Giustizia

  • In attesa di Giustizia: carenze d’organico

    Qualche settimana addietro, questa rubrica si è occupata delle scoperture di organico dei funzionari amministrativi di Tribunali e Procure: nessuna riforma della Giustizia – né quella appena licenziata a firma Cartabia, né altre future – potranno ottenere risultati se non si rimedia a questa criticità non meno che a quella analoga che riguarda i ruoli dei magistrati, recentemente stigmatizzata dal  vice Presidente del CSM, le cui parole sono chiarissime: «Nonostante i concorsi già banditi, considerati i magistrati annualmente in uscita per anzianità, dimissioni o altro, e il fatto che ai prossimi vincitori di concorso saranno conferite le funzioni non prima del 2024, si arriverà presto ad una scopertura di oltre il 20%».

    L’Italia si colloca tra gli ultimi Paesi in Europa per numero di magistrati ogni centomila abitanti ed aggiungendo a questi dati le ricordate carenze – se possibile ancora più gravi – del personale amministrativo, appaiono evidenti le ragioni del disastro della giustizia italiana in termini di irragionevole durata dei processi.

    Questa situazione endemica non sembra tuttavia preoccupare più di tanto la politica (ovviamente c’è anche un problema di fondi da destinare agli stipendi, così opportunamente evitato) ed, anzi, sotto stimolo della stessa magistratura, si preferisce affrontare gli interventi sulla durata dei giudizi intervenendo sulle regole processuali, in particolare su quelle poste a garanzia dei diritti di difesa sostenendo che la lentezza del sistema – ogni riferimento è principalmente rivolto al processo penale –  sarebbe frutto di superflue regole ipergarantiste, cui occorre porre un limite. Per esempio, quelle brutte persone che sono gli avvocati si ostinano a pretendere che il giudice che pronuncia la sentenza sia il medesimo che ha sentito i testimoni:  un principio fissato dal codice che impone, se cambia il giudice, la ripetizione della istruttoria per una regola di buon senso prima ancora che di garanzia. Troppo complicato e allora ci ha pensato la giurisprudenza a “riscrivere” quella norma e, di regola, in caso di mutazione del giudice, non si ripete un bel nulla, salvo cervellotiche eccezioni. Avrà ben più diritto il giudice di cambiare sezione, o funzione, o Foro, del cittadino ad essere giudicato dal medesimo giudice che ha istruito il processo, giusto?

    Gli esempi potrebbero proseguire a lungo ma non è il caso di avvilire i lettori oltre un certo limite; vale, piuttosto, la pena considerare, sulla scorta della denuncia proveniente dai vertici del CSM, che se pure il nuovo Governo decidesse il giorno dopo il suo insediamento una corposa implementazione degli organici, dovremmo attendere alcuni anni per averne i primi benefici.

    Una soluzione non definitiva ma di qualche utilità immediata potrebbe consistere nel fatto che il nuovo Governo eviti di richiedere al CSM la messa fuori ruolo di quei circa 200 magistrati che, come accade sistematicamente da decenni, vengono immancabilmente trasferiti presso i Ministeri.

    Si tratta di una pratica sconosciuta – certamente con queste dimensioni e questa sistematicità – in ogni altro Paese civile e la ragione risiede nel fatto che le democrazie funzionano solo se si garantisce la più rigorosa separazione dei poteri. Qui invece abbiamo una commistione fisica tra quello  giudiziario e l’esecutivo, con evidente squilibrio verso il primo cui la Magistratura italiana tiene moltissimo con i governi che a secondo del proprio colore prediligono questa o quella corrente, ed i magistrati che, acquisendo ruoli apicali di decisivo peso politico (capo di Gabinetto, capo dell’Ufficio legislativo, capo del personale, ecc.) entrano a piedi uniti nella concreta gestione e nel reale orientamento della politica giudiziaria del Paese.

    Ma come faranno le esangui casse dello Stato a fronteggiare anche i costi del reclutamento accessorio di magistrati? Questo sarà il vero problema: qualcosina si risparmia sulle indennità dei capi dipartimento e di gabinetto dei ministeri – più o meno 12.000 euro netti al mese moltiplicati per 13 e per quei 200 fortunati circa di cui si è detto – ed anche sui generosi incentivi economici applicati allo stipendio base di coloro che, invece, restano in ruolo e vengono destinati alle cosiddette sedi disagiate, cioè Tribunali con significative scoperture di organico, che non è detto siano luoghi dimenticati da Dio e dagli uomini, ma – per esempio – Venezia o Mantova.

    L’attesa di giustizia, ancora una volta,  è servita.

  • In attesa di giustizia

    C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico…ed è la speranza che qualcosa cambi davvero nel desolante scenario del sistema giustizia nostrano perché se Giorgia Meloni riceverà l’incarico di formare il Governo, come sembra ormai altamente probabile, proporrà Carlo Nordio quale Ministro della Giustizia.

