Giustizia

  • In attesa di Giustizia: nel paese del diritto è talvolta buio fitto

    Nel libro dell’Apocalisse, il giorno del giudizio viene fatto coincidere con la fine del mondo; spigolando in un decreto legge in fase di emanazione proprio in quella che viene considerata la sua culla si direbbe che si voglia far corrispondere la fine del mondo del diritto e del giusto processo con il giorno in cui si celebra l’ultimo grado di giudizio e più nella sede giurisdizionale più alta del nostro sistema: la Corte di Cassazione, le cui decisioni sono finalizzate ad interpretare della legge e valutare la sua corretta applicazione.

    Così è se vi pare, e se non vi pare è così lo stesso: l’articolo 12 del Decreto Infrastrutture, intitolato modifiche al codice di procedura penale per l’efficienza del procedimento penale senza considerare che efficienza non è sinonimo di efficacia (che sarebbe preferibile), può ritenersi una sorta di iniezione letale somministrata al terzo grado del processo che trasforma la solennità della discussione davanti alla Corte di Legittimità, che si vorrebbe ricca di spunti e approfondimenti in contraddittorio, l’ultima fermata in attesa di giustizia, in un anodino scambio di e-mail tra i difensori, il Procuratore Generale ed il Giudice Relatore. Siamo di fronte alla mutazione genetica della Corte in un sentenzificio.

    I lettori penseranno: ma con le infrastrutture tutto questo cosa c’entra? Secondo le peggiori tradizioni della nostrana sciatteria normativa, questa disciplina che impatta sull’effettività del diritto di difesa è frammista, anzi in coda, alla regolamentazione di concessioni autostradali, al rafforzamento della capacità tecnica della fondazione lirico sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari, alle misure per il sostegno della presenza delle imprese italiane nel continente africano ed altre disposizioni totalmente disomogenee rispetto al rito penale.

    Una tecnica (parola grossa) normativa che richiama alla memoria la riforma del Testo Unico sugli stupefacenti comportante notevoli aggravamenti delle pene che fu inserita in un decreto legislativo avente ad oggetto aspetti organizzativi delle Olimpiadi Invernali del Sestrière con un eccesso di delega che non sarebbe dovuto sfuggire neppure a chi avesse studiato diritto costituzionale alle scuole serali…al buio ma che provocò per anni decine di migliaia di sentenze illegali prima che qualcuno se ne accorgesse ed alle quali fu solo in parte possibile porre rimedio. Andatelo a raccontare a chi ha scontato lunghe detenzioni a causa di una legge che, semplificando il concetto, non poteva neppure essere emanata. Non in quel modo, perlomeno, e fu fatta a pezzi dalla Corte Costituzionale.

    Parola d’ordine, dunque: efficienza, l’efficacia può attendere. Pervenire ad un tale risultato è impossibile in un sistema in perenne debito d’ossigeno con le risorse umane ed economiche e allora cosa c’è di meglio che sfrattare – un termine diverso non sovviene – gli avvocati dalle aule di cui sono considerati, all’evidenza delle riforme e della prassi, un orpello fastidioso, purtroppo costituzionalmente irrinunciabile, che fa perdere tempo tanto è vero che vi è stato anche chi, recentemente e con la solennità derivata dello scranno di provenienza, ha sollecitato i difensori alla massima sintesi perché con la discussione sottraggono tempo alla camera di consiglio ed alla ponderata decisione dei ricorsi. Tradotto: cari avvocati, non servite a niente.

    Ed allora, addio alle aule sostituendo un turbinoso intreccio di posta elettronica ai difensori che le scriveranno con impegno e passione non meno che amarezza mentre i Sostituti Procuratori Generali potranno redigere requisitorie severe ma giuste da spedire comodamente dal terrazzo di casa mentre sorseggiano un limoncello dopo cena e la lettura delle quali stimolerà il furore intellettuale dei Giudici relatori che potranno esprimere la loro diuturna applicazione allo studio estendendo ponderate relazioni anche dalla vasca idromassaggio.

    Tutto o quasi può, quindi, farsi senza l’incomodo di dover far presenziare gli avvocati in udienza e  – in barba al diritto di difesa – sono stati anche sensibilmente ridotti i termini di legge per la proposizione di motivi di ricorso nuovi e memorie: così “si fa prima”. Il segnale che viene dato non è equivocabile.

    Sia dunque benvenuto “l’avvocato in Costituzione” per garantire l’effettività della tutela dei diritti e quello inviolabile alla difesa come proposto da un’altra riforma messa in cantiere ma purché lo faccia senza disturbare più di tanto il manovratore che ha già tanti pensieri che alimentano il tormento della decisione. Come diceva qualcuno: nel Paese del diritto è talvolta buio fitto.

  • In attesa di Giustizia: insurrezione ed amnesia

    Magistrati, Pubblici Ministeri, Giudici di Tribunale e delle Corti, toghe rosse della rivoluzione e delle legioni, ascoltate! L’ora segnata dal destino bussa alle porte delle nostre aule…l’ora, l’ora delle decisioni irrevocabili: la dichiarazione di guerra è già stata consegnata ai Presidenti di Camera e Senato!

    Così, in buona sostanza, suona la chiamata alle armi dell’Associazione Nazionale Magistrati nel giorno più buio della sua storia: l’approdo al Parlamento del disegno di legge di origine governativa sulla separazione delle carriere che, fino ad ora, era riuscita a prevenire ed evitare.

