la représentation politique, un ras-le-bol, un rejet de la caste médiatique… mais les Gilets jaunes ont des différences notables: d’abord la violence, que le M5S a toujours catégoriquement rejetée. Chez les Gilets jaunes, il y a aussi beaucoup de dissensions internes et pas de leader. Le M5S a rapidement trouvé son credo politique: le rejet de la caste. C’est aussi un mouvement hiérarchisé avec une organisation interne très performante, et moins démocratique que ce qu’il revendique. La plateforme de démocratie directe appelée « Rousseau » est en réalité bien pilotée. L’autre exemple de mouvement analogue se situe en Islande: l’île a connu une sorte de révolution citoyenne en 2012, qui a elle aussi commencé par d’importantes manifestations. Elles ont débouché sur l’élection et en partie le tirage au sort d’une assemblée constituante, il y a eu un référendum sur une réforme de la constitution, bref, un changement politique très profond.

    Mais il y avait des leaders, des têtes d’affiche en Islande?

    Il y avait quelques leaders effectivement, mais ils n’ont pas pu se faire prévaloir comme figures du mouvement puisque le processus a été le plus démocratique possible, avec le tirage au sort de citoyens pour la rédaction de la nouvelle constitution. La différence réside dans le fait qu’ils étaient totalement non-violents et beaucoup plus dans la proposition. Il faut noter que le système politique islandais traversait une crise majeure et qu’il est plus à même de se réformer et de former un consensus, là où la France a un système très majoritaire. Autrement dit, pour les Gilets jaunes la seule opposition qui existe c’est l’opposition frontale.

    Luigi di Maio a tendu une main au mouvement, c’est peut-être cette main qui va permettre aux Gilets jaunes de se structurer?

    Je ne voudrais pas faire de prédictions mais je pense en effet que certains groupes de Gilets jaunes vont attraper cette main. Le M5S a vu les traits communs qu’ils avaient avec ce mouvement, et à l’heure où ils cherchent des alliés en vue des élections européennes, ils ont tout intérêt à essayer de s’y associer. Pour constituer un groupe parlementaire au Parlement européen, il faut des représentants de sept pays différents. Le M5S mène des négociations dans d’autres pays d’Europe, et en France, ils donneront tout leur soutien au groupe de Gilets jaunes le plus crédible. Il faudrait ensuite que cette liste atteigne 5 % pour avoir des représentants, ce qui est bien possible. Mais passé cette échéance, je ne pense pas qu’une structuration politique puisse perdurer. Si un parti des Gilets jaunes était créé, il serait inévitablement confronté à d’autres Gilets jaunes qui feraient son procès en illégitimité. La base commune repose uniquement sur le rejet de la caste, et d’Emmanuel Macron – ce qui est trop étroit pour constituer une organisation stable

    Le poids des réseaux sociaux est très marquant dans cet épisode, est-ce la première fois que ce vecteur occupe une place aussi centrale?

    En France certainement. Pour continuer l’analogie avec le M5S en Italie, c’était aussi le cas, sauf que ce mouvement avait commencé sur un blog – celui de Beppe Grillo. Cette fois-ci, tout est vraiment parti des réseaux sociaux et des médias sociaux. Avec Facebook bien sûr, qui permet une communication instantanée, réactive et participative. Les chaînes d’information en temps réel participent de la même logique dans la mesure où elles donnent à un grand nombre de citoyens la possibilité de commenter ou réagir en direct, et offrent une tribune efficace aux manifestants. En France, les Gilets Jaunes constituent le seul mouvement à avoir aussi bien réussi la conversion du net vers la rue. Seulement, alors que le M5S réussissait à transformer rapidement cette colère en parti politique et même à devenir le premier parti d’Italie, ici l’absence de cohérence et de leader rend cette mue très difficile.

    Quel rôle attribuez-vous aux algorithmes des réseaux sociaux, qui défraient tant la polémique?

