Giustizia

  • Da quale pulpito arrivano quelle minacciose prediche?

    Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica

    Montesquieu; dal libro Spirito delle leggi

    L’arroganza, la prepotenza e l’uso delle offese volgari da coatto sono delle ben note caratteristiche comportamentali del primo ministro albanese. Caratteristiche pubblicamente manifestate sempre ed ogniqualvolta lui si trova in difficoltà, cercando di spostare e tergiversare l’attenzione pubblica. Sono delle manifestazioni consapevolmente attivate, con degli obiettivi ben determinati. Ma non di rado scaturiscono anche dallo sfogo del suo perturbato subconscio. Lo ha fatto spesso anche in queste ultime settimane, cercando di apparire “critico con le “ingiustizie”. Con quelle ingiustizie attuate, guarda caso, dal “riformato” sistema di giustizia in Albania che, invece, ha l’obbligo istituzionale di condannarle. Il primo ministro ha “criticato” proprio quel sistema che, dal 2016 in poi, lo ha sempre e fortemente applaudito come una significativa “storia di successo”! Avendo, in quella ardua impresa, simile alle fatiche di Sisifo, anche il continuo appoggio istituzionale dei soliti “rappresentanti internazionali”, l’ambasciatrice statunitense in primis, spesso in palese violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche. Chissà perché?! Ma le cattive lingue ne hanno parlato di quelle “alleanze” e di servizi profumatamente ricompensati. Trovandosi in vistose difficoltà, il primo ministro albanese, non a caso, ha scelto una simile “strategia offensiva”. Sì, perché, dopo quasi nove anni di governo, non ha niente di concreto da dimostrare agli albanesi come un successo. Non ha niente da dimostrare agli albanesi come un impegno pubblicamente preso e poi realizzato. Non ha nessun risultato nella lotta contro la criminalità organizzata. Anzi! Perché, grazie alla sua ben nota, documentata e pubblicamente denunciata connivenza con la criminalità organizzata, il primo ministro albanese e i suoi sono riusciti a condizionare, controllare e manipolare i risultati elettorali, sia delle elezioni politiche che di quelle amministrative. Il nostro lettore è stato informato da anni e a più riprese di questa preoccupante realtà. La “vittoria” elettorale del 25 aprile 2021, fatti accaduti, documentati e pubblicamente denunciati alla mano, ne è una testimonianza molto significativa, tra le tante altre. E, guarda caso, le istituzioni del sistema “riformato” di giustizia, proprio quelle che in queste ultime settimane sono diventate l’obiettivo delle “forti accuse” del primo ministro, non hanno per niente reagito. Anzi, hanno chiuso occhi, orecchie e cervello ed hanno steso un velo pietoso di fronte alle tante denunce pubblicamente fatte ed ufficialmente consegnate.

    Il primo ministro albanese non ha fatto niente, ma proprio niente, per combattere la galoppante e ben diffusa e radicata corruzione che sta divorando tutto. Il primo ministro albanese e/o chi per lui, abusando del potere conferito, hanno messo in atto un consapevole, programmato e pauroso sperpero del denaro pubblico, con tutte le gravissime conseguenze, ormai a portata di mano. Il primo ministro albanese non ha bloccato l’aumento del debito pubblico, come aveva promesso nel 2013, quando ha cominciato a governare. Ma, peggio ancora, lui e/o chi di dovere hanno messo in moto un pericoloso e gravissimo aumento del debito pubblico. Debito che ha continuamente generato un profondo fosso finanziario, difficilmente colmabile, visti i continui abusi, con tutte le preoccupanti conseguenze non solo per il prossimo futuro, ma anche a medio e lungo termine. Si tratta di un periodo, questo attuale, che ha portato allo scoperto scandali e abusi milionari che coinvolgono direttamente, almeno istituzionalmente, sia il primo ministro, sia altre persone molto vicine a lui. Tra le quali anche la sua eminenza grigia, il segretario generale del Consiglio dei ministri. Il nostro lettore è stato informato nelle ultime settimane proprio di queste realtà e di questi scandali, quello dei tre inceneritori compreso (Misere bugie ed ingannevoli messinscene che accusano, 4 aprile 2022; A ciascuno secondo le proprie responsabilità, 26 aprile 2022; Diaboliche alleanze tra simili corrotti, 9 maggio 2022).

    Il primo ministro albanese ha scelto, non a caso, proprio la riunione dell’assemblea del suo partito, svoltasi il 7 maggio scorso, per “tuonare”, con delle dirette critiche, contro i massimi rappresentanti delle istituzioni del sistema “riformato” della giustizia. Come aveva fatto un mese fa, il 9 aprile, durante il congresso del suo partito. Il primo ministro ha scelto di “attaccare fortemente” proprio quei rappresentanti che hanno avuto il suo pieno e consapevole consenso e supporto quando sono stati selezionati e poi sono stati votati in parlamento, controllato sempre dal primo ministro. Queste verità, relative alla selezione e alle nomine dei rappresentanti delle nuove istituzioni del sistema “riformato” della giustizia in Albania sono ormai pubblicamente note. Verità testimoniate dai fatti documentati dal momento della costituzione delle nuove istituzioni del sistema “riformato” della giustizia e poi dall’insediamento degli “attentamente vagliati” dirigenti di quelle istituzioni. Ebbene, il 7 maggio scorso, durante la riunione dell’assemblea del partito, pienamente controllato con mano forte dal primo ministro, lui ha “fortemente criticato” i massimi rappresentanti di una di quelle nuove istituzione del sistema “riformato” di giustizia. Anzi, dell’istituzione per eccellenza del sistema, la Struttura Speciale contro la Corruzione e la Criminalità Organizzata. Una Struttura della quale fanno parte sia la Procura Speciale contro la Corruzione e la Criminalità Organizzata, sia l’Ufficio Investigativo Nazionale. Ma nelle sue “forti critiche ed accuse” il primo ministro si è riferito in generale alla Struttura, senza specificare i suoi componenti. Anche perché non gli servivano dato che si trattava di una sua buffonata propagandistica, l’ennesima. Il primo ministro, invece di trattare i tanti gravi problemi con i quali si stanno affrontando ogni giorno gli albanesi, compresi anche l’abusivo, sproporzionato, continuo e drammatico aumento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità, che stanno ulteriormente impoverendo gli albanesi, si è scatenato contro i dirigenti della Struttura Speciale contro la Corruzione e la Criminalità Organizzata. Ma viste le tante difficoltà con le quali si sta confrontando lui, i suoi più stretti collaboratori ed alcuni dei suoi ministri/ex ministri, al primo ministro serviva uno “spettacolo pubblico” del genere. Il sistema giudiziario dovrebbe essere uno dei tre poteri indipendenti in uno Stato democratico, insieme con quello legislativo ed esecutivo. Ma questa divisione dei poteri, chiaramente formulata da Montesquieu nel suo libro Spirito delle leggi, pubblicato nel 1748, purtroppo non funziona più in Albania. Nel suo libro Montesquieu scriveva: “Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti […]. Perché non si possa abusare del potere occorre che […] il potere arresti il potere”. Lungimirante qual era e riferendosi alla vitale necessità della divisione reale dei tre poteri, Montesquieu aveva previsto ed espresso nel 1748 la sua convinzione che “Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica”. Dai tantissimi fatti accaduti e che stanno tuttora e purtroppo accadendo, fatti denunciati, verificati, verificabili e ormai di dominio pubblico alla mano, risulterebbe che quanto aveva previsto ed espresso Montesquieu si sta attuando in Albania. Sì, perché in Albania, da alcuni anni, è stata restaurata e si sta consolidando una nuova dittatura sui generis. Una dittatura come espressione della pericolosa alleanza tra i massimi dirigenti del potere politico, rappresentato istituzionalmente dal primo ministro, con la criminalità organizzata e certi raggruppamenti occulti locali e/o internazionali. L’autore di queste righe, informando il nostro lettore, da anni sta evidenziano e denunciando, nel suo piccolo, una simile, pericolosa e gravissima realtà. E non solo per gli albanesi, ma anche per gli altri Paesi europei, come risulta dai dati ufficiali pubblicati nei diversi rapporti delle istituzioni specializzate internazionali e di alcuni singoli Stati.