    Il Presidente dei pasdaran dell’ANM, Giuseppe Santalucia, accanito avversario la riforma, è uno che, non a caso, ha saltabeccato tra uffici inquirenti e giudicanti ed ha alle spalle una brillante carriera fuori ruolo come vice e poi capo dipartimento dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia, senza contare altri incarichi di prestigio come magistrato addetto al Massimario della Cassazione (una struttura che con criteri quanto meno nebulosi seleziona le sentenze che vanno, poi, a blindare la giurisprudenza sulla base di precedenti decisioni) ed ha fatto esperienza anche presso l’Ufficio Studi del CSM, ed è proprio dalla voce di Santalucia che viene annunciata una mobilitazione articolata dell’intero Ordine Giudiziario.

    Dissotterrando l‘ascia di guerra, con minaccia di ricorrere ad un’astensione dalle attività giudiziarie senza precedenti, la magistratura associata intende, altresì, dar vita ad una campagna di sensibilizzazione del popolo italiano aggiungendone una nuova alle trite litanie con le quali viene ferocemente avversata questa riforma: la separazione delle carriere indebolirebbe le garanzie riservate ai cittadini dalla Costituzione, contrasta il loro interesse ad una giustizia giusta.

    Permane misterioso quale potrà essere in tutto ciò il contributo degli italiani che in tempi recenti hanno sottoscritto massicciamente un legge di iniziativa popolare proprio per la separazione delle carriere ed hanno votato una maggioranza parlamentare che l’aveva nel programma di governo…forse è un caso di amnesia ma le amnesie del sindacato delle toghe non finiscono qui: paventano una assimilazione del nostro processo penale al sistema americano – dove da sempre vi è la separazione delle carriere – che sarebbe privo di garanzie perché, tra l’altro, non è previsto il giudizio di appello, ed i P.M. sono sottoposti al potere politico. Per la verità, negli USA si può fare una sterminata quantità di appelli e ricorsi (persino per inadeguatezza della difesa mentre proprio da noi c’è la tendenza a marginalizzare gli uni e gli altri) e che i Pubblici Ministeri, diversamente da quanto accade ed accadrebbe in Italia anche dopo la riforma, siano connotati da una matrice politica perché elettivi, peraltro come i giudici. Tutto ciò a tacere del fatto che da quel sistema la nostra Cassazione, con il contributo dell’ufficio del Massimario di cui Santalucia ha fatto parte, stia mutuando il meccanismo della Corte Suprema che blinda i precedenti al punto che se è stato deciso che Gesù è morto di freddo da quella giurisprudenza è quasi impossibile discostarsi anche nei giudizi di grado inferiore. Amnesie.

    Naturalmente viene riproposto il timore della perdita di indipendenza della magistratura, non si sa bene in base a cosa posto che è assicurata dalla Costituzione sia ai giudicanti che ai pubblici ministeri in più articoli e con garanzie specifiche e che il giusto processo (articolo 111) sia affidato ad un giudice terzo, cioè senza “apparentamenti” con le altre parti. Ancora amnesie… In ultimo, la preoccupazione è che verrebbe limitata la possibilità di maturare esperienze diverse che arricchiscono il sapere e la cultura dei magistrati, come se la specializzazione in un settore debba essere vista un limite.

    L’ANM – così solerte in questo caso – sembra essersi dimenticata che anche altri problemi avrebbero meritato una civile mobilitazione da parte di coloro che amministrando la giustizia decidono della vita dei cittadini e, solo per citarne un paio come esempio, non si sono annotate manifestazioni di ansia con riferimento al fenomeno dei suicidi in carcere o alla mancanza di strutture adeguate per accogliere i condannati affetti da malattie mentali che vengono incarcerati senza adeguate terapie insieme agli altri detenuti. Amnesie, succede…

  • In attesa di Giustizia: metamorfosi e nemesi

    La magistratura associata preannuncia scioperi, sollevazioni di piazza e barricate contro il disegno di legge di origine governativa sulla separazione delle carriere dimenticando il dettaglio – non banale – che quel disegno di legge è stato controfirmato per autorizzarne la presentazione nelle Aule Parlamentari da Sergio Mattarella che, oltre che garante della Costituzione, è anche il Presidente del C.S.M.

    E’ una scenario che, in altri tempi, avrebbe visto Piercamillo Davigo schierato in prima fila in questo agone, possibilmente nei talk show che gli garantiscono assenza di contraddittori e non gli impongono limiti alla ben nota incontinenza verbale, nonchè sparando a palle incatenate contro la riforma ed il Ministro della Giustizia dalle colonne del Fatto Quotidiano.

    Invece tace, perlomeno più del solito: l’alfiere della eliminazione del secondo grado di giudizio – probabilmente suggerito in tal senso dai suoi eccellenti difensori – è stato impegnato nel seguire la stesura del corposo ricorso per Cassazione contro la sentenza della Corte d’Appello di Brescia che, confermando la condanna in primo grado per rivelazione di informazioni su indagini in corso coperte dal segreto istruttorio, ha messo il carico da novanta sulla sentenza del Tribunale che il  nostro aveva educatamente commentato affermando al cospetto dell’inclita utenza di intellettuali che si abbevera al podcast di Fedez che “a Brescia non sempre le cose le capiscono”.

    La motivazione è stata durissima e, tra i tanti passaggi, è dato leggere che: “Piercamillo Davigo si è determinato ad una sovraesposizione personale del tutto singolare non necessitata e che, per quanto ponderata, si è risolta in una serie di irrituali ed illecite confidenze che hanno poi sortito una fuga di notizie senza eguali precedenti”, “violazioni tutt’altro che formali” “Un’opera diffamatoria contro Sebastiano Ardita”. Quest’ultimo era un componente del C.S.M. ed ex sodale proprio di Davigo nella costituzione della corrente nuova della magistratura che gli faceva capo: ma si sa, i regolamenti di conti tra magistrati sono molto cruenti in quella che – ora sappiamo – è un’allarmante frequenza.

