Geopolitica

  • Le incompatibili strategie

    Come reazione all’attentato terroristico dello scorso ottobre lo Stato di Israele ha scelto di rispondere in due diversi modalità. La prima attraverso quella che potremmo definire una guerra tradizionale nei confronti dello Stato palestinese, ma soprattutto di Hamas che lo amministra lungo la striscia di Gaza. Contemporaneamente, ed ecco la seconda opzione, i servizi segreti israeliani hanno mantenuto la propria operatività individuabile nella ricerca e successiva eliminazione dei leader delle diverse organizzazioni terroristiche, esattamente come nell’ultimo caso a Teheran con il campo di Hamas.

    La coesistenza di queste due strategie sta isolando completamente lo Stato israeliano all’interno degli schieramenti internazionali anche a causa di un errore clamoroso dell’amministrazione Biden. Appena insediato il quasi ex presidente degli Stati Uniti d’America tradì l’accordo, precedentemente firmato dall’amministrazione Trump, con l’Arabia Saudita che aveva portato all’isolamento politico, militare ed economico dell’Iran sciita e nemico storico della dinastia Saudita. La irresponsabile apertura statunitense alla Repubblica islamica ha permesso a quest’ultima di continuare nel processo di arricchimento dell’uranio, di sostenere finanziariamente i vari gruppi terroristici, di diventare un alleato della Russia di Putin e di confermare la propria volontà di abbattere lo Stato di Israele. Mentre l’Arabia Saudita, che assieme agli Stati Uniti rappresentano i due più importanti produttori di petrolio nel mondo, ha abbandonato la propria posizione di mediazione all’interno del mondo arabo ed ora all’interno di questa nuova e terribile crisi mediorientale rimane in posizione di attesa.

    In questo complesso sistema di relazioni internazionali e di guerra, le due strategie, (1) di una guerra totale, (2) di un azzeramento dei vertici delle diverse organizzazioni terroristiche attraverso l’azione dei servizi segreti, risultano incompatibili in quanto gli effetti di un compattamento degli avversari politici, ideologici e religiosi rischiano di diventare molto più gravi nella loro complessa gestione di quelli di un tradizionale conflitto militare.

    Una lungimirante politica vedrebbe innanzitutto coinvolta l’Arabia Saudita da parte degli Stati Uniti attraverso un nuovo accordo che andrebbe ben oltre l’elezione del prossimo presidente Usa, in modo da assicurarsi all’interno del vulcano medio orientale l’appoggio politico o quantomeno la neutralità del più grande stato di quella regione, anche in previsione di un possibile ingresso dell’Arabia Saudita all’interno dei Brics in un’ottica di sbarramento allo strapotere cinese.

    In altre parole, mantenere questa strategia israeliana risulta assolutamente impossibile e per risolvere bisognerebbe coinvolgere appunto l’Arabia Saudita in contrapposizione all’Iran ed alla sua teocrazia che intende ad accrescere lo scenario di guerra coinvolgendo gli Hezbollah libanesi.

    Uno scenario certamente complesso che richiede visioni a medio e lungo termine e competenze non comuni. Esattamente quelle che ancora una volta l’intera Unione Europea dimostra di non possedere in considerazione della sua più totale assenza da ogni situazione di crisi geopolitica internazionale.

  • Scelte che evidenziano determinati interessi geopolitici

    Possiamo scegliere quello che vogliamo seminare, ma siamo

    obbligati a mietere quello che abbiamo piantato.