    Tornando a quanto ha detto pubblicamente il 7 maggio scorso il primo ministro albanese, durante la riunione dell’assemblea del partito da lui diretto e personalmente gestito, bisogna sottolineare un evidente e semplice fatto. Un fatto che tutti sanno, ma che il primo ministro ha fatto finta che non esista. E cioè il diretto e personale controllo, proprio da parte sua, dei massimi dirigenti delle istituzioni del sistema “riformato” della giustizia in Albania e della loro sudditanza nei confronti del “dirigente massimo”. E per far credere a tutti il contrario, cioè che lui non controlla il sistema “riformato” di giustizia, ha messo in scena l’ennesima buffonata propagandistica. Una buffonata che però non ha raggiunto l’obiettivo preposto e non ha prodotto l’effetto desiderato. Ragion per cui, sempre in vistosa difficoltà, il primo ministro, due giorni dopo, l’11 maggio scorso, ha convocato una conferenza con i giornalisti. Al suo fianco c’era anche il ministro della Giustizia. Ma come ci insegna la saggezza umana millenaria che la lingua batte dove il dente duole, anche il primo ministro albanese ha cercato di giustificare quanto aveva pubblicamente dichiarato due giorni fa, durante la riunione dell’assemblea del suo partito, sui dirigenti delle nuove istituzioni del sistema “riformato” di giustizia. Rivolgendosi ai giornalisti presenti, lui ha detto, tra l’altro, che quanto aveva dichiarato “…alcuni lo hanno considerato [come] pressione sulla giustizia, alcuni altri lo hanno considerato [come] paura, oppure perdita del potere. …”. E poi, siccome lui sa benissimo ed è ben consapevole del diretto coinvolgimento suo e dei suoi più stretti collaboratori in diversi scandali milionari, noti anche all’opinione pubblica, locale ed internazionale, il primo ministro, riferendosi a se stesso e agli altri rappresentanti del suo partito, ha dichiarato che “… per noi non ci sono degli intoccabili e che chiunque di noi, che possa avere un conto aperto con la giustizia, troverà [sempre] una porta chiusa nella nostra casa politica”. E poi, sempre dando ragione alla saggezza umana millenaria, secondo la quale la lingua batte dove il dente duole, ha cercato di convincere tutti che lui personalmente non è stato coinvolto in questa riforma (della giustizia; n.d.a.) “…per dire una cosa e farne un’altra. E neanche per usare politicamente la giustizia e neanche per attaccare politicamente gli avversari politici…”. Le ennesime bugie, gli ennesimi tentativi di ingannare, l’ennesima bufala propagandistica, durante la quale il subconscio del primo ministro albanese ha contraddetto ed evidenziato quello che la sua parte razionale ha cercato di nascondere e camuffare. Ed il simbolismo di questa contraddizione era il ministro della Giustizia, seduto proprio al suo fianco durante quella conferenza con i giornalisti. Quel ministro che alcuni anni fa è stato pubblicamente accusato e denunciato, presso le nuove istituzioni del sistema “riformato” della giustizia, come parte attiva delle manipolazioni elettorali. Uno scandalo, quello, reso noto anche da diverse intercettazioni telefoniche, pubblicate da diversi media locali ed internazionali.  Ma la Struttura Speciale contro la Corruzione e la Criminalità Organizzata, quella “attaccata” dal primo ministro, purtroppo non ha mai indagato sul caso, facendo proprio finta che non esistesse. E poi, la domanda di un giornalista, che si riferiva proprio a questo fatto, evidenziando che la persona al suo fianco “…oggi è il ministro della Giustizia e non di fronte alla giustizia”, ha messo in vistosa difficoltà il primo ministro, l’innato bugiardo ed ingannatore. Dopo quella domanda il primo ministro non ha risposto più alle altre ed è andato via.

    A chi scrive queste righe, riferendosi al comportamento del primo ministro albanese, viene naturale la domanda; da quale pulpito arrivano quelle minacciose prediche? Da quello istituzionale del capo del governo, oppure da quello di un dittatore che vuol controllare tutto e tutti? Giustizia compresa. Bisogna tenere sempre presente però, che una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica, come giustamente scriveva Montesquieu. E chi scrive queste righe ne è veramente convinto.