    Insomma, siamo al cospetto di una metamorfosi che lo stesso Davigo dovrebbe definire una “Berlusconizzazione”: per salvarsi, prima attacca i giudici poi impugna tutte le loro decisioni e, senza entrare in dettagli complicati per i lettori (anche un po’ superflui), è pronto a smentire se stesso ricorrendo ad argomenti difensivi ad assetto variabile.

    Ad una metamorfosi fa il paio la nemesi: infatti, la giurisprudenza sulla quale si fonda la sua condanna è frutto della costante elaborazione di principi risalenti in buona misura proprio a quella Seconda Sezione della Corte di Cassazione che Davigo ha presieduto per anni.

    Rispettiamo il principio di non colpevolezza ma, in Cassazione, troverà a contrastare le sue ragioni una dottrina che da qualche anno suscita perplessità nei nemici di un tempo, gli avvocati: la forza del giudicato (inteso come interpretazione di principi diritto stabilizzatasi che preclude, salvo casi eccezionali, ripensamenti), un concetto “all’americana” estraneo alla nostra tradizione, ed i limiti alla valutazione nel terzo grado di giudizio della cosiddetta doppia conforme…cioè a dire che se un Tribunale ha deciso in un modo e poi una Corte d’Appello ne ha confermato la sentenza, anche qualora abbiano argomentato e messe per iscritto delle grossolane bestialità va bene così e la Cassazione, salvo rarissimi casi, dichiara inammissibile il ricorso.

    Metamorfosi e nemesi: manca solo che affermi che non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca, tranne uno e sarebbe, tutt’al più, l’eccezione che conferma la regola. Sic transit gloria mundi.

  • In attesa di Giustizia: 2 giugno

    E’ iniziata, con prima tappa a Cagliari il 29 maggio, la maratona oratoria a livello nazionale della durata di due mesi organizzata dall’Unione delle Camere Penali: avvocati, docenti universitari, garanti dei detenuti e rappresentanti di associazioni, con interventi della durata di un’ora ciascuno, si alterneranno a staffetta per giornate intere davanti ai Tribunali per informare e coinvolgere la società civile sul tema delle condizioni e dei suicidi nelle carceri che sono già oltre trenta da inizio anno.

    Vigilando redimere era il motto del Corpo degli Agenti di Custodia prima che venisse trasformato in Polizia Penitenziaria e, senza scomodare Cesare Beccaria, dice tutto: il carcere deve essere un luogo destinato alla rieducazione e non una discarica umana nella quale rinchiudere uomini e donne – in attesa di giudizio, così come i condannati – a marcire con la punizione aggiuntiva della mancanza di igiene, spazi vivibili e strutture adeguate sia sanitarie che volte al recupero per restituirli migliorati alla libertà.

    La Repubblica festeggiata il 2 giugno è, purtroppo, lontana da quella pensata e disegnata dai Padri Costituenti, è una Repubblica sotto processo che negli ultimi trent’anni ha visto sfumare la funzione essenziale della Giustizia attraverso il conflitto tra magistratura e politica e poi – o, meglio, nel frattempo –  quello interno all’Ordine Giudiziario con rese dei conti e contrapposizioni che sono emerse in una realtà ancor più desolante e preoccupante di quanto si era immaginato dopo le rivelazioni di Luca Palamara e l’analisi impietosa che dell’indagine a carico di costui ha fatto Alessandro Barbano (licenziato dopo solo un mese dalla direzione del “Messaggero”, forse perché troppo liberale) in un libro in cui illustra come il regime delle intercettazioni distrugge vite e sovverte le regole del potere.

    Ecco, da trent’anni a questa parte le riforme, quelle strutturali e ragionate, l’adeguamento degli istituti penitenziari ai canoni costituzionali, il rispetto per le vite umane, hanno subito l’effetto di bracci di ferro come quello tra i magistrati e Berlusconi la cui morte non ha chiuso la partita; e poi, populismo normativo con leggi che sono meri spot elettorali, l’assalto al Quirinale con la sconclusionata inchiesta sulla Trattativa Stato-Mafia, le lotte intestine alle correnti per l’aggiudicazione delle Procure più ambite e chi più ha memoria più ne metta.

    Come dire: la storia d’Italia degli ultimi decenni si è scritta di più nei tribunali che nelle aule parlamentari e la deriva giustizialista non conosce confini: un esempio recentissimo si rinviene nella motivazione con cui è stata respinta la richiesta di scarcerazione dell’ex presidente dell’Autorità Portuale di Genova, Paolo Signorini: “perché non si è mostrato consapevole del disvalore della sua condotta”, insomma non si è pentito a sufficienza, stia in galera. Il ragionamento è più da Stato etico che di diritto e ben potrebbe essere uscita dalla penna di un GIP di Teheran come se il carcere dovesse servire a questo.

    Vittime di un sistema, questo sì autoritario ed arroccato nella protezione del proprio debordante potere,   sono state le centinaia di persone arrestate e assolte durante la stagione di Mani Pulite o sarebbe meglio dire mani grondanti di sangue se si considerano i quarantuno suicidi senza risposta risalenti all’epoca di Tangentopoli che ha segnato un modo di intendere la carcerazione preventiva che continua a mietere capri espiatori senza colpa né peccato mentre in carcere si continua a morire per una disperazione che non di rado è frutto della consapevolezza di patire ingiustamente quel tormento in condizioni che hanno indignato i partner europei o per sfiducia nella giustizia.

    Troppe sono le morti di chi lo Stato dovrebbe salvaguardare e recuperare, morti che sono delle ferite inferte alla democrazia e non solo “possibili fonti informative perdute” come ritiene, mostrando ripugnante insensibilità Piercamillo Davigo.

