Francia

  • Jihadisti a piede libero in Francia

    Djamel Beghal, 52 anni, è a fine pena e il 5 agosto lascerà il carcere di Vezin, a Rennes, Francia. E’ stato uno dei maggiori reclutatori di Al Qaeda in Europa. E, soprattutto, è l’ispiratore dei fratelli Kouachi, gli stragisti del settimanale satirico Charlie Hebdo nel gennaio del 2015. Difficilmente resterà a Parigi dopo la liberazione. Sua moglie e i loro quattro figli vivono in una bella casa a Laicester. E’ là che Beghal, in clandestinità, ha tramato tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, viaggiando spesso verso l’Afganistan per incontrare l’allora capo di Al Qaeda, Osama Bin Laden. E’ stato uno dei principali reclutatori di Al Qaeda in Europa. Aveva progettato anche, ma senza successo, di far saltare in aria l’ambasciata americana di Parigi. Per aver organizzato un tentativo di fuga dal carcere di un leader del gruppo islamico armato algerino, nel dicembre del 2013, è stato condannato a dieci anni. Durante la sua permanenza al carcere di alta sicurezza a Parigi, Fleury-Megori, ha insegnato i trucchi del mestiere di terrorista a Cherif Kouachi che insieme a suo fratello è stato tra i kamikaze dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo. Il governo britannico ha vietato a Beghal, che ha un passaporto algerino, di entrare nel Paese. Ma i suoi avvocati hanno già ottenuto dalla Corte europea dei diritti umani di non farlo rientrare in Algeria, “perché la sua vita sarebbe in grave pericolo”. E quelle degli altri  che lui metterebbe in pericolo da dove si trova, le considera la Corte? Brutta storia quella dei diritti umani per i terroristi! D’altronde, Beghal è tra i 450 prigionieri estremisti che lasceranno le carceri francesi entro la fine del 2019. Tra loro ci sono ben 50 terroristi islamici acclarati. Il ministro della Giustizia francese ha dichiarato che si dovrà fronteggiare una grave emergenza, anche in virtù del fatto che presto tutti i criminali che durante la loro pena si saranno radicalizzati, acquisteranno la libertà. Il Procuratore francese dell’antiterrorismo considera che il rientro in società di queste persone rappresenta un rischio enorme, poiché fino ad ora nessuno di loro ha dimostrato di essersi pentito. E’ una minaccia interna rappresentata da terroristi pericolosi e potenzialmente recidivi, che sono a piede libero, una minaccia che s’aggiunge a quella dell’accoglienza, nel solo 2017, di 100 mila immigrati dall’Africa sub-sahariana e dal Nord Africa. Il ministro della Giustizia ha promesso un’azione efficace, ma molti ne dubitano e ricordano che il 19enne jihadista che nel 2016 ha tagliato la gola a padre Jacques Hamel a Saint Etienne-du- Rouvray, era sotto sorveglianza ed era monitorato con un braccialetto elettronico alla caviglia. Ciò non gli ha impedito di compiere il delitto che aveva programmato. In che cosa consisterebbe l’azione efficace promessa dal ministro? Concedere permessi carcerari per il reinserimento sociale, come è stato fatto con l’assassino di padre Harmel? Quali sono i criteri per concedere questo reinserimento? Sembra una bomba ad orologeria la politica francese per il reinserimento. Secondo i dati governativi circa 1.700 musulmani francesi di sono uniti all’Isis in Iraq e in Siria dal 2014. Almeno 278 sono morti e 302 sono tornati in Francia, tra cui 66 donne e 58 minori. Degli altri le tracce sono confuse. Ciò che comunque preoccupa seriamente i responsabili francesi è la miscela esplosiva che verrebbe a crearsi tra i musulmani radicalizzati in carcere e presto a piede libero, i jihadisti di ritorno in Francia dalla Siria e dall’Iraq e le bande musulmane che tengono in ostaggio interi quartieri. Sono le “zone vietate” controllate dai salafiti, il cui accesso è vietato soprattutto alle donne bianche. E’ là che verranno concentrate le armi, i Kalashnikov, procurati dagli spacciatori di droga, che finiranno nella mani degli islamici che intendono controllare meglio un territorio che sentono di loro proprietà. Le fonti del 2012 raccontano di circa sette milioni di armi illegali in circolazione. Il censimento delle zone controllate esclusivamente dai musulmani risulta ormai impossibile, ma quel che è certo è che in Francia risiedono oltre cinque milioni di musulmani. Di questi, il 10% circa è legato al mando salafita. Se il 10% in questione, dunque mezzo milione di persone, entrasse in contatto e finisse con l’allearsi con i jihadisti di nuovo liberi in Francia, nessuno sarà più in grado di combattere un pericolo del genere.

    Lo afferma un servizio giornalistico de “La nuova Bussola quotidiana” del 13 luglio scorso, dalla quale ricaviamo la notizia.

