Giornalisti

  • A proposito di un ordine inutile

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di ‘Società Libera’ online

    Nella notte del 16 ottobre il Consiglio Nazionale ha approvato le linee guida per la riforma dell’Ordine dei Giornalisti che dovranno essere discusse e approvate dal Parlamento.
    In molti hanno dibattuto e continueranno a dibattere sulle modalità di accesso alla professione, sugli elenchi e sulla questione degli uffici stampa.
    Per parte mia, argomento brevemente lo sconcerto di fronte al cambio del nome in “Ordine del Giornalismo”. Se c’è un senso nella parola “giornalismo”, credo si possa ritrovare nel concreto prodotto dell’agire quotidiano dei singoli giornalisti; ai quali deve essere garantita la libertà affinché possano esercitare nella propria autonomia, responsabilità e creatività.
    Fatta salva la buona fede di chi ha attuato questa modifica “affinché sia chiara la funzione di un’istituzione deputata, per legge, a garantire il diritto dei cittadini a essere informati nel rispetto dell’Art.21 della Costituzione”, ho la sensazione che si tratti di una decisione avventata, soprattutto nei tempi in cui viviamo.
    Se per caso l’Ordine cadesse nelle mani di organicisti – per dirla con Luigi Sturzo – “che fanno degli organismi sociali delle entità per sé stanti”, dove andremmo a finire?  Costoro, credendosi sommi sacerdoti del Giornalismo, potrebbero imporre a tutti i loro colleghi cosa debba essere “notiziabile” e cosa non debba, invece, essere conosciuto dai cittadini.
    Un esempio a proposito del diritto alla conoscenza: quanti di noi sanno che il Partito Radicale è  una Ong di prima classe nel Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite – ECOSOC ? Quanti sanno che le democrazie occidentali sono riuscite a rintuzzare l’attacco della Russia che, appoggiata nel 2000 da Cina e Vietnam, voleva fosse espulso da quel comitato?

  • Di Maio verso l’espulsione (dall’albo dei giornalisti)

    Luigi Di Maio potrebbe incorrere in un’espulsione. Non dal governo (lì rischia di più il suo collega pentastellato Danilo Toninelli) né dal Paese (quando Matteo Salvini si dice favorevole all’alta velocità non allude a quella di un ordine di via al collega vicepremier), ma dall’albo dei giornalisti a cui risulta iscritto. «In relazione alle affermazioni del vicepremier e ministro dello Sviluppo, Luigi Di Maio, giornalista pubblicista, iscritto all’Ordine della Campania, rilasciate in seguito all’assoluzione del sindaco Di Roma, Virginia Raggi, l’Ordine della Campania seguirà le procedure previste dalla normativa vigente», ha fatto sapere Ottavio Lucarelli, presidente regionale dell’Ordine dei giornalisti, precisando che «dopo le numerose segnalazioni giunte gli atti saranno trasmessi al Consiglio disciplina regionale, così come previsto dalle norme». Anche il presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, ha lasciato intendere che Di Maio sarà sottoposto a procedimento disciplinare, onde valutarne la compatibilità con la professione giornalistica (Di Maio è iscritto all’elenco dei pubblicisti): «Parole senza precedenti nella storia della Repubblica nei confronti della libera stampa. Siamo convinti che chi si esprime così sia incompatibile col ruolo di ministro. Di Maio non fa retromarcia, noi non ci fermeremo, mentre stiamo ancora aspettando che per un minimo di coerenza lasci spontaneamente un sodalizio dove è in compagnia di quelli che definisce ‘infimi sciacalli’».

    Nell’ambito della procedura, avviata dal presidente dell’Ordine campano Ottavio Lucarelli dopo le dichiarazioni su stampa e giornalisti, l’esponente pentastellato potrebbe essere convocato per esercitare il proprio diritto di difesa (non è tenuto a presentarsi).