  • In attesa di Giustizia: de minimis non curat praetor

    Così recitava un brocardo degli antichi Romani, padri del diritto, a significare che la Giustizia non doveva occuparsi di questioni bagatellari e, infatti, la legge come la Giustizia praticavano un rigore estremo: basti pensare che per il debitore inadempiente era prevista la manus iniectio cioè a dire che il  creditore poteva soddisfarsi anche facendolo a pezzi  e liberarsi dei resti andando a venderli (mercato curioso, non si sa bene a chi…) purchè ciò avvenisse trans Tiberim. Non andava meglio ai sudditi delle colonie per i quali, come è ben noto, era prevista la crocifissione.

    …E noi siamo gli eredi di quella tradizione giuridica, con dei limiti – certo – ma la nostra giustizia sa essere altrettanto inflessibile: abbiamo, tra le altre regole, l’obbligo di esercitare l’azione penale, il che significa che nessuna ribalderia può restare impunita. Eccone un esempio.

    Accade ad una sventurata giornalista del TG1 di essere vittima di cinque crudeli dirigenti dai quali è stata demansionata e come non bastasse, per punirla ancor più severamente – e non è ben chiaro per quali motivi – costoro l’avrebbero assegnata ad un ufficio da condividere con altro collega molestamente affetto da meteorismo intestinale e gravi disturbi digestivi, genetici di frequenti eruttazioni.

    Un girone infernale per sottrarsi al quale la donna ha presentato una denuncia per stalking nei confronti dei cinque ritenuti responsabili di questa intollerabile situazione.

    La scelta operata fa pensare che sia  il Comitato di Redazione, che l’Ufficio Risorse Umane per non parlare dei Sindacati potessero essere conniventi con i torturatori.

    Parte un’indagine, vengono ascoltati diversi testimoni ed uno solo conferma il j’accuse;  tant’è, il Pubblico Ministero titolare dell’inchiesta decide di chiedere l’archiviazione e a questo punto accade una cosa che è piuttosto insolita, sebbene pienamente consentita dalla legge:  interviene la Procura Generale avocando a sé gli atti ed incriminando per atti persecutori i gaglioffi che stavano per farla franca,

    A pensarci bene, sono più di tre, quasi quasi ci starebbe pure l’associazione per delinquere e, magari, nei confronti di Risorse Umane, sindacalisti, componenti del Comitato di Redazione, un’imputazione di concorso esterno.

    Da noi, come si diceva all’inizio, la Giustizia è una cosa molto ma molto seria e lo stalking un reato grave: ve lo può confermare quel magistrato di Rovigo che ne è stato accusato avendo partecipato alle selezioni sexy per la partecipazione ai corsi del Giudice Bellomo e che il C.S.M. ha severamente punito trasferendolo non a Roma come chiedeva ma a Venezia, che è considerata “sede disagiata” (perché l’organico è sotto numero: sai che sorpresa) e il disagio viene comunque compensato con una maggiorazione dello stipendio.

    La Giustizia da noi è una cosa serissima: figuratevi che il Tribunale, per non essere condizionato dagli elementi indizianti raccolti dalla Procura, nulla sa delle vicende portate alla sua attenzione se non il nome degli imputati e delle vittime e le accuse genericamente descritte dal rinvio a giudizio. Proprio in giudizio si formerà eventualmente la prova della colpevolezza ovvero l’inquirente non riuscirà a dimostrare la fondatezza della sua pretesa punitiva.

    Viene da domandarsi: nel caso della giornalista RAI, dunque, sarà anche necessario disporre una perizia sulla intensità degli odori, potrà essere necessario far spernacchiare in aula il compagno di stanza?

    E’ ben possibile, lo ripetiamo: da noi la giustizia è una cosa molto seria.

  • In attesa di Giustizia: finché c’è Cuno c’è speranza

    Cuno Tarfusser, classe 1954, meranese: è un Magistrato che ha iniziato la sua carriera come avvocato (il che, forse, spiega molte cose…) e dal 1985 l’ha proseguita come Sostituto Procuratore della Repubblica a Bolzano dove nel 2001 è divenuto Procuratore Capo. In quella veste ha diminuito i costi ed aumentato l’efficienza dell’Ufficio tagliando le spese per le intercettazioni e ottenendo fondi europei per assicurare la liquidità necessaria al funzionamento ottimale della Procura che lo Stato non gli garantiva; la sua gestione è stata presa come modello…parrebbe non seguito da molti.

    Nel 2009 è stato eletto giudice della Corte Penale Internazionale, su proposta del Governo Italiano,  e dopo una dozzina d’anni circa passati a L’Aja, ora è Sostituto Procuratore Generale a Milano.

    Cuno Tarfusser è l’arkè socratico del Magistrato, è uno di quelli che offrono conforto alle speranze di chi è in attesa di Giustizia e a chi – giustamente – pensa che non tutti sono come Piercamillo Davigo o i compagni di merende dell’Hotel Champagne le cui gesta sono state svelate da Luca Palamara: anzi, è uno che si è detto onorato perché il C.S.M. lo ha escluso dalla “corsa” al ruolo di Procuratore Capo di Milano perché definito un “eretico” (in realtà perché non inserito in alcuna corrente).

    Da quando è a Milano, sia pure in un ruolo diverso, ha fatto molto parlare di sé anche se quasi solo negli ambienti giudiziari: al di fuori se ne sa poco, ma vediamo di riassumere con qualche esempio cosa è stato in grado di fare ultimamente contribuendo a ridare credibilità ad un Ordine Giudiziario in totale dissesto.

    Tarfusser è colui che – nel 2021 – era talmente convinto della innocenza di alcuni imputati per traffico di farmaci avariati (condannati in Tribunale a pene pesantissime) che ne chiese lui stesso l’assoluzione quando il processo giunse in Appello e contro la sentenza di conferma della Corte propose anch’egli ricorso per Cassazione allineandosi alla difesa: cosa assolutamente inusuale ma che dovrebbe essere una regola se si vuole essere organo di giustizia e non un inquisitore vincolato al ruolo a prescindere. E la sentenza è stata annullata dalla Suprema Corte come chiedeva Tarfusser.