  • Sequestrati 2 milioni di euro al partito della Le Pen

    I magistrati transalpini non sono da meno di quelli italiani e hanno deciso di confiscare i 2 milioni di euro che il Rassemblement National (RN, ex Front National) avrebbe dovuto ricevere il 10 luglio, come gli altri partiti, a titolo di anticipo sul finanziamento pubblico. Il partito, per la decisione dei giudici che indagano sul caso, in cui il RN è accusato di aver impiegato a spese di Strasburgo assistenti utilizzati per il partito, rischia di dover rimborsare un danno di 7 milioni di euro. A tanto ammonterebbe la cifra indebitamente sottratta e per la quale sono sotto inchiesta 10 persone, fra le quali la Le Pen. “Confiscando la nostra dotazione pubblica senza sentenza su questo pseudo caso degli assistenti – ha scritto la presidente del partito di estrema destra francese su Twitter – i giudici applicano la pena di morte ‘a titolo conservativo'”.

    L’appello che la Le Pen ha già annunciato di voler presentare, “non è sospensivo” della decisione, definita dal partito “un colpo di mano senza alcuna base legale”, per il quale il RN “non potrà pagare gli stipendi” dei dipendenti. Tanto più, sottolinea un comunicato, che il RN non ottiene ormai da mesi alcun prestito dalle banche. In una lettera aperta ai sostenitori, Marine Le Pen invita i militanti a “rivoltarsi” contro “una dittatura che vuole uccidere il primo partito di opposizione”. “Il carattere politico dell’iniziativa non è neppure in dubbio”, aggiunge passando ad attaccare le toghe, “poiché uno dei due giudici è membro del Sindacato della Magistratura”, situato politicamente a sinistra, “e l’altro è un suo compagno di strada”. Il FN riceve finanziamenti pubblici per 4,5 milioni di euro, che rappresentano la principale fonte di finanziamento dei partiti in Francia, che nel 2018 devono incassare un totale di 68 milioni. Le indagini, che non hanno finora portato ad alcuna sentenza, hanno però ritrovato – a quanto si apprende – numerosi indizi come messaggi e-mail e tabelle in base alle quali si desume che i compensi di alcuni dipendenti venivano modulati sulla base di quanto messo a disposizione degli eurodeputati per gli assistenti parlamentari a Strasburgo.

  • Six arrested in Europe for alleged bomb plot against Iranian opposition in France

    Belgium authorities announced an Iranian diplomat was arrested, as well two other people, on suspicion of plotting a bomb attack on a meeting of exiled Iranian opposition groups in France.

    Amir S., 38, and Nasimeh N., 33, husband and wife, both Belgian nationals, “are suspected of having attempted to carry out a bomb attack” on Saturday in the Paris suburb of Villepinte, during a conference organised by the People’s Mujahedin of Iran, a statement from the Belgian federal prosecutor said.

    A close ally of Donald Trump, former New York mayor Rudy Giuliani, was in attendance at the rally. Three arrests were also made in France. The couple, described by prosecutors as being “of Iranian origin”, were carrying 500 grams (about a pound) of the volatile explosive TATP along with a detonation device when an elite police squad stopped them in a residential district of Brussels.

    A diplomat at the Iranian Embassy in Vienna was also arrested in Germany, according to the Belgian statement.

    The arrests came as Iranian President Hassan Rohani began a trip to Europe.

    Iran’s foreign minister Javad Zarif called the news a sinister “false flag ploy” and said Tehran was ready to work with all concerned parties to get to the bottom of it. “How convenient: Just as we embark on a presidential visit to Europe, an alleged Iranian operation and its ‘plotters’ arrested,” Zarif tweeted.

    The Iranian President Hassan Rouhani arrived in Switzerland on Monday evening  for a visit to Europe presented as “paramount” for the future of the Iranian nuclear agreement following the U.S. withdrawal from the pact.

    Rouhani is due to be in Switzerland on Monday and Tuesday before travelling on Wednesday to Vienna, where the July 2015 agreement that ended Iran’s international isolation, in exchange of the freezing of its nuclear programme and its commitment never to develop the atom bomb, was signed.

    Austria took over the rotating presidency of the European Union (EU) for six months on Sunday, while Switzerland represents the interests of the United States in Iran in the absence of diplomatic relations between the two countries. The Vienna Agreement was signed between Iran and the Group of 5 + 1 (China, France, Germany, Great Britain and the United States).

    The People’s Mujahideen Organization of Iran, also known by its Persian name Mujahideen-e-Khalq, was once listed as a terrorist organization by the United States and the European Union but is no longer. Founded in 1965 as a left-wing Muslim group, it staunchly opposed the Shah of Iran and was involved in the protests that led to his downfall and the establishment of the Islamic Republic in 1979.

    It initially endorsed the republic’s founder Ayatollah Khomeini but, after its leader Massoud Rajavi was barred from standing in the first presidential election, the MEK turned against the government.

    It launched an armed struggle to topple the Islamic Republic, claiming responsibility for the assassination of several high-profile figures. After fleeing to France, the movement steadily acquired the characteristics of a cult, with veneration of Massoud Rajavi and his wife, Maryam.

