Giustizia

  • In attesa di Giustizia: Giustizia, ma quale giustizia? Ma mi faccia il piacere!

    Governo balneare, non è la prima volta, ed una campagna elettorale contratta,  volta a screditare gli avversari più che ad illustrare programmi che dovrebbero orientare la scelta degli elettori e, soprattutto, stimolarli a recarsi alle urne; lo scenario non è confortante, in particolare per uno dei settori cruciali – ma anche più disastrati – della Pubblica Amministrazione del quale sembra che ci si sia quasi completamente dimenticati: la giustizia.

    Nessuno ne parla, probabilmente perché, come si è sostenuto altre volte in questa rubrica, la giustizia non genera consenso (fondamentale più che mai in vista di una tornata elettorale), diversamente dalla sicurezza con la quale – spesso – viene confusa.

    Non per nulla, una delle primissime iniziative della declinante legislatura è stata quella sulla modifica della disciplina sulla legittima difesa che a questa confusione si presta benissimo: il prodotto finale è stato una normativa pasticciata e non priva di profili di dubbia costituzionalità come il Presidente Mattarella non ha mancato di rimarcare in una insolita lettera di accompagnamento alla promulgazione della legge.

    Viene da chiedersi, allora, perché il Garante della Costituzione l’abbia firmata, non certo il motivo per cui la raccomandazione di rivedere alcuni punti sia rimasta inascoltata: perché è caduta nel vuoto in senso stretto, quel vuoto torricelliano di cognizioni (alcune basilari) che caratterizzava una consorteria di analfabeti di ritorno del diritto capeggiata dall’esilarante clown trapanese che risponde al nome di Fofò Bonafede.

    La materia rimane oscura come dimostra il caso recente dell’ambulante nigeriano aggredito ed ucciso senza motivo in pieno giorno a Civitanova Marche: i presenti che avrebbero ben potuto e dovuto intervenire hanno di gran lunga preferito filmare la scena con i telefonini e condividerne l’orrore su whatsapp.

    Ma, tant’è: a prescindere dall’irrisorio quoziente di senso civico in generale, la propaganda ha sicuramente prodotto ben altre riflessioni sul significato di difesa legittima nei non addetti ai lavori.

    A caccia di fondi del PNRR, nel frattempo, si è in qualche modo posto mano a riforme del processo sia penale che civile: in parte opinabili dovendosi – ahimè –  tenere conto del voto in aula della compagnia di giro del cabarettista genovese;  innovazioni, peraltro, apprezzate (ma non del tutto…) anche a Bruxelles e allora della giustizia ce ne si può serenamente dimenticare…o, forse, no perchè molto resta da fare.

    Vi è – innanzitutto – la condizione critica in cui versano gli uffici giudiziari a causa della scarsità di risorse umane: trascurando per un momento il tema dell’organico dei magistrati (che risultano difficili da reclutare anche per carenza di nozioni fondamentali della lingua italiana dei candidati, come dimostrato in un recente concorso), quello dell’indispensabile personale amministrativo non è da meno

    E’ storia attuale quella del Tribunale di Monza – il sesto d’Italia per bacino di utenza, quantità e qualità degli affari trattati – che ha visto avvocati e magistrati protagonisti di una agitazione congiunta causata della inefficienza degli uffici per mancanza di cancellieri e segretari.

    Medesima sorte sta avendo la Procura della Repubblica di Piacenza, il cui Capo ha dovuto emanare una circolare con cui prende atto che l’Ufficio è al collasso ed alcuni servizi sono stati, di necessità virtù, sospesi: basti dire che – senza che al momento sia prevista alcuna sostituzione – dodici addetti su trenta sono andati in pensione nel mese di maggio ed a breve toccherà ad altri tre.

    L’elenco potrebbe continuare ma limitiamoci a questi due casi emblematici, a restare in attesa di giustizia, a sperare almeno che qualcuno si ricordi por mano al settore con l’intensità e la competenza necessarie. Possibilmente, non solo in campagna elettorale ma anche dopo.

  • In attesa di Giustizia: le procure muoiono ma non si arrendono

    Nei giorni scorsi si sono conclusi due processi che hanno molto interessato cronache ed opinione pubblica: a Cassino quello per l’omicidio di una ragazza, Serena  Mollicone, avvenuto molti anni fa (si sospetta in una caserma dei Carabinieri e ad opera di alcuni di costoro) e definito con l’assoluzione di tutti gli imputati, sia pure rilevando una insufficienza delle prove; il fatto di sangue, sicuramente, rientra tra quelli caratterizzati da depistaggi reali o presunti, opacità del contesto e distanza nel tempo tra gli accertamenti e quanto accaduto. Il che, anche con il supporto delle moderne scienze forensi, non aiuta l’opera  degli investigatori.

    Un’ Assise, peraltro, si è pronunciata e le motivazioni della sentenza saranno rese note solo in autunno; è, quindi, forse un po’ presto per criticare una decisione senza conoscerne gli argomenti a sostegno: Il Procuratore capo di Cassino, peraltro, si è sentito in dovere di fare un comunicato stampa con il quale elogia il lavoro dei propri magistrati, l’impegno e rassicura i cittadini che si è fatto tutto il possibile, preannunciando che verrà in ogni caso proposto appello.