    Nel mese di agosto sempre del 2021 fu mandato per un brevissimo periodo a Lecco in veste di Procuratore Capo facente funzioni: il C.S.M. infatti tardava a nominare il nuovo vertice dell’Ufficio ed al termine del suo incarico scrisse una durissima lettera indirizzata proprio al Consiglio Superiore ed inoltrata tramite il Procuratore Generale di Milano: un “addio ai monti” che fotografava lo stato di abbandono di quell’Ufficio Giudiziario definito in  “una situazione desolante… nel disinteresse di chi dovrebbe ovviarvi…paradigmatica del fallimento del cosiddetto autogoverno della magistratura: un organismo del tutto incapace di gestire in modo anche solo decente i suoi amministrati in modo da metterli in grado di garantire un servizio giustizia degno di questo nome”. In undici punti elenca, poi, tutte le manchevolezze registrate durante la sua permanenza a Lecco concludendo con un ringraziamento a tutti coloro che con lui hanno collaborato affrontando difficoltà di ogni genere nel rispetto e considerazione che si devono ai cittadini. Poi è inutile chiedersi perché al C.S.M. non è particolarmente amato.

    Pochi giorni fa è intervenuto in merito al programmato sciopero proclamato dalla Associazione nazionale magistrati per protestare contro le riforme della Ministra Cartabia (che, pure, dice non piacergli particolarmente) definendolo “sovversivo” perché è la protesta di chi esercita un potere dello Stato contro un altro potere dello Stato.

    Afferma ancora che “è come se in vista di un processo che non sta procedendo verso l’esito atteso, il Governo o il Parlamento decidessero di scioperare contro la magistratura” e conclude considerando anche che “le modalità con cui oggi i magistrati si autovalutano non so se sono più ridicole o vergognose”.

    Finchè c’è Cuno c’è speranza, quindi: e come lui ve ne sono molti altri, è giusto dirlo e che si sappia: altri che – magari – hanno l’unico difetto di non essere iscritti alla corrente giusta, o alla Loggia Ungheria o, comunque, di non avere potenti padrini (o padroni).

  • In attesa di Giustizia: all’armi, all’armi!

    La riforma della Giustizia “a firma” della Ministra Cartabia, oggettivamente, non è entusiasmante e Carlo Nordio, non uno qualunque, l’ha definita “il minimo sindacale per conseguire i fondi europei del PNRR”.

    Marta Cartabia ed il suo staff, d’altro canto, hanno un limite insuperabile che è quello della necessaria approvazione delle iniziative di legge di origine governativa da parte del Parlamento: e qui iniziano i guai perché ciò significa raggiungere equilibri anche improbabili nella prospettiva di vedersela con i voti, ahinoi ancora numerosi, delle truppe cammellate del giullare che l’ha preceduta nel ruolo di Guardasigilli offrendo, quando ha tentato di parlare di diritto, involontari momenti di ilarità.

    Un giullare, dunque, assai diverso da quelli di shakespeariana memoria che nell’”Enrico IV”, piuttosto che in “Re Lear” incarnano una sensibilità diversa che li porta ad esprimere con inattesa saggezza la propria verità di fronte alle vicende umane e che – oltretutto – non si valgono del consenso di comici veri prestati alla politica o del sostegno dottrinale dell’avvocato Conte. Non Paolo, il jazzista: quello lo si ascolta sempre volentieri.

    Frutto, quindi, di implacabili esigenze di compromesso, la riforma nasce criticata da più parti e ferocemente contrastata dall’Associazione Nazionale Magistrati che ha persino acquistato pagine di quotidiani per gridare il proprio dissenso ai cittadini: non bastando la qual cosa, l’Assemblea Generale del sindacato delle toghe ha proclamato uno sciopero (in data da destinarsi) non per protestare ma per essere ascoltati.

    Ma, cos’è che turba tanto l’Ordine Giudiziario? Forse l’insufficienza di garanzie o che non si siano adottati strumenti per contrastare l’eccessiva durata dei processi, magari l’inadeguatezza dell’organico e delle strutture? E, per essere ascoltati, non basterebbe avere una credibilità un filo maggiore a quella attuale?

    No! Le preoccupazioni sono ben altre: prima fra tutte sembra essere la istituzione di un fascicolo per ogni magistrato (Giudice o P.M. che sia) che ne raccoglie i dati dello sviluppo professionale e delle performances, una più rigida separazione delle funzioni tra giudicanti ed inquirenti e – naturalmente – lo sbarramento al rientro in magistratura dopo esperienze di natura politica.

    Tradotto: nessuno mi può giudicare nemmeno tu (riferito al nuovo C.S.M.) come cantava Caterina Caselli nel lontano 1966, pochi anni anteriormente alla approvazione della legge c.d. “todos caballeros” che prevede l’automatismo nel progresso in carriera – e nello stipendio – in virtù del semplice ed inesorabile decorso del tempo e di accordi correntizi al posto di una disamina della qualità del lavoro svolto.

    Per esempio, prima di allora, un magistrato che intendesse passare di grado da Giudice di Tribunale a Consigliere di Corte d’Appello vedeva valutati gli esiti proprio in Corte d’Appello delle sentenze da lui redatte. Se venivano in gran numero riformate, beh, che non meritasse il “passaggio di livello” risultava abbastanza chiaro e condivisibile.

    Anche la stretta sulla separazione delle funzioni – al di là di comici lamenti circa la conseguente soggezione all’Esecutivo dei Pubblici Ministeri, impedita da almeno tre articoli della Costituzione – appare non graditissima forse perché non consentirebbe l’allegro zampettare dalla giudicante alla requirente e viceversa a seconda delle sedi o posti semi direttivi o direttivi più appetibili a disposizione.

    E poi, e poi…il divieto di reingresso in magistratura dalla politica: giammai! E se uno non viene rieletto, poverello, cosa fa, resta senza lavoro o se ne deve cercare un altro? Una condizione straziante da prevenire con indomita energia.

    Vedremo cosa deciderà in ultimo la Giunta esecutiva dell’ANM che dovrà riunirsi per definire data e programma della protesta: riunione che, forse, se Palamara non la smette di chiacchierare e la Procura di Brescia di indagare, potrebbe tenersi durante l’ora d’aria al carcere di San Vittore.

  • In attesa di Giustizia: Bipartisan

    Cauti nella critica e generosi nella lode, in questa rubrica abbiamo magnificato in più occasioni le intraprese del Premier che ha conseguito il titolo di Professore Ordinario con i Punti Fragola dell’Esselunga (qualcuno sostiene con la raccolta, per tempo oculatamente fatta dai genitori, degli indimenticati punti VDB) e del suo discepolo prediletto: l’ilare giureconsulto assurto al seggio di via Arenula.

    Equità vuole che non vengano dimenticate altrettanto mirabolanti azioni di governo, volte a rendere l’Italia un Paese migliore, riferibili ad Esecutivi del passato: questa è una settimana dedicata all’amarcord.