    Proverbio cinese

    La scorsa settimana è stata molto attiva per il Presidente della Repubblica popolare della Cina, allo stesso tempo segretario generale del partito comunista cinese. Ha effettuato tre visite di Stato in Europa: il 6 ed il 7 maggio era in Francia, poi è arrivato in Serbia ed, infine, in Ungheria. Il Presidente cinese ritornava in Europa dopo cinque anni. Il motivo dichiarato ufficialmente delle visite in Francia ed in Ungheria era la celebrazione del 60° e 75° anniversario dell’instaurazione delle relazioni diplomatiche, rispettivamente, con la Francia e l’Ungheria. Mentre in Serbia si ricordava il bombardamento del 7 maggio 1999, durante la guerra in Kosovo, dell’ambasciata cinese a Belgrado dagli aerei della NATO. Bombardamenti che causarono la morte di tre giornalisti cinesi ed il ferimento di diverse persone. Ma un altro motivo importante delle visite del Presidente cinese nei tre sopracitati Paesi era quello economico e geopolitico.

    A Parigi il Presidente cinese è stato accolto all’Eliseo, il palazzo presidenziale, dal suo omologo francese. Durante l’incontro ufficiale ed ai successivi colloqui ha partecipato anche la presidente della Commissione europea. Quest’ultima ha affrontato, durante l’incontro, questioni di interesse per l’Unione europea, come le diverse controversie commerciali con la Cina. Ma è stata affrontata anche la situazione in Ucraina. Il Presidente francese ha sottolineato, tra l’altro, che il ruolo della Cina è decisivo, riferendosi alla guerra in Ucraina. Ma anche a quella nella Striscia di Gaza. Mentre, per quanto riguarda i rapporti commerciali tra i Paesi dell’Unione europea e la Cina, il Presidente francese ha ribadito che è necessario che siano stabilite e rispettate delle “regole eque per tutti”. Aggiungendo: “…L’avvenire del nostro continente dipenderà chiaramente anche dalla nostra capacità di continuare a sviluppare in modo equilibrato le nostre relazioni con la Cina”. Anche la presidente della Commissione europea, dopo l’incontro trilaterale, riferendosi alla guerra in Ucraina, ha dichiarato, che il Presidente cinese “…ha avuto un ruolo importante sulla riduzione delle minacce nucleari irresponsabili di Mosca” e di essere fiduciosa “che continui a farlo, anche alla luce degli ultimi sviluppi”. Ma ha anche chiesto alla Cina di intervenire sulle “minacce nucleari russe”. Mentre, per quanto riguarda i rapporti economici e commerciali, la presidente della Commissione europea ha sottolineato che con il Presidente cinese avevano discusso “delle questioni economiche e di commercio”. Specificando: “…Ci sono degli squilibri che suscitano gravi preoccupazioni e siamo pronti a difendere la nostra economia se serve”. Il Presidente cinese ha ammesso che tra la Cina e l’Unione europea ci sono “numerose controversie”, ma ha anche ribadito che “come due grandi potenze mondiali, la Cina e l’Ue devono rimanere partner, perseguire il dialogo e la cooperazione, approfondire la comunicazione strategica, rafforzare la fiducia reciproca strategica, consolidare il consenso strategico e impegnarsi nel coordinamento strategico”. Bisogna però evidenziare e sottolineare che, nonostante le massime autorità della Cina dichiarino la loro “neutralità” nell’ambito della guerra in Ucraina, la stessa Cina non ha mai condannato l’aggressione Russa in Ucraina. Non solo, ma fatti alla mano, risulterebbe che l’aumento reale degli scambi commerciali tra la Cina e la Russia durante l’anno scorso abbia contribuito a diminuire l’effetto reale delle sanzioni economiche poste dall’Unione europea, ma non solo, contro la Russia.