    Ma lo spirito di Einaudi e di quelli come lui che costituirono la classe dirigente del miracolo del dopoguerra è pur sempre nel DNA di questo Paese e dovrà pure tornare a manifestarsi insieme a quella disciplina ed onore che la Costituzione pretende dai cittadini, dunque anche i magistrati, cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di impiegare nel loro adempimento…in attesa di Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: R.I.P.

    Se il Governo, per la parata del 2 giugno, avesse fatto sfilare la portaerei Trieste nel Mar Nero e sbarcare il Battaglione San Marco a Odessa avrebbe generato meno apprensione che approvando il D.D.L. sulla separazione delle carriere dei giudici e pubblici ministeri…almeno tra la magistratura associata e nelle redazioni di Repubblica e del Fatto Quotidiano.

    Così è, se vi pare: dopo decenni di discussione dopo la promulgazione del codice che regola il processo penale nel 1989 con cui meglio si adatterebbe, quella che è una regola ordinamentale in molte democrazie occidentali di tradizione liberale, come il Regno Unito, sembra che stia per diventare legge anche da noi.

    L’Associazione Nazionale Magistrati, in nome della indipendenza ed autonomia della magistratura si paluda da intemerato paladino di questi principi che non sono messi in discussione da un progetto di riforma che, per il divieto imposto da più di un articolo della Costituzione, non potrebbe neppure sottoporre il Pubblico Ministero al controllo del Ministro della Giustizia condizionando o impedendone le iniziative.

    Ma, allora, se questa riforma non è un rischio per la democrazia – non è credibile che gentiluomini che i genitori hanno fatto studiare e praticano la giurisprudenza non lo comprendano – qual è o può essere il timore che attanaglia un gran numero (non tutti…) di appartenenti all’Ordine Giudiziario?

    A pensar male si fa peccato ma, a volte, non si sbaglia: le ansie sono, forse, di natura diversa? Magari quella perdita di chance che deriva dal poter transitare da una funzione all’altra senza insormontabili ostacoli traguardando l’obiettivo di sempre nuovi incarichi direttivi che sono anche la rampa di lancio verso prestigiose e ben remunerate posizioni fuori ruolo, elezioni al C.S.M, candidature…?

    In due parole può essere una questione di denaro e potere legati al raggiungimento di questi risultati di carriera per i quali il merito conta molto meno degli accordi spartitori tra le correnti della magistratura. Queste ultime sono tutte guidate da Pubblici Ministeri che – a loro volta – acquistano visibilità grazie ad inchieste gestite senza rispetto della riservatezza e spesso sviluppate applicando al contrario il criterio di Eudosso – un matematico dell’Asia Minore del V secolo A.C. – utilizzato per calcolare la superficie di figure geometriche irregolari: delimitano e misurano la superficie del teorema accusatorio come se gli indagati fossero già colpevoli conclamati, poi iniziano a centellinare dettagli alla stampa lasciando credere che si stiano avvicinando sempre più ad una verità assoluta facendo crescere interesse ed indignazione moralistica negli specialisti dei giudizi a priori e dando l’impressione che la quadratura del cerchio sia ormai prossima.

    La separazione delle carriere, ahimè, prevede la creazione di due C.S.M.: uno per i giudicanti e l’altro per gli inquirenti con la conseguente perdita di controllo dei P.M. sui giudici, subalterni ai poteri correntizi (profondamente politicizzati) che, allo stato, ne gestiscono incarichi e progressi in carriera per le ragioni dette. E poi, senza vergogna, parlano di timore di finire sotto il controllo del Governo…

    Il Guardasigilli, presentando la riforma, ha ricordato che la separazione delle carriere era stata auspicata da Giovanni Falcone, suscitando incomprensibile indignazione, tra gli altri, quella di Alfredo Morvillo (ex giudice) che ha negato vibratamente che suo cognato abbia mai sostenuto la separazione delle carriere ed anche che: “sia gravemente offensivo definire i giudici come passacarte delle procure, influenzabili solo per aver fatto lo stesso concorso. Ma risponde ad un’operazione portata avanti negli ultimi anni per diffondere sfiducia nella giustizia e quando in un paese viene meno la fiducia nella giustizia cominciano ad essere in pericolo anche le libertà democratiche”.

    Ecco, un pizzico di allarme fascismo non guasta mentre Morvillo, a proposito di sfiducia nella magistratura, sembra non avere mai sentito parlare dell’affaire Palamara né letto il documentatissimo libro “La gogna” di Antonio Barbano, soprattutto sembra non ricordare chi disse queste parole: “Il P.M. non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non deve essere, come è oggi, una specie di paragiudice. Chi, come me, chiede che giudice e P.M. siano invece due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico della indipendenza del Magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il P.M. sotto il controllo dell’esecutivo”.

    Questa riflessione appartiene a proprio a Giovanni Falcone: riposi in pace a patto di non guardare cosa accade quaggiù all’interno di quell’Ordine Giudiziario di cui è un martire e con il quale non ha nulla a che spartire.

  • In attesa di Giustizia: attacco alle garanzie

    Milàn l’è semper un gran Milàn: così si dice per sottolineare una sorta di eccellenza della città in diversi settori; con la locale Procura, dai primi anni ’90, vanta anche il primato nel calpestare le garanzie degli indagati: i trucchetti per eludere il termine di durata massima delle indagini prevista per legge svolgendole a totale insaputa dei destinatari, fascicoli con un unico numero di registrazione iniziale creando una sorta di discarica per centinaia di notizie di reato in cui la difesa è di fatto impossibilitata ad orientarsi adeguatamente, il “gioco a nascondino” delle prove a favore degli accusati (quello che ha determinato l’incriminazione del Procuratore Aggiunto Fabio De Pasquale è solo il più noto) sono solo alcuni dei fantasiosi metodi con cui addomesticare i rigori della legge che, nel loro complesso, hanno preso il nome di Codice Ambrosiano, rimarcando una discontinuità rispetto al resto della penisola che tanto il carnevale quanto la Messa avevano già segnato.