    In una stagione che, climaticamente, inizia ad essere più che mai favorevole agli sbarchi di migranti sulle coste siciliane – tema sempre di attualità – è cosa buona e giusta celebrare come meritano gli interventi di inizio millennio intesi a contrastare il fenomeno.

    La premessa d’obbligo è che, all’epoca, il nostro arsenale normativo disponeva di una legge caratterizzata – se non altro – da una certa chiarezza: la c.d. “Turco-Napolitano” che in quattro punti essenziali affronta il problema. Nei primi articoli statuisce che ai cittadini stranieri sono garantiti i medesimi diritti spettanti agli italiani secondo le convenzioni ed i canoni di diritto internazionale, nonché quello di partecipazione alla vita pubblica locale riservato a coloro che fossero regolarmente soggiornanti. Viene, quindi, fatta una netta distinzione tra regolari ed irregolari.

    L’articolo 4 prevede che l’ingresso nel territorio dello Stato è consentito solo a chi sia munito di un passaporto o valido ed equipollente documento, il successivo contiene la disciplina per il rilascio del permesso di soggiorno e l’articolo 10…i respingimenti di coloro che risultino privi di tali requisiti deputati alla Polizia di Frontiera: in fondo, i medesimi principi enunciati da Matteo Salvini in maniera più pittoresca.

    Legge chiara ma, purtroppo, inefficace perché prevedeva la notifica del decreto di espulsione al soggiornante irregolare (che lo cestinava appena uscito dalla Questura) incorrendo poi nella difficoltà operativa di eseguire materialmente il provvedimento rintracciandolo e rimandandolo al Paese di provenienza.

    Ecco allora, nel 2002, abbattersi sui clandestini la implacabile “Bossi-Fini” con la previsione di nuovi reati, pene più severe e carcere per tutti. Nihil novi sub sole: il ricorso ai soliti strumenti del diritto penale che non fanno paura a nessuno con qualche “curiosità” degna di nota: per esempio la previsione dell’arresto obbligatorio per chi non avesse ottemperato al decreto di espulsione.

    Senonchè, il reato era ed è previsto come contravvenzionale e per le contravvenzioni (che non sono quelle per divieto di sosta, che si chiamano sanzioni amministrative, ma una categoria degli illeciti penali) la legge proibisce la carcerazione preventiva…il risultato fu che le Forze dell’Ordine dovevano obbligatoriamente eseguire arresti, compilare verbali, sottrarre risorse ad altri impieghi e trasmettere tutto in Procura dove il P.M. non poteva fare altro che disporre la liberazione immediata dell’arrestato. Questo, almeno, finché qualcuno se ne accorse e la legge fu modificata: nel frattempo aveva tanto inutilmente quanto inesorabilmente intasato i tribunali.

    Non ammonito da riflessioni salutari, il Governo pensò allora di ricorrere diversamente al mito della sanzione penale, ipotizzando il ricorso all’arresto in flagranza del clandestino al momento dello sbarco.

    Orbene, i sostenitori di questa opzione – parliamo di Ministri e Parlamentari della Repubblica – non avevano considerato quanto prevede la Costituzione e cioè che gli arresti in flagranza devono essere convalidati o meno da un giudice entro al massimo 96 ore.

    Alzi la mano chi, anche senza avere dimestichezza tecnica con la materia, ritiene possibile che uno sventurato G.I.P. di Agrigento o di Ragusa (per fare degli esempi) possa celebrare decine se non centinaia di udienze nel volgere di una manciata di ore e redigere anche le ordinanze conseguenti…a tacer del fatto che si sarebbe dovuto, comunque, trovare posto in carcere per queste torme di sventurati nuovi giunti. Forse, si confidava nel fatto che il Guardasigilli – un ingegnere – ne potesse progettare e realizzare di nuove e capienti, a tempo di record.

    A qualcuno, però, nelle stanze dei bottoni venne, fortunatamente ed in tempo utile, di consultarsi con un amico magistrato la cui fragorosa risata offrì risposta al quesito. E spontanea sorge la domanda: ma, i Capi di Gabinetto, gli innumerevoli magistrati fuori ruolo assegnati a Ministeri e Authority, hanno studiano giurisprudenza alle serali al buio?

    I Governi successivi continuarono a ritoccare in qualche modo – e con i risultati che ben conosciamo –   quella che è divenuta una variopinta arlecchinata normativa e gli scafisti, ben compreso con chi hanno a che fare, ringraziano.

    Malcontate, sono circa duecentocinquantamila le leggi vigenti nel nostro Paese (la media negli altri Membri UE è di circa 1/10) ed a queste si aggiungono circolari interpretative, direttive, protocolli di intesa e regolamenti…fatevi una domanda e datevi la risposta del perché la Giustizia non funziona.

  • In attesa di Giustizia: statistica giudiziaria

    Nelle settimane passate, questa rubrica si è interessata a episodi di lassismo ed emblematici abusi di potere da parte di magistrati della Procura volti a verificare la fondatezza di richieste di rinvio di udienze per legittimo impedimento dell’avvocato difensore.

    Come vanno realmente le cose nei nostri tribunali è possibile rilevarlo in base ad una indagine (la seconda, negli ultimi anni) svolta da Eurispes in collaborazione con l’Unione delle Camere Penali.

    Discutere senza dati sarebbe, infatti, un esercizio fine a sé stesso e solo il possesso di riferimenti statistici rende degno di essere affrontato anche il discorso sulla funzionalità giurisdizionale e sui correttivi da apportarvi.

    Il “Secondo Rapporto sul Processo Penale” (visionabile anche su Youtube, per chi fosse interessato ad approfondire) racchiude gli esiti di un lavoro svolto di raccolta durato dalla primavera a fine del 2019: appena in tempo prima della pandemia che ha mutato in maniera significativa, ed in peggio, lo scenario.  Sono raccolti i dati in 32 Tribunali, monitorando il significativo campione di 13.755 processi.

    Da tale indagine sono emersi diversi rilievi: nella stragrande maggioranza dei casi, ossia nel 79,4%, l’imputato è maschio ed i reati sono in prevalenza quelli contro il patrimonio, seguiti da quelli contro la persona e dalle violazioni al codice della strada penalmente rilevanti come la guida in stato di ebbrezza.