    Un altro Paese che ha stretto molti rapporti di vario tipo con la Russia è anche la Serbia. E in rispetto di questi rapporti, la Serbia, un Paese candidato all’adesione nell’Unione europea, non ha condiviso le sanzioni poste alla Russia dalla stessa Unione, dopo l’inizio della guerra in Ucraina. Ebbene, in seguito alla visita ufficiale in Francia, il Presidente cinese è arrivato in Serbia la sera del 7 maggio scorso. Ricordando così il bombardamento di 25 anni fa, proprio la sera del 7 maggio 1999, dell’ambasciata cinese a Belgrado dagli aerei della NATO.  L’indomani, l’8 maggio, l’illustre ospite è stato accolto dal suo omologo, il Presidente serbo, con tutti gli onori previsti dal protocollo ufficiale. Lui, dopo aver convintamente affermato il grande interesse della Serbia ad aumentare la collaborazione tra i due Paesi, ha ringraziato il Presidente cinese “…per aver scelto la Serbia come una tappa del suo primo viaggio in Europa dopo cinque anni”. Bisogna evidenziare che la Cina rappresenta il secondo Paese, dopo la Germania, per quanto riguarda i rapporti economici e gli investimenti fatti in Serbia. Mentre il Presidente cinese era in Serbia, veniva pubblicata dal quotidiano serbo Politika una sua lettera intitolata “Possa la luce della nostra amicizia d’acciaio risplendere sulla cooperazioni tra Serbia e Cina”. In quella lettera, tra l’altro, il Presidente cinese affermava che “…L’amicizia serbo-cinese, forgiata col sangue dei nostri compatrioti, rimarrà nella memoria condivisa dei popoli serbo e cinese e ci ispirerà ad andare avanti a grandi passi”. Nell’ambito della visita sono stati firmati ben 29 accordi bilaterali tra i due Paesi. La Serbia è uno dei Paesi che ha attivamente aderito alla nota iniziativa strategica cinese nota come la Nuova Via della Seta (in inglese Belt and Road Initiative; l’Iniziativa un Nastro ed una Via; n.d.a.). C’è stata anche un’espressa intesa politica e geopolitica. Per la Serbia, come dichiarato dal Presidente serbo, “Taiwan è Cina”. Lui ha altresì ribadito che la Cina sosterrà la Serbia in tutte le questioni che vengono discusse alle Nazioni Unite; compresa la questione del riconoscimento dello Stato del Kosovo.

    Dalla Serbia il Presidente cinese è arrivato in Ungheria. Una visita che coincide con il 75° anniversario dell’instaurazione delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi che hanno stabilito buoni rapporti di vario tipo, quegli economici compresi. Il Presidente cinese ha anche dichiarato che “…Cina e Ungheria sono buoni amici e partner che si fidano l’uno dell’altro”. E, guarda caso, la Cina finanzia quasi tutto il progetto della costruzione di una linea ferroviaria tra Budapest e Belgrado. Una linea che trasporterà merci di vario tipo, arrivate al porto greco di Pireo e dirette verso l’Europa occidentale. Un progetto parte integrante dell’iniziativa strategica cinese la Nuova Via della Seta. Bisogna sottolineare che l’Ungheria è il primo Paese dell’Unione europea che ha aderito a questa iniziativa, nota anche come Belt and Road Initiative. Il 9 maggio scorso l’ospite è stato onorato dalle massime autorità ungheresi. Ed anche in Ungheria sono stati firmati diversi accordi bilaterali tra i due Paesi.

    Chi scrive queste righe avrebbe altri argomenti di trattare per il nostro lettore, che riguardano  le scelte di collaborazione con la Cina, fatte dalla Serbia, dall’Ungheria, ma anche da altri Paesi. Scelte che evidenziano comunque degli interessi geopolitici, economici ed altro. Ma lo spazio non lo permette. Egli però chiude queste righe con un proverbio cinese che avverte: possiamo scegliere quello che vogliamo seminare, ma siamo obbligati a mietere quello che abbiamo piantato.

  • Bisogna impedire il peggio

    …Gesù entrò poi nel tempio e scacciò tutti quelli che nel tempio
    vendevano e compravano; rovesciò i tavoli dei cambiamonete
    e le sedie dei venditori di colombe e disse loro:
    “Sta scritto: la mia casa sarà chiamata casa di preghiera.
    Voi invece ne fate un covo di ladri”….