    L’ultima tendenza è quella di indagare gli avvocati nell’ambito degli stessi processi in cui sono impegnati nella difesa: ecco così, poco dopo il caso legato al difensore di Alessia Pifferi, una richiesta di interdizione all’esercizio della professione per un anno nei confronti di due professionisti, collegata ad un’inchiesta per traffico di stupefacenti nella quale risultano assistere alcuni dei presunti trafficanti.

    Tale richiesta costituisce un attacco concentrico alle garanzie processuali, alla libertà dell’avvocato e all’esercizio del diritto di difesa che non sono generiche enunciazioni di principio ma canoni costituzionali.

    Ai due sventurati è stato attribuito il reato di ricettazione che consiste nel fatto di chi riceve denaro o altri beni provenienti da reato per procurare a sé o ad altri un profitto e ne sono sospettati per aver ottenuto il compenso per l’attività professionale svolta da parte di soggetti che si presume commercino droga.

    Impressiona per la sua natura l’ipotesi di accusa a carico di clienti che – probabilmente –  non presentano il Modello Unico all’Agenzia delle Entrate ma che dire, allora, se la difesa riguardasse un manager imputato di falso in bilancio o un imprenditore con il vizietto della bustarella, piuttosto che il produttore di salumi che falsamente certifica l’appartenenza al consorzio “Prosciutto di Parma” (sì, può essere un reato anche questo): gli esempi si sprecano e qui si arrestano per questioni di brevità.

    Fortunatamente, non solo a Berlino ma anche a Milano qualche giudice si trova ancora ed in questo caso il Giudice per le Indagini Preliminari cui era stata avanzata la richiesta l’ha rigettata con una motivazione ricca di riferimenti alla giurisprudenza, alle prove ed al buon senso laddove rimarca che il difensore dovrebbe addirittura rinunciare totalmente ai propri compensi allorquando l’assistito sia reo confesso.

    L’iniziativa della Procura, al di là della condivisibile decisione del giudice chiamato a vagliarla, ha determinato una ferma reazione dell’Ordine degli Avvocati di Milano, della Giunta dell’Unione e della Camera Penale di Milano rimarcando la prassi giudiziaria in inarrestabile deriva da quei principi costituzionali, che la magistratura sistematicamente disattende con buona pace della “cultura della giurisdizione” alla quale si dice appartenere anche il pubblico ministero.

    Emerge, viceversa una pericolosa assimilazione della difesa dell’indagato a quella del reato, se non ad una condivisione implicita di scelte criminali.

    Novelli influencers del diritto e della pubblica opinione, è bene che i P. M. si rendano conto che sono lontani i tempi di Mani Pulite e delle manifestazioni davanti al Palazzo di Giustizia con i cartelli “Di Pietro, Davigo, Colombo, fateci sognare”, che la schiera dei loro followers si sta drasticamente riducendo e tra questi non mancano i giudici.

  • In attesa di Giustizia: cinquanta sfumature di impunità

    E’ successo ancora, ed è successo ancora in Toscana: sentenze scritte prima della conclusione di un processo e dopo Lucca ora è toccato a Firenze, episodi gravissimi non isolati né limitati al perimetro di quella regione che, probabilmente, sono solo la punta di un iceberg.

    Come in altri casi simili, la scoperta è avvenuta in maniera fortuita da parte di un avvocato che ha chiesto di consultare in aula il fascicolo di ufficio nella stessa aula in cui attendeva di discutere rinvenendo all’interno la decisione già pronta. Il seguito, innescato dall’invito ad astenersi rivolto a giudici con evidenti pregiudizi ha avuto come pendànt una reazione a dire poco scomposta anche dei vertici del Tribunale chiamati a decidere giustificando l’accaduto con una iattante pezza peggiore del buco…anzi con una serie di pezze che denotano spocchia e mancanza di un impulso ancorché tenue a scusarsi e quella incapacità di provare vergogna tipica degli impuniti.

    Per una migliore comprensione degli sviluppi si tenga presente che la consultazione di quel fascicolo – mentre i giudici erano in camera di consiglio per altri incombenti – era stata effettuata dopo aver chiesto, come prevede la legge, l’autorizzazione al P.M. presente.

    Il successivo, inevitabile, invito ad astenersi rivolto dal difensore al Tribunale ha avuto come seguito necessario l’invio di una relazione scritta dei tre magistrati del Collegio al Primo Presidente del Tribunale cui competeva decidere in proposito e che, in base a quella relazione, ha ritenuto che non risultano violazioni a carico dei giudici ma, piuttosto, scorrettezza dell’avvocato che avrebbe curiosato di soppiatto nel fascicolo sebbene, come detto in precedenza, sia il codice a prevedere che quando il Tribunale non è in aula sia il Pubblico Ministero ad averne la gestione anche sotto il profilo delle autorizzazioni, esattamente come era accaduto. Il livello argomentativo è quello del bue che dice cornuto all’asino e come difesa corporativa da parte di soggetti che dovrebbero conoscere la legge non è decisamente un granché.

    La sentenza già scritta, comunque, c’era ed era necessario offrire una spiegazione: e qui il miserevole spettacolo si sposta sui maldestri rappezzi: “era solo una bozza,  non era stata ancora firmata, si trattava solo di qualche appunto…” e la peggiore di tutte “potevano cambiare idea”: già, quell’idea che si erano fatti prima ancora delle arringhe e che era stata annotata con tanto di determinazione della pena su un foglio con lo stellone della Repubblica, la dicitura In nome del Popolo Italiano e la data, guarda caso quella della udienza precedente in cui avrebbe dovuto concludersi (ma non si era concluso) il processo.