    Quanto alla più interessante  gestione delle udienze è emerso che: nel 30,6% di casi i processi subiscono un ritardo anche largamente superiore alla mezz’ora , senza alcuna giustificazione da parte del giudicante, per sessioni di udienza mediamente di circa 6 ore e nel 95,1% dei casi l’orario di chiamata non coincide con quello di originaria fissazione dell’udienza; il ritardo medio di chiamata si attesta attorno ai 50 minuti e nel 74,6% dei casi il processo non si conclude nella stessa udienza, ma è oggetto di rinvio.

    Rispetto a quest’ultimo tema, è stato interessante analizzare le cause, per sfatare alcuni falsi miti o avere conferme. Il rinvio viene infatti disposto principalmente, oltre a motivi non tipizzati (23,9%), per omessa o irregolare notifica all’imputato nel 7,4% dei casi, perché trattasi di udienza per la sola ammissione delle prove nel 14,7%; l’assenza dei testi del Pubblico Ministero provoca un rinvio nel 5,2% dei casi.

    La richiesta del termine a difesa è causa del 3,8% dei rinvii, in percentuale quasi equivalente all’eccessivo carico del ruolo (3,6%) e ai tentativi di conciliazione (3,4%). Le percentuali minori riguardano il legittimo impedimento del difensore fermo all’1,8%: una percentuale di poco superiore all’assenza del giudice titolare in udienza (1,6%). A quest’ultimo, però, di solito non mandano i Carabinieri a casa per verificare i motivi di mancata partecipazione…

    Importantissimi sono infine dati sugli esiti del processo: si concludono con sentenza di condanna solo nel 34,1% dei casi; al netto delle ipotesi ritiro delle querele e pochi altri casi determinati da ragioni tecniche diverse, ciò significa che circa il 70% del carico è costituito da imputazioni azzardate ovvero per fatti di marginale gravità che si prescrivono in tempi molto brevi ovvero che si concludono con una conciliazione tra le parti. Come dire, in quest’ultimo caso, che lo Stato potrebbe anche evitare di ricorrere al diritto punitivo per fatti che ricadono strettamente nella sfera di interesse dei privati, che possono diversamente tutelarsi, evitando di intasare gli uffici giudiziari con questioni bagatellari.

    Resterebbe un ultimo dato da valutare, ma gli eventi che ne rivelano l’opportunità sono emersi successivamente all’indagine UCPI/Eurispes: la consistenza dell’organico dell’Ordine Giudiziario rispetto al carico di lavoro al netto di destituzioni, provvedimenti disciplinari, opportuni pre pensionamenti, trasferimenti e arresti.

    La Nemesi, infatti, ha iniziato il suo corso e sembra di assistere alla Sinfonia degli addii di Haydn dove gli orchestrali si allontanano uno a uno lasciando solo, alla fine, il primo violino.

  • In attesa di Giustizia: lo Stato di…rovescio

    Lo Stato di Diritto è quello che pratica la salvaguardia ed il rispetto dei diritti e delle libertà dell’uomo che insieme alla funzione dello Stato Sociale concorre alla definizione delle garanzie che i membri delle Nazioni Unite si sono impegnati ad assicurare ai loro cittadini.

    Ogni tanto viene da domandarsi se il nostro lo sia ovvero non lo sia solo a corrente alternata: la settimana scorsa abbiamo scritto che al peggio non c’è limite e – sfortunatamente – è vero: è emersa, innanzitutto, una vicenda che risale a poco prima di Natale e che fa il paio con quella dell’avvocato potentino indagato e perquisito senza ragione dopo essersi permesso di chiedere il rinvio di un’udienza per motivi di salute di cui abbiamo trattato nel numero precedente di questa rubrica.

    Accadde, infatti che, un altro avvocato – questa volta di Varese – inviasse una richiesta di rinvio di un processo al Tribunale di Brescia giustificandola con l’esigenza di partecipare al funerale ed alla cremazione della madre.

    Ed accadde anche che un Pubblico Ministero, subodorando qualche ignobile astuzia avvocatesca, mandasse i Carabinieri al crematorio – a sirene spiegate, prima che accadesse l’irreparabile –  per l’identificazione del cadavere prima della funzione e per accertarne il gradi di parentela con l’avvocato.

    Una volta, sulla indimenticabile rivista satirica “Cuore” c’era una rubrica, “Vergogniamoci per loro: servizio di pubblica utilità per chi non è capace di vergognarsi da solo”.

    Ecco, vergogniamoci per costui che dovrebbe essere un servitore dello Stato ed un custode della legalità ed auspichiamo ciò che probabilmente non succederà mai: un intervento del C.S.M. (sino ad ora silente) e, dunque, vergogniamoci anche per l’Organo di Autogoverno della Magistratura.

    Tutto ciò, dopo aver chiarito che i rinvii per legittimo impedimento della difesa o dell’imputato devono essere richiesti possibilmente con tempestività e documentati e che interrompono la prescrizione e pertanto – sebbene sia diversa l’opinione di Travaglio ed altri giacobini assortiti, poco studiosi o in perfetta mala fede o entrambe le cose – non comportano nessun vantaggio.

    Il lettore, tuttavia, osserverà che non è proprio tutto uno sfacelo: infatti nei giorni scorsi si è giunti ad una sentenza di definitiva condanna per il brutale pestaggio di Stefano Cucchi, dopo aver disvelato i depistaggi con cui si era cercato di occultare un brutale omicidio.

    Ma non è tutto bene ciò che finisce bene (si fa per dire, in questo caso) perché vale la pena ricordare che questo ragazzo è morto una settimana dopo l’arresto, quando ormai pesava 37 kg e secondo quanto accertato dai periti la causa della morte era dovuta a “mancate cure mediche e grave carenza di cibo e liquidi”. E vale la pena ricordar anche che il giorno dopo l’arresto era stato visto all’udienza  di convalida da diverse persone tra cui il suo legale di ufficio ma anche il PM e soprattutto il Giudice che lo rimandò in carcere nonostante avesse “difficoltà a camminare e a parlare e mostrasse  evidenti ematomi agli occhi”. In quei sette giorni di detenzione fu visitato sia dai medici dell’ospedale Fatebenefratelli che del Pertini, oltre che ovviamente tenuto sotto continua osservazione dagli agenti di custodia di Regina Coeli ed in quella settimana non fu mai concesso ai familiari di vederlo: non  fino al giorno della morte. Quindi sia ben chiaro che, ferme restando le responsabilità dei carabinieri, Cucchi non sarebbe morto dopo una straziante agonia se anche solo uno, tra i tanti operatori del “sistema giustizia” che lo hanno visto in quelle sempre peggiori condizioni, non lo avesse lasciato spegnersi per consunzione fisica. Questo è quello che è accaduto nella capitale d’Italia e non in un carcere turco da fuga di mezzanotte e nell’anno 2009, non nel medioevo.