  • Martiri di carta, il racconto dei giornalisti caduti durante la Grande Guerra

    Sarà presentato mercoledì 31 ottobre alle ore 11 in Piazza Adriana 3 a Roma, nell’auditorium dell’Anmig – Associazione nazionale dei mutilati ed invalidi di guerra il volume Martiri di carta. I giornalisti caduti nella grande guerra a cura di Pierluigi Roesler Franz e di Enrico Serventi Longhi, edito da Gaspari, Udine, 2018, per conto della Fondazione sul giornalismo “Paolo Murialdi”. In 448 pagine, frutto di 7 anni di ricerche, si racconta la storia – finora mai scritta – di 264 intellettuali di tutte le Regioni italiane e in gran parte decorati al valor militare (fra i quali Battisti, Serra, Gallardi, Niccolai, Umerini, Stuparich e Timeus Fauro) morti nel conflitto mondiale 1914-1918. La maggior parte dei caduti erano giovani ventenni che, provenienti da tutte le parti d’Italia ed alcuni tornati appositamente dall’estero, avevano cominciato a scrivere su grandi e piccoli giornali e riviste. Si tratta in gran parte di personaggi di assoluto rilievo storico e di notevole importanza, rimasti purtroppo fino ad oggi del tutto sconosciuti.  Tra “i martiri di carta” che hanno perso la vita combattendo eroicamente per la patria, vi figurano cattolici ed ebrei, patrioti, politici, sindacalisti, nazionalisti, interventisti, neutralisti, massoni, socialisti, radicali, democratici, liberali, repubblicani, mazziniani, irredenti (trentini, giuliani, dalmati e istriani), garibaldini e nipoti di garibaldini della spedizione dei Mille, ex combattenti in Libia, Benadir, Eritrea e a Rodi. Alcuni giornalisti erano stati chiamati alle armi, mentre altri erano andati volontari al fronte quasi tutti come ufficiali in rappresentanza dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica. Ma sono poi finiti ingiustamente da oltre un secolo nel dimenticatoio. Martiri di carta è un contributo capace di interessare storici, giornalisti, appassionati e semplici lettori, anche in virtù della categoria scelta, quella dei giornalisti: storie vere, di uomini in carne in ossa, restituite grazie a una sistematica ricerca storica basata su un’ampia bibliografia, su centinaia di articoli di giornali e su documenti d’archivio.

  • Giustizia sottomessa non solo in Turchia

    È giunto ormai il tempo di andare, o giudici, io per morire, voi per continuare a vivere.
    Chi di noi vada verso una sorte migliore, è oscuro a tutti, tranne che al Dio.

    Platone; Apologia di Socrate

    “Passeremo il resto della nostra vita in una cella di tre metri per tre metri. Verremo portati fuori a vedere la luce del sole solo per una ora al giorno. Non avremo la grazia e moriremo in prigione. Sto andando all’inferno. Cammino nel buio come un Dio che ha scritto il suo stesso destino”.

    Così scriveva lo scorso febbraio Mehmet Altan, un giornalista turco di 65 anni, da una cella di prigione, dopo che un tribunale di Istanbul lo aveva condannato all’ergastolo aggravato. E con lui anche suo fratello Ahmet Altan, scrittore di 67 anni, di cui ultimamente è stato pubblicato un libro, anche in Italia, scritto in prigione e con un titolo molto significativo: Non rivedrò più il mondo. Una convinzione maturata dallo scrittore in questi anni, mentre sta soffrendo una ingiusta pena. Tutti e due sono in carcere dal settembre 2016. La dichiarazione che avrebbe compromesso lo scrittore, secondo l’accusa, è stata: “Qualsiasi siano stati i motivi che hanno portato in passato ai colpi di Stato militari in Turchia, prendendo le stesse decisioni, Erdogan sta seguendo la stessa strada”. Una dichiarazione quella, rilasciata da lui durante una trasmissione televisiva il 14 luglio 2016, mentre suo fratello giornalista è stato accusato di aver parlato, nella stessa trasmissione, di “…un’altra struttura […] all’interno del governo pronto ad agire”. Parole che sono state considerate, durante il processo, come chiari appelli per aderire al colpo di Stato, il giorno dopo.

    Insieme con i due fratelli, il 16 febbraio scorso, sono stati condannati all’ergastolo, in primo grado, anche quattro altri giornalisti. Tutti molto noti e con una lunga esperienza professionale, ma con una solo colpa: quella di non condividere il modo di fare del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Tutti e sei sono stati accusati di “attentato all’ordine istituzionale”, avendo appoggiato, secondo l’accusa, il mancato colpo di Stato del 15 luglio 2016. La pena che prevede, per i sei accusati, un regime di totale isolamento, avendo diritto a soltanto un’ora d’aria al giorno, e non potendo incontrarsi con i propri familiari, tranne che per alcune molto limitate ragioni. Lo scorso 2 ottobre i giudici della corte d’Appello di Istanbul hanno confermato la pena di primo grado per «attentato all’ordine costituzionale». Non è valso a niente nemmeno un appello, fatto all’inizio del marzo scorso, da trentacinque premi Nobel. Riferendosi al caso dei sei sopracitati incarcerati, essi chiedevano al presidente Erdogan “…un rapido ritorno allo Stato di diritto e una totale libertà di parola e di espressione”. Soltanto a luglio scorso però, risulterebbero confermate 84 condanne all’ergastolo, in seguito a processi giudiziari poco convincenti.