    Nous avons tendance à toujours accuser les réseaux sociaux de tous les maux. Soulignons avant tout que ces outils numériques permettent de reconnecter beaucoup de citoyens à la politique. Je pense qu’il faut rappeler les vertus de ces outils numériques pour la participation politique. La propagation des «infox» ou fake news n’est pas nécessairement le fait d’algorithmes, les internautes sont tout à fait capables de répandre eux-mêmes des infox. Ce qui est un peu plus inquiétant sur les réseaux, c’est la question des chambres d’écho : les gens sur les réseaux sociaux restent dans leur bulle sociale. En côtoyant uniquement des personnes aux mêmes opinions, ils renforcent leurs propres opinions. Ce phénomène n’est pas conscrit à ce mouvement, mais pose un problème plus général à la pratique démocratique. En s’informant essentiellement sur les réseaux sociaux, les citoyens sont de moins en moins confrontés à des informations et des points de vue contrastés. De fait, sur un groupe de Gilets Jaunes, personne n’émettra jamais d’opinion critique du mouvement, et c’est peut-être ce qu’il y a de plus dangereux. Contrairement à ce que l’on tend à dire, les réseaux sociaux réduisent les espaces de confrontation.

    Vous avez abordé un point intéressant qui est la reconnexion des citoyens à la politique grâce à ces outils numériques. Cela dit quelque chose en creux de la classe politique, qui oublie de faire appel aux citoyens dans sa prise de décision en-dehors des temps d’élection…

    L’utilisation de l’outil numérique par les partis traditionnels est effectivement conscrite au temps de la campagne électorale. C’est le moyen le plus rapide et le plus efficace de diffuser son message au plus grand nombre. En-dehors de la campagne, l’activité politique des partis sur les réseaux sociaux est bien moindre, et plutôt simplement informative, alors que le mouvement des Gilets Jaunes a montré que c’est un outil de mobilisation et de consultation efficace. Eric Drouet répète à chaque interview qu’il doit d’abord consulter les Gilets Jaunes (en ligne) avant de se prononcer. Et il fait voter: quelle position veut-on adopter pour ce point ? Peu de partis consultent leurs adhérents, et il y a encore moins de consultations plus larges… Ce mouvement initie vraiment la participation permanente.

    Le positionnement politique d’Emmanuel Macron, ou plutôt son non-positionnement durant sa campagne, a-t-il pu exacerber les tensions?

    On dit beaucoup d’Emmanuel Macron qu’il a fait éclater le clivage gauche-droite. En réalité, cet axe n’existe plus depuis assez longtemps, y compris dans l’opinion publique. Un certain nombre d’enquêtes pour l’élection présidentielle ont permis d’observer qu’il y avait au moins deux axes de division des partis et des citoyens. D’un côté, il y a la question économique, le marché, la redistribution. De l’autre, la question sociale, qui en 2017 s’est focalisée sur la question de la mondialisation. On est soit très pro-marché, soit très pro-état, et/ou soit très pro-mondialisation, soit très contre, au sens de l’Europe, du libreéchange, des aspects culturels et d’immigration. Ce qui divise le plus l’opinion en 2017, selon nos enquêtes, c’est cette question de la mondialisation – prise au sens large. Les deux candidats du deuxième tour de l’élection présidentielle représentaient deux oppositions radicales sur cet axe. Les deux candidats suivants avaient un positionnement un peu plus traditionnel, Etat-Providence contre marché et libéralisation. Autrement dit, les quatre premiers candidats, qui rassemblent chacun autour de 20 % des suffrages, représentaient quatre positions assez tranchées sur les clivages politiques en France. En revanche, une fois l’élection passée, le produit de notre système politique et électoral force l’installation de ce clivage gauche-droite. Notez qu’en représentant 65 % des voix, les partis de Le Pen, Mélenchon et Fillon représentent moins d’un député sur quatre ! Quant au Président de la République, ses électeurs semblent lui rester fidèles – son soutien dans les sondages correspond assez bien à sa base électorale. Son positionnement politique représente bien un courant important (20-30%) de l’opinion publique. Mais les institutions majoritaires de la Vème république le rendent disproportionnellement majoritaire – ce qui nourrit la défiance politique.