    L’uomo – che per la verità, preferirebbe un posto nella Commissione Giustizia della Camera – è una garanzia assoluta: preparatissimo, colto, garantista, liberale. Posso dirlo perché lo conosco da una quarantina d’anni: con Carlo Nordio come magistrato ho avuto a che fare una volta sola, quando ci conoscemmo, poi abbiamo coltivato un rapporto crescente di stima ed amicizia attraverso esperienze condivise partecipando da relatori a numerosissimi convegni e seminari e lavorando fianco a fianco nella Commissione Ministeriale (2001-2006) da lui presieduta con il compito di proporre un progetto di riforma del Codice Penale; a Carlo Nordio devo anche la prefazione ad un mio manuale sulla legittima difesa ed in cambio io ho presentato un suo libro, o meglio un’intervista a due voci trasposta in un libro che si intitola “In attesa di Giustizia, dialogo sulle riforme possibili” e che – non a caso – ha dato il nome a questa rubrica e lo spunto per l’articolo di questa settimana.

    “In attesa di Giustizia” raccoglie le opinioni, il pensiero, le idee di riforma del sistema penale di Carlo Nordio – appunto – Magistrato del Pubblico Ministero di impostazione tradizionalmente liberale e mai (fino ad ora, che però è in pensione da cinque anni) lasciatosi affascinare dalla politica e d Giuliano Pisapia, avvocato difensore molto vicino a Rifondazione Comunista, più volte parlamentare e Sindaco di Milano: i due sono molto legati e la lettura di quel libro, a carattere divulgativo e non squisitamente tecnico, consente di verificare come la Giustizia non debba avere e non abbia appartenenze ideologiche preconcette o colorazioni partitiche come dimostra il pensiero in grande misura sovrapponibile di due operatori del diritto di altissimo profilo, che nella vita professionale oltre che nel sentire politico sono agli antipodi.

    Del resto, basta scorrere la nostra eccellente Costituzione per averne la prova verificando la impeccabile confluenza della ideologia cattolico-liberale con quella marxista che condividono con quella hegeliano-gentiliana il tratto comune della subalternità assiologica della persona rispetto ai valori superiori di Dio e dello Stato Sociale. E i Padri Costituenti erano giuristi di ineguagliabile spessore.

    L’auspicio è, dunque, che una personalità di elevata statura come Carlo Nordio possa assurgere ad un ruolo che gli consenta di dare spunto e vita a quelle riforme che ha sempre caldeggiato, frutto di profonda riflessione ed esperienza quotidiana nelle aule di Tribunale.

    La  prospettiva è ottima sebbene appaia motivo di ambascia per qualcuno: Fofò Bonafede – naturalmente intervistato da Travaglio – ha mostrato sconsolata preoccupazione che la maggioranza di centro destra abolisca le leggi promulgate durante la sua (incomprensibile in un paese civile) presenza in via Arenula; già che c’era ha criticato proprio Nordio per la posizione mostrata su alcuni argomenti di diritto penale e processuale, Nordio che, ovviamente, non si preso neppure la briga di rispondere a quello che è stato il peggior Ministro della Giustizia da quando la carta ha perso il posto del papiro.

    Vedremo cosa succederà al Quirinale e dintorni nei prossimi giorni ma, per una volta, possiamo dire che siamo davvero in attesa di Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: magistrati dietro le sbarre

    Francesco Maisto era – ora è andato in pensione – un magistrato illuminato o, più semplicemente, un magistrato come dovrebbe essere un magistrato: noto tra l’altro per lo straordinario equilibrio con cui determinava la pena da infliggersi a coloro che doveva condannare.

    Maisto soleva dire che, nel quantificare la reclusione tra il minimo ed il massimo previsto dalla legge, teneva conto di una serie di fattori aggiuntivi di afflittività come il sovraffollamento carcerario, la mancanza di igiene, la pessima qualità del cibo e la scadente assistenza sanitaria, la ridotta capacità delle strutture penitenziarie di fornire strumenti di rieducazione.

    Francesco Maisto non aveva mai sperimentato la privazione della libertà personale nelle patrie galere ma aveva quella coscienza e consapevolezza delle condizioni in cui versava (e tuttora versa) la popolazione carceraria che tanto un giudicante quanto un inquirente dovrebbero avere. Così, purtroppo non è e – francamente – potrebbe non essere neppure necessario sperimentare quanto hanno fatto recentemente cinquantacinque tra giudici e Pubblici Ministeri belgi: sarebbe, forse, bastevole non prestare orecchio al blaterare sconclusionato dell’avvocaticchio degli Italiani, dei suoi (fortunatamente ridotti) seguaci e del megafono mediatico affidato alla direzione di Marco Travaglio.