    Quanto succedeva tra il 15 e il 16 luglio 2016, nonché le gravi e continue ripercussioni ai partecipanti e/o presunti tali, nella ribellione contro Erdogan, sono ormai note all’opinione pubblica. Durante quelle ore morirono almeno 265 persone, tra dimostranti e militari. Decine di migliaia di persone sono state arrestate in Turchia, dopo il fallito golpe. Quello che è successo allora ed in seguito rappresenta un’allarmante realtà. Il presidente Erdgan, subito dopo il fallito colpo di Stato, ha ordinato l’epurazione dell’esercito, arrestando circa 2800 militari, compresi molti alti ufficiali. Ma non si è fermato nella sua corsa di vendetta contro i golpisti e/o presunti tali. Durante la campagna di epurazione non sono stati risparmiati neanche i giudici. Risulterebbero circa 2700 tali rimossi dall’incarico. E non poteva essere diversamente. Perché Erdogan aveva delle idee molto chiare su come e contro chi colpire pesantemente, per poi concentrare più poteri possibili nelle sue mani. Quanto ha fatto e sta facendo ne è una chiara e inequivocabile dimostrazione. Dopo il golpe del 15 luglio 2016 sono stati arrestate alcune decine di migliaia di persone, compresi cittadini stranieri. Risulterebbe che più di 150 mila dipendenti pubblici siano stati licenziati perché considerati “pericolosi”.

    Ma per portare al termine il suo progetto, Erdogan doveva controllare anche i media. Non solo giornali chiusi e decine di giornalisti incarcerati, ma anche oscuramento e controllo di Internet. Perché per il regime di Erdogan, anche internet, con le sue opportunità, rappresenta una minaccia da colpire. Da studi e inchieste fatte, risulterebbe che nelle prigioni turche attualmente siano trattenuti circa un terzo dei giornalisti e altre persone legate ai media, imprigionati in tutto il mondo. Risulterebbe anche che per non pochi di loro sono stati violati i diritti fondamentali, compresa anche la ritenzione per lungo tempo in carcere senza un regolare e dovuto processo giudiziario. I media non controllati sono stati presi di mira, per intimidirli e farli tacere. Così facendo, il regime di Erdogan cerca di soffocare qualsiasi azione di dissenso e di opposizione nei suoi confronti. Non mancano, poi, i casi in cui i giornali chiusi sono stati “acquistati” da persone che godono della fiducia e dell’appoggio del presidente.

    Purtroppo, quanto sta succedendo da alcuni anni in Albania, rappresenta una similitudine con quanto accade in Turchia. Ovviamente si tratta di due realtà diverse per molti aspetti. Ma la somiglianza non può sfuggire, se si considerano, tra l’altro, il modo in cui funzionano il “riformato” sistema di giustizia in Albania e i media. Sono due dei principali obiettivi preposti dal primo ministro, fin dall’inizio del suo mandato nel 2013. Obiettivi che, dati ed evidenze alla mano, sono stati ormai raggiunti. Attualmente il primo ministro albanese controlla, con modi pubblicamente noti, sia la giustizia che i media. Il che significa che ormai, controllando “per diritto acquisito” anche il sistema legislativo e quello esecutivo, il primo ministro controlla tutto. Ma il modo in cui sta esercitando il suo potere, dimostra palesemente che lui è diventato, purtroppo, un dittatore sui generis. E non poteva essere diversamente. Anche perché, e tra l’altro, il primo ministro albanese non solo non nasconde più le sue simpatie per il presidente turco Erdogan. Ma lui, come ha dichiarato pubblicamente alcuni mesi fa, considera Erdogan “il suo modello”!

    La scorsa settimana, uno scandalo reso pubblico, grazie a un’intervista di un ispettore di polizia rilasciata ad un media incontrollato (Patto Sociale n.326), ha messo in visibile difficoltà il primo ministro. Ragion per cui lui ha minacciato con la proposta, di trattare come atto penalmente perseguibile, la “diffamazione mediatica”. Chissà perché questa scelta e proprio adesso?!

