Giustizia

  • Giustizia e guerra al centro di due eventi organizzati dalla Fondazione Einaudi

    La Fondazione Luigi Einaudi e il Siracusa International Institute hanno presentato l’evento “Presunzione d’innocenza e diritto all’informazione: un conflitto insanabile?” che si è tenuto il 22 marzo 2022 alle ore 17.00 presso la sede della Fondazione in Via della Conciliazione, 10 – Roma.

    Il dibattito, coordinato da Ezechia Paolo Reale, Segretario Generale del Siracusa International Institute, ha visto come relatori Raffaele Lo Russo, Segretario Generale Federazione Nazionale Stampa Italiana, Giovanni Salvi, Procuratore Generale Corte di Cassazione, Francesco Paolo Sisto, Sottosegretario Giustizia.

    Il secondo appuntamento, sempre presso la sede della Fondazione Einaudi, è previsto il prossimo 28 marzo 2022.

    La Fondazione Luigi Einaudi, con la collaborazione dell’International Republican Institute, ha organizzato il seminario “L’aggressione militare russa in Ucraina: quale futuro per la nostra libertà”. L’evento, coordinato dall’Amb. Giulio Terzi di Sant’Agata, è articolato in due sessioni: la prima intitolata “La guerra in Ucraina e la spinta ad un rinnovamento europeo” e la seconda “Contrastare l’influenza russa in Italia e in Europa”.

    Tra i relatori anche l’Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario d’Ucraina S.E. Yaroslav Melnyk, che parteciperà come active speaker.

    Si potrà partecipare all’evento solo tramite invito.

    Per tutti coloro che fossero interessati, le due sessioni saranno trasmesse in streaming sui social network della Fondazione Luigi Einaudi e sul sito di Radio Radicale.

  • In attesa di Giustizia: terapia intensiva

    I contagi stanno diminuendo, o forse no, tuttavia lo stato di emergenza dovrebbe terminare a fine mese…quella sanitaria; a parte quella indotta dalla guerra in Ucraina, ve n’è un’altra – per così dire – in servizio permanente effettivo: quella nel settore della Giustizia che i due anni di pandemia hanno portato in prossimità del collasso definitivo soprattutto nel settore penale a causa del rinvio di decine di migliaia di udienze determinate dal lock down o da problemi successivi di contagio equamente distribuiti tra giudici, avvocati, cancellieri, testimoni, parti ed esigenze di sanificazione delle aule e degli uffici infettati.

    Non di rado, l’impossibilità di celebrare un’udienza si scopre solo il giorno stesso in cui si dovrebbe tenere: qualcuno non è stato fatto entrare nel Palazzo perché la temperatura era superiore a 37,5° (oppure non è neppure uscito di casa), qualcun altro ha un famigliare convivente che si è scoperto positivo la sera prima…: le possibilità sono infinite e, talvolta, comportano che non una sola udienza ma tutte quelle iscritte a ruolo vengano differite, come nel caso che la criticità tocchi il magistrato assegnato.

    In qualche caso, disperatamente, si cerca di recuperare con iniziative che si collocano oltre il limite dell’impraticabile, sconfinando nella fantascienza: onore all’impegno ma, senza fare nomi, in più di una sede di Tribunale sono state inserite al ruolo di un unico giudicante ed in un solo giorno oltre una cinquantina di cause che non potranno mai essere portate avanti. Ma, tanto, non si prescrive più quasi nulla e l’onore è salvo.

    Per dare un’idea, se un’udienza deve essere solamente rinviata per mancanza di una o più notifiche  (particolarmente quelle “saltate” durante la prima fase emergenza, quando i cancellieri erano in finto smart working, a casa senza gli strumenti per operare) tra verifica dei presenti, della regolarità o meno degli avvisi agli assenti – a volte più di uno se gli imputati e gli avvocati sono molteplici – e dettatura della verbale al segretario con indicazione di quanto necessario fare per la volta successiva (nella speranza che venga fatto…) servono almeno dieci minuti ed una giornata in tribunale, considerando anche qualche attività più consistente, dovrebbe prevedere una durata superiore alle dieci ore. Il tutto immaginando che non vengano fatte pause neppure per un caffè molto ristretto.

    L’“effetto valanga” determinato dai vecchi processi che non si fanno, cui si aggiungono quelli nuovi, è facilmente immaginabile. Per la verità di nuovi processi se ne vedono pochi perché anche le Procure della Repubblica, che sono il primo motore della giustizia penale sono con il motore ingolfato non solo a causa della pandemia ma anche per altri motivi che hanno toccato soprattutto alcune tra le maggiori, con  la “decapitazione” dei vertici per irregolarità nelle nomine (Roma), pensionamenti (Milano) e anche qualche arresto (Taranto). E questo solo per ricordare esempi noti, a tacere dei problemucci che si sono riversati su altre figure della magistratura ancorchè non apicali.