    Ma, chiederete voi, cos’è successo a Bruxelles e dintorni? Che quei magistrati hanno volontariamente scelto di essere incarcerati per un certo periodo, per la verità di non lunghissima durata nel carcere di Haren, di nuovissima edificazione e non ancora ufficialmente aperto (quindi deserto), per comprendere meglio le condizioni di vita dei detenuti.

    A parere del Guardasigilli belga, Vincent Van Quickenborne, ciò varrebbe anche a migliorare – mediante i suggerimenti dei “detenuti”  sperimentatori – ad ottimizzare il funzionamento della struttura penitenziaria. Giustissimo, sebbene ci sia una notevole differenza tra chi entra in un carcere nuovo di zecca, vuoto e con la chance di uscirne a richiesta quando vuole e chi ci deve effettivamente scontare una pena o una carcerazione preventiva. Tuttavia, piuttosto che niente è meglio piuttosto.

    Qualcosa di simile è, viceversa, impensabile alle nostre latitudini dove si annovera un unico precedente di questo tipo, volontario e lontanissimo nel tempo: quello del giudice Pasquale Saraceno che chiese espressamente di entrare in carcere per alcuni mesi dando modo a Piero Calamandrei – uno dei padri costituenti – di trattarne l’elogio nello scritto “Bisogna vedere, bisogno starci, per rendersene conto”.

    In epoche più recenti, quando alla direzione della Scuola Superiore della Magistratura c’era il Professor Valerio Onida, era stata prevista la frequenza dei giovani a “stage penitenziari” della durata di soli quindici giorni. Non stupirà che, per le polemiche e opposizioni di varia natura provenienti dall’Ordine Giudiziario, non se ne fece poi nulla perdendo un’occasione di crescita umana e professionale.

    D’altro canto, giovani magistrati cresciuti a “manette e mani pulite” è quantomeno improbabile che possano avere la sensibilità per sottoporsi ad esperienze simili che mortificherebbero quel malinteso senso di superiorità morale inculcato da trentennali sermoni davighiani e da quella generosa giurisprudenza disciplinare, di cui si è occupata di recente questa rubrica, che riconduce a banali marachelle anche grossolani comportamenti e squinternate decisioni che costano libertà, lacrime e onorabilità ai cittadini in attesa di giustizia.

    Qualcosa, forse, vedremo in un prossimo futuro sebbene si tratti di esperienze postume: la Procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio dei P.M. milanesi De Pasquale e Spadaro e verificheremo come andrà a finire per questi bricconcelli che sembra (fondatamente) abbiano  nascosto prove a favore di imputati pur di “vincere” un processo sottoponendoli ad oltre un lustro di indagini e giudizi per poi essere assolti. E, per una volta, se l’impianto accusatorio contro questi due P.M. si rivelerà consistente, anche da queste colonne, baluardo di garantismo e rispetto della libertà  si leverà un grido: in galera!

  • In attesa di Giustizia: sequel

    Questa settimana – non diversamente dalle altre – c’è stato solo l’imbarazzo della scelta circa l’argomento da trattare in questa rubrica; alla fine “in concorso” sono rimaste due vicende: la prima è quella di una donna condannata e incarcerata (ed è tutt’ora in galera, a Roma in attesa di una soluzione) per un reato prescritto da anni al momento della pronuncia della sentenza. Vicenda che, senza entrare nei dettagli, è sufficiente commentare “complimentandosi” con il P.M., il giudice, il Sostituto Procuratore Generale che ha posto il visto sulla decisione e – naturalmente – anche con il difensore per avere offerto un rarissimo (per fortuna) esempio di corale e fatale disattenzione (o ignoranza anche di banali nozioni aritmetiche?).

    La seconda, è stata prescelta perché è lo squallido sequel da B movie di una storia già raccontata tempo fa su queste colonne ed anche del più recente commento alla giustizia disciplinare “domestica” – e addomesticata – del C.S.M. Qualcuno, forse, ricorderà questo racconto di quanto accaduto al Tribunale di Asti dove si celebrava un processo per violenza sessuale di un padre sulla figlia, con la madre accusata di non averlo impedito: giunti alla conclusione e data la parola alle parti, discussero il PM, chiedendo una pena molto severa  ed i due difensori della madre, rinviandosi ad altra udienza per sentire quello del padre.