  • Il prossimo Consiglio europeo e il disaccordo italiano

    Lo si aspettava da tempo, soprattutto per i temi all’ordine del giorno: immigrazione, unione bancaria, unione monetaria. Tutti argomenti che sono sul tavolo da diversi anni e che mai venivano affrontati per una mancanza d’accordo tra i due grandi dell’Unione europea, la Germania e la Francia. Emmanuel Macron, il presidente francese, aveva smosso la acque con l’ormai famoso discorso della Sorbona nel settembre del 2017. Discorso considerato da alcuni come destinato ad entrare nella pluridecennale storia dell’Unione europea alla pari della “Dichiarazione Schuman” del 1950 che diede l’avvio al processo di integrazione. Dopo anni di crisi e di stasi, Macron faceva ripartire il processo con proposte riformiste che avrebbero messo in moto i meccanismi comunitari bloccati dall’inazione dei governi. Era un discorso che criticava coloro che hanno fatto passare l’idea di un’Europa burocratica ed impotente ed attribuito la responsabilità delle scelte e delle decisioni impopolari – tutte decise dai governi in seno al Consiglio dell’Unione – ai tecnocrati non eletti di Bruxelles. “Dimenticando, così facendo, che Bruxelles – affermava Macron – siamo noi, nient’altro che noi”. Abbiamo apprezzato la denuncia del risorgere dei mostri del nazionalismo, dell’identitarismo, del protezionismo, del sovranismo, tutte idee perniciose che credevamo sconfitte per sempre e perciò sottovalutate. Ma sono idee risorte che possono persino prevalere e che hanno permesso a due partiti italiani, contrapposti tra l’altro ideologicamente, di vincere le elezioni e di installarsi al potere. Sembrava allora che il discorso fosse l’inizio di una nuova fase della storia dell’UE, ma l’indebolimento di Angela Merkel, avvenuto prima sul piano elettorale e poi nella ricostituzione della “Grande coalizione” con i socialdemocratici, essi pure sonoramente sconfitti alle elezioni del 24 settembre 2017, non ha permesso sino ad ora un accordo con Macron sulla prospettiva da lui tracciata alla Sorbona. Pare ora che su alcuni punti, riguardanti l’emigrazione  e l’Unione bancaria, l’accordo con la Germania ci sia. In preparazione dell’avvenimento ci sono stati diversi incontri tra Macron e la Merkel e di entrambi con il presidente del Consiglio italiano Conte, dai quali sembravano emersi accordi sulle richieste italiane relative ad una gestione europea dell’accoglienza dei migranti. Questo tema era stato catapultato in primo piano dalla decisione del ministro degli Affari interni Salvini di vietare l’approdo ai porti italiani di una nave tedesca che trasportava 656 rifugiati gestiti dalle ONG, gesto che aveva indotto il presidente francese ed il portavoce del suo partito ad insultare il ministro italiano. La crisi che ne era scaturita nei rapporti con la Francia sembrava essersi risolta con la visita del presidente Conte al presidente Macron, il quale aveva dichiarato che i suoi giudizi sul comportamento del governo italiano non avevano assolutamente l’intenzione di colpire il ministro Salvini o chicchessia. Sembrava, dicevamo, stando a quanto riferivano i giornali sulle conclusioni dell’incontro. La Francia è d’accordo con l’Italia sulla futura gestione dell’accoglienza e riconosce che quest’ultima, da sola, non può sobbarcarsi il carico e l’onere dei migranti che scelgono le sue rive per trovare rifugio dalla miseria e dalle guerre. Sembrava, ripetiamo, perché ora, alla vigilia della riunione del Consiglio europeo, è trapelato il testo di un progetto francese che renderebbe responsabili della gestione i Paesi di prima accoglienza. L’Italia, quindi, essendo il primo dei Paesi di prima accoglienza, potrebbe vedersi rispedire i rifugiati che altri Paesi europei decidessero di respingere. Apriti cielo! Il governo italiano grida che non vuole essere turlupinato, che Macron e la Merkel avevano lasciato intendere la loro disponibilità per una gestione comune, non per la libertà di decisione in ordine al respingimento verso il Paese di prima accoglienza. Di fronte a questo eventuale voltafaccia il presidente Conte minaccia di non partecipare alla riunione del Consiglio europeo. “L’Italia non può essere presa in giro” e lascia intendere che potrebbe uscire anche dall’accordo di Schengen. Non si sa con quali risultati concreti, ma la minaccia è questa. Il Consiglio europeo dunque si preannuncia burrascoso, con o senza l’Italia presente. Ci domandiamo, tra l’altro, a cosa servirebbe la politica della sedia vuota. Nessuno, in assenza dell’interlocutore principale, potrebbe conoscere con esattezza la posizione italiana in ordine al problema all’ordine del giorno. La presenza invece permetterebbe di far conoscere al sistema dei media ed all’opinione pubblica europea, oltre che mondiale, che cosa propone in concreto l’Italia per contribuire a risolvere “l’invasione” dei migranti, con tutte le conseguenze che ne derivano, per la presenza massiccia di clandestini, per la sicurezza e per la legittima tutela dei valori culturali dei Paesi d’accoglienza. E sugli altri temi in agenda, quale sarebbe l’atteggiamento del governo italiano? Il fiscal compact rimane sempre tabù, o si avrà il coraggio politico di emendarlo? Lo stesso dicasi per il “bail-in”. Anche questi sono temi scottanti. L’assenza è sempre una presa di distanza che non giova ai nostri interessi, i quali vanno difesi tutti i giorni attraverso la funzione della diplomazia e dei comportamenti virtuosi. Se su questi temi non saranno prese decisioni definitive, anche le riforme auspicate da Macron alla Sorbona si allontaneranno nel tempo e la crisi europea contribuirà a rendere meno credibili le istituzioni dell’Unione, il che, in vista delle elezioni del 2019, non ci sembra una buona prospettiva.