    Orbene, che si sia fatto tutto il possibile per dipanare la matassa e fare chiarezza  su una vicenda oscura va a merito degli inquirenti ma che non si accetti che l’assoluzione sia uno degli esiti possibili della giustizia anticipando l’impugnazione senza neppure avere letto le motivazioni  non è accettabile come non lo è che si debba avere un colpevole ad ogni costo. Come dire: un bel tacer non fu mai scritto.

    Il secondo caso di cui ci occupiamo questa settimana  riguarda invece proprio l’esito di un appello voluto a tutti i costi e presentato dalla Procura della Repubblica contro un’assoluzione: quella di tutti i manager accusati per un presunta maxi tangente oggetto della fallimentare indagine “ENI – Nigeria”.  Assoluzione in esito alla quale il P.M. che le aveva condotte e sostenuto l’accusa in giudizio – bricconcello –  è finito a sua volta sotto processo per sciocchezzuole  tipo nascondere le prove a favore degli accusati e, come sembra, anche falsificarne qualcuna per meglio sostenere le proprie tesi.

    Il Sostituto Procuratore Generale cui era stato assegnato il fascicolo, in udienza ha rinunciato all’appello e per farlo sarebbe bastata una dichiarazione in tal senso chiudendo velocemente la partita con una conferma delle assoluzioni. Tuttavia,  di fronte alla pertinacia del Collega inquirente (e inquisito), ha ritenuto di andare oltre con una durissima reprimenda parlando di “una situazione di illegalità di fondo rispetto alle indicazioni di regolarità del processo, in assenza di qualsiasi prova a carico degli imputati e dell’esistenza solo di chiacchiere e opinioni generiche che hanno tenuto quindici persone e tredici aziende sulla graticola per oltre sette anni senza alcun motivo”.

    Il processo, ha aggiunto, non è la sede per fare sperimentazioni dialettiche e i motivi di appello proposti contro la sentenza di primo grado sono incongrui, insufficienti  e fuori dai binari della legalità, che l’agire della Procura è sintomatico di una sorta di “colonialismo morale” e via picconando.

    Queste due vicende possono essere l’occasione per riprendere a ragionare sulla eliminazione del potere di appello del Pubblico Ministero, che trova il suo fondamento nel rispetto del nostro assetto codicistico e costituzionale per il quale l’unica ragione che dia senso ai successivi gradi di giudizio è il dubbio che l’imputato sia innocente e non colpevole.

    Troppo spesso l’appello del Pubblico Ministero si rivela come la seconda mano di una partita che l’accusa vuole vincere ad ogni costo quasi fosse una scommessa da cui dipenda la credibilità dell’Ufficio di Procura ma non è di scommesse o scommettitori di cui ha bisogno la Giustizia, e meno che mai di giocatori d’azzardo e bari.

  • In attesa di Giustizia: scandalo!

    Una recentissima decisione della Corte di Appello di Torino ha provocato indignazione generalizzata:, la Boldrini – tra gli altri – ha subito commentato che si tratta di una sentenza scandalosa  perché, riformando una condanna del Tribunale per violenza sessuale, ha assolto  l’imputato.

    Vi è da dubitare che, come la Boldrini, molti altri commentatori (se non tutti) ignorino il contenuto del fascicolo e neppure la competenza tecnica per fare valutazioni giuridiche: è, piuttosto, ben possibile che si siano affidati a brandelli di motivazione pubblicati dai giornali alla ricerca di incongruenze argomentative. Neppure alla redazione de Il Patto Sociale conosciamo la vicenda e tantomeno i giudici: è, però, noto che la Corte fosse presieduta da una donna (il che, qualcosa può significare) e, come di consueto, in questa rubrica  non si tratterà  di processi senza cognizione di causa ma di ben altro.

    E’, invero, opportuno riflettere su quella che è la  coazione a ripetersi di un corto circuito mediatico che in tema di processi per violenza sessuale segue un copione immodificabile.

    Una prima riflessione è che in questo Paese la notizia di una assoluzione, in generale, desta allarme, non parliamo poi se ciò accade in appello dopo una condanna in primo grado,  per quegli stessi fatti ed in base al medesimo materiale probatorio: tutto ciò è percepito come il segno di una grave anomalia.

    Avviene, invece il contrario se si è condannati  nel secondo grado di giudizio dopo una prima  assoluzione: in questo caso è la giustizia che ha trionfato, una stortura è stata raddrizzata. Questo riflesso forcaiolo è moltiplicato se il processo ha, per l’appunto, ad oggetto una accusa di violenza sessuale e si espongono al pubblico ludibrio dei giudici che hanno osato assolvere, si scava nella motivazione, la si riduce a brandelli, raspollando ogni locuzione eventualmente infelice utile a dimostrare che il proscioglimento è frutto esclusivo di un modo di ragionare maschilista e misogino.

    Naturalmente, qualcosa di simile può sempre accadere ed è sicuramente accaduto in passato, va detto senza infingimenti, con responsabilità equamente divise tra avvocati e giudici asserviti a becere considerazioni del tipo: “era lei ad essere vestita in modo provocante, dove se ne andava in giro di sera conciata in quel modo, le è piaciuto”, e via dicendo. Sempre più raramente, per fortuna, si ascoltano avvocati che si affidano a simili bassezze, e giudici che mostrino di condividerle.