    Tuttavia, alla udienza successiva, il Tribunale entrò in aula per leggere direttamente il dispositivo di condanna degli imputati ad 11 anni di reclusione. Gli avvocati presenti e lo stesso P.M. fecero notare che il difensore del secondo (e principale) imputato non aveva mai discusso ed il Presidente, dettosi dispiaciuto dell’incidente, con impeccabile nonchalanche accartocciò il foglio contenente il dispositivo appena pronunciato per dare la parola all’ultimo difensore. Quest’ultimo,  ovviamente,  oppose un rifiuto, rilevando l’abnormità di quanto accaduto. Il Tribunale, che tanto aveva già deciso, depositò egualmente la sentenza, che ovviamente non potrà che essere annullata dalla Corte di Appello (con comodo, eh! Stiamo aspettando solo da un paio di anni).

    Questo scempio finì, comunque, al CSM e si apprende da notizie di stampa di questi giorni che si è concluso il procedimento disciplinare con la sanzione della censura, per di più – e il mistero si infittisce- nei riguardi del solo Presidente; prosciolti gli altri due giudici.

    Non è ancora nota la motivazione della bizzarra (è un eufemismo) decisione ma non può farsi a meno di rilevare che la censura è poco più di una tirata di orecchie che staglia impietosamente la considerazione che il CSM nutre delle questioni di principio messe in discussione.

    Questioni delicatissime: è inaccettabile che tre giudici abbiano potuto ritirarsi in camera di consiglio, discutere tra di loro della fondatezza dell’accusa condannando un imputato ad undici anni di reclusione senza averne mai ascoltato l’unico difensore.

    Una sola è la spiegazione dell’accaduto: totale indifferenza di quel Tribunale (dunque di tre giudici, non uno solo) alle argomentazioni nell’interesse di quell’imputato ed un Tribunale pronunzi una sentenza nei senza aver ascoltato e vagliato la sua difesa, nega in radice la propria stessa funzione perché non è uno sciamano, chiamato ad interpretare il giudizio  divino.

    Insomma, si tratta di un fatto di inconcepibile gravità punito con un buffetto sulla guancia di uno solo dei responsabili, pur avendo partecipato in tre allo scempio. La conseguenza che dobbiamo trarne è che, per il Consiglio Superiore della Magistratura, questa non è la condotta più grave che un giudice possa assumere, anzi, è una delle meno gravi, figurarsi le altre. Se qualcuno ha una spiegazione diversa…

  • In attesa di Giustizia: accadde diciotto anni fa

    E’ molto interessante una recentissima sentenza della Corte Costituzionale (l’ultima pronunciata sotto la Presidenza di Giuliano Amato) che ha riconosciuto un perimetro più ampio ai danni risarcibili come conseguenza di quella responsabilità civile dei magistrati che è  già molto parsimoniosamente riconosciuta.

    Evitando ai lettori i dettagli tecnici, la Corte ha stabilito che le vittime di un ingiusto processo o di una ingiusta indagine hanno diritto, oltre che al risarcimento dei danni patrimoniali, a quello dei danni non patrimoniali derivanti dalla lesione di fondamentali diritti della persona diversi – ecco la novità – dal diritto alla libertà personale. In sostanza, la decisione rileva che un cittadino “messo alla gogna” da una accusa ingiusta, anche se non arrestato, subisce egualmente la compressione di diritti non meno importanti quali quello alla dignità, alla reputazione personale e professionale ed alla salute fisica e mentale.

    Vediamo cosa è successo partendo dal presupposto che la Corte Costituzionale, generalmente, si pronuncia sulla costituzionalità di una legge laddove un’Autorità Giudiziaria abbia sollevato la questione durante un processo…e la legge in discussione è una delle meno applicate e meno ancora “digerite” dalla magistratura italiana. Scritta (malissimo) nella originaria versione da Giuliano Vassalli dopo il vergognoso massacro giudiziario di Enzo Tortora ed il conseguente referendum, fu poi blandamente rafforzata nel 2015.

    Il caso in questione ha una particolarità: la vittima della ingiusta ed infamante inchiesta giudiziaria all’origine della causa di responsabilità è a sua volta un magistrato. La vicenda origina in Calabria ed ha come protagonista negativo, l’allora PM Luigi De Magistris – meglio noto come Gigi Flop per il miserevole score delle sue indagini – in buona compagnia con il Procuratore Capo Mariano Lombardi di Catanzaro ed al collega di Ufficio, Mario Spagnuolo: alle 5 di mattina del lontano 11 novembre 2004 costoro mandano la Guardia di Finanza a perquisire l’abitazione del dott. P.A.B., magistrato di origini calabresi in servizio presso la Corte di Cassazione con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa; il magistrato non riuscì nemmeno a comprendere il senso della incolpazione provvisoria confusamente descritta nel decreto di perquisizione e sequestro e non solo perché scioccato visto che l’estensore era De Magistris, noto altresì come “Il Pubblico Mistero”, uomo aduso a formulare ipotesi delittuose che forse lui stesso faticava a comprendere. Dopo questa incursione, tranne lo sputtanamento, non accadde più nulla: nemmeno una convocazione per essere interrogato. Nulla di nulla, e siamo sempre nell’ambito di diffusi (mal)costumi giudiziari di questo Paese, e di alcune sue Procure in particolare. Quando finalmente, dopo due anni, la posizione di questo sventurato venne trasmessa all’Autorità competente (già: erano anche territorialmente incompetenti), cioè la Procura di Roma, chi lesse le fumisterie incomprensibili della imputazione provvisoria  richiese subito, ottenendola, l’archiviazione e il dott. P.A.B. diede avvio al giudizio nei confronti dello Stato per la sua responsabilità sussidiaria ed ottenendo la liquidazione dei danni patrimoniali, ma non quelli morali perché il dott. P.A.B. non era stato arrestato. Si va avanti ed infine la terza sezione civile della Cassazione ritiene di sottoporre la questione alla Corte Costituzionale: ora la vittima di quella ingiustizia avrà diritto anche al risarcimento dei danni non patrimoniali.