    Un giovane è morto tra le braccia dello Stato, uno Stato che – nelle sue diverse articolazioni – dopo averne creato i presupposti è rimasto a guardarlo morire. E questo non è uno Stato di diritto.

  • In attesa di Giustizia: Odeon, tutto quanto fa spettacolo

    S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo…quella tra uffici giudiziari è una tenzone che sembra non conoscere tregua nell’offrire uno spettacolo desolante.

    La settimana scorsa, in questa rubrica, abbiamo commentato talune, purtroppo tradizionali, inefficienze, questa volta, con una cronaca sintetizzata, ai lettori sarà offerto, selezionato fior da fiore, qualcosa di peggio tra le ultime notizie. Perché al peggio non c’è limite.

    Sia ben chiaro, innanzitutto, che non spetta alla Lombardia, con la decaduta Procura di Milano, il triste primato di magistrati inquisiti: da qualche tempo glielo contende la Puglia dove ben quattro sono stati arrestati, ed alcuni anche già ritenuti responsabili di reati infamanti.

    L’ultimo, in ordine di apparizione, è Giuseppe De Benedictis (ex Giudice per le Indagini Preliminari di Bari non nuovo a guai giudiziari) che è stato condannato a nove anni e nove mesi di reclusione in sede di giudizio abbreviato: il che significa che, senza la riduzione della pena prevista per chi sceglie quel rito, staremmo parlando di una sentenza vicina ai quindici anni di carcere.

    Corruzione: in ipotesi di accusa (sostenuta anche dal contenuto di intercettazioni ambientali) il signor giudice, molto semplicemente, “vendeva” arresti domiciliari e libertà al miglior offerente ed in particolare ad un avvocato di Bari, Giancarlo Chiariello, anch’egli sanzionato in egual misura.

    C’è invece chi in galera ci va ingiustamente ed il legislatore è dovuto di intervenire con una legge, recentemente e finalmente applicata, a chiarire che il risarcimento per una carcerazione ingiustificata spetta anche ha scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere.

    Questa opportunità, per quanto sancita dalla Costituzione, è stata a lungo strumentalizzata con bizantine giustificazioni per non riconoscere neanche un euro di ristoro. Uno dei Distretti di Corte d’Appello che anche prima della riforma ha dovuto  riconoscere il maggior numero di riparazioni per ingiusta detenzione è quello di Catanzaro: per fare un esempio, nel 2018 furono 182, il doppio rispetto a Roma, mentre a Bolzano ce ne fu una sola. Sarà una fortuita combinazione ma è il territorio in cui Nicola Gratteri fa fioccare le ordinanze di cattura salvo poi vedersele annullare “a mazzi da dodici”.

    A Potenza, invece, accadono altre cose quantomeno stravaganti: c’è un Pubblico Ministero che, sospettando – non si sa bene in base a cosa – che sia falso un certificato medico spedito da un avvocato per giustificare l’impossibilità a partecipare ad un’udienza determinandone il rinvio, manda successivamente le Forze dell’Ordine insieme ad un medico per sottoporlo ad accertamenti, a tentare una sorta di maldestra perquisizione in studio e lo indaga; nemmeno questo è dato sapere a quale titolo: il Tribunale aveva già ritenuto legittimo l’impedimento a comparire

    Il commento a margine è uno solo: se fossimo un paese civile questo magistrato andrebbe rapidamente buttato fuori a calci dall’Ordine Giudiziario e la stanza da lui occupata purificata con la calce viva e con il fuoco prima di assegnarla a qualcun altro.

    A Potenza, invece che dilettarsi con manifestazioni muscolari da Repubblica delle Banane, dovrebbero  studiare di più sia i P.M. che i Giudici.

    In quattro diversi  – omettiamo i nomi per carità cristiana – non sono riusciti a capire una cosa che (con l’eccezione sicura di Alfonso Bonafede)  sanno gli studenti del primo anno di giurisprudenza: che le persone giuridiche – cioè le aziende – sono una cosa diversa dalle persone fisiche, cioè gli esseri umani.

    Non stiamo parlando di scienza missilistica ma in quattro, tra giudici e pubblici ministeri, hanno impiegato cinque anni per dare la risposta sbagliata: se un procedimento in base alla legge sulla responsabilità, appunto, delle persone giuridiche si dovesse fare a carico di un Consorzio (risposta esatta) o del suo Presidente, morto nel frattempo di covid (risposta sbagliata). Gli svarioni assommati in questa indagine sono anche molti altri ma questo è grossolano al punto da far credere di essere su Scherzi a Parte: la legge di riferimento è del 2001 e in ventun anni c’è persino chi completa un corso di studi e si laurea: a Potenza non sono riusciti a studiare decentemente una legge prima di tentare, malamente, di applicarla.

    Tuttavia, un futuro questo quartetto lo ha in ogni caso: se candidati con i Cinque Stelle potrebbero senz’altro  aspirare al Ministero di via Arenula.

    Negli anni Ottanta c’era una deliziosa trasmissione televisiva sulla RAI: “Odeon, tutto quanto fa spettacolo”, un misto tra Paperissima e Lo Show dei Record e come si vede anche nel settore della Giustizia lo spettacolo non manca mai ma è indecente.

  • In attesa di Giustizia: Venerdì Santo

    Siamo, è vero, in periodo di Quaresima ma per talune amministrazioni dello Stato, il venerdì è sempre da santificare come a Pasqua.

    Prendiamone uno qualsiasi, a caso: 25 marzo, una tiepida giornata di primavera più che mai suggestiva per una gita fuori porta, una boccata d’aria buona senza mascherina che, al chiuso, invece è ancora d’obbligo.