    Chi scrive queste righe forse capisce perché diversi paesi europei potrebbero avere un determinato atteggiamento con Erdogan, Ma non riesce a capire però che cosa, invece, li lega con il primo ministro albanese, chiudendo così gli occhi di fronte alle sue malefatte!

    Circa un anno fa, lo scrittore Ahmet Altan, in una lettera aperta ai suoi giudici scriveva: “Se continuate a giudicarci e a metterci in prigione senza prove, violerete le basi stesse della giustizia e dello Stato. Il vostro sarà un grave crimine”. Quanto scriveva Platone nell’Apologia di Socrate circa 2400 anni fa è sempre attuale.

  • I giornalisti dovranno pagare 50 euro per seguire i summit europei a Bruxelles

    Il Belgio ha deciso dal primo giugno di far pagare una tassa di 50 euro a semestre ai giornalisti che seguiranno i summit europei, per coprire i costi dei controlli di sicurezza sui loro passaporti. La decisione ha provocato la reazione immediata dell’associazione dei giornalisti internazionali (Api) e di quelli belgi. “E’ discriminatoria”, sostengono, perché prima di tutto si applica soltanto ai giornalisti residenti in Belgio, e poi perché i free lance o i media meno conosciuti dovranno farsi carico di un costo extra non indifferente. “Non siamo d’accordo con la tassa”, ha detto una portavoce della Commissione Ue, invitando però i giornalisti a rivolgersi al Consiglio europeo che potrebbe avere voce in capitolo con il Governo belga. L’Api ha spiegato che la legge è stata approvata dal Parlamento belga a inizio 2018, senza alcuna consultazione degli organi di categoria o di altre istituzioni.

  • In attesa di Giustizia: riservatezza a due velocità

    In questo bizzarro Paese dove prosperano trasmissioni televisive votate alla anticipazione di condanne e i quotidiani riempiono le colonne con intercettazioni telefoniche anche estranee all’oggetto delle indagini suona come stonata l’iniziativa della Procura di Brescia che ha indagato per “istigazione alla violazione del segreto d’ufficio” un cronista di giudiziaria del quotidiano locale che ha subito la perquisizione e il sequestro dello smartphone e del tablet, contenenti verosimilmente notizie e informazioni coperte da segreto professionale.

    “Istigazione alla violazione del segreto d’ufficio”, così meglio dettagliando una accusa di istigazione a delinquere  presuppone oltre ad un istigatore ci sia, necessariamente, un istigato che a sua volta è sensibile alla sollecitazione.

    E in questo caso chi sarebbe il soggetto istigato se non  la stessa Procura della Repubblica, attraverso i suoi uffici, o la Polizia Giudiziaria?

    Qui, per fortuna, non corro rischi perché mai documento e commento fatti che non siano già di dominio pubblico o – comunque – non coperti da segreto istruttorio.

    La questione è allora un’altra: un giornalista è legittimamente alla ricerca di notizie e dispone di  fonti di informazione che nel caso della cronaca giudiziaria, o “nera” che dir si voglia, sono interne agli uffici giudiziari e alle Forze dell’Ordine che, per conto loro, dovrebbero invece mantenere il massimo riserbo su attività investigative non ancora approdate al dibattimento o – comunque – private della opportuna secretazione.

    Ciò premesso, è possibile che questi soggetti possano essere considerati  idonei a subire istigazione e non piuttosto custodi – a volte infedeli – di informazioni riservate e sensibili che non dovrebbero divulgare?

    Nel frattempo il giornalista ha visto violati i suoi archivi di lavoro informatici e non contenenti sicuramente altri dati coperti dal segreto professionale che gli è attribuito e diverse da quelle che avevano dato avvio a sospetti e un’indagine così impattante e della quale bisognerà verificare se vi fossero i presupposti per attività così invasive della sfera privata di un professionista.

    Fermo restando che deve essere stigmatizzata ogni pubblicazione illegale di atti di indagini in corso, l’idea che un cronista possa essere indagato per essersi procurato informazioni o averne sollecitato la condivisione a fonti per prime non avrebbero dovuto fornirle appare un po’ ipocrita.