    Tuttavia mi sembra di sentire che ciascuno di voi, letta questa storia, si stia chiedendo: ma se la vittima non fosse stato un magistrato, sarebbe andata nello stesso modo? La stessa domanda che mi stavo ponendo anche io, al netto dei diciotto anni di attesa di giustizia.

  • In attesa di Giustizia: non ci resta che piangere

    Verrebbe persino da ridere con talune letture se non fosse che si tratta delle decisioni – e ancor più delle motivazioni – di talune sentenze del C.S.M. in materia disciplinare: in realtà,  non ci resta che piangere.

    Vediamone qualcuna: per esempio non commette illecito disciplinare il magistrato che, avendo saputo di essere indagato ed avvalendosi di relazioni di ufficio con il personale di cancelleria, si fa consegnare il fascicolo che lo riguarda ancorchè secretato. E perché mai, direte voi? Il motivo, secondo il Consiglio Superiore risiede nel fatto che il poverello era evidentemente turbato e, in ogni caso, il fatto deve considerarsi di lieve entità perché ha pure restituito il fascicolo medesimo dopo averlo diligentemente fotocopiato per intero.

    Provateci voi a fare una cosa del genere – più o meno turbati e legati da vincoli amicali con i funzionari di cancelleria – e troverete i Carabinieri ad attendervi fuori dalla copisteria e non certo per ringraziare di non avere dato fuoco alle carte.

    Non è illecito neppure il comportamento del giudice che, giustamente preoccupato per il destino della propria moglie, ne discute amabilmente con il P.M. che la sta inquisendo chiedendo notizie: e che sarà mai? In fondo si tratta solo di un modesto gossip giudiziario, probabilmente scriminato anche dal valore sacramentale del matrimonio.

    Ah! Naturalmente, se si appartiene all’Ordine Giudiziario, ci si può mettere al volante ubriachi ed essere pure condannati per guida in stato di ebbrezza senza incorrere in altre sanzioni: basta che le circostanze del caso inducano a ritenere che il fatto sia di scarsa lesività e non abbia compromesso il prestigio della magistratura: forse perché – ormai – è a livelli talmente bassi che non è un bicchiere di vino in più a fare la differenza. Vi è, tuttavia, da sperare, la sbronza non sia una consuetudine e sia stata smaltita prima di andare in udienza o di mettersi a scrivere una sentenza: ma questi sono solo sospetti e  cattivi pensieri  di noi che siamo brutte persone.

    Sembra scontato, poi, che – senza tema di conseguenze – si possa imputare qualcuno e mandarlo sotto processo per un reato che neppure esisteva al momento della commissione del fatto: suvvia, basta un minimo di elasticità mentale per rendersi conto che, di fronte ad atti complessi, possa esservi qualche innocua disattenzione.

    E voi lettori avete mai saputo di qualcuno cui sia consentito andare nei cinema a luci rosse a molestare adolescenti? Si può, ma solo se sei un magistrato e vivi uno stato confusionale perché durante i lavori di ristrutturazione della casa ti è caduto in testa un legno.

    Si sappia, infine (ma potremmo non finire qui) che va benissimo anche lasciare in galera – persino per un paio di mesetti – qualcuno che dovrebbe, invece, essere scarcerato se il povero giudice è afflitto da non meglio specificati motivi di famiglia: un po’ come capitava a noi quando i genitori ci facevano la giustificazione per le assenze da scuola e non farci incappare in valutazioni negative della condotta.

    Tutti assolti, dunque? Ma certo che no, anche se le decisioni sfavorevoli sono – di solito – di manica extra large e consistono prevalentemente nell’ammonimento o la censura, più di rado nella perdita di anzianità (e, quindi, anche di scatti di aumento dello stipendio). Rarissime sono le rimozioni dall’Ordine Giudiziario.