    Ecco allora che si può assistere alla desertificazione dei Palazzi di Giustizia; anche in questo caso prendiamone uno a campione, ma che sia un campione significativo: il tribunale penale di Roma, per esempio, che è il più grande d’Europa con dieci sezioni, più di cento magistrati addetti, e personale delle cancellerie in numero imprecisabile ma almeno il quadruplo. Sono tanti, poverelli, e si farà fatica a pagarli ad aprile con la eliminazione temporanea delle accise sulla benzina per finanziare le guerre Puniche; giusto, quindi che si prendano un po’ di meritato riposo. C’è anche il caso che tutto ciò sia dovuto all’apprezzabile intenzione di meglio garantire l’integrazione di migranti di fede musulmana, mostrando loro che anche da noi il venerdì è di festa.

    Roma, per intenderci, è la sede giudiziaria nella quale solo durante il primo lockdown, quello tosto di inizio pandemia, in un paio di mesi si è assistito al rinvio di oltre 25.000 processi. Ma venerdì 25 marzo c’era il sole e la situazione (con la pioggia, probabilmente, nulla sarebbe cambiato) proponeva quindici aule rigorosamente sbarrate: altre decine di processi che non si faranno mai…salvo poi sostenere che è colpa degli avvocati che si inventano ogni possibile nequizia per ritardarli e fare prescrivere i reati.

    Reati che, con la geniale riforma del buffo Guardasigilli del Governo grillino, potrebbero non prescriversi mai: e, allora, perché celebrarli? Tanto c’è tempo e c’è il sole di primavera.

    Il Paese reale, tuttavia, offre anche esempi di implacabile dedizione al lavoro anche durante il week end, mostrando insensibilità assoluta alle lusinghe del clima mite. Prendiamo un altro esempio a caso: Pavia.

    Solerti servitori dello Stato, infatti, hanno notificato ai difensori la citazione a giudizio di un morto: Lazzaro, alzati e cammina, senza fretta mi raccomando, tanto l’udienza sarà a febbraio 2023.

    E, si badi bene, il morto non è uno qualsiasi, ma un morto piuttosto famoso proprio a Pavia: Youns El Boussettaoui, ucciso il 20 luglio scorso a Voghera durante una misteriosa colluttazione con l’assessore Massimo Adriatici…misteriosa anche perché il Pubblico Ministero non voleva mettere a disposizione degli avvocati della famiglia della vittima i filmati delle telecamere di sorveglianza che, per ottenerle, si sono dovuti rivolgere al Giudice per le Indagini Preliminari che ne ha ordinato la consegna: e poco ci è mancato che dovessero intervenire i Carabinieri perché il Pubblico Ministero non voleva proprio mollare la presa su quelle riprese nemmeno di fronte a un provvedimento giudiziario.

    Cosa ci sarà mai in fotogrammi così gelosamente custoditi? Forse lo sapremo quando si farà il processo. Certo…se mai si farà, se il buon Dio, in attesa di Giustizia ci avrà conservato in questo mondo.

  • In attesa di Giustizia: Avvocati

    Sapete da cosa si capisce se in un incidente stradale è stato investito un cane o un avvocato? Solo nel caso della bestiola, ci sono tracce di frenata. Così recita una vecchia freddura che, probabilmente, fa ridere solo la redazione del Fatto Quotidiano.

    Vero è che non tutti sono dei luminari del diritto, vero che faccendieri nella categoria ce ne sono, ed anche taluni mascalzoni patentati, ma quella dell’Avvocato (con la A maiuscola) è ancor più che una professione, è  un ministero cui adempiono in tutto il mondo uomini la cui nobiltà d’animo è fuori discussione.

    In questo tempo angoscioso in cui il cannone è tornato a tuonare nel cuore dell’Europa, proprio gli avvocati – quelli di Kiev – sono stati tra i primi a battersi per la libertà: questa volta quella della loro Patria arruolandosi volontari ed imbracciando un fucile invece che un codice.

    La Giunta dell’Unione delle Camere Penali, in nome dei penalisti italiani ha inteso far sentire la propria voce con un documento nel quale vi è una netta presa di posizione “al fianco delle donne e degli uomini della Repubblica dell’Ucraina, e del loro diritto alla vita, alla libertà, all’autodeterminazione”.

    Prosegue affermando che “chi come noi ha dedicato e dedica la propria vita professionale alla difesa dei diritti della persona, oggi non può che essere dalla parte di chi vede negati, con violenza feroce e cinica, i più elementari diritti umani: alla vita, alla integrità dei propri beni, alla libera autodeterminazione di un popolo…al tempo stesso, vogliamo esprimere la nostra fraterna solidarietà e la nostra incondizionata ammirazione nei confronti delle colleghe e dei colleghi russi in queste settimane impegnati, con ben immaginabile rischio personale, in difesa dei propri concittadini, destinatari di arresti ed incriminazioni iperboliche solo per aver manifestato il proprio dissenso da quella scellerata iniziativa del proprio Governo. Ancora una volta, laddove si invoca libertà, dovrà esserci un avvocato libero; dove si minaccia o si nega la libertà del difensore, si minaccia o si nega la libertà e la dignità di un intero popolo”.

    Vale, forse, la pena – per restare ancor più in argomento – ricordare una citazione tratta da un testo di letteratura russa: durante un processo ad ufficiali zaristi, il pubblico ministero apostrofò l’avvocato chiedendogli polemicamente “dove eravate voi avvocati mentre i contadini morivano uccisi dai soldati dello Zar?” e l’avvocato rispose: “eravamo a difendere quei contadini che voi perseguitavate in nome della legge dello Zar”.

    Ecco, c’è da essere orgogliosi di vestire la Toga di avvocato, di essere i difensori delle garanzie dei cittadini e della libertà. E quando qualcuno, con contorsioni concettuali degne del casuismo gesuitico del XVI secolo,  plaude al largo impiego dei ceppi perché inducono al pentimento, sono proprio gli avvocati a saper contrastare tali argomenti richiamandosi al pensiero di Pascal che li ha implacabilmente folgorati superandone la parvenza logica: ma si tratta, appunto di una parvenza, di illusioni verbali.

    Ma non andate a dirlo a Nicola Morra, che pure presiede la Commissione Parlamentare Antimafia, al Professore Conte (professore di che, poi? Forse di diritto e rovescio, istituzioni di uncinetto) e meno che mai al suo prediletto allievo, Alfonso Bonafede: non provate a spiegar loro che si tratta di trucchi epistemiologici rinvenibili nei trattati di Vasquez de la Cruz, Fernandez, Suarez o Squillanti perché penserebbero  che stiate citando calciatori dell’Uruguay campione del Mondo nel 1950.

    Viva la libertà.

Pulsante per tornare all'inizio