    Le Procure, però, sono preoccupate di una cosa: la statistica! Dovendo dare prova di produttività  ecco che si vedono – un po’ dovunque – chiusure di indagini e rinvii a giudizio per crimini efferati come la mancata comunicazione alla Questura di tre ospiti in un albergo, lesioni volontarie diagnosticate come guaribili in un giorno, ritardata comunicazione ai vigili del fuoco della installazione di una caldaia nuova in un condominio. Sono casi reali, ancora una volta citati paradigmaticamente e senza pretesa di esaurirne la serie infinita di altri analoghi. Di indagini serie non c’è traccia e non dipende solo dalla mancanza di personale, dal covid,  dalla complessità delle investigazioni: il punto è che con il blocco della prescrizione, a cu si è già accennato, ce la si può prendere molto comoda ed in presenza di altre discutibili giustificazioni il piccolo cabotaggio, tanto per dare un segnale di esistenza in vita, è la soluzione.

    Anche per questo sarà ricordato l’ispiratore di una delle più miopi e scellerate riforme che si siano prodotte da sempre. E tu ridi pagliaccio, vesti la giubba (della Polizia Penitenziaria) e la tua faccia infarina: tanto, la Giustizia può attendere anche se ormai  è in terapia intensiva.

  • In attesa di Giustizia: potere assoluto

    Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède, chi era costui? Non chiedetelo a Fofò Bonafede né al suo mentore – il professore, specializzatosi in DPCM emanati via Facebook, che ha preso il titolo con i punti fragola dell’Esselunga – e forse neppure a spiegar loro che è più noto come Montesquieu, il nome gli direbbe qualcosa, figuriamoci se ne conoscono il pensiero, maturato negli anni del regno del Re Sole. In quel tempo il filosofo e giurista francese si rese conto che chi ha il potere è portato ad abusarne e così teorizzando la separazione dei poteri perché “il potere potesse limitare il potere”.

    Il secolo dei lumi influenzò anche il costituente americano Alexander Hamilton (inutile parlarne con Toninelli che crede sia un pilota di Formula 1) il quale scrisse che il potere giudiziario è il meno pericoloso perché non controlla le forze armate e il bilancio.

    La indispensabile funzione di bilanciamento della separazione dei poteri, nel nostro Paese e ai giorni nostri, peraltro è stata svilita e superata dall’esondazione funzionale dell’ordine giudiziario che ha fatto di quella italiana una società amministrata di fatto da una giustizia penale con l’ambizione alla popolarità.

    Il supporto del più retrivo populismo ha dapprima alimentato il mito dei protagonisti di Mani Pulite, dei loro superstiti e degli emuli togati ma non ha impedito la attuale crisi di autorevolezza della giurisdizione che deve confrontarsi con il dato inconfutabile della irragionevole durata del processo, continui episodi di illegittima diffusione di dati che dovrebbero essere riservati e che risultano lesivi della dignità delle persone e della presunzione di innocenza. A tacere degli scandali a ciclo continuo che, ormai, non riguardano più solo il settore delle nomine ai vertici degli Uffici Giudiziari bensì svelano intese occulte per orientare l’esito dei processi, l’avvio stesso delle indagini, a seconda dell’avversario del momento che si intende colpire. E con ciò, addio al principio costituzionalizzato che predica l’indipendenza dell’ordine giudiziario.

    In buona sostanza, preferendolo al pensiero illuminista, dal 1992, le Procure si sono ispirate a quello di Mao Zedong secondo cui il potere viene dalla canna del fucile. O, meglio, dal tintinnio delle manette, secondo la visione Davighiana del mondo.

    Ed al peggio non c’è limite: le ultime rivelazioni di Luca Palamara lumeggiano l’inquietante esistenza di un dark web in cui allignano faccendieri di ogni provenienza e dei quali una parte della magistratura finisce con il divenire talvolta ispiratrice, altre braccio armato.

    Forse, il procedimento a carico del P.M. milanese Fabio de Pasquale (per il quale è stata anche chiesta una proroga per proseguire gli accertamenti) potrebbe far luce su un episodio paradigmatico: quello legato al processo a carico dei vertici di ENI per una colossale tangente asseritamente volta ad ottenere lo sfruttamento di un giacimento petrolifero nigeriano. Furono tutti assolti, e – a quanto pare – per conseguire il successo non sono state sufficienti indagini “a senso unico” inquinate da testimoni falsi e prove a discarico occultate. Come dire: la madre di tutte le porcate il cui accertamento potrebbe costituire un argine alla opaca e dilagante influenza della magistratura perché va a colpire la Procura milanese, gettandola nel totale discredito grazie anche alla oscura vicenda collegata dell’insabbiamento dei “verbali Amara” sulla esistenza della cosiddetta Loggia Ungheria.  E chi si fida più della magistratura se crolla anche il tempio le cui vestali predicavano la rettitudine? Infatti, il consenso è crollato al 37%.

    L’ordine giudiziario ha acquisito un ruolo diverso da quello prefigurato dalla Costituzione ed è diventato un potere che al compito di dare giustizia ha affiancato quello di predicare le virtù ma un potere determinato ad autalimentarsi e conservarsi grazie allo strapotere dell’accusa, indifferente a qualsiasi separazione dagli altri, manifestando la tendenza a diventare assoluto e le cui virtù – francamente – sanno un po’ di tappo.

  • In attesa di Giustizia: a che punto è la notte

    La Corte Costituzionale si è pronunciata sulla ammissibilità dei referendum di iniziativa popolare: degli otto quesiti, tutti in materia di giustizia,  cinque sono stati ammessi e i tre che non hanno superato il vaglio sono relativi alla responsabilità civile dei magistrati, la liberalizzazione dell’uso delle droghe leggere e l’eutanasia.