    Per questa settimana è tutto, e sembra che basti e avanzi.

  • In attesa di Giustizia: alla ricerca dell’efficienza mai avuta

    Con il progredire della campagna elettorale, le forze politiche in campo hanno iniziato a trattare anche temi legati alle riforme della giustizia: il dibattito sembra essere principalmente alimentato dal dualismo creatosi in seno al centro destra tra Giulia Bongiorno e Carlo Nordio:  entrambi seri candidati al ruolo di Guardasigilli, in caso di vittoria, mentre a sinistra tutto tace.

    Gli argomenti affrontati sono molto tecnici: inappellabilità delle sentenze di assoluzione, facoltatività dell’azione penale, separazione delle carriere, ed altri interventi  destinati a dare efficacia soprattutto al settore del sistema penale.

    Un sistema efficace, però deve essere anche efficiente e di questo profilo non sembra che si parli molto sebbene la funzionalità degli uffici giudiziari sia di cruciale importanza ed  – ad oggi –  è affidata ai Capi degli Uffici, cioè a dire a dei magistrati che magari sono degli ottimi giuristi ma non è scontato che siano altrettanto eccellenti organizzatori del lavoro. Prova nei sia qualche “perla” rinvenuta spigolando qua  e là: per esempio la trasmissione in formato elettronico e in via telematica di querele e denunce dai commissariati di Polizia e dalle stazioni dei Carabinieri all’Autorità Giudiziaria salvo mantenere l’obbligo di portare fisicamente anche la copia cartacea nella segreteria della Procura competente (facendo perdere tempo e distraendo agenti e militari da altri impieghi più utili), altrimenti non vengono neppure registrate e le indagini non iniziano;  per non dire della geniale iniziativa di inserire il “link” per richiedere informazioni sullo stato dei procedimenti a carico di minorenni nel portale destinato alle aste giudiziarie. Un velo pietoso, poi, deve stendersi sugli strumenti informatici tutt’ora (non) funzionanti partoriti dalla mente dei consulenti del saltimbanco noto come Fofò Bonafede e che sono l’equivalente di banchi a rotelle, primule ed altri spassosi gadgets governativi targati Cinque Stelle.

    Quello che servirebbe, richiesto da anni ed a gran voce dall’avvocatura, è il Manager del Tribunale e cioè a dire un funzionario non togato che abbia competenze effettive di organizzazione del lavoro ed ottimizzazione delle risorse sia umane che economiche e coordini il suo lavoro con i vertici degli uffici giudiziari sul territorio: tradotto, il Generale Figliuolo della situazione.

    Avverso la creazione di una simile figura si oppone – in maniera più o meno velata – una parte della magistratura che teme, verosimilmente, di  perdere autorevolezza insieme a qualche ben pensante che paventa inesistenti aspetti di incostituzionalità.  E non è da escludere che  giochi un ruolo il problema legato al reperimento dei fondi per pagare lo stipendio di funzionari del genere: meglio destinarli ai navigator, tanto per dirne una mentre i tribunali rischiano la paralisi per mancanza di personale: ultimo in ordine di tempo, quello di Genova.

    Teniamoci allora per svolgere mansioni anche di gestione logistica Primi Presidenti di Tribunale e di Corte d’Appello, Procuratori Capi e Procuratori Generali il cui unico requisito è avere attribuite (per il mero progredire della anzianità di servizio) le cosiddette funzioni direttive anche se – magari –  non saprebbero neppure redigere la lista della spesa dopo aver aperto il frigorifero. E non è colpa loro.

    Qualcuno, non molti, che si distingue per disporre di simili competenze, ovviamente, c’è: proprio in questa rubrica è stato ricordato il caso di Cuno Tarfusser la cui virtuosa organizzazione della Procura di Bolzano era stata presa ad esempio e suggerita come modello da seguire, ma – all’evidenza –  da noi  non si è neppure in grado di copiare e poi, in fin dei conti, delle ricadute sui cittadini e persino dei due  punti di PIL, pari ad una trentina di miliardi, che costa una approssimativa amministrazione della giustizia sembra importare a pochi.

  • L’Unione europea aderisce alla Convenzione dell’Aia sulle sentenze

    L’Unione europea ha aderito alla Convenzione dell’Aia sulle sentenze, uno strumento importante per agevolare gli scambi e gli investimenti multilaterali basati su regole. La Convenzione stabilisce le condizioni per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze in materia civile e commerciale, compresi i contratti dei consumatori e i contratti di lavoro, e i possibili motivi di rifiuto. L’adesione dell’UE garantirà certezza e prevedibilità del diritto alle imprese europee che operano in diversi paesi, anche al di fuori dell’UE. Anche l’Ucraina ha aderito alla Convenzione.