    A fronte di un simile sconcio la Camera Penale di Firenze ha proclamato tre giorni di protesta e sciopero invitando l’Associazione Magistrati a confrontarsi in un’assemblea pubblica ma i suoi rappresentanti hanno evitato anche solo di farsi vedere: forse erano impegnati a scrivere altre sentenze prima della fine dei relativi processi, unti del Signore con capacità divinatorie sul contenuto delle discussioni.

    Pagherà qualcuno per tutto ciò? Probabilmente nessuno perché è ben noto quanto sia creativa e di larghe vedute la giustizia disciplinare “domestica” del C.S.M., abilissima nel riconoscere tutte le sfumature dell’impunità: scarsa rilevanza, unicità dell’episodio, eccessivo carico di lavoro, momento difficile in ambito famigliare…Merita, quindi, di essere segnalata come sussulto di dignità la delibera che ha negato la conferma di Fabio De Pasquale come Procuratore Aggiunto a Milano, disattendendo il parere favorevole del Consiglio Giudiziario e di cui si è occupato lo scorso numero di questa rubrica: “risulta dimostrata l’assenza dei pre requisiti di imparzialità ed equilibrio avendo reiteratamente esercitato la giurisdizione in modo non obiettivo né equo, senza rispetto delle parti, senso della misura e moderazione rappresentando un modus operandi consolidato che impediscono la conferma in un ruolo semi direttivo”. Forse il 100% di assoluzioni nei processi che aveva imbastito contro Berlusconi, che sono solo quota parte di uno score imbarazzante per la percentuale di fallimenti investigativi, hanno avuto un peso di cui il Consiglio Giudiziario si era dimenticato.

  • In attesa di Giustizia: fantasia al governo

    Uno dei tanti delicatissimi compiti affidati ai magistrati è la motivazione tanto delle loro richieste – quando si tratta di Pubblici Ministeri – che delle loro decisioni nel caso dei giudicanti e cioè dire devono esporre le ragioni che le sorreggono descrivendo il percorso conoscitivo e l’analisi delle prove che, a sua volta, deve risultare immune da vizi di logica, contraddizioni, omissioni di evidenze.

    E qui viene il bello, si fa per dire, per la fantasia non sempre sana che viene impiegata: basti dire che una volta, appena approdato in Cassazione, Piercamillo Davigo, durante una conversazione, affermò “che fatica che a volte bisogna fare per salvare delle sentenze insalvabili”. Ma stiamo parlando del campione del giustizialismo, fortunatamente pensionato, che di quella fantasia abbondava.

    Le “chicche” peraltro continuano a non mancare ed un esempio recente è questo con il quale si è deciso che se un avvocato non può leggere gli atti di un processo si tratta di trascurabile cosa.

    L’argomento è stato affrontato alla sesta sezione penale della Cassazione, sentenza depositata il 2 maggio, esaminando l’ennesima forzatura, priva di buon senso, di un Tribunale prima e di una Corte di Appello poi che hanno negato la sussistenza di legittimo impedimento ad un difensore che aveva chiesto rinvio di udienza certificando di essere affetto da un “riacutizzarsi della miodepsia in occhio sinistro con esiti di distacco posteriore del vitreo con calo visivo e deficit di concentrazione”; raccomandati sette giorni di riposo assoluto evitando sia la lettura che la scrittura.

    Secondo i giudici di merito l’avvocato non avrebbe comunicato immediatamente quell’impedimento e la patologia documentata non “avrebbe esposto il legale ad un rischio grave per la propria salute” in quanto, in quella udienza, si sarebbero solo dovuti ascoltare dei testimoni. Poco importa, quindi, se nei giorni precedenti non è stato possibile preparare il controinterrogatorio rileggendo atti e documenti, poco male se l’avvocato non può confrontare ciò che viene riferito a voce con quanto verbalizzato in precedenza e poco male anche se la sua patologia peggiora perché deve fare gli sforzi sconsigliati in un’aula.

    La sesta sezione, una delle migliori della Corte di Cassazione, ha accolto il ricorso contro queste bestialità ritenendo – in particolare – che l’impedimento fosse stato comunicato tempestivamente come prevede la legge: in questo caso la certificazione medica era datata un venerdì 22 gennaio e depositata il lunedì successivo ma i primi giudici avevano preteso ben diversa e fulminea attivazione…come se fosse possibile credere che nel week end (a prescindere dai momenti di chiusura totale al pubblico) le cancellerie fossero aperte alla bisogna ed i giudici in anelante attesa di ricevere una pec con siffatta comunicazione.

    Ma passiamo ad un diverso esempio ed alla fantasiosa motivazione che viene stesa dal Consiglio Giudiziario di Milano a vantaggio…ma – vedi un po’ – di un Pubblico Ministero. Per chi non lo sapesse, il Consiglio Giudiziario è una sorta di C.S.M. “periferico” che si occupa di valutazioni dei magistrati locali da inoltrare, poi, al Consiglio Superiore per quanto di sua competenza: come nel C.S.M., nel Consiglio Giudiziario ci sono anche avvocati ma qui non hanno voce in capitolo se non per quanto riguarda i Giudici di Pace (che, a loro volta sono avvocati che svolgono la funzione a titolo onorario).

    Parliamo di quel Fabio De Pasquale che la settimana scorsa abbiamo visto annaspare in una improbabile difesa di sé davanti al Tribunale di Brescia che lo sta giudicando per avere occultato prove a favore di imputati al fine di ottenerne la condanna. Ingiusta, c’è bisogno di dirlo?