    Al deposito delle motivazioni il ragionamento seguito sarà chiaro e, ovviamente, in linea con la struttura della nostra Costituzione che guida le decisioni della Corte…magari con un aiutino in termini di  interpretazione in determinati casi. E valga il vero: in un Paese con radicata tradizione cattolica le problematiche di fine vita sono ancora un tabù non meno che l’uso di cannabis e marijuana anche se sono in vendita, blandamente regolamentata, intrugli alcoolici di cui viene fatto largo uso e che per la salute sono altrettanto – se non ancora più – dannosi. Per non parlare della responsabilità dei magistrati.

    Se pure si terranno – in alternativa vi è un intervento legislativo-correttivo del Parlamento sulle materie oggetto di  referendum – le consultazioni popolari residue non sembra, tuttavia, che avranno la capacità di immutare significativamente il quadro anche perché, a seguire, sarà data nuovamente la parola alle Camere per gli “aggiustamenti” del caso: e qui, con un legislatore che definire sciatto ed approssimativo è ancora eufemistico, non c’è molto da sperare.

    Un segnale, tuttavia, c’è stato e non è da sottovalutare e riguarda – almeno apparentemente – il superamento da una parte dei cittadini di quella populistica affezione ai giudici vendicatori.

    Proprio nei giorni del trentennale di “Mani Pulite”, la coincidenza appare sintomatica.

    In effetti, grandi celebrazioni per questa ricorrenza non ve ne sono state: tra i protagonisti superstiti, in larga misura silenti o silenziati, ha fatto notizia Piercamillo Davigo perché è stato rinviato a giudizio per la vicenda legata alla propalazione di verbali secretati della Procura di Milano ricevuti con modalità opache dal P.M. Storari il quale, nel medesimo processo, ha chiesto di essere giudicato con rito abbreviato e per il quale è già stata chiesta la condanna.

    Il popolo italiano questa volta non è sceso in strada a commemorare l’evento con deliranti striscioni (all’epoca, in più in voga, recavano scritto: “Di Pietro, Davigo, Borrelli, fateci sognare”): troppo in basso è precipitata la credibilità di quella magistratura che ha dato l’avvio alla notte della Repubblica; con micidiale tempismo – cui non sono estranee ragioni di marketing editoriale – sono usciti in sequenza il secondo libro a firma Sallusti/Palamara e “Giustizia ultimo atto: da Tangentopoli al crollo della magistratura” di Carlo Nordio.

    Qualcuno, poi, di tanto in tanto torna ad auspicare, come vera ed incidente riforma della Giustizia, il diritto dei cittadini stessi di giudicare il proprio concittadino dotandosi di giurie popolari di stampo anglosassone che – a loro volta – affondano le radici in quelle previste dal diritto romano e  che potevano decidere, ad esempio, sulle accuse di malversazioni dei governatori provinciali, entro il Comitium, con dei  processi comiziali; ma, Il trial by jury  (perdonate: il latino, purtroppo, sta diventando desueto) può essere davvero il  rimedio alla tirannide dei Giudici di professione?

    Francamente vi è da dubitarne: se qualche segnale di ripresa della coscienza civile si annota, troppo diffuso è ancora il populismo giustizialista anche in settori culturalmente evoluti della società. Provate a immaginare l’equilibrio una giuria popolare in cui, facilmente, confluirebbero abbonati de Il Fatto Quotidiano, elettori dell’indimenticato Fofò Bonafede Ministro senza portafoglio della ilarità fuor di luogo, adoratori del pensiero unico “alla Gratteri”. Tanto per citarne alcuni.

    Qualcosa, forse, si muove per le riforme ma bisognerà misurarne la qualità: per ora ci si può solo domandare a che punto è la notte.

  • In attesa di Giustizia: la guerra dei trent’anni

    C’è probabilmente chi il suo San Valentino lo festeggia il 17 febbraio. Penso a Marco Travaglio e Piercamillo Davigo: una cenetta intima per celebrare il trentennale di Mani Pulite nel giorno in cui – anno 1992 – fu arrestato Mario Chiesa. Una data perfetta per gli eterni innamorati delle manette mentre, combinazione vuole, il 14 febbraio è l’anniversario fondativo della Unione delle Camere Penali.

    Una ricorrenza che, viceversa e con quanto di continuo accade, può solo evocare lo sfacelo della nostra giustizia e la inarrestabile deriva delle garanzie dei cittadini di fronte alla pretesa punitiva dello Stato.

    E’ doveroso contrastare la corruzione ed il malaffare in generale e punirne i responsabili ma uno Stato di diritto non abdica ai suoi principi: le folle plaudenti davanti al Palazzo di Giustizia (?) di Milano, i capannelli animati da morbosa curiosità davanti alla porta carraia di San Vittore per vedere sfrecciare le volanti che portano in carcere il potente del giorno sono state le prime manifestazioni di populismo, che hanno contribuito a che si disperdesse il valore della separazione dei poteri ed il rispetto delle regole di giudizio, trasformando una Procura della Repubblica nella Repubblica della Procura.