    Ad oggi sei Stati hanno firmato la Convenzione dell’Aia sulle sentenze, elaborata nel 2019. La Convenzione è nata perché diverse leggi e prassi in tutto il mondo rendevano il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze straniere difficili, se non impossibili. Questa incertezza giuridica e i relativi costi per le imprese hanno spesso ostacolato il flusso degli scambi e degli investimenti internazionali, negando in ultima analisi la giustizia.

    Fonte: Commissione europea

  • In attesa di Giustizia: standard italiani 2

    Ancora un femminicidio brutale, quello di Alessandra Matteuzzi, a Bologna, per mano del suo ex compagno: è la cronaca di una morte annunciata…ma non per tutti, come vedremo.

    Secondo copione, abbiamo una relazione  – a cui la donna aveva deciso di porre termine – caratterizzata da  atti persecutori ininterrotti per mesi sino a determinare il deposito di una denuncia per stalking alla Procura della Repubblica di Bologna dove, ora, la Ministra Cartabia ha inviato gli Ispettori per capire cosa sia successo, o meglio, cosa non sia successo.

    Infatti, la legge che – mutuando la denominazione per le urgenze impiegata nel Pronto Soccorso – è stata   soprannominata “Codice Rosso” sembra non aver funzionato e non per inadeguatezza della norma che prevede una tempistica molto stringente volta proprio a mettere con rapidità in sicurezza le vittime di violenza di genere prevenendo quelle escalations che, come questa volta, possono risultare fatali.

    In particolare, è previsto che le Forze dell’Ordine, una volta ricevuta la denuncia, ne riferiscano immediatamente al Procuratore il quale, a sua volta, entro tre giorni deve dare avvio alle indagini, disporre l’audizione della persona offesa e di eventuali testimoni adottando con tempestività e laddove necessario cautele idonee ad impedire i contatti e l’avvicinamento del persecutore alla sua vittima: misure che possono estendersi sino all’arresto. Nel caso di Alessandra Matteuzzi, fatta salva la prima comunicazione dei Militari dell’Arma al P.M., nulla di tutto ciò è stato fatto e vi è da temere una dipendenza da sopore feriale: donde l’avvio di una ispezione.

    La denuncia, invero, reca la data del 29 luglio: tre giorni prima del fatidico inizio del mese di agosto.  A fronte delle prime contestazioni di inerzia, fonti vicine alla Procura hanno sostenuto che sarebbe stato impossibile sentire i testimoni perché erano in vacanza: una pezza peggiore del buco perché la prima persona da ascoltare sarebbe stata proprio Alessandra che in ferie non era, come dimostra la tragica circostanza di essere stata uccisa sotto casa sua. Quanto ad altre persone informate dei fatti, salvo che non fossero in crociera nell’arcipelago di Vanuatu (tanto per dirne una) imponendo una complicata rogatoria internazionale, sarebbe bastata – come spesso si fa – una delega per farle interrogare dai Carabinieri del luogo ove si trovavano.

    Oppure…non sarà che in ferie è andato il P.M. incaricato ed il suo sostituto non si è raccapezzato tra fascicoli che non conosceva? A pensar male si fa peccato ma spesso non si sbaglia.

    Il Procuratore Capo di Bologna, in seguito e un po’ in affanno, ha difeso l’operato del suo Ufficio  affermando che, sia pure dopo mesi di appostamenti sotto casa, violazioni della posta elettronica e dei social networks, danneggiamenti dell’auto ed altro ancora, non vi erano elementi da cui dedurre l’attualità di un pericolo e non sarebbe stato possibile richiedere un provvedimento restrittivo di alcun genere – neppure un divieto di avvicinamento? – perché, a tal fine, sarebbe stato previamente indispensabile ottenere riscontri a quanto esposto per evitare di incarcerare una persona che, a seguire, potrebbe risultare innocente: apprezzabile quanto insolito conato di garantismo che confligge con l’evidenza che se le indagini non si fanno appare improbabile che i fatti vengano chiariti ed i riscontri si rinvengano per virtuoso intervento dello Spirito Santo.

    La verità potrebbe davvero essere un’altra ed ancora una volta insita negli immutabili ed intoccabili standard italiani: le vacanze d’agosto, caschi il mondo, non si toccano mentre proprio il resto del mondo le fa scaglionate.

    In una vicenda come questa, poi, nel “rispetto” di un altro modello di diffusa sottocultura non poteva mancare una voce stonata: quella del Direttore Generale della Croce Bianca della Emilia Romagna, tal Donatello Alberti – verrebbe da definirlo un ennesimo esempio di pezzente morale – il quale non ha mancato di osservare come l’abbigliamento della sventurata (che, tra l’altro, lavorava nel settore della moda) fosse da  donna scostumata e provocante e, quindi, non c’è da sorprendersi se è stata aggredita dopo aver fatto ingelosire un povero ragazzo.