  • Fermarsi è come perdersi

    Se non ricordo male lo slogan fascista affermava che “chi si ferma è perduto”. Stiamo constatando ora, dopo le elezioni del 4 marzo, che la politica italiana è ferma, bloccata dal confronto tra i partiti nel tentativo di formare una maggioranza governativa. E’ un confronto necessario ed inutile nello stesso tempo, perché si sa in anticipo che le distanze tra chi ha vinto e chi ha perso sono infinite e che, anche tra chi ha vinto, le opinioni divergono radicalmente in ordine ai programmi presentati all’elettorato, tanto da far pensare che una ricomposizione di compromesso sia quasi impossibile. Ma niente è impossibile in politica e tutto potrebbe accadere. Nel frattempo, però, tra i ripensamenti, i tentativi di verifica promossi dal presidente della Repubblica attraverso degli esploratori, che fino ad ora non hanno scoperto niente, la politica italiana rimane ferma, nel senso che i temi dibattuti sono quelli funzionali alla formazione di una maggioranza, sono quelli politicanti, che non pensano al futuro ed alle riforme, ma soltanto al posizionamento tattico che potrebbe smuovere l’avversario verso l’accordo di potere. Intendiamoci!, è moneta corrente ovunque prendere tempo dopo le elezioni, soprattutto quando i risultati non assicurano la governabilità e la formazione conseguente di una maggioranza. I ritardi nelle decisioni da prendere non ci scandalizzano. In Germania sono occorso 171 giorni per giungere ad un accordo, che poi è stato stilato in 177 pagine, contenenti le scelte per il futuro riguardanti temi vitali per l’avvenire della Germania. Ma il ritardo italiano non è dovuto al tempo necessario per redigere un testo d’accordo. Di testi scritti non si parla proprio. Il tempo si perde nel porre veti reciproci, nel sottolineare le divergenze incompatibili, nel modificare il proprio programma nel tentativo di piacere all’avversario. Niente temi relativi al futuro dell’Italia ed alla sua collocazione più adeguata al contesto europeo ed internazionale. Niente analisi eventuali sul miglioramento del sistema, ma soltanto: quello non lo voglio nella eventuale maggioranza, quello non mi piace perché è diverso dal mio modo d’intendere la politica, ecc. E’ un ritardo sistemico il nostro, da Paese bloccato e senza la vitalità necessaria a farlo rimanere al passo. Per questo diciamo che è fermo. Lo è ancor prima delle elezioni. Lo è dal 4 dicembre 2016, giorno della sconfitta del referendum sul progetto di riforme. Non è quindi il ritardo che ci preoccupa, ma le cause che lo hanno prodotto, a partire dalla legge elettorale inadeguata a garantire governabilità e stabilità, e il fatto che intorno a noi l’Europa si muove. Domenica scorsa la Merkel, Macron e la May si sono consultati e hanno preso posizione contro gli Usa, che minacciano di applicare dazi alle importazioni dall’UE, e si sono chiesti se sostenere o meno il progetto americano contro l’accordo sul nucleare con l’Iran. Contestualmente si dovrà anche decidere se rinnovare o meno la sospensione delle sanzioni secondarie statunitensi verso Teheran, ovvero le sanzioni volte a impedire a parti terze di fare affari con l’Iran. Non sono temi da poco. Quali sarebbero le implicazioni di un mancato rinnovo della sospensione a livello regionale e internazionale? Quali le ricadute sulle relazioni transatlantiche, considerato che l’Europa ha più volte ribadito la necessità di preservare l’accordo e di mantenere una politica d’impegno verso Teheran? Francia, Germania e Regno Unito si concertano e rispondono a nome dei loro Paesi e indirettamente dell’Europa. E l’Italia? Può permettersi, date le sue relazioni commerciali con l’Iran, di rimanere fuori dal gioco? La diplomazia italiana, certamente, non rimarrà ferma. Ma il fatto di non partecipare al dialogo con i tre grandi che s’accordano su questi argomenti rendono debole la nostra posizione e difficile la difesa dei nostri legittimi interessi. Ecco perché i ritardi di cui abbiamo parlato sono anche responsabili della nostra debolezza sul piano internazionale oltre che europeo. Sembra che l’Italia sia scomparsa dal teatro globale della geopolitica e dell’economia. Stiamo creando un divario d’influenza e di credibilità nei confronti dei partner occidentali. Occorreranno tempo e grandi sforzi per colmarlo. “Loro avanzano – dice La Stampa – mentre noi discutiamo, distratti, di cose spesso piccole e, peggio, personalizzate, che paiono aver poco o nulla a che fare con le esigenze e le ambizioni di un grande Paese e dei suoi cittadini”. I cicli economici e storici si inseguono anche senza di noi. E chi sta fermo non è che sia perduto, ma subisce le scelte fatte da altri. Il che non è commendevole.