    Cosa c’è da festeggiare? Gabriele Cagliari che si suicida infilando la testa in un sacchetto di plastica dopo essere stato rassicurato sul suo destino da un P.M. che, finito l’interrogatorio in carcere, è andato in ferie dimenticandosi di lui? Raul Gardini che prima si suicida e poi rimette la pistola sul comodino? E come loro altri che – se non la vita, ma in molti casi anche quella – hanno perduto libertà, onorabilità, lavoro, famiglia, perché c’era chi, investito da sacro furore inquisitorio e sobillato da un’opinione pubblica miope e pronta solo al lancio delle monetine, ha proclamato l’intenzione di “rivoltare l’Italia come un calzino” e chi ha spiegato che “non è vero che incarceriamo gli indagati per farli confessare ma è vero che li scarceriamo se confessano”.

    Ma cosa c’è da festeggiare se è vero come è vero che unici frutti maturati sono una  magistratura con un ego espanso sino a delegittimarsi e una politica debole e subalterna al potere giudiziario mentre la corruzione, tutt’altro che debellata, ha solo elevato le tariffe a fronte di un rischio aumentato?

    Il diritto penale, che dovrebbe avere una funzione meramente sussidiaria di controllo sociale, è diventato  strumento primario in luogo della prevenzione con un abbassamento progressivo delle garanzie come dimostrato da incessanti casi di cronaca caratterizzati anche dalla lentezza del sistema.

    Basta chiedere, per fare qualche esempio tra i più recenti (e in questa rubrica non mancano), a Fausta Bonino, infermiera di Livorno, arrestata nel 2016 con l’accusa di aver ucciso almeno dieci pazienti con massicce dosi di eparina, che nel 2109 era stata condannata all’ergastolo. Pochi giorni fa è stata assolta per non aver commesso il fatto: «Sono stati – ha detto – sei anni da incubo, con il peso dell’infamia». E il marito ha aggiunto: «Ci hanno distrutti sia emotivamente che economicamente».

    Chiedete a Flavio Briatore che tredici (!) anni fa si è visto abbordare lo yacht dai finanzieri spediti da un magistrato per una esibizione militare ridicola ma di sostanziosa efficacia mediatica. Con l’accusa di evasione fiscale, la barca è stata sequestrata e data in custodia. Poche settimane fa la Corte d’Appello ha assolto l’imprenditore perché il fatto non costituisce reato, ha annullato il sequestro e disposto la restituzione del natante. Peccato che questo, nel frattempo e commettendo un grossolano errore, fosse stato messo all’asta e venduto sottocosto. La “majesté de la loi”, come la definiva ironicamente Anatole France, era arrivata in ritardo.

    Accanto a queste altre decine di inchieste hanno deturpato la nostra storia giudiziaria e logorato vite umane: certo è che la storia è piena di errori giudiziari, perché la nostra imperfetta natura non ci ha programmati per giudicare il prossimo, visto che a malapena riusciamo a farlo con noi stessi. E del resto la nostra civiltà nella sua costituzione scientifica, filosofica e religiosa poggia su tre processi conclusi con sentenze inique: Galileo, Socrate e Gesù ne sono testimoni. Ciò che invece dobbiamo chiederci è se il nostro sistema faccia il possibile per ridurre questo rischio mortale. E la risposta è nettamente negativa.

    Ridurre al minimo i tempi dei procedimenti e limitare al massimo la carcerazione preventiva sarebbero un primo passaggio fondamentale: esattamente il contrario dell’insegnamento di Mani Pulite che ci hanno regalato  trent’anni di strisciante guerra civile.

  • Giustizia mancata, derisa e offesa

    A questo mondo si sa che la giustizia si compra e si vende come l’anima di Giuda.

    Giovanni Verga

    Il concetto della giustizia accompagna l’essere umano dalla notte dei tempi. Riferendosi però alle definizioni relative al concetto della giustizia nei diversi dizionari, compresi quelli della lingua italiana, risulta che si tratta di una virtù. Una virtù morale, individuale e sociale che, secondo il dizionario Treccani consiste “nella volontà di riconoscere e rispettare i diritti altrui, attribuendo a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo la ragione e la legge”. Una simile definizione la troviamo anche nel dizionario Hoepli, dove la giustizia viene definita anche come un “Potere istituzionale a cui è demandata l’applicazione della legge”. Oppure come una “Situazione sociale in cui vengono rispettati i principi dell’equità e della corretta applicazione delle leggi”. Il concetto della giustizia è stato continuamente elaborato e sviluppato, dalle diverse scuole di pensiero, dall’antichità greco-romana ai giorni nostri. Tutti concordano, però, che la giustizia, definita da un insieme di regole e di criteri, deve essere considerata e trattata come un concetto che sancisce sia i diritti che i doveri per chiunque faccia parte di un raggruppamento di persone. Mentre la mancata giustizia, la negazione della giustizia si percepisce e si definisce come ingiustizia, nei confronti di una singola persona, di diverse persone o, addirittura, di una moltitudine di persone. Dall’antichità l’ingiustizia è stata trattata come un comportamento, una decisione presa che doveva essere evitata ad ogni costo. Una convinzione giuridica elaborata e sintetizzata nella locuzione latina In dubio pro reo, cioè che nel dubbio bisogna, comunque, giudicare e decidere in favore dell’imputato, anche quando questi potrebbe essere il vero colpevole. Una convinzione quella, stabilita dai giudici romani e sancita nel codice riconosciuto come il Digesto: un insieme di libri rappresentanti il pensiero giuridico del tempo, voluto dall’imperatore Giustiniano I nel 553 d.C. Una convinzione quella dell’In dubio pro reo fatta sua anche da Voltaire. Il noto filosofo francese era convinto che è meglio correre il rischio di salvare un colpevole piuttosto che condannare un innocente.