    Nel frattempo, quando ormai è troppo tardi, l’assassino è stato arrestato ma non può certo dirsi che l’attesa di giustizia ne sia soddisfatta: le cautele si sarebbero potute e dovute adottare un istante prima…ma prima di tutto negli standard italici viene il meritato riposo agostano.

  • In attesa di Giustizia: standard italiani

    Blogger, influencer, tik-toker,  trapper…tra le nuove professioni – ammesso che tali possano chiamarsi – è la desinenza “er” a definire un modello di impiego che, tra l’altro, fa anche tendenza (o, meglio: è trendy).

    Ammettiamolo: il trapper risulta, probabilmente, il più ostico da inquadrare perché non è il rapper (come dimenticarsene) ma neppure una tradizionale figura di escursionista anglofono ed a creare confusione soccorre, oltretutto, un’ulteriore nota caratterizzante: a quanto pare, e per quanto è dato apprendere dalle cronache, i trappers non sono per nulla estranei a forme di devianza criminale che con un genere musicale – altra parola grossa – non dovrebbero avere nulla a che fare. E’ il crepuscolo della società civile.

    Del resto, nel gergo invalso ad Atlanta, da cui il termine deriva, “trap” è il luogo di spaccio: dunque, non deve sorprendere che questi musicisti (??) oltre ad inneggiare alle droghe nelle loro composizioni ne facciano largo impiego e non solo a livello personale; come nel caso di tal Elia 17 Baby, nella cui abitazione romana, non più tardi di qualche mese fa, sono state trovate migliaia di bustine di stupefacenti ed una discreta collezione di coltelli a serramanico.

    Vi sarebbe da immaginarsi che un giovine così virtuoso trascorresse le vacanze estive a Regina Coeli ed invece era a Porto Cervo dove, per ingannare il tempo, ha pensato bene di usare una delle sue lame – per motivi assolutamente futili – contro un ragazzo di Sassari che ora rischia la paralisi. Pur restando nei pressi della Costa Smeralda, è ora (ed era ora) ospite del Ministero della Giustizia nel carcere di Tempio Pausania.

    Piuttosto che a Regina Coeli – che non dispone di una sezione femminile – bensì a Rebibbia è finita nei giorni scorsi la ex sarta ultraottantenne di Sofia Loren ed altri noti artisti per avere ferito in maniera non grave ed anche questa volta con un coltello, però uno di quelli trovati là per là in cucina, il marito che l’aveva aggredita: una storia che non ha di certo il sapore della tendenza a delinquere e della pericolosità sociale.

    Bizzarri standard italiani: lo spacciatore per il quale non sarebbe stato dannoso un periodo di riflessione nelle patrie galere era libero, una vecchietta che si è difesa come ha potuto è finita subito dentro.

    Ma…ma…da qualche parte non sta scritto che oltre una certa età non si può essere arrestati? Beh, la legge è fatta per essere interpretata, no? Basterà ricordarsi di Calisto Tanzi che quando finì sotto processo i suoi anni li aveva e veniva portato in tribunale con l’ambulanza, la maschera ad ossigeno e, naturalmente, i piantoni della Polizia Penitenziaria.

    A Londra, intanto, è iniziato un giudizio contro giornalisti del Corriere della Sera rei di avere pubblicato notizie sul presunto coinvolgimento di tal Raffaele Mincione un finanziare italo – inglese nella fosca vicenda degli immobili acquistati proprio a Londra dal Cardinale il cui nome ricorda uno starnuto: Angelo Becciu.

    La difesa ha provato a sostenere che gli articoli incriminati sono stati scritti in italiano e finiti solo sul Corriere, cioè in Italia per un pubblico italiano e che “in Italia si fa così”: Suo Onore il Giudice Davidson ha osservato che non solo quella britannica ma anche la legge italiana vieta la violazione del segreto istruttorio; facciano quello che vogliono nel Bel Paese ma un quotidiano – quale che sia la lingua in cui è scritto – è acquistabile ovunque e leggibile in rete ed in Gran Bretagna degli standard italiani non sanno che farsene: se si offende la reputazione di un cittadino, considerata intangibile sulla base di semplici ipotesi tutte da confermare, si  viene condannati.

    Ed, a proposito di standard italiani, e sorridere almeno un po’ viene da domandarsi perché nessuno finora abbia fatto notare a Flavio Briatore che sulla pizza il Pata Negra non ci va non solo perché viola il capitolato della ricetta tradizionale ma anche perché mettere quel prosciutto pregiatissimo su qualsiasi cosa calda è un crimine e significa rovinarlo. Fare il contrario è, tra l’altro, una cafonata da arricchiti ma a qualcuno va bene così: questione di standard.

Pulsante per tornare all'inizio