    Vangelo secondo Matteo; 21;12,13

    Ormai gli scandali in Albania sono talmente frequenti che sembrano parte integrante della quotidianità. Il che sta creando un altro male: quello di abituarsi al male. Che, perciò, diventa peggiore del male stesso. Appena l’attenzione pubblica, quella ancora non assopita, si rivolge a quanto è accaduto arriva un altro scandalo, che fa stendere un velo pietoso sul precedente. Come se si facesse apposta. Può anche darsi. Ma comunque l’irresponsabilità di coloro che governano, la loro convinzione di essere degli intoccabili e la loro avidità di appropriarsi di qualisasi cosa, non possono non produrre scandali continui. E la mancanza di moralità passa in secondo piano. Anche la reazione della parte sana dell’opinione pubblica bisogna però che sia quella giusta. Per impedire il peggio. Si tratta di fatti gravi, che violano apertamente le leggi in vigore e spesso anche la Costituzione. Sono scandali che coinvolgono i massimi livelli della classe politica, come ideatori e/o approfittatori e beneficiari. Scandali che, tra l’altro, stanno screditando il Paese, soltanto come una delle conseguenze.

    Gli ultimi due, accaduti o resi noti durante la settimana appena passata, sono altrettanto gravi. Uno riguarda le procedure dell’estradizione in Italia di una persona sotto processo in Albania, in aperta violazione, sia della legge albanese, che di quella internazionale. E guarda caso, si tratta del tesoriere e l’unico testimone importante arrestato in Albania, di una banda criminale di trafficanti di stupefacenti. Di quella banda, i membri della quale sono stati arrestati in Italia alcuni mesi fa e che, dalle intercettazioni della procura di Catania, sembrerebbe avessero la copertura diretta dell’ex ministro degli interni (2013 – 2017), loro parente, che è ormai indagato in Albania proprio per queste accuse. Nella sua gravità, lo scandalo viene “addobbato” dalle dichiarazioni irresponsabili, contraddittorie, ridicole e, perciò, poco convincenti dei più alti rappresentanti delle istituzioni direttamente responsabili dell’estradizione. Tutto sembrerebbe una messinscena ideata e attuata per giustificare l’ingiustificabile. Questo scandalo, in più, sembra essere stato preceduto da una serie di altre cose accadute ultimamente, tutte legate alle indagini sull’ex ministro delgi interni. Cose che non potevano accadere senza una determinata e ben precisa volontà politica e personale del primo ministro. Il tempo lo dimostrerà.

    L’altro scandalo in corso riguarda un multidimensionale accordo in corso tra l’Albania e la Grecia. Nonostante e contrariamente alle “rassicuranti” dichiarazioni del ministro degli esteri e del primo ministro albanese, alcune parti sensibili del contenuto dell’accordo sono state rese note pubblicamente dal ministro degli esteri ellenico la scorsa settimana, sia in parlamento, che davanti ai rappresentanti dei media. Dichiarazioni che non solo smentiscono quanto hanno detto e dicono i politici albanesi coinvolti, ma soprattutto, rendono trasparente quanto si sta cercando di nascondere in Albania. E si tratta di accordi a scapito degli interessi nazionali albanesi. Rimane tutto da seguire e da valutare, ma i segnali sono tutt’altro che rassicuranti.

    Tutto ciò, mentre la propaganda governativa, con la solita sua irritante demagogia cerca di nascondare e di insabbiare le verità. Ma sono talmente tanti gli scandali da coprire e metterli nell’oblio che sta diventanto un’impresa sempre più difficile. Adesso anche lo stendardo della riforma di giustizia non “entusiasma”, non attrae e, perciò, non convince più di tanto. Le tante cose e i tanti scandali ormai accaduti e resi noti hanno svalutato questa impresa che, dall’inizo, era stata un’impresa ardua, in salita e poco credibile.