    In diverse parti del mondo le sfide quotidiane dei sistemi nazionali della giustizia sono/dovrebbero essere soprattutto quelle di non commettere delle ingiustizie. Purtroppo non sempre quelle sfide vengono vinte. Soprattutto nei sistemi non democratici e corrotti, come in Albania, dove da anni il sistema della giustizia è tutt’altro che consolidato ed imparziale, nonostante si pretenda essere ormai, dal 22 luglio 2016, un sistema riformato. Ma di “riformato” ha solo l’aggettivo. Tutto ciò grazie ad una strategia, ben ideata da determinati raggruppamenti occulti oltreoceano ed in seguito attuata in Albania da parte di chi rappresentava quei raggruppamenti. Anche con tutto il necessario e, spesso, indispensabile appoggio politico ed istituzionale. Tutto ciò ormai è di dominio pubblico, facilmente verificato e verificabile e risulta da molti, moltissimi dati e fatti accaduti e che stanno tuttora accadendo. Così come risulta da innumerevoli documentazioni, testimonianze, rapporti ufficiali di diverse istituzioni specializzate internazionali, comprese quelle statunitense e dell’Unione europea. Così come risulta anche da tantissime denunce ufficialmente depositate, ma mai trattate professionalmente dalle istituzioni del sistema “riformato” di giustizia in Albania. L’autore di queste righe ha trattato per il nostro lettore molto spesso, riferendosi soltanto a dei fatti pubblicamente noti e cercando di essere più oggettivo possibile, la parzialità del sistema della giustizia in Albania. Un Sistema quello delle giustizia che Montesquieu, il fondatore della teoria politica della separazione dei poteri, considerava il “terzo potere”. Un sistema quello della giustizia “riformata” in Albania che, sempre dati e fatti accaduti e che stanno accadendo alla mano, è stato ideato ed attuato per essere controllato personalmente dal primo ministro e/o da chi per lui, quale rappresentante istituzionale di certi raggruppamenti occulti locali ed internazionali, nonché della criminalità organizzata, locale ed internazionale, ben presente ed attiva in Albania.

    Ne è testimonianza anche il caso reso noto grazie ad una approfondita indagine svolta da anni dalla procura di Catania e resa pubblica il 16 ottobre 2017. Dalle tante intercettazioni telefoniche ed ambientali, professionalmente fatte, risultava che il ministro degli Interni albanese di quegli anni era direttamente coinvolto in attività criminali con alcuni trafficanti internazionali di stupefacenti, suoi parenti. Quello scandalo ed il trattamento del caso dell’ex ministro degli Interni (2013-12017) in Albania da allora diventò una sfida per il sistema “riformato” della giustizia. L’autore di queste righe ha trattato ed ha informato, dal 2015 in poi, il nostro lettore di questo caso (Nuove serie avvisaglie di scandali in Albania, 2 ottobre 2015; Dall’Albania con amore… e droga, 19 settembre 2016; Droga come minaccia e allarme per tutti, 10 ottobre 2016; L’Albania della cannabis, 24 ottobre 2016; L’ambasciatore ha parlato ma… , 9 ottobre 2017; Grave scandalo in corso, 23 ottobre 2017; Essere responsabili, 30 ottobre 2017; Attenzione, sta cercando di ingannare di nuovo!, 24 novembre 2017; Branco di criminali o polizia di Stato?, 15 gennaio 2018; Bisogna impedire il peggio, 5 febbraio 2018; Dopo la cannabis, la cocaina, 12 marzo 2018…).

    Tutto cominciò, ma si seppe soltanto in seguito, con una denuncia fatta, durante un’intervista nel settembre 2015, da un ex funzionario dell’antidroga della polizia di Stato. Intervista rilasciata da un Paese europeo, dove lui era riuscito ad arrivare e chiedere asilo politico. In quell’intervista l’ex funzionario della polizia di Stato albanese aveva denunciato l’attività di un pericoloso gruppo criminale e i legami di parentela del suo capo e dei suoi fratelli con l’ex ministro degli Interni. L’autore di queste righe informava allora, tra l’altro, il nostro lettore che “L’ex funzionario della polizia, era impegnato da alcuni anni nel controllo dei traffici degli stupefacenti ed altro nell’area dove era attivo il gruppo sopracitato. Essendo riuscito a conoscere le loro attività illecite e cercando di agire secondo la legge, lui è stato, invece, “stranamente” arrestato dalla polizia. Grazie alla sua bravura da poliziotto professionista era riuscito a scappare e ha chiesto e ottenuto asilo in un paese europeo.” (Nuove serie avvisaglie di scandali in Albania…; 2 ottobre 2015). In seguito, dall’esilio, l’ex funzionario dell’antidroga, durante diverse sue successive interviste, aveva dichiarato di aver informato di tutto ciò anche un ufficiale di collegamento delle strutture specializzate italiane, presente in quel periodo in Albania.