  • Parigi proroga la sospensione di Schengen, altri Paesi pronti a seguirla

    A fronte dei flussi in ingresso nella Ue, Parigi ha notificato all’Unione un prolungamento di altri 6 mesi dei controlli alle frontiere interne all’area Schengen, motivato dal rischio terroristico che la Francia sembra faticare più di altri ad affrontare (come evidenzia anche il recente episodio di Carcassone). I controlli, che sarebbero scaduti a fine aprile, resteranno in vigore fino a ottobre. Nessuna notifica è invece ancora arrivata da Berlino e Vienna, ma le due cancellerie hanno espresso analoga intenzione. Per Austria e Germania la scadenza dei controlli ad alcune delle frontiere interne è prevista per maggio. La Francia, il Paese dell’Unione più colpito dagli attacchi dell’Isis, ha in vigore controlli, a tutti i suoi confini, dal novembre 2015 Germania, Austria, Danimarca e Norvegia hanno ripristinato i check ad alcune delle proprie frontiere, con la crisi migratoria dei Balcani occidentali del 2015.

    Mentre gli Stati si muovono, si attendono passi avanti sulla proposta della Commissione europea, presentata ad ottobre, che consente controlli alle frontiere interne fino a 3 anni, per far fronte alla minaccia terroristica, attraverso una modifica del Codice Schengen. Una proposta spinta da Francia, Germania, Austria, Danimarca e Norvegia, che nel settembre scorso avevano scritto a Bruxelles per chiedere nuovi margini legali per andare avanti nel presidio dei propri confini. Nei mesi scorsi il governo di Roma aveva collegato la modifica al Codice Schengen con quella del Regolamento di Dublino, per evitare di lasciare tutto il peso sulle spalle dei Paesi di primo ingresso delle migrazioni.

  • Atti di cannibalismo in Francia in una zona franca dominata dall’islamismo

    La Francia è ormai scristianizzata. I cristiani sono una esigua minoranza e la vita religiosa ridotta al minimo. Lo dicono le statistiche e lo affermano illustri storici nei loro libri. Forse è anche per questo che la stampa tace su avvenimenti, non certamente considerati civili, che accadono in zone di Parigi completamente dominate dall’islamismo. Sono oltre 750 queste zone franche dove non si applica più la legge della Repubblica francese. Sono state calcolate nell’agosto del 2014 dalla rivista periodica Valeurs Actuelles. Nel luglio del 2012 il governo francese annunciava un piano per riaffermare il controllo su oltre quindici delle più famose “no-go zones”, cioè i distretti infestati dal crimine che il ministro deli Interni aveva designato come “zone di sicurezza prioritaria”. Sono zone in cui la presenza mussulmana è molto densa e che ormai sono proibite per donne e polizia. Zone di cui si torna a parlare a intervalli regolari, sebbene esistano ancora siti web o intellettuali che continuano a negarne ostinatamente l’esistenza. Chissà che cosa li spinge a negare la realtà che è sotto gli occhi di tutti e nonostante l’accadere di avvenimenti che balzano all’onore della cronaca. Come è successo nel 2005 in due banlieue (in due zone di periferia), quelle di Clichy-sous-Bois e quella i Montfermeil nel dipartimento Seine-Saint-Denis. Nell’autunno di quell’anno, infatti, i giovani islamici in rivolta bruciarono oltre 9000 autovetture, forse per affermare con gesti inequivocabili che quello era territorio loro. Nel 2011 un documento di 2200 pagine definiva quelle e tante altre zone come “società islamiche separate”, dove la Sharia, la legge islamica, stava rapidamente soppiantando il diritto civile. E’ mai successo un fatto simile nei quartieri e nelle zone quando la maggioranza era cristiana? Lo stesso documento definiva quegli immigrati mussulmani come individui cui l’integrazione e i valori francesi non interessano, il loro islam gli basta e tutto ciò che è francese, o europeo, o occidentale viene convintamente respinto, anche con la violenza. Nessuno, tuttavia, fa inchieste su queste zone o le cita quando in esse succede qualcosa di illegale. E’ ancora il caso accaduto in questi giorni in uno dei quartieri sopracitati: Clichy-sous-Bois. Soltanto Le Parisien e Le Figaro ne hanno parlato inizialmente in poche righe. Si è trattato di tre africani provenienti da Capo Verde, che sono stati arrestati per barbarie e cannibalismo. Hanno afferrato il quarto uomo che era con loro e hanno preso a morsi il labbro inferiore e poi l’orecchio. Ingoiano i pezzi che sono riusciti a strappare. Arriva la polizia e un’ambulanza. Niente di grave. E’ semplicemente cronaca nera, lasciano intendere i giornali. Solo il quotidiano “SudOuest” commenta in due righe che si tratta di un atto di barbarie bello e buono, che va al di là della pura cronaca nera. La denuncia parla anche di cannibalismo perché parte della carne strappata coi denti è stata ingoiata. Ma non vogliamo insistere su questo aspetto della vicenda. Ci colpisce però il fatto che in uno dei quartieri della periferia parigina, dove le bande islamiche hanno fatto terra bruciata, il sipario cali su simili atti di barbarie. La parola però passa al codice penale e al tribunale. Vedremo come andrà a finire, ma è indubbio che atti come questo di Clichy-sous-Bois ci riportano indietro di secoli. L’Europa importa barbarie e non solo non esporta più civiltà, ma addirittura assiste impavida, senza batter ciglio, a quanto le capita in casa. Sono tanti i sobborghi francesi dove impera la criminalità mussulmana. Alcune zone sono talmente pericolose che le ditte di consegna a domicilio hanno annunciato che non consegneranno più posta, come in Gran Bretagna. La stima delle “violenze gratuite” a livello nazionale in Francia è giunta a 777 violenze del genere al giorno. Una di queste, la settimana scorsa, ha visto un immigrato pugnalare sei persone nel 18° arrondissement di Parigi. Sia chiaro, non vogliamo criminalizzare gli immigrati. Ci meravigliamo che quando questi si comportano illegalmente, nessuno, o quasi, intervenga efficacemente per evitare il perpetuarsi dell’illegalità, come nel caso delle zone franche dove impera una legge, la Sharia, che nulla ha a che fare con la legalità francese. L’Islam e la laicité avanzano in Francia. Il cristianesimo diminuisce. Gli ebrei scappano di fronte alle continue aggressioni islamiche, senza difesa alcuna da parte dello Stato. E’ un bell’avvenire che si prepara nella Repubblica confinante con la nostra!