  • I venti anni dell’Euro

    Ieri “Il Patto” ha pubblicato un articolo sulla persecuzione dei cristiani, lamentando che su questo argomento il sistema dei media rimanga zitto e non informi, come dovrebbe essere naturale, di quel che succede ogni giorno, contro di essi, nel mondo. Ebbene, oggi ci lamentiamo perché i media hanno perso un’altra occasione. Il 15 gennaio a Strasburgo, il Parlamento europeo ha celebrato i vent’anni dell’entrata in funzione dell’Euro, un’occasione ottima per chiarire ai cittadini la funzione svolta dalla moneta comune, le sue eventuali debolezze, la cause di queste défaillance, i suoi vantaggi e le sue prospettive. Dopo tanto parlare che si è fatto durante la campagna elettorale del marzo scorso, dopo le tante accuse rivolte dai nuovi politici alla moneta comune, responsabile, secondo la loro sprovveduta non conoscenza – di tutti i mali che hanno colpito l’Italia (la povertà, la disoccupazione, la crisi finanziaria, la fuga dei giovani, il ridotto investimento di capitali stranieri nel nostro Paese, ecc.) sarebbe stato più che opportuno ed utile conoscere l’opinione di tanti personaggi esperti e competenti, sulle virtù e sui vizi dell’euro. Dal dibattito parlamentare, tuttavia, sono emerse sostanzialmente due elementi inoppugnabili, nonostante ciò che ne dicono i detrattori o i giovani politici attuali che si permettono di parlare di finanza internazionale avendo soltanto un’esperienza da baristi e da galoppini. Il primo è il suo riconosciuto e straordinario successo. Il secondo attiene alla forza di chi ha attuato questa impresa nella crisi finanziaria globale, la quale è durata dieci anni, cioè oltre la metà della vita dell’euro e di due terzi della sua circolazione fisica. Sono dati inoppugnabili, non opinioni, e Renzo Rosati, su Il Foglio del 16 gennaio, afferma che “la situazione avrebbe stroncato qualsiasi altra istituzione e alleanza multinazionale”. A riprova, cita il caso del dollaro, che fu scelto come moneta dagli Stati Uniti nel 1785, ma che solo dal 1929 la Federal Reserve  ne stampa le banconote e agisce da Banca centrale e prestatrice di ultima istanza. Il dollaro ha impiegato un secolo e mezzo per il suo rodaggio. L’euro soltanto venti anni. La forza a questa impresa l’hanno essenzialmente data soltanto due persone: Angela Merkel e Mario Draghi. La prima ha dovuto battersi anche con il suo governo e con la Bundesbank, talvolta riluttanti verso le decisioni della BCE. Ebbe scontri assai duri con il suo ministro delle Finanze Wolfang Schauble, che tra l’altro aveva un forte impatto sull’opinione pubblica. Il che sta a significare che la posta in ballo era molto alta e che la Cancelliera sfidava anche l’opinione pubblica, certa com’era della bontà delle sue scelte. I fatti le diedero ragione, ma il logorio del potere cominciò a manifestarsi proprio in occasione delle ultime elezioni politiche del 24 settembre 2017, con le quali il candidato socialista Schulz scomparve dalla vita politica. L’euro nel frattempo, con le decisioni di Draghi, resistette all’onda d’urto della crisi e alla cattiva gestione delle banche nell’utilizzo