    Immediata è stata la reazione offensiva, negazionista e diffamatoria del primo ministro e della sua potente propaganda governativa. Per dare peso e credibilità alle sue dichiarazioni e, soprattutto, cercando di offuscare, sminuire e annientare, il più possibile, l’eco delle dichiarazioni dell’ex funzionario dell’antidroga, il 16 settembre 2015 il primo ministro organizzò un evento pubblico, in palese violazione delle leggi in vigore. In quell’evento era presente anche l’ambasciatore statunitense, appoggiando così tutta quella messinscena propagandistica del primo ministro. L’autore di queste righe informava allora il nostro lettore che il primo ministro aveva ordinato e organizzato una “manifestazione faraonica in un noto ambiente a Tirana”. Affermando poi che “Cose del genere si sono recentemente viste in Corea del Nord”. In seguito si informava il nostro lettore che “…Davanti a circa duemila poliziotti, che dovrebbero, per legge, essere depoliticizzati, l’allora ministro degli Interni e soprattutto il primo ministro si sono scatenati in una sfrenata propaganda politica, sia per ribadire “i successi” della polizia di Stato che per denigrare l’ex funzionario della polizia, anche a livello personale con offese da coatto” (Grave scandalo in corso; 23 ottobre 2017). Bisogna evidenziare che il ministro degli Interni era uno dei più stretti collaboratori ed un “prediletto” del primo ministro, che lo considerava proprio un “campione della lotta contro le droghe” (Sic!). Ma lui era semplicemente un devoto ubbidiente della volontà del primo ministro. Era semplicemente l’esecutore istituzionale della strategia ben concepita per la cannabizzazione di tutto il territorio dell’Albania. Una strategia che aveva come obiettivo ingenti guadagni miliardari, da dividere poi con la criminalità organizzata e, con la parte a disposizione, finanziare la vittoria durante le elezioni politiche del 25 giugno 2017. Una strategia quella che è pienamente riuscita. Mentre tutto quanto dichiaravano il primo ministro, i suoi più stretti collaboratori e la propaganda governativa erano solo e soltanto delle bugie e delle falsità che niente avevano a che fare con la drammatica, vissuta e sofferta realtà albanese di allora. Anche perché in Albania, un piccolo Paese, dove tutti sanno tutto di tutti, niente si poteva mai fare, non a livello nazionale, ma neanche a livello locale o comunale, senza l’orientamento, senza l’espressa richiesta e senza il permesso del primo ministro e/o di chi per lui. Bisogna sottolineare che lo scandalo attirò subito anche l’attenzione delle cancellerie europee. Il suo seguente corretto e professionale trattamento giuridico diventò una delle condizioni poste da diversi membri del Consiglio europeo per l’avanzamento del processo d’adesione dell’Albania. Purtroppo e “stranamente” però, durante tutto quel periodo i soliti “rappresentanti internazionali”, ambasciatore statunitense e dell’Unione europea compresi, non hanno visto, sentito e capito nulla di tutto quanto accadeva in Albania. Non solo ma, guarda caso, non hanno letto neanche quanto avevano ufficialmente rapportato diverse istituzioni specializzate dell’Unione europea e statunitense, che evidenziavano la crescente preoccupazione legata alla massiccia coltivazione della cannabis in Albania ed al traffico illecito di stupefacenti. Anzi, l’ambasciatore statunitense e la sua omologa dell’Unione europea elogiavano il ministro e i “successi” nella lotta contro le droghe e la criminalità organizzata. Chissà perché?!

    Dal 2017 il sistema “riformato” della giustizia, con degli stratagemmi procedurali, ha rimandato per anni il caso dell’ex ministro degli Interni. Ma non poteva andare oltre. Venerdì scorso, 4 febbraio, è stato finalmente proclamato il verdetto della Corte speciale d’Appello contro la Corruzione e la Criminalità organizzata, un’altra nuova istituzione del sistema “riformato” della giustizia. L’ex ministro è stato condannato soltanto a 3 anni e 4 mesi per “abuso d’ufficio”, dovuto ai rapporti con i suoi parenti trafficanti internazionali di stupefacenti. La Corte ha respinto delle altre accuse ben più gravi. Accuse legate al “traffico di stupefacenti, in collaborazione, nell’ambito di un gruppo criminale strutturato” e quella della “Partecipazione attiva in un gruppo criminale strutturato”. Chissà perché un simile verdetto?! Una cosa si sa però: sia al primo ministro che ad alcuni “rappresentanti internazionali” in Albania, ambasciatrice statunitense in testa, interessa molto che la “riforma” del sistema della giustizia sia considerata un “successo”. E per questo stanno sudando sette camicie, pur di riuscirci. Giustificando così anche centinaia di milioni di dollari e di euro “spesi” durante questi anni.

    Chi scrive queste righe ricorda che nel 2017, un ragazzo di 22 anni è stato condannato con una simile condanna, come quella dell’ex ministro, perché era in possesso di 3 grammi di cannabis. Il ragazzo si è poi suicidato in prigione per la vergogna. Mentre l’ex ministro, essendo l’esecutore della cannabizzazione del Paese, è stato condannato dalle istituzioni “riformate” di giustizia con la stessa pena del ragazzo suicidato! Chi scrive queste righe è convinto che nessuna decisione presa da parte delle istituzioni “riformate” del sistema di giustizia non convincerà finché non si metteranno sotto inchiesta e non si giudicheranno professionalmente ed imparzialmente tutti i veri e consapevoli responsabili, cioè il primo ministro e i suoi collaboratori. Se non sarà così, si tratterà sempre di una giustizia mancata, derisa e offesa, dando perciò ragione a Giovanni Verga, secondo il quale “A questo mondo si sa che la giustizia si compra e si vende come l’anima di Giuda”.