    E’ intollerabile ed incivile, invece,  che siano giudicati gli esiti di un processo da qualche frase estrapolata qui e là. Anni fa fece storia, in proposito, una sentenza della Corte di Cassazione di cui si valorizzò una frase incidentale che ragionava, tra mille altri e ben più corposi argomenti, anche su quanto fossero stretti i jeans della presunta vittima e come potessero essere stati tolti senza impiegare violenza: si  scatenò subito il linciaggio contro una decisione  molto ben strutturata e meditata basandosi su un dettaglio ininfluente.

    Nulla sembra essere cambiato oggi, e se è sacrosanta la condanna di comportamenti sessuali  alimentati da una subcultura misogina ed ottusamente maschilista, nemmeno si può pretendere, che vi sia una sorta di statuto speciale della prova per i reati di violenza sessuale. Si è disposti ad accettare il dubbio su un omicidio, ma non su una violenza sessuale. Tema invece, quest’ultimo, delicatissimo quando essa si colloca in quella zona grigia nella quale occorre accertare rigorosamente sia la certezza della mancanza di  consenso al rapporto sessuale, quanto la  percezione di un dissenso da parte di chi avanza l’approccio. Sono dati cruciali, che il giudice deve ricostruire in via induttiva da ogni possibile dettaglio; e se quella ricostruzione pone in crisi l’esistenza dell’uno o l’altro elemento della condotta, si impone l’assoluzione come per qualunque altro reato, anche il più efferato. Il Giudice deve essere libero da ipoteche ideologiche o da ricatti culturali, perché è chiamato semplicemente a ricostruire un fatto. Se lo fa male, c’è il rimedio delle impugnazioni, per fortuna. Ma non si può accettare l’idea che il giudice sia sospetto di aver fatto male il proprio mestiere solo quando assolve: questa sì, è la notizia che dovrebbe allarmare.

  • In attesa di Giustizia: correnti e spifferi

    Il Presidente Mattarella ha indetto per il 18 e 19 settembre le elezioni per il rinnovo del C.S.M.: un Consiglio che arriva faticosamente al suo termine naturale dopo essere stato investito dalle conseguenze dell’”affaire Palamara” che ha determinato – tra l’altro – la necessità di elezioni suppletive causate dalle dimissioni di alcuni componenti che ne erano stati coinvolti, dalle polemiche per la gestione anomala di verbali secretati della Procura di Milano da parte di Piercamillo Davigo, dalla ostinata resistenza di costui alla cessazione della funzione consiliare dopo il pensionamento. Queste, solo per citare alcune delle criticità che hanno interessato il quadriennio più tribolato dell’organo di autogoverno della magistratura che, a memoria d’uomo, si ricordi tra spifferate editoriali sulle modalità di affidamento degli incarichi più prestigiosi e crisi delle correnti (largamente politicizzate) alle quali appartiene la gran parte dei circa 9.600 magistrati ordinari in servizio. Per non parlare della gestione delle indagini contro l’avversario di turno del partito di riferimento, a prescindere dalla fondatezza.

    E se il Consiglio Superiore, anche in passato non ha dato prova del dovuto rigore – in sede disciplinare e non solo – non altrettanto può dirsi delle correnti: lo dimostra la recente pubblicazione su “Questione Giustizia”, la rivista di Magistratura Democratica, di interessanti documenti relativi al caso Tortora che attestano quanto dura sia stata in allora la presa di posizione di MD nei confronti sia dei magistrati responsabili di quella sciagurata indagine, sia della decisione del CSM di archiviare ogni procedimento disciplinare sui medesimi. Una presa di posizione pubblica di una tale durezza che portò addirittura alla crisi della Giunta di A.N.M., che dovette dimettersi.

    Con questa pubblicazione e il richiamo ad una storia remota ma non dimenticata si rivendica una precisa identità culturale e politica di quella parte della magistratura italiana, proprio in relazione al caso simbolo della malagiustizia italiana. Come dire (e da sempre su queste colonne condividiamo il concetto) che la magistratura italiana non è (o non è stata?) una indistinta espressione di desolanti riflessi corporativi. E le correnti, intese come espressione di pensiero e culture differenti all’interno della giurisdizione, sono (o sono state?) occasione di confronto, di crescita civile, di ricchezza culturale.

    Marzo del 1989, all’indomani della definitiva assoluzione di Enzo Tortora: la denuncia contro gli uffici giudiziari napoletani viene estesa anche alla oscura gestione dell’inchiesta sull’omicidio del giovane giornalista Siani e  MD chiede con determinazione che il CSM dia seguito a severi provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati responsabili “del più dirompente caso della vita politico-istituzionale italiana”. Denunciano l’assurdità che uno di essi, il dott. Felice di Persia, sia stato nel frattempo eletto proprio al CSM. Tutto inutile, il CSM archivierà ogni accusa e Magistratura Democratica non mancò di registrare che “la logica corporativa non tollera che dall’interno della magistratura vengano critiche alla gestione degli uffici giudiziari o allo stesso CSM”.