    In una situazione del genere non aiutano neache le forti dichiarazioni dell’ambasciatore statunitense in Albania. Lo stesso ambasciatore che ha sempre “tuonato” per la riforma della giustizia, in piena sintonia con il primo ministro. Spesso oltrepassando e violando anche i diritti previsti dal suo mandato e quasi sempre tollerato e supportato dalla classe politica. Di quella riforma che doveva garantire la totale indipendenza del sistema di giustizia, come uno dei tre poteri della democrazia albanese in fasce, dai continui e arroganti interventi della politica. Sistema di giustizia che purtroppo, fatti alla mano, sta cadendo sempre di più nelle mani della politica e, cosa più grave ancora, nelle mani di una sola persona: del primo ministro albanese. Sono tanti i casi evidenziati e tutti sono veramente preoccupanti. Anche l’ultimo scandalo in corso, sopracitato, quello dell’estradizione in Italia di una persona sotto processo in Albania, potrebbe essere un esempio significativo. Ma l’ambasciatore non ha detto ancora niente. Lo stesso ambasciatore che, adesso che la riforma doveva essere attiva da quasi un anno, mentre non sono ancora attive neanche le strutture previste dalla Costituzione, non ha però espresso pubblicamente la sua opinione. L’ambasciatore, allo stesso tempo, sta tacendo per la costituzione di alcune strutture parallele da parte del governo, sempre legate al sistema della giustizia, con l’obiettivo di controllarlo. Lui non ha detto niente neanche per tanti altri scandali accaduti nel frattempo (Patto Sociale n.283), sapendo il vero perché. Insieme con lui, anche la rappresentante dell’Unione europea in Albania.

    L’ambasciatore staunitense sta tacendo per tutte queste cose ed altre, come ha taciuto per anni della cannabis, diventata un’allarmante problema anche per le istituzioni dello Stato che rappresenta. In realtà ha continuamente appoggiato quanto diceva il primo ministro sulla cannabis, e cioè negava l’esistenza e applaudiva i successi del governo, insieme con la rappresentante dell’Unione europea. È lo stesso ambasciatore che il 7 novembre scorso prevedeva la cattura dei “Pesci grandi” in gennaio (Patto Sociale n.288). Intendeva cioè la consegna alla giustizia “riformata” di alti rappresentanti della politica coinvolti in scandali e/o in altre facende legalmente punibili. Almeno queste erano le aspettative del pubblico. Gennaio è però passato e nessun “pesce grande” è caduto nella rete, come diceva convinto e sicuro il 7 novembre scorso l’ambascitore statunitense. Non è valso neanche un suo status in rete alcuni giorni fa, con il quale chiedeva al governo, alla polizia a alla procura “riformata” dei risultati concreti. Una richiesta che, visto quanto è successo, suona come un’altra, – l’ennesima – offesa fatta agli albanesi.

    Chi scrive queste righe è convinto che gli albanesi debbano finalmente ribellarsi, per rovesciare questa dittatura che si sta instaurando e scacciare via tutti i veri responsabili. È un loro sacrosanto diritto e dovere. Come Gesù scacciò tutti quelli che avevano fatto del tempio un covo di ladri.

  • Internet pericoloso in mano agli Stati, perché gli hacker lavorano per loro

    Tim Maurer, co-direttore della Cyber ​​Policy Initiative e fellow presso il Carnegie Endowment for International Peace, ha dato alle stampe il saggio Cyber ​​Mercenaries nel quale esplora le relazioni segrete tra Stati e hacker. Mentre il cyberspazio è diventato la nuova frontiera della geopolitica, sostiene l’autore, diversi Stati hanno fatto ricorso agli hacker come per delegare loro il perseguimento, in via informale, dei propri obiettivi di potere. Esaminando casi negli Stati Uniti, in Iran, in Siria, in Russia e in Cina, il volume sottolinea che le relazioni delle autorità pubbliche con gli hacker di stato sollevano quindi importanti domande sul controllo, l’autorità e l’uso di capacità informatiche offensive.

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