  • La scristianizzazione della Francia

    Paul Veyne, storico francese, è l’autore di un libro intitolato «Quando l’Europa è diventata cristiana. Costantino, la conversione, l’impero» (Garzanti libri e Feltrinelli). L’autore, nato a Aix-en-Provence nel 1930, è uno specialista dell’antica Roma, già allievo dell’Ecole normale superiore, è membro dell’Ecole française di Roma e professore onorario del College de France. E’ un non credente dichiarato che, in quanto studioso e storico, ha cercato di capire come il cristianesimo abbia potuto imporsi, tra il 300 e il 400, a tutto l’Occidente. In sintesi, Paul Veyne ritiene che le ragioni di questo successo siano tre: la conversione al cristianesimo dell’imperatore romano Costantino, che ha deciso di cristianizzare il mondo per salvarlo; il fatto che a un grande impero – egli ritiene – sia necessaria una religione come quella cristiana, totalmente inedita ed all’avanguardia rispetto alle religioni allora praticate; un’azione di proselitismo pacifico, senza fare vittime, senza creare martiri, che ha spinto le folle pagane alla conversione.

    Tre settimane fa, un altro storico francese, Guillaume Couchet, docente di storia contemporanea all’Università di Parigi, ha pubblicato un saggio che, già dal titolo, sembra la risposta al volume di Paul Veyne: «Quando il nostro mondo ha smesso di essere cristiano» uscito per le edizioni Seuil. Se per Vayne l’origine si identifica con l’imperatore Costantino, per Couchet una domanda precede la sua analisi: in che modo il cattolicesimo francese è diventato così rapidamente una religione minoritaria? La pratica domenicale, infatti, è calata di quasi un terzo dal 1955 al 1975. A questa domanda diverse sono state le risposte date dagli studiosi. Per alcuni la colpa è tutta del  Sessantotto, per altri è tutta colpa dell’enciclica di Paolo VI Humanae vitae che, opponendosi alla contraccezione, avrebbe scoraggiato una generazione di credenti. Couchet è invece arrivato alla conclusione che la rottura si è verificata esattamente  nel 1965, dopo il Concilio Vaticano II, ma prima del Sessantotto. Non è il Concilio che ha provocato la rottura, che avrebbe comunque avuto luogo ugualmente, ma l’ha innescata, conferendole un’intensità senza precedenti. Il Concilio, anche se lo precede, è nel solco del Sessantotto, perché quello era lo spirito del tempo. L’autore è d’accordo con un’altra studiosa, Danielle Hervieu-Leger, che nel libro «Cattolicesimo. La fine di un mondo», ha parlato di esculturazione, cioè la definitiva estromissione del cattolicesimo dalla cultura laica dominante, tanto che la «laicité» ha assunto la dimensione di una nuova religione, che al posto di Dio ha messo lo Stato. Il fatto che la Francia, considerata in altri momenti «la figlia prediletta della Chiesa», abbia rinunciato ad essere cristiana dovrebbe dare da pensare ai pastori attuali. Ma sembra invece che non ci sia reazione da parte dei responsabili religiosi. La situazione sembra veramente irrecuperabile. Le diocesi francesi – lo dice La Croix – perderanno in media un quarto dei preti attivi entro il 2024. A Nantes, i sacerdoti diminuiranno della metà, da 148 a 75. A La Rochelle da 104 a 45. Molte diocesi rischiano di essere cancellate dalla mappa delle Francia. Tra 10 anni non ci saranno più di 80 preti diocesani contro i 180 attuali – dice il vicario generale della diocesi di Tolosa. Nel 2015 sono stati ordinati 120 sacerdoti. Nel 2016 solo 100, di cui un quarto tradizionalisti e una quarantina provengono dalla società civile e non dai seminari. Il declino è confermato anche dalla diminuzione dei battesimi: da 385 mila nel 2002 a 290 mila dieci anni dopo. Tra il 1986 e il 2012 la percentuale di cattolici in Francia è diminuita di 25 punti, mentre la quota di altre religioni è progredita in modo significativo passando dal 3,5 nel 1986 all’11 per cento di oggi. Questa evoluzione è rappresentata principalmente dall’Islam. La scristianizzazione sembra irreversibile. Nel 2016 c’erano poco meno di 16 mila sacerdoti in Francia. Fra dieci anni ne avrà appena seimila. Erano 50 mila nel 1970. La Francia è diventata «la figlia prediletta» della laicità e dell’Islam. Nessuno però ci ha detto perché tutto questo è accaduto e nessuno ci ha spiegato se la situazione in Francia è migliore ora rispetto a quando il cristianesimo era ancora maggioritario. La sicurezza, la tutela delle minoranze, come quella ebraica, sono maggiormanete garantire ora? La dignità della persona è più salvaguardata ora rispetto a prima? I diecimila ebrei che hanno abbandonato la Francia la dicono lunga sulla pace interna e sulla laicità che non riesce a tutelare gli ebrei dopo quanto è avvenuto in Europa settant’anni fa. Se lo storico Couchet ci ha detto che il nostro mondo ha smesso di essere cristiano con il Concilio Vaticano II, non ci ha tuttavia spiegato perché questo è accaduto. Forse che il Concilio si è piegato alla secolarizzazione ed ha seguito il mondo, anzichè il vangelo di Gesù? Forse che una certa responsabilità l’hanno avuta anche coloro che hanno governato e che hanno involontariamente o meno, assecondato le conseguenze negative che constatiamo? Non a caso, forse, i due partiti che hanno diretto gli affari francesi dalla fine della seconda guerra mondiale sono stati spazzati via alle ultime elezioni politiche. Quale nuovo autore potrà farsi carico di queste risposte ?