    Ebbene il nostro uomo è in corsa per vedersi confermare il ruolo di Procuratore della Repubblica Aggiunto per altri quattro anni ed il Consiglio Giudiziario ha espresso un apprezzamento che sarà trasmesso a Roma: è ben vero che la condotta di De Pasquale è da considerarsi “non imparziale” (il termine esatto sarebbe ben altro…), tuttavia si tratta di episodi legati ad un solo processo che non intaccano i requisiti di imparzialità ed equilibrio richiesti dalla legge. Peccato che queste innocenti marachelle siano costate un patrimonio allo Stato per imbastire un monumentale processo finito nel nulla esponendo la Procura di Milano ad una figuraccia di livello planetario, peccato che sia stato dimenticato il parere negativo originariamente espresso dal Procuratore Facente Funzioni, Riccardo Targetti, un gentiluomo andato in pensione, peccato che avere uno dei vertici dell’Ufficio sotto processo (forse, presto condannato per come stanno andando le cose a Brescia) non sia esattamente il fiore all’occhiello della Procura ma, probabilmente, stiamo assistendo una volta di più ad uno di quei giochetti tra correnti della magistratura, ad uno scambio di favori ed una motivazione fantasiosa aiuta.

    Come direbbe Cicerone: le malattie dell’anima sono più pericolose di quelle del corpo.

  • In attesa di Giustizia: oggi le comiche

    Roberto Spanò è un magistrato del Tribunale di Brescia di grande esperienza ma – probabilmente – non avrebbe mai immaginato che nel corso della sua carriera avrebbe dovuto presiedere ad udienze in cui, da imputati, sfilassero alcuni suoi colleghi (o ex tali), uno per l’altro, originari della Repubblica della Procura di Milano, assistendo a sceneggiate come quella postuma alla condanna di un livoroso Piercamillo Davigo e, da ultimo, quella – di insuperabile dabbenaggine – di Fabio De Pasquale.

    Per chi non lo ricordasse De Pasquale è il Procuratore Aggiunto di Milano che, usando un garbato eufemismo, ha truccato le carte (occultando prove a discarico degli imputati) per vincere il processo cosiddetto ENI-Nigeria con oggetto quella che, secondo lui, sarebbe stata la più colossale tangente della storia dell’umanità e che – invece – si è rivelata una gigantesca montatura: opera sua come, per ora, solo sembra nel rispetto del principio di innocenza.

    De Pasquale è uno che è più facile vederlo uscire dal tribunale con la sacca da ginnastica a tracolla per andare in palestra piuttosto che nel suo ufficio, animato da diuturna applicazione al suo studio e furore intellettuale, a studiare fascicoli e codici; a Brescia, sedendo invece sul banco degli imputati, ha offerto uno squallido siparietto che, se non avesse un retrogusto che fa accapponare la pelle, sarebbe persino comico.

    Un avvocato di grande esperienza un giorno disse che nei processi, spesso, non servono testimoni, periti, documenti: bastano gli imputati con le loro dichiarazioni a scrivere una sentenza di condanna e De Pasquale, novello Tafazzi (per chi ricorda la macchietta di Mai dire Gol), ne è stato un esempio da considerare alla stregua di archè socratica.

    “Solo un polverone” ha sostenuto attribuendo la colpa di tutto ad accuse false ed infamanti da parte del collega Storari: ostile nei suoi confronti perché nel 2018 il garantista De Pasquale (lo stesso che promise la libertà a Gabriele Cagliari salvo poi dimenticarlo in galera per andare in ferie e l’Ingegnere chiuse la partita soffocandosi con un sacchetto di cellophane sulla testa) non gli approvò una richiesta di arresto ritenuta eccessiva.

    Il Giudice Spanò strabilia quando dalle parole dell’interrogato traspare un quadro inquietante di una delle Procure più importanti d’Italia: sostanzialmente acefala perché il Capo nemmeno si accorge che non la governa lui ma una rete di odi personali per futili motivi e rivalità da asilo Mariuccia che scatenano guerre tra bande a discapito della regolare conduzione delle indagini. Roberto Spanò chiede “Qual è il problema se un P.M. ha elementi che possono portare alla verità nel processo? Che la Procura debba marciare compatta?”. Decisamente non è una giornata facile per De Pasquale e la risposta gira intorno al quesito senza risolverlo parlando di violazione del principio di lealtà tra colleghi ed ingiustificata ingerenza in un processo in corso, gridando ad un inconcepibile complotto per salvare i vertici dell’ENI: insomma, una ritorsione per rancori personali.

    Dibattendosi in un estremo tentativo di dare sostanza alla propria difesa, De Pasquale afferma che l’architrave di quel processo falsato non era indebolita dalle prove a discarico che si presume abbia occultato consistendo in documenti e rilievi contabili. Come dire: se anche ho fatto l’imbroglioncello avevo ragione lo stesso; peccato che la cosiddetta architrave non fosse poi così solida visto che tutti gli imputati sono stati assolti ugualmente e che il giudice di quel processo, Marco Tremolada, ascoltato poche udienze prima, avesse deposto sotto giuramento affermando che se quelle carte fossero state depositate assolvere sarebbe solo stato più facile.

    Al cittadino tremano i polsi pensando di poter essere destinatario di una amministrazione della giustizia le cui regole sono (anche) queste: nel frattempo, De Pasquale è stato promosso a referente milanese di Eurojust, l’organo investigativo della UE per “specifiche esperienze professionali in procedimenti di competenza di Eurojust, segnatamente corruzioni, riciclaggio e frodi fiscali”. E’ morto il re, viva il re.