    C’è, dunque, anche nobiltà della storia del correntismo all’interno della magistratura, ma ciò che dobbiamo domandarci oggi è cosa sia rimasto di quelle spinte ideali, di quella indipendenza di pensiero, e soprattutto di quella attenzione alle garanzie ed ai diritti nei processi; e semmai, come poterli recuperare. Il Paese ha attraversato anni di drammatica alterazione degli equilibri costituzionali, con una esondazione catastrofica del potere giudiziario in danno del potere politico e la superfetazione del potere  incontrollato delle Procure. Vi è da sperare che almeno una parte della magistratura italiana sia  attraversata da una riflessione critica ed autocritica su questi temi? O quella bella pagina “napoletana”, tra spifferi e correnti,  resterà solo un lontano  ricordo, da guardare con malinconica trepidazione, come si fa con gli album di famiglia?

  • In attesa di Giustizia: tanto rumore per nulla

    Mentre la Ministra Cartabia si affanna tra le polemiche, supportata da Commissioni tecniche, a riformare il sistema giustizia – anche per non perdere i fondi del PNRR – sembra che ci si sia dimenticati che quella delicata branca della Pubblica Amministrazione non è fatta solo di strumenti, codici e protocolli ma di uomini: molti dei quali sono autentici servitori dello Stato, cioè dei i cittadini…beh, non proprio tutti, alcuni un po’ meno.

    Il riferimento è a coloro – pochi, comunque non sono – che sono stati coinvolti nello “scandalo Palamara”, figure emerse dalle sue chat intercettate dalla Procura di Perugia e dal racconto che egli stesso ne ha fatto e trasfuso in un best seller firmato con Alessandro Sallusti.

    Già, che fine hanno fatto quei magistrati che, a voler usare un eufemismo, si autopromuovevano seguendo canali preferenziali per ottenere incarichi direttivi in importanti Uffici Giudiziari quando non diversamente impegnati a processare l’avversario di turno della parte politica di riferimento con indagini dall’impianto probatorio traballante?

    Esclusi i pochi (una “mezza sporca dozzina”) che sono stati protagonisti di un incontro spartitorio di incarichi durante una serata conviviale all’Hotel Champagne di Roma (tra questi, il medesimo Luca Palamara) del destino di tutti gli altri si hanno poche e frammentarie notizie.

    Cerchiamo di capire come mai. Può darsi, ma è solo una eventualità per amor di Dio, che ciò dipenda dal risultato di una raffica di circolari adottate dal Procuratore Generale della Cassazione, che è il titolare della iniziativa disciplinare nei confronti dei magistrati.

    Una prima di queste chiarisce che l’autopromozione ad incarichi apicali mediante appoggi correntizi non costituisce illecito disciplinare. Con buona pace della Costituzione che prevede procedure concursuali  e valutazione di titoli e merito e non traffico di influenze e raccomandazioni.

    Una seconda circolare chiarisce che anche con riguardo a condotte scorrette gravi l’illecito può non essere configurabile se il fatto è di scarsa rilevanza. Qualcuno, però, dovrà illuminarci su come possa essere considerata di scarsa rilevanza una condotta gravemente scorretta. Ossimori.

    Sono state poi secretate le motivazioni alla base delle archiviazioni dei procedimenti disciplinari intervenute direttamente senza neppure approdare al C.S.M. per un vaglio più approfondito.

    Al C.S.M., viceversa, qualcosa – con riguardo ai pochi fascicoli pervenuti – si muove ma vediamo come: di recente, dopo aver graziato Donatella Ferranti, oggi magistrato alla Corte  di Cassazione, un altro giudizio benevolo è toccato ad Anna Canepa della Direzione Nazionale Antimafia che nel biennio 2017-2019 aveva interloquito con Luca Palamara pregandolo di intercedere per evitare che a capo della Procura di Savona approdassero, in alternativa, due P.M. definiti nella chat “dei banditi” e sollecitando l’appoggio ad un terzo.

    Tanto rumore per nulla, un po’ come in una celebre commedia di Shakespeare: nei casi che ci interessano si è trattato evidentemente solo di esagerazioni moralistiche riferite ad un fatterello del tutto marginale ed inconsistente.

    Secondo il C.S.M., infatti, nel “caso Canepa” va bene così perché non ci sarebbe stato alcun turbamento negli uffici e nello svolgimento delle funzioni. Noi, miseri utenti del servizio giustizia, vorremmo almeno sapere perché in quel di Savona la Procura della Repubblica rischiava di essere amministrata da due presunti banditi e di quali crimini si sarebbero macchiati costoro: viceversa, il finale di questa come di altre vicende analoghe è amaramente comico per le motivazioni impiegate e faticosamente costruite con il contributo di  maggioranze raccogliticce, secondo le utilità del momento e per salvare l’insalvabile.

    Se, poi, nel lieto fine abbia anche avuto un ruolo l’essere stata Anna Canepa Segretaria di Magistratura Democratica, e Donatella Ferranti ex parlamentare del PD, è altro aspetto che non sarà mai chiarito, sebbene a pensar male si faccia peccato ma…insomma fatevene una ragione: con le riforme arriveranno anche i fondi del PNNR per la Giustizia, tuttavia la sensazione è che, gattopardescamente, nella sostanza cambierà tutto per non cambiare nulla.