    Ma tant’è: e se è vero che deve rifiutarsi l’idea del processo mediatico che lede la dignità delle persone accusate prima ancora che si giunga anche solo a una sentenza non definitiva, una iniziativa del genere di quella descritta, oltre alla considerazione già spesa sulla sua natura ipocrita lascia spazio alla domanda: chi custodisce i custodi?

  • Kuciak and Halet awarded prize for ‘Journalists and Whistleblowers’

    The murdered Slovak journalist Ján Kuciak and LuxLeaks whistleblower Raphaël Halet have been named the first recipients of the inaugural award for ‘Journalists, Whistleblowers and Defenders of the Right to Information’, by the European United Left/Nordic Green Left (GUE/NGL) in the EU Parliament.

    Named in honour of the late Maltese journalist, Daphne Caruana Galizia, the two have been jointly awarded for their work and their courage in exposing corruption and wrongdoing by the powerful.

    Kuciak has been posthumously recognised for his investigative work into tax fraud amongst businessmen with links to top Slovak politicians. His murder in February 2018 led to the toppling of the Fico government.

    Halet, meanwhile, is the former PwC employee behind LuxLeaks alongside Antoine Deltour. Halet helped to leak the documents that exposed multinatioals’ tax evasion in Luxembourg. He remains on trial for the exposé.

    This year’s award is named in honour of the late Maltese journalist, Daphne Caruana Galizia, and her sisters and son, Matthew, joined MEPs and invited guests to mark the occasion. The winners will receive 5000 euros for their work.

    The other nominees were:

    – Gjorgji Lazarevski and Zvonko Kostovski
    Two intelligence officers whose revelations about wiretapping of over 20,000 political opponents by ex-FYROM PM Nikola Gruevski’s government led to the cabinet’s resignation.

    – Julian Assange
    Founder of WikiLeaks who has been holed up inside the Ecuadorian embassy in London since 2012 to avoid probable extradition to the US.

    – Maria Efimova
    Former Pilatus Bank employee-turned-whistleblower exposed corruption relating to the Azeri and Maltese leaderships. Currently in Greece but wanted by Cypriot and Maltese authorities.

  • The Committee to Protect Journalists criticises Ukraine for use of force against the media

    The Committee to Protect Journalists (CPJ) has called on Ukrainian authorities to investigate claims that police attacked journalists covering a protest in Kiev, and to ensure the safety of the press.

    The New York-based media watchdog said at least two journalists were injured in Kiev at the weekend protest, when police dismantled a protest camp near the national parliament building.

    More than 100 opposition supporters were also detained amid clashes that left at least 20 people injured.

    “We call on all Ukrainian police to respect the right of journalists to cover political events without fearing for their safety,” CPJ Europe and Central Asia Program Coordinator Nina Ognianova said in a statement.

    “Ukrainian authorities must investigate attacks on journalists and punish those responsible to send a strong message that they support and protect a free press,” she added.

    A police officer allegedly used pepper spray in the face of Serhiy Nuzhnenko, who works for the Ukrainian service of the U.S. Congress-funded Radio Free Europe/Radio Liberty (RFE/RL), the outlet reported. Nuzhnenko was treated in a hospital for chemical burns, according to reports. Bohdan Kutiepov, with the independent television channel Hromadske, said a police officer kicked him and swore at him, according to the local Kharkiv Human Rights Protection Group. Both journalists said they clearly identified themselves as press, according to reports. The Kiev Prosecutor’s Office said that it has opened a criminal investigation into possible police obstruction of Nuzhnenko’s professional activities.

    It is not the first time that CPJ criticises the Kiev government. In September 2017, CPJ called on Ukrainian President Petro Poroshenko to reaffirm his commitment to ensuring journalists’ safety

    In three separate cases, on August 14, 29, and 30, Ukraine’s state security service (SBU) agents expelled international journalists, and barred them from the country for three years. On August 14, the SBU detained Tamara Nersesyan, a special correspondent for the Russian state broadcaster VGTRK, in the street in Kiev, and brought her to the SBU headquarters where she was questioned for three hours about her reporting in eastern Ukraine. On August 29, the SBU announced it had barred Spanish freelance journalists Antonio Pampliega and Ángel Sastre over their reporting on the conflict in the east, and for posting allegedly anti-Ukrainian messages on social media. On August 30, unknown people grabbed Russian journalist Anna Kurbatova on the street in the center of Kiev, and she was later deported.

    CPJ also expressed its disappointment over the lack of progress in the investigation into journalist Pavel Sheremet’s death in 2016.

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