    PS : I dati sui sacerdoti e sui battezzati francesi sono stati ricavati da un articolo di Giulio Meotti su Il Foglio

  • La Russia sorpassa la Francia per numero di spettatori al cinema

    Anche per il 2017 Media Salles, nei 36 paesi i cui dati sono già disponibili, rileva una crescita degli spettatori dei cinema, giunti a 1.329,4 milioni con un incremento del 2,1% rispetto ai 1.302,1 milioni del 2016.

    Emerge, tuttavia, una tendenza diversa in Europa Occidentale e in Europa Centrale e Orientale e del Bacino del Mediterraneo.  I 18 paesi occidentali, totalizzando 881,9 milioni di presenze, presentano una flessione dell’1,5% perdendo oltre 13 milioni di spettatori. Al contrario, negli altri 18 territori continua la crescita che li porta a quota 447,4 milioni di biglietti venduti, da confrontare con i 406,4 milioni del 2016, con un incremento del 10,1%.

    La Francia, che si conferma il primo mercato dell’Europa occidentale, pur perdendo circa 4 milioni di spettatori (-1,8%), registra il terzo miglior risultato dal 1968. Decisamente più sensibile la flessione registrata in Italia dove le stime elaborate da Media Salles, relativamente agli schermi attivi almeno 60 giorni l’anno, indicano 98,5 milioni di spettatori, con un calo di circa il 12% attribuibile in larga parte alla diminuzione dei biglietti venduti dai film italiani. La loro quota di mercato è infatti scesa, secondo i dati Cinetel, dal 28,7% del 2016 al 18,3% del 2017. In Spagna si riscontra una sostanziale stabilità: le stime indicano 101,2 milioni di spettatori con una limatura rispetto ai 101,8 milioni del 2016 (-0,6%). Più positivi sono i risultati della Germania, 123 milioni di spettatori, con un aumento dell’1,6%, e del Regno Unito, che guadagna oltre 2 milioni di spettatori (+1,4%) e torna a superare i 170 milioni di biglietti venduti. Il segno più caratterizza anche i Paesi Bassi (+5,3%), che sfiorano i 36 milioni di spettatori, continuando la serie positiva che li ha portati a raddoppiare le presenze della metà degli anni Novanta. Crescono anche il Portogallo (+4,4%) e l’Irlanda (+2,1%): entrambi i Paesi tornano a superare 2 soglie che non raggiungevano dal 2011. Il Portogallo supera largamente la quota dei 15 milioni di spettatori, l’Irlanda quella dei 16 milioni. Andamento positivo anche per la Finlandia, con un incremento di circa il 3,6%. Una sostanziale stabilità si registra in Svizzera che, secondo i dati oggi disponibili, uguaglia il risultato del 2016 (13,5 milioni di spettatori), in Belgio, dove il dato è però stimato, e in Grecia, dove ci si attende un incremento dello 0,7%.  Calano invece gli spettatori dell’Austria (-1,9%), della Svezia (-3%), dell’Islanda (-3,4%), della Danimarca (-3,8%). Più marcate le flessioni della Norvegia, che non riesce a replicare l’ottimo risultato del 2016 (13,1 milioni di spettatori) e attestandosi sugli 11,8 milioni scende del 10,3%, e del Liechtenstein (-17,6%).