  • In attesa di Giustizia: commenti post partita

    Le premesse, c’erano tutte: in un Paese dove si fatica a far votare il 50% degli elettori alle elezioni politiche il raggiungimento del quorum di un referendum costituisce pia illusione e il clamoroso fallimento di quelli sulla giustizia non deve sorprendere né trovare scusanti considerata anche la scarsa informazione in proposito che vi è stata e la tradizionale incomprensibilità dei quesiti.

    Così è stato che, traendo spunto dalla lettura dei giornali ed ascoltati i commentatori, in una sola domenica, l’Associazione Nazionale Magistrati  è passata da esercito borbonico in fuga, a terza potenza mondiale, e il suo Presidente da comandante della Costa Concordia a capo della Spectre.

    Sul versante opposto, gli avvocati che si erano spesi per la raccolta di firme ed erano stati ammirati  per il loro impegno sono stati scaricati e ritenuti corresponsabili del flop mentre è proprio oggi che andrebbero ringraziati per essersi esposti per le loro idee e aver tentato di fare comunicazione, pur sapendo che alle urne sarebbe stata durissima.

    Dunque, viene da pensare che al cittadino medio, tutto sommato, della giustizia interessi poco.

    Dipende: un recentissimo fatto grave di cronaca ha scatenato polemiche e dibattiti, soprattutto tra i “leoni da tastiera” che non hanno trovato di meglio che scagliarsi contro il difensore di Martina Patti,  la mamma catanese accusata dell’omicidio della piccola Elena, attaccato in modo violento sui social.

    In tal modo risultano affermati  due controprincipi:

    1) chi si macchia di delitti terribili come l’omicidio di una creatura innocente non ha il diritto di essere difeso e non ha neppure ad un processo;

    2) l’avvocato che decide di assistere una simile persona dimostra affinità con il crimine commesso, mentre dovrebbe prenderne le distanze rifiutandosi di difendere.

    Sono attacchi che provengono da soggetti  che culturalmente dimostrano povertà e ignoranza.

    I cittadini sanno,  o almeno dovrebbero sapere, che l’avvocato non difende il delitto ma il diritto, il diritto di ognuno ad avere un processo svolto secondo le regole.

    Questi commenti, questa violenza verbale, vien da pensare che non siano frutto solo di ignoranza ma anche di rabbia e odio e forse anche di impotenza e frustrazione di fronte a situazioni familiari che maturano ed esplodono in contesti sociali degradati.

    Nessuno dei commentatori, tuttavia, focalizza il vero  problema: quello del fallimento dello Stato sociale e della inefficienza – non sarebbe la prima volta – dei servizi territoriali che hanno fatto mancare supporto ad una famiglia che ne era evidentemente bisognosa. Per ora sono tutti concentrati a massacrare la donna mostro, senza fermarsi neppure un attimo a riflettere sul disagio che possa avere alimentato un gesto così innaturale e sulla prevenzione mancata.

    La giustizia sembra, allora, essere un interesse a corrente alternata: almeno fino a quando non si incappa nelle sue maglie o non vi è qualche morboso interesse a ficcanasare in vicende di cui si conosce solo l’esteriorità… e dei referendum chissenefrega anche solo di sapere a cosa miravano.

    Nel frattempo nei bar tengono banco la nazionale e il calciomercato.

  • In attesa di Giustizia: tutto il mondo è paese

    Tutto il mondo è paese: non che il “mal comune mezzo gaudio” debba essere davvero motivo di consolazione ma è corretto registrare che anche altrove l’amministrazione della giustizia alimenta polemiche di ogni genere.

    Probabilmente in California non è mai giunta l’eco delle prodezze e dei programmi di intervento di Pubblici Ministeri come Piercamillo Davigo (“rivolteremo l’Italia come un calzino”) ma, tant’è, vi è stata recentemente una vera e propria sollevazione contro quella che si è definita “politica permissiva” di alcuni Procuratori distrettuali, come quello di Los Angeles che è stato addirittura destituito attraverso un referendum popolare: cosa possibile, perché nel sistema americano, i pubblici ministeri sono un organo politico eletto direttamente dal popolo e il popolo ai referendum va a votare.

    Al “District Attorney” della Città degli Angeli è stato attribuito l’aumento della criminalità di strada – quella maggiormente percepita dalla popolazione – perché con la sua politica avrebbe ridotto la sicurezza pubblica.

    Come? Alleggerendo, per esempio, i requisiti per la cauzione e in tal modo rendendo più facile per i presunti autori di reati tornare liberi ed anche rifiutandosi di perseguire determinati reati, come il vagabondaggio o la prostituzione: altra cosa possibile, sì,  perché, sempre nel sistema americano, l’azione penale è facoltativa e non obbligatoria come da noi, dove Travaglio – per un’iniziativa simile – avrebbe scatenato  una sorta di guerra civile.

    Eppure è un dato statistico costante che, in America, negli Stati dove vige la pena di morte il tasso di criminalità è addirittura più elevato rispetto a quelli dove quella massima è l’ergastolo.