smoderato dei “derivati”. Non solo si è salvato, ma si è  anche rafforzato. Nel suo rapporto  annuale relativo al 2017 della BCE Draghi ha fornito altri elementi di valutazione. Nonostante il rallentamento dell’economia non c’è all’orizzonte nessuna crisi fatale. Anche l’economia tedesca sta sfuggendo alla recessione e la fine del soccorso monetario rappresentato dal Quantitative easing non modifica la situazione di lenta ripresa. Dei 19 Paesi dell’eurozona, sola l’Italia si trova in guai veri. “Gran parte delle sfide  – ha aggiunto Draghi – sono globali  e possono essere affrontate solo insieme. La vera sovranità sta in questa Unione, perché altrimenti andrebbe persa nella globalizzazione. In questo senso l’euro ha dato a tutti i membri la propria sovranità monetaria e un potente motore  di crescita per sostenere i propri standard di vita”. Già, ma l’Italia è in fondo alla classifica della crescita. Di chi la colpa, allora? Ma certo, dell’Euro! Così i governanti scaricano sulla moneta che ha compiuto quei miracoli la responsabilità del loro fallimento. Incredibile! L’Unione europea, infatti, è oggi l’area più ricca e omogenea del mondo, che conta 350 milioni di abitanti, un poco di più degli Usa, ma con un Pil appena al di sotto di quello americano. I due maggiori protagonisti della storia dell’euro sono quasi giunti al termine della loro parabola. Non vediamo nessuno all’orizzonte che possa sostituirli nel portare a termine l’opera iniziata da loro a favore della moneta unica. La BCE dispone di strumenti ancora limitati rispetto alla Federal Reserve, che può intervenire direttamente sul cambio e che continua ad aumentare i tassi, cosa ancora molto problematica per la BCE. Le critiche all’euro sembrano diminuite, anche se l’euroscetticismo di Matteo Salvini l’ha portato ad accusare la BCE di prevaricazione e causa di instabilità per i risparmi. Che al coro contro Strasburgo e l’Unione s’aggiungano Di Maio e Di Battista, è normale. Tra esperti ci si intende. Ma che ad essi si unisca la voce del vicedirettore del Corriere della Sera Aldo Cazzullo, la dice lunga sulla correttezza dell’informazione e soprattutto sulla sua completezza. “Un compleanno nel quale non c’è molto da festeggiare” – ha dichiarato a proposito della seduta speciale del Parlamento europeo sull’anniversario dell’euro. L’opinione è la seguente: solo la Germania ci ha guadagnato. La Francia è stata una delle nazioni più penalizzate e peggio è andata per le altre grandi economie continentali: la spagnola e l’italiana. E’ un’opinione. Ma i numeri contano qualcosa? Pare dicano il contrario. Senza euro e aggancio con la Germania la vulnerabile economia francese non avrebbe retto alla crisi, tanto meno il suo debito pubblico. Quanto alla Spagna, ancora meno. Per l’Italia, giudicate voi. I numeri dell’ultimo sondaggio dell’Eurobarometro ci confortano: nel 2018 gli italiani per l’euro raggiungono il 57%, (12 punti in più rispetto a un anno fa). I contrari sono scesi al 30%. I francesi pro euro sono il 59% e gli spagnoli il 62%. Vorrà pur dire qualcosa, anche senza informazione diretta o con un’informazione incompleta!