  • In attesa di Giustizia: parole, parole, parole

    Nei giorni scorsi il Presidente MATTARELLA si è nuovamente insediato al QUIRINALE, prestando giuramento alle Camere e pronunciando il tradizionale discorso che, altrettanto tradizionalmente, è di alto contenuto istituzionale ma dai contenuti prudentemente generici nel rispetto del ruolo di garanzia che gli è affidato cui corrispondono l’autonomia del Parlamento e del Governo.

    Questa volta, diversamente dal passato, qualcosa di nuovo e di buon auspicio – rispetto ai soliti richiami alla nobiltà della politica, ai principi costituzionali, la solidarietà verso i più deboli… –  si è colto nelle parole del Presidente: una forte sollecitazione alla necessità di riformare la giustizia.

    E’ un tema sul quale MATTARELLA, nei sette anni precedenti, ha mantenuto un atteggiamento che eufemisticamente si potrebbe definire cauto: sette anni di disgrazie, tra l’altro, caratterizzati dall’“affaire” Palamara, dall’occultamento di prove a favore di imputati da parte della Procura di Milano e dai molti altri scandali che hanno assestato colpi formidabili alla autorevolezza della magistratura (m, rigorosamente minuscola).

    Sette anni nei quali il garante della Costituzione ha firmato leggi di evidente incostituzionalità: da quella sulla legittima difesa (in questo caso, invece di opporre il veto, ha tiepidamente suggerito – restando inascoltato – di rivedere alcuni punti non del tutto allineati con la Carta Fondamentale dello Stato) a quella sulla prescrizione, a tacere di quella sul congelamento della prescrizione per i processi precedenti alla riforma da celebrare al Tribunale di Bari, crollato perché, in sostanza, edificio abusivo e privo di manutenzione. Ma gli esempi potrebbero essere anche altri, partitamente nel ruolo di Presidente del C.S.M..

    Colpisce, allora, l’inedita forza degli argomenti, le sollecitazioni affinché la magistratura recuperi credibilità da parte dei cittadini che “neppure devono avvertire il timore per il rischio di decisioni arbitrarie ed imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone”.

    Non bastasse, il Presidente ha auspicato che la le riforme siano frutto di un costruttivo confronto tra magistratura (m sempre minuscola, per ora) ed Avvocatura con un richiamo esplicito al ruolo cruciale che quest’ultima riveste in un serio percorso riformatore.

    E ancora: il sovraffollamento carcerario è visto come intollerabile offesa alla dignità umana. Bravo Presidente, bravo anche chi gli ha scritto e/o suggerito il discorso ma la impennata di orgoglio non può che essere applaudita.

    Non da tutti, ovviamente: il Fango (con la g, certo) Quotidiano, commentando il discorso di Mattarella, ha titolato “applausi soprattutto contro i giudici” e l’editoriale di Travaglio trabocca di bile con commenti astiosi.

    In questi giorni si celebra – si fa per dire – il trentennale di “Mani Pulite” che, probabilmente, sarebbe meglio definire “Indagini opache”, l’inizio della fine del giusto processo, e c’è da sperare che la vigorosa sollecitazione del Presidente della Repubblica, con attenzioni rivolte sul versante non solo di chi amministra la amministrazione della giustizia ma di chi ne subisce la preponderante forza, non resti un sussulto isolato.

    C’è da sperare, più che nel Parlamento attuale – infestato da Cinque Stelle cadenti – in quello che verrà, che queste, come in una celebre canzone di Mina, non restino parole, parole, parole, soltanto parole…

  • In attesa di Giustizia: sezione doppio zero

    L’epilogo dell’ultimo film in cui Daniel Craig ha interpretato l’agente 007 ha lasciato sgomenti gli appassionati perché muore il leggendario personaggio dei romanzi di Ian Fleming.

    Tuttavia, come di consueto, in fondo ai titoli di coda è apparsa la scritta “James Bond ritornerà” e si è iniziato ad ipotizzare chi potrebbe indossarne i panni nella prossima puntata della saga: sarà un britannico per forza, una donna, di colore? La Produzione non si sbilancia, un po’- forse – per esigenze di marketing facendo crescere l’attesa, ma è verosimile che una rosa di nomi vi sia già.

    Grazie allo straordinario lavoro della redazione del Fatto Quotidiano – sempre siano lodati Peter Gomez e Marco Travaglio – abbiamo già una ghiotta anticipazione: non sarà britannico ma italiano, non sarà neppure un ex ufficiale di Marina Militare e come copertura del suo ruolo di agente del Military Intelligence Six con licenza di uccidere non avrà più la società fantasma Universal Export ma un elegante ufficio con la targa “Studio legale” sulla porta.

    Avete indovinato? Sarà un avvocato italiano, si dice “del Sud” ma nessuno deve sentirsi ingiustamente escluso nella fase che è ancora di casting.

    Ma come hanno fatto questi equilibrati e operosi giornalisti a scoprire tutto ciò? E’ presto detto: grazie ad una sentenza della Corte Costituzionale che ha ritenuto illegittima la norma che prevede la censura sulla corrispondenza tra gli avvocati e i detenuti al 41 bis, il regime di carcere duro riservato ai mafiosi. Decisione ineccepibile che rileva come il diritto di difesa ricomprenda quello di comunicare in modo riservato tra difensori e assistiti.