    Anche oltre Oceano, quindi, il denominatore comune del populismo è lo stesso che da noi: più repressione uguale più sicurezza.

    Forse non sarebbe sbagliato riconsiderare che il problema non nasca  da un facilitato accesso  alla libertà su cauzione ma vi sia un rapporto causa/effetto nella coincidenza temporale fra l’inizio della pandemia e l’aumento della criminalità di strada. Il populista medio, però, fa un uso normalmente contenuto della elaborazione del pensiero.

    Tutto il mondo è paese: è cronaca di questi giorni il susseguirsi di reati contro il patrimonio tipicamente “da strada”, soprattutto a Milano e – forse non a caso – in coincidenza con la fiera del mobile e del design; evidentemente vi è un malessere diffuso, un problema sociale che non può essere risolto attraverso il sistematico ricorso al diritto punitivo ed il tintinnare delle manette che non svolgono alcuna reale funzione deterrente…e giustizia e sicurezza sono concetti adiacenti ma non analoghi ed i rigori della prima non possono essere la soluzione della seconda per la quale il rimedio è la prevenzione.

    Prevenzione che – a certi livelli – si realizza anche con interventi che pertengano la salvaguardia dell’occupazione e l’adeguatezza della retribuzione dei lavoratori. L’impoverimento è la prima causa di devianza, particolarmente della microcriminalità  e non si contrasta né con il carcere né con misure quali il reddito di cittadinanza che non è una cura ma un cerotto su una ferita.

    Indipendentemente dall’esito dei referendum nostrani di sicurezza e di problemi della giustizia si continuerà a parlare perché la verità è che la politica tende ad ignorarli sebbene si abbattano sui cittadini e che ai magistrati interessa più la loro politica interna, correntizia, piuttosto che quella del Palazzo. E la prova è che tutti parlano da sempre dei mali dell’amministrazione dei tribunali senza che sia mai stata trovata una soluzione. Anzi,  l’impressione è che, più se ne parla, meno si fa e più i mali della giustizia si aggravano. Prendiamo il sovraffollamento carcerario che si ripropone a cadenze regolari di qualche anno o la lunghezza dei processi che sembravano eterni già negli anni Settanta ed oggi durano ancora di più. La ragione di tutto questo? Sciatteria, è la prima parola che viene in mente.

  • In attesa di Giustizia: referendum, che mistero

    Ci siamo: in contemporanea con un limitato election day si voteranno i referendum sulla giustizia.

    Sottoscritti da un elevato numero di cittadini, i quesiti ora sottoposti agli italiani sono poco conosciuti e, come da deprecabile tradizione, poco comprensibili ed il fronte del NO li bombarda neanche fossero le case di Mariupol: invece di provare a spiegarli si criticano perché troppo tecnici, lontani dalla gente, incomprensibili.

    Fatto chiaro che il sottoscritto non solo andrà a fare il suo dovere alle urne ma che voterà convintamente sì a tutti, non è questa la sede per dare indicazioni di voto: piuttosto di provare a  spiegare, per chi non ne avesse ancora contezza (il cosiddetto servizio pubblico, non ha sin qui dedicato molto spazio all’argomento) di cosa si tratti. Poi, ognuno sceglierà: purchè la scelta non sia quella di andare al mare anche considerando che il week end appena trascorso dovrebbe aver saziato la sete di acqua salata.

    Facciamo buon governo della sintesi procedendo per quesiti:

    1 – Abolizione della “Legge Severino”

    La norma prevede meccanismi automatici di incandidabilità, ineleggibilità o decadenza automatica per parlamentari, ministri, consiglieri regionali, sindaci ed amministratori locali; in taluni casi è possibile la sospensione dalla carica elettiva fino a diciotto mesi anche in assenza di una sentenza definitiva di condanna.  Deve precisarsi che l’interdizione dai pubblici uffici è già prevista dal codice penale come pena accessoria conseguente alla condanna per numerosi reati e la sua applicazione è demandata direttamente al giudicante.

    2- Limitazione della carcerazione preventiva

    La norma sottoposta a scrutinio è quella che prevede la possibilità di incarcerare anche per reati di minore gravità un indagato in attesa di giudizio ricorrendo alla formula generica che prevede il rischio di commissione di altri crimini anche in casi in cui il soggetto risulti oggettivamente non pericoloso.

    3 – Separazione delle funzioni dei magistrati

    Fatta la premessa che la distinzione dei magistrati per funzioni (giudicante o inquirente, Giudici e P.M., per intenderci meglio) è già prevista dalla Costituzione, la norma che si chiede di abolire è quella che prevede la possibilità di passare da un ruolo all’altro anche più volte senza significativi sbarramenti il che può costituire un limite per la effettiva terzietà del giudicante, a sua volta voluta dall’art. 111 della Costituzione

    4 – Equa valutazione dei magistrati

    La disciplina che si intende abrogare è quella che prevede l’esclusione di avvocati e docenti universitari facenti parte dei Consigli Giudiziari  – che sono definibili come dei C.S.M. “territoriali” – dalla possibilità di valutare l’operato dei magistrati del Distretto di Corte di Appello di appartenenza. Valutazione che, in seguito, verrà trasmessa al C.S.M. al fine di procedere a promozioni, attribuzione di funzioni e dirigenza di uffici. Si badi bene che del C.S.M. fanno parte anche membri “laici”, cioè avvocati e docenti di materie giuridiche che, in quella sede, hanno diritto di voto.