  • Strage al mercatino di Natale a Strasburgo: le lacrime ed il cordoglio non servono se tutto resterà come prima

    Alle famiglie delle vittime ed ai feriti giunga tra i tanti anche il mio pensiero. Ho ancora nei ricordi più cari le sessioni di lavoro del Parlamento europeo che, per 25 anni, una volta al mese, ho vissuto a Strasburgo ed i pochi momenti strappati al lavoro per visitare i mercatini di Natale in un’atmosfera particolarmente suggestiva. La violenza ormai da tempo colpisce ovunque, la violenza di attentatori organizzati o di folli imitatori, la violenza di una politica incapace che genera piazze violente, la violenza di singoli contro altri singoli, spesso i propri stessi congiunti, la violenza dell’informazione falsa che genera altre violenze. Nuovamente sarà un Natale che per troppi non rappresenterà un momento sereno e con questo pensiero vorremmo che i molti silenziosi e distratti trovassero la capacità di pensare che è il momento di ridisegnare la nostra società. Nel piangere le vittime non possiamo dimenticare che le lacrime ed il cordoglio non bastano, non servono se tutto resterà come prima.

  • Le dimissioni in Francia del ministro degli interni

    Della Francia, della sua scristianizzazione e dell’avanzata del radicalismo islamico abbiamo parlato a più riprese negli ultimi due anni, sempre per denunciare un arretramento e per sottolineare le omissioni dei dirigenti politici e degli uomini di cultura nei confronti di una situazione di declino rispetto ai traguardi tradizionali della civiltà francese, che poi era la civiltà occidentale. Ora, quasi a confermare la decadenza denunciata, ci troviamo di fronte alle dimissioni del ministro degli Interni, Gerard Collomb, sindaco di Lione per 17 anni, riconosciuto come un socialista saggio e moderato, coi piedi ben piantati per terra e poco incline ai richiami dell’ideologia. E’ stato un paladino della riuscita di Macron, l’ha immaginata e realizzata ed ora se ne è andato sbattendo la porta. La stampa, come al solito, ha voluto vedere in questo gesto la velleità di una nuova carriera, ma la scelta di Collomb è legata alla riconosciuta impossibilità da parte sua di lavorare come la situazione drammatica dell’ordine pubblico e della sicurezza richiederebbero, come egli vorrebbe per far fronte ai disastri dell’immigrazione e delle famose no go zones, nella quali di fatto non vigono più le leggi della Repubblica, ma quelle del più forte, dell’estremismo islamico, dei trafficanti di droga, della criminalità organizzata. Nel suo discorso d’addio, il ministro ha definitivamente squarciato il velo d’ipocrisia sulla faccenda. Finora non se ne era parlato e quando uno scrittore, Michel Houellebecq,  l’ha fatto con un romanzo è stato condannato dall’opinione imperante e dai gestori del pensiero “politicamente corretto”. Era da tempo che denunciava al governo a al Presidente la gravità della situazione e la necessità di interventi urgenti per garantire la sicurezza di interi quartieri e di intere aree del Paese abbandonate a islamici, spacciatori e criminali. E’ rimasto inascoltato e si è continuata la politica del silenzio e del lasciar fare. La situazione delle enormi aree degradate ed abbandonate alla “giurisdizione” islamica, però, gli è scoppiata tra le mani. E si è rivolto a Macron: “Signor Primo Ministro, ho un messaggio da trasmettere – sono andato in tutti questi quartieri], da quelli settentrionali di Marsiglia, da Mirail a Tolosa, fino Corbeil, Aulnay, Sevran (la cintura parigina) – la situazione è eccessivamente degradata e l’espressione “riconquista repubblicana” è particolarmente esemplificativa, perché oggi, in queste aree, è la legge del più forte che si è imposta: quella dei narcotrafficanti e degli islamici che ha preso il posto di quella della Repubblica. Dobbiamo ancora dare sicurezza a questi quartieri, ma credo che sia essenziale cambiarli radicalmente. Sono dei ghetti». Sono dichiarazioni del ministro, rimasto inascoltato. Ha squarciato il silenzio, è venuto meno al politicamente corretto. E’ stato onesto con la Repubblica e con sé stesso. Ed ha portato allo scoperto una situazione insostenibile. Il diritto d’asilo e l’immigrazione vanno fermati, “la situazione è già ingestibile”. Collomb ha parlato di “riconquista”; ha ammesso che la Francia è stata colonizzata, in parte, dall’islam. La legge francese è stata soppiantata dalla Shari’ah in un processo che è durato trent’anni. “Perché le autorità si sono arrese? – si domanda il ministro dimissionario. “Perché il contesto ideologico ha prevalso per troppo tempo, soprattutto nella scuola postmoderna, che ha fatto sì che la cultura delle scuse ai nuovi arrivati diventasse una procedura ufficiosa, La scuola francese è almeno dagli anni ’80 che si è fatta maestra di comprensione verso l’islam. Pensando in questo modo di comprare la pace sociale, s’è fatta complice della catastrofe attuale, da un lato non difendendo i principi della propria civiltà, dall’altro accettando vicende come, per esempio, quella di Creil. Dove nel 1989 le associazioni islamiche si misero a pagare le famiglie islamiche in Francia perché le loro figlie indossassero il velo in classe, allo scopo di tracciare una linea di demarcazione tra due culture che non possono interagire. Il suprematismo islamico è così iniziato con la colonizzazione anzitutto della scuola. Lo dice Collomb e comincia a dirlo, finalmente, anche la stampa, una certa parte della stampa. La “società inclusiva”, tanto propagandata dagli intellettuali e da una maggioranza politica, ha finito con espellere la civiltà occidentale dalla Francia. A farne le spese saranno i diritti delle donne. La stampa intanto comincia a raccontare la Francia a partire dall’immagine dei “territori perduti”, senza lasciarsi scappare l’occasione di dire tutto sull’affanno di un governo che ha perso il controllo in casa propria. Già, e dov’era la stampa quando tutto questo stava per accadere? Non ha visto? Non se n’è accorta? Ecco perché queste dimissioni di Collomb sono importanti e travalicano il puro gesto di uscire dal governo. Sono la denuncia ufficiale di una tragica e desolata situazione, sono un velo squarciato sull’ipocrisia ufficiale.