    Nell’Europa Centrale e Orientale e nel bacino del Mediterraneo gli spettatori aumentano quasi dappertutto, seppure in misura diversa. Spiccano la Repubblica Serba (+27,7%), seguita da un grande mercato come la Turchia che vede i suoi spettatori superare per la prima volta la quota dei 70 milioni (71,2 milioni), con un incremento del 22,1%, legato anche all’apertura di nuove sale. Un eccezionale tasso di crescita si registra anche nella Repubblica Slovacca (+18,1%). Incrementi più vicini al valore medio sono quelli della Lituania (+10,7%) e della Russia che, aumentando del 9,8%, totalizza 213,6 milioni di spettatori e diventa così il mercato cinematografico più grande del continente, superando per la prima volta la Francia.  Segue la Polonia che cresce dell’8,7% e migliora ancora l’eccezionale risultato del 2016. In aumento anche la Romania (circa +7,4%), in crescita ininterrotta dal 2007, l’Estonia (+6,7%), la Croazia (+5,7%) e l’Ungheria (+2,1%) che sfiora i 15 milioni di spettatori, risultato che non otteneva dai primi anni Duemila.  Restano sostanzialmente stabili la Bulgaria (-0,2%) e Cipro (+0,7%). In controtendenza sono invece la Slovenia (-1,4%), la Lettonia (-1,6%) e la Repubblica Ceca (-2,5%).Questo paese resta comunque al di sopra della lusinghiera soglia dei 15 milioni di spettatori raggiunta nel 2016.

  • Libertè, fraternitè e spinello in Francia, maggior morigeratezza in Italia

    Secondo il nuovo studio Trend (Tendances récentes et nouvelles drogues – recenti tendenze e nuove droghe) condotto per il 2016 e i primi mesi del 2017 dall’Observatoire français des drogues et des toxicomanies (OFDT), le droghe illegali non sono mai state così alla ribalta in Francia.

    Oltralpe fioriscono “fattorie di cannabis” (4.000 piante) gestite da grossi trafficanti con piccole strutture (200-300 piante), condotte da giovani al passo con le tecniche e dagli stessi consumatori. In parallelo si sviluppano nuove forme di consumo: dalla sigaretta elettronica (e-liquide) al vaporizzatore. La cocaina conquista nuovi consumatori: si stima in 450.000 il numero di coloro che dichiarano di averla sperimentata almeno una volta durante l’anno, cifra quintuplicata in 20 anni secondo l’ultimo barometro della Sanità pubblica francese. Questa pratica concerne ormai un ampio spettro che va dalle persone emarginate ai festaioli del week-end ed ormai è cosa fatta il passaggio da un consumo occasionale ad uno regolare. La cocaina si trova ovunque: bar, club, festival, con una moltiplicazione dei punti di vendita nelle grandi città; gli spacciatori si organizzano in forma di call center e “drive de cité” (che permettono di acquistare senza scendere da un’automobile). I tassi di purezza (51% nel 2016) sono senza precedenti rispetto al 2000 (dove difficilmente arrivavano al 50%). Per l’eroina i sequestri sono quasi raddoppiati negli ultimi tre anni, ma la sua diffusione si sviluppa nel sud-ovest (Toulouse), sud-est (Marseille) e nella regione di Lyon, dove dei gruppi di albanesi si sono ben insediati dopo che la polizia svizzera li ha cacciati dal loro territorio.
    In Italia il 32,9% degli studenti fra i 15 e i 19 anni (poco più di 800mila) ha utilizzato almeno una sostanza psicoattiva illegale nel corso della propria vita, mentre il 25,9%, circa 650mila ragazzi, riferisce di averlo fatto nel corso dell’ultimo anno, secondo quanto afferma lo studio Espad Italia dell’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche (Ifc-Cnr), che descrive gli scenari e le tendenze presenti fra i giovani nel nostro Paese nel 2016.

    «La cannabis si conferma la sostanza psicoattiva illegale più diffusa. Quasi un terzo dei 15-19enni (32,4%, circa 804mila; maschi 37,7%; femmine 28%), l’ha utilizzata almeno una volta nella vita, il 25,8% (circa 650mila; maschi 30,9%; femmine 20,7%) ne ha fatto uso nell’ultimo anno. Dato confermato anche dalla Relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze dove si rileva che i quantitativi di sostanza sequestrati corrispondono a più del 90% del totale dei sequestri e le segnalazioni per detenzione di cannabis per uso personale rappresentano l’80% dei casi», afferma Sabrina Molinaro dell’Ifc-Cnr e coordinatrice dello studio Espad. «Al secondo posto per utilizzo tra i giovani studenti troviamo la spice, un cannabinoide sintetico che riproduce gli effetti della cannabis, particolarmente reperibile sul web: ne ha fatto uso l’11% (circa 275 mila ragazzi) almeno una volta nella vita e il 35,5% di questi (circa 98 mila) lo ha fatto 10 volte o più.  Si osserva, inoltre, la diffusione delle Nps quali oppiacei sintetici e catinoni sintetici come mefredone, ketamine, fenetilamine, utilizzate almeno una volta nella vita dal 3,5% degli studenti e quindi diffuse tanto quanto la cocaina o anche più diffuse se si considera l’eroina, utilizzate nella vita rispettivamente dal 3,6 e l’1,5 per cento dei ragazzi. Le nuove droghe sono diffuse anche tra le studentesse: il 2,8% le ha utilizzate almeno una volta nella vita. Quasi 20 mila sono le donne in trattamento presso i Servizi per le dipendenze per uso di oppiacei, cocaina e cannabis e l’universo femminile ha assunto caratteristiche preoccupanti, seppure consumi, denunce e arresti siano a livelli inferiori rispetto a quelli maschili: delle 32.992 persone segnalate all’autorità giudiziaria per reati droga-correlati, il 7% ha riguardato donne e quasi due terzi delle persone segnalate sono giovani adulti di età compresa tra i 20 e i 39 anni».

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