    5 – Riforma del C.S.M.

    Il referendum si propone di abolire la norma per la quale un magistrato che intenda candidarsi al Consiglio Superiore debba raccogliere almeno venticinque firme di colleghi che ne sostengano la candidatura: nei fatti, deve avere pertanto il sostegno di una delle “correnti” criticate per la tendenza a decidere questioni organizzative secondo logiche spartitorie. In sostanza si vorrebbe rendere libera la candidatura di chiunque a prescindere dall’appoggio di chicchessia: colleghi o correnti.

    La speranza è quella di avere coniugato nel meno imperfetto dei modi sintesi e chiarezza: certamente, se qualcuno dei lettori necessitasse di un po’ di disinformazione c’è sempre la possibilità di passare dall’edicola e comperare il Fatto Quotidiano.

    Sarà così possibile assistere ad un assedio ai referendum assimilabile a quello delle acciaierie di Azovstal. Si disegnano scenari apocalittici, soprattutto con riguardo al quesito sulla limitazione della carcerazione preventiva che – laddove vincente – farà liberamente scorrazzare bande di delinquenti e predatori.

    Per carità cristiana evitiamo ai lettori i passaggi più pregnanti del ragionamento giacobino: basti dire che, secondo l’house horgan dei manettari le detenzioni ingiuste sono in percentuale da prefisso telefonico.

    Tuttavia, tirando le somme sui dati proposti che sono relativi all’anno 2021 come qualcuno ha fatto, si ricava l’evidenza che su 1000 misure cautelari, ossia su 1000 casi di anticipazione della pena:

    – 240 non sono giustificate, perché finite in assoluzione o pena da non scontare (la misura cautelare, infatti, presuppone una prognosi di condanna da scontare).

    – 582 ancora non si sa se risulteranno giustificate (non essendo definitive);

    – 178 erano le sole misure giustificate.

    Stando a quanto scrive il Fatto, possiamo dire che le misure cautelari del 2021 saranno giustificate all’esito dei processi in una forbice compresa tra il 17,8% e il 76%.

    Cioè, se tutto ve bene, un quarto di arresti ingiusti. Se va male, anche malcontati, quattro quinti.

    Se lo ritenete, recuperate il numero del 4 giugno del Fatto Quotidiano e rivedete i calcoli: sicuramente, il 12 non andate al mare ma a votare: comunque sia il referendum dovrà esprimere il  sentiment del Paese Reale.

  • In attesa di Giustizia: l’ometto furioso

    Riforma a firma Cartabia, referendum sulla Giustizia in arrivo (bene o male che andranno, la rapida e vincente raccolta di firme ha già espresso il sentiment di una larga fetta della popolazione), Davigo alla sbarra a Brescia: sono molte le ragioni di sofferenza per Marco Travaglio. E appena può si sfoga, soprattutto contro il nemico di sempre: quelle Camere Penali che avevano – invece – dalla loro parte Marco Pannella.

    Pensando di essere un arguto spiritosone usa chiamarle “penose”; motivo cioè di sofferenza, di pena, di cruccio, per forza: provano sempre a togliergli i giocattoli dalle mani, perciò strepita, frigna e pesta i piedi.

    L’ometto (ominicchio, se non peggio, lo definirebbe Leonardo Sciascia) dirige un quotidiano ormai per pochi intimi segnati da ossessione paranoide per manette, arresti, verbali di Polizia Giudiziaria, veline dei Servizi, il cui nome suona, se confrontato alla sua persona, come un ossimoro.

    Il nostro, invero, con i fatti ha un rapporto idiosincratico: per lui sono un optional, ma in genere è meglio prescinderne.

    Si è sgolato per anni nel dire che la prescrizione (suo chiodo fisso) è il privilegio di pochi potenti che se la procurano strapagando avvocati callidi e vagamente disonesti.

    Non gli importa che le prescrizioni riguardino 120mila processi l’anno, di cui 80mila senza che si sia arrivati neppure alla sentenza di primo grado, quando gli avvocati non toccano nemmeno palla.

    Lui deve dirlo a prescindere, tenere comizi in ospitali talk show senza – possibilmente – nessun contraddittore e gonfiandosi come un pavone: dei fatti, chissenefrega.

    Può darsi, e bisogna comprenderlo, che abbia avuto problemi irrisolti nell’età evolutiva, periodo delicatissimo: forse, da bambino era l’unico ad avere in camera il poster del Commissario Basettoni e  schiumava rabbia apprendendo ogni settimana, in edicola, che la Banda Bassotti era ritornata a piede libero.

    Se mai avrà letto “I Miserabili”, il suo cuore avrà palpitato per l’implacabile Ispettore Javert, giustamente a caccia di Jean Valejan, ladro recidivo specifico infraquinquennale, plurievaso, per di più liberato da un’amnistia: insomma un insopportabile pendaglio da forca beneficiato dal più peloso garantismo.

    Al cinema, guardando “Fuga da Alcatraz”, narrano che sia uscito dalla sala ed abbia telefonato ai Carabinieri.