  • La visita di Moavero Milanesi al generale Haftar a Bengasi

    Il recente viaggio in Libia del ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, si inserisce in una situazione divenuta nuovamente esplosiva, dopo un periodo relativamente statico, senza attentati e senza attacchi armati tra una fazione e l’altra. Il governo Gentiloni si era dato molto da fare, senza riuscirci del tutto, per stabilizzare la situazione e non era stato in grado di conciliare le due fazioni più influenti: quella del Primo ministro Fayez al Sarraj, di stanza a Tripoli con il suo governo e con il Parlamento, riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto dal governo italiano, e quella del generale Khalifa Haftar, di stanza a Bengasi in Cirenaica, sostenuto dal governo di Parigi. Ora il caos sembra ritornato e una nuova milizia, il Movimento giovani di Tripoli, ha attaccato con razzi l’aeroporto della capitale, che è stato chiuso e spostato in quello di Misurata, distante 187 chilometri.

    L’inviato dell’ONU in Libia, Ghassan Salamè, ha auspicato la revisione degli accordi di sicurezza per Tripoli, riducendo l’influenza dei gruppi che usano le armi per i loro interessi particolari e che si sono abbandonati al saccheggio dello Stato, dei privati cittadini e delle istituzioni sovrane. Oltre all’aeroporto, un altro attacco è stato portato alla sede della “Noc”, la compagnia petrolifera nazionale libica, a Tripoli, minacciando di colpire anche i pozzi di petrolio. Lo Stato islamico ha rivendicato l’attacco il 10 settembre scorso, confermando che “i giacimenti di petrolio che sostengono i crociati e i loro progetti in Libia sono un obiettivo legittimo dei mujaheddin e i giorni a venire ne saranno testimoni”.

    In questo contesto burrascoso la visita di Moavero a Khalifa Haftar conferma la volontà dell’Italia di tenere aperto il dialogo con tutti, per evitare la caduta definitiva del Paese nelle mani delle milizie jihadiste. I buoni rapporti stabiliti con Il Cairo e quelli ormai consolidati con gli Emirati Arabi Uniti, entrambi sponsor di Haftar, hanno contribuito a vedere in Haftar un possibile interlocutore per garantire il ritorno della pace in Libia ed il raggiungimento di un equilibrio tra i due maggiori leader anti jihadisti, al Sarraj e Haftar, appunto. Moavero ha avuto a Bengasi un lungo e cordiale colloquio con Haftar. In un clima di consolidata fiducia “in cui vi è stata ampia convergenza per un’intensa cooperazione e sul comune impegno per una Libia unita e stabile”. Moavero ha auspicato che “ i cittadini libici devono essere messi in grado di esercitare la propria sovranità e di poter decidere liberamente il proprio destino”. Il riferimento è chiaramente rivolto alla Francia che vorrebbe le elezioni nel prossimo dicembre, mentre l’Italia considera che attualmente non vi sono le condizioni di sicurezza e di intesa nazionale necessarie. Haftar, tuttavia, ha espresso a Moavero il suo apprezzamento per l’impegno di politica estera dell’Italia, impegno ritenuto imprescindibile per la Libia, grazie anche alle svariate e articolate iniziative e proposte che lo caratterizzano. Il generale inoltre ha aggiunto di “essere pronto a dare il suo contributo per supportare attivamente la sicurezza, la stabilizzazione e il dialogo del Paese, per il bene di tutti i libici”. Un netto passo avanti, quello di Haftar, rispetto ad una recente intervista in cui definiva l’Italia come “il nemico”, minacciando un golpe militare contro “i terroristi” di Tripoli. Riavvicinamento concreto o solo di facciata? Una risposta l’avremo in novembre alla Conferenza internazionale sulla Libia ospitata in Italia. Se Haftar non vi partecipasse la conferenza perderebbe ogni significato, ma l’Italia, ciò nonostante, è costretta dai suoi interessi a perseguire un doppio obiettivo: da un lato coinvolgere Haftar per trovare un’intesa con Tripoli che favorisca la nostra ex colonia, ma dall’altro mantenere un saldo appoggio al governo di Al Serraj, perché in Tripolitania abbiamo i nostri interessi energetici ed è da quelle coste che si configurano le continue minacce dei flussi di immigrati illegali. Ma non si possono fare i conti senza la Francia che ha dimostrato di volersi interessare della Libia addirittura con una guerra disastrosa. Macron non mollerà la presa, ma dovrà rendersi conto che non potrà aspirare ad una leadership in Europa se nello stesso tempo vorrà perseguire una politica coloniale a suo uso e consumo in Africa, aggiungendo anche la Libia ai 14 Stati ex colonie, che già controlla accuratamente.

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