  • In attesa di Giustizia: chi tocca i fili muore

    E’ questo l’avvertimento affisso ai piloni che sorreggono condotte di elettricità ad alta tensione ed un analogo monito viene rivolto a chi si permette di far buon governo del diritto di critica nei confronti della magistratura; monito che – come i lettori possono constatare – scivola senza attrito sui binari della indifferenza della redazione de Il Patto Sociale.

    Da ultimo è capitato ad Ermes Antonini, ottimo redattore del Foglio, che si è permesso di esprimere il proprio pensiero su un paio di P.M. fiorentini già titolari di indagini tanto strampalate quanto grottescamente insistite.

    Basti dire che uno di questi ha imbastito per anni un’inchiesta su una fondazione supponendo che avrebbe costituito il travestimento di una corrente di partito creato ad hoc per eludere la disciplina sul finanziamento pubblico: si è perso il conto di quante volte la Cassazione, annullando sequestri a raffica, ha ribadito che si trattava di un’idea quantomeno bislacca; alla quarta tirata di orecchi si è aggiunta una decisione della Corte Costituzionale che riteneva illegittimo l’uso che aveva fatto delle intercettazioni di un parlamentare poiché prive di autorizzazione della Camera di appartenenza. Ma il magistrato ha proseguito imperterrito.

    Il Procuratore Capo di Firenze, mentre vengono preannunziate querele, ha chiesto che il C.S.M. apra una pratica a tutela del proprio ufficio perché il giornalista avrebbe fatto trasparire una volontà persecutoria. Forse avrebbe fatto meglio a riflettere sul fatto che siano taluni comportamenti dei sui sostituti a delegittimare la Procura. Un caso quasi affascinante di dispercezione della realtà, di inversione della logica delle cose.

    E dire che, solo una settimana, fa “Giustizia Insieme”, la rivista che si propone l’ambizioso progetto di realizzare una piattaforma di confronto tra avvocati, magistrati e studiosi del diritto, ha organizzato un convegno dedicato al sacrificio di Giacomo Matteotti nel corso del quale si è discusso civilmente di libertà della magistratura e dei criteri di valutazione della professionalità: peraltro, questo subitaneo fiorire di lamenti e querele di alcuni magistrati contro gli autori di articoli di stampa riportano alla dura realtà e quando si nega il diritto alla parola non tira una buona aria. Proprio Matteotti pagò con la vita, un pericolo che oggi fortunatamente non si corre ma anche la minaccia di una azione giudiziaria che si gioca sul “terreno amico” è qualcosa che fa a pugni con la democrazia e quella libertà che si invoca per se stessi: meglio sarebbe considerare che le critiche possono essere costruttive.

    Ciononostante, la magistratura sembra esserne impermeabile se non apertamente irritata, incapace di una seria autocritica come dimostrano le incredibili motivazioni (depositate in questi giorni) con cui la Corte di appello di Roma ha accolto la revisione di quel Beniamino Zuncheddu di cui la rubrica si è già occupata, riconosciuto innocente dopo oltre trent’anni di carcere.

    Neanche due parole di scusa (figurarsi) in quelle pagine in cui ritorna il  leit-motiv del colpevole che l’ha fatta franca e dalle quali traspare il fastidio di aver dovuto riaprire questa vicenda riconoscendo un errore giudiziario marchiano al quale si tenta, tuttavia, di trovare una giustificazione arrivando a sostenere che “la già esile speranza di poter pervenire ad una ricostruzione veritiera ed attendibile dello svolgimento dei fatti dopo trent’anni è stata gravemente pregiudicata dalla forte attenzione mediatica riservata a questa vicenda, tale per cui sono state divulgate disinvolte ricostruzioni dei fatti arricchite da discutibili commenti, giudizi personali, congetture, valutazioni unilaterali prive del dovuto contraddittorio (e quindi lacunose e parziali) che hanno inciso sulla genuinità dei testi, che invece avrebbero forse potuto offrire qualche spiraglio di verità se fosse stato lasciato libero il campo alla memoria di ciascuno di essi, non influenzata da narrazioni preconfezionate”.

    Si sarebbe, quindi, dovuto tacere e non vedere? Zuncheddu non avrebbe dovuto gridare la sua innocenza per trentatre anni? il Partito Radicale e la garante dei detenuti della Sardegna non se ne sarebbero dovuti occupare e i giornali – sempre dopo decenni di sofferenze – non avrebbero dovuto scriverne? È loro la colpa se si sono intorbidate le acque al punto che è “esile speranza” quella di pervenire a una ricostruzione “veritiera e attendibile”. Il fatto che non ci siano prove contro Zuncheddu, che quelle prodotte a suo carico siano state fabbricate, è responsabilità di tutti, ma non dei magistrati che hanno gestito indagini e processo. La Corte, mostrando di dubitare fortemente della innocenza, ha rimarcato che l’assai tardiva assoluzione di questo pover’uomo interviene per quella che una volta si chiamava insufficienza di prove, formula inopportunamente evocata laddove risultano effettivamente subornazioni dei testimoni, ma all’epoca dei fatti e da parte degli inquirenti sardi ed accertamenti investigativi quantomeno carenti. Tanto nessuno paga mai per errori ed orrori giudiziari, neppure davanti al C.S.M. dove la parola magica per addomesticare la giustizia disciplinare è “fatto di scarsa rilevanza” locuzione utilizzata con abitualità che vuol dire tutto e niente. Soprattutto niente e colpevoli che la fanno franca.

    Lasciate allora perdere le querele, le pratiche e a tutela ed al procuratore Gratteri che si chiede perché avere paura di lui e dei suoi colleghi il suggerimento è che si faccia seriamente e non retoricamente la domanda e si dia con serietà una risposta.

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