    Senonché accade che non più solo gli “avvocatoni”, ma Procuratori Generali e Presidenti di Corte di Appello, da tutta Italia, abbiano bocciato la riforma  a lui più cara a firma Bonafede (tanto nomine nullum paret osseqium): quella sulla prescrizione. “Irrazionale, illogica, incostituzionale” sono state le definizioni più correnti.

    Nel Paese che è riuscito a mandare al governo terrapiattisti e manettari guidati da un comico in disarmo, l’ometto è diventato il leader indiscusso del giustizialismo italiano.

    Scrive di diritto pur ignorandone le fondamenta, assolve i buoni e condanna i cattivi, spiega ed interpreta sentenze, norme, disegni di legge e nei processi che lo vedono imputato per diffamazione si fa assistere da avvocati che ne chiedono il proscioglimento per prescrizione, rigorosamente a sua insaputa.

    Sono momenti difficili, bisogna comprenderne la sofferenza: le elezioni si avvicinano e i terrapiattisti vanno dissolvendosi come neve al sole ancor prima di quanto si potesse ragionevolmente immaginare ed ora c’è pure il rischio referendum oltre ai vari tentativi per silurare la riforma della prescrizione, a tacere di quella brutta persona di Amara che ha fatto finire sotto processo mezza Procura di Milano e del duo Sallusti-Palamara con i loro inutili racconti di qualche innocua marachella per garantire che i processi, soprattutto quelli contro Berlusconi e Salvini, finissero secondo la sua personale visione della giustizia.

    Uno così, se gli togli i giocattoli, non sai più come tenerlo.

    Non andate al mare, il 12 giugno.

  • In attesa di Giustizia: cronaca di un flop annunciato

    Lunedì 16 maggio avrebbe dovuto essere il gran giorno: quello della mobilitazione dei magistrati, indetta dalla Associazione Nazionale, per protestare contro la riforma proposta dalla Ministra Cartabia: se proprio dobbiamo dirla tutta, contro quella porzione che prevede regole più stringenti per le valutazioni in vista dei progressi in carriera (e in busta paga…).

    Deludente il risultato in termini di adesione, a macchia di leopardo nelle diverse sedi giudiziarie con una media nazionale che non raggiunge il 50%. L’ultima volta che ce ne fu uno, molti anni fa, il riscontro fu plebiscitario con un 85% ma c’è da dire che erano altri tempi e, soprattutto, lo sciopero era indetto contro iniziative del Governo Berlusconi.

    L’iniziativa era stata lanciata da quella che fu la roccaforte della magistratura: Milano e l’opinione corrente era che per non parlare di flop sarebbe stata necessaria una partecipazione intorno all’80%: poco più di 4.000 tra P.M. e giudici su un totale di 8.884 non è gran cosa.

    Naturalmente è intervenuta la difesa d’ufficio del Presidente dell’ANM, Santalucia che – dovendo ammettere la dèbacle – giustifica il risultato con una spaccatura generazionale: “Direi che la magistratura, specie i colleghi più anziani, sono un corpo disilluso. Molti pensano che poco può cambiare e che sopravviveremo anche a questa riforma”.

    Tradotto: bene ma non benissimo, in fondo è da sempre che ci autoassolviamo e che riusciamo a superare qualsiasi possibile intralcio alla limitazione dei nostri poteri e privilegi, ce la faremo anche questa volta.

    Non si è persa l’occasione di “mostrare i muscoli”, se non una certa diffusa maleducazione: quasi nessuno ha anticipato se avrebbe aderito allo sciopero con ciò costringendo avvocati, testimoni, parti offese, periti, imputati a organizzarsi comunque – anche per trasferte più o meno lunghe – in vista di udienze che, poi, non si sono celebrate, apprendendo la mattina  stessa prevista per l’incombente le ragioni di rinvio.

    Si tenga conto che quando vi sono astensioni degli avvocati, la legge prevede che l’adesione sia comunicata con giorni di anticipo “per meglio organizzare la gestione del ruolo ed evitare la citazione superflua di testimoni e consulenti” ed è necessario garantire la presenza anche solo di un sostituto per consentire le operazioni di rinvio. Ma si sa: la legge è uguale per tutti solo nelle scritte che campeggiano nelle aule e per le Signorie Loro non ce n’è neppure una a regolamentare la materia.

    Ormai non diciamo nulla di nuovo: proprio in questi giorni sono usciti i dati relativi alle riparazioni economiche per ingiuste detenzioni relative al 2021 che registrano un aumento di oltre il 10% rispetto all’anno precedente e l’uso improprio delle manette è costato allo Stato quasi venticinque milioni di euro; in tutto ciò, la giustizia del C.S.M. si segnala per avere “assolto” tutti, non uno escluso, i magistrati sottoposti a procedimento disciplinare per abuso del potere cautelare e la responsabilità di quei milioni costati allo Stato non grava, dunque, in capo a nessuno.

    Del resto, lo disse Enzo Tortora – che qualcosa ne sapeva – con una efficace esemplificazione: “In Italia solo tre categorie di persone non rispondono dei loro crimini: i bambini, i pazzi e i magistrati”.

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