    Al Fatto, però, la pensano in maniera diversa e scrivono: “geniale! così i boss potranno ordinare omicidi e stragi per lettera”; evidentemente ne sanno di più dei Giudici della Consulta che hanno osservato che una tesi contraria rappresenterebbe una generale ed insostenibile presunzione di collusione tra il patrocinatore e l’imputato.

    Bene ma non benissimo: una vera e propria licenza di uccidere sarebbe stata rilasciata, in questo modo, dal massimo organo giurisdizionale della Repubblica agli avvocati ed ai loro clienti.

    L’insinuazione è infamante ed alimenta indiscriminatamente discredito: la Presidente del Consiglio Nazionale Forense se ne è lamentata in nome di tutta la categoria con una lettera al Direttore, ricordando – tra le altre cose – la funzione essenziale del difensore nel processo.

    La risposta, dai toni garbati e i contenuti di elevato spessore argomentativo esordisce con “Poco gentile Presidente” e prosegue considerando che l’invettiva non era certamente rivolta a tutti gli avvocati ma che “molte mele marce ci sono anche fra gli avvocati”, cosa ben nota a chi si intende di criminalità organizzata. Conclude dicendo che continuerà a scrivere ciò che pensa senza chiedere il permesso a nessuno, definisce “comiche diffide” quelle ricevute e invita la Presidente a lamentarsi, piuttosto, con Mario Draghi che imponendo l’obbligo di green pass per accedere nei tribunali ha leso, lui sì, il diritto di difesa.

    Finita la lettura di questo sproloquio si avverte proprio l’esigenza di un agente della sezione Doppio Zero: inteso il richiamo a quella che – un tempo – era la sigla che indicava i “locali di decenza” (oggi meglio noti come toilette) per rivolgere a Travaglio più che una diffida un perentorio invito: “Ma vai a ******”.  E i lettori mi perdoneranno la licenza poetica.

  • In attesa di Giustizia: il derby

    Il C.S.M., nel giro di pochi giorni dall’annullamento delle nomine del Primo Presidente e del Presidente Aggiunto della Cassazione, con tempestività ed efficienza fuori dal comune, ha rinominato in quelle funzioni i medesimi Magistrati che il Consiglio di Stato aveva appena ritenuto non disporre di titoli sufficienti rispetto ad altri candidati. Si è così salvata l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario che compete giustappunto al Primo Presidente della Corte (che ha ri-giurato nel ri-prendere le funzioni proprio pochi minuti prima della cerimonia)…la faccia è un’altra cosa.

    Detto questo per dare un seguito (forse non un happy end) all’articolo della settimana precedente, un approccio bipartisan ai temi della Giustizia non può evitarsi parlando di avvocati che, diversamente dai Magistrati – perennemente insufficienti dal punto di vista della copertura dei posti – in Italia, sono in deciso sovrannumero rispetto alle “esigenze di mercato”: basti dire che sono circa il quintuplo di quelli che esercitano in Francia che ha una popolazione più o meno analoga alla nostra. Solo a Milano sono circa 24.000 a fronte di circa 1.300.000 abitanti censiti: a Monza, Lodi, Pavia, Busto Arsizio, Como – per citare le città più vicine – ci sono altri Tribunali ed altri Ordini Forensi con migliaia di iscritti.

    Discende la constatazione che quella dell’avvocato sia una professione “immergente”: tanto è vero che sono aumentate le cancellazioni dagli Albi, diminuite le iscrizioni a Giurisprudenza e alla pratica forense dei neolaureati e non pochi hanno approfittato della possibilità di partecipare al concorso per funzionario di cancelleria o altri possibili. Ovvio che il biennio di pandemia, per evidenti  ragioni, non abbia fatto altro che aggravare la preesistente crisi di settore.

    Crisi non solo economica ma anche culturale e – in non pochi casi – morale. La mancanza di lavoro, infatti, ha portato a sacrificare la preparazione, lo studio, la specializzazione in favore dell’accaparramento indiscriminato di clientela e di casi per cui non si ha alcuna competenza effettiva: le violazioni del codice deontologico sono divenute tristemente all’ordine del giorno.

    In un simile contesto spicca (ma, a parere di chi scrive, certamente non brilla) l’iniziativa di due giovani avvocatesse di Torino – iscritte all’Albo solo da pochi anni – che hanno dato vita ad una pagina Instagram dal nome – francamente poco professionale – dc_legalshow dove “dc” sono le iniziale dei loro cognomi.

    Chi avesse la curiosità – interesse sembra una parola grossa – di andare a vedere, scoprirà che i contenuti si allineano perfettamente alla denominazione della pagina sebbene tradisca l’intenzione dichiarata di pubblicare contenuti di natura giuridica: infatti niente giurisprudenza, legislazione o dottrina che cedono il passo a immagini esclusivamente glamour del duo impegnato non tanto in asperrime battaglie legali quanto in aperitivi, cene in ristoranti stellati, visite alle terme, autentiche sfilate in abiti ed accessori griffatissimi che di show hanno molto e di legal molto poco.

    L’Ordine degli Avvocati di Torino si è subito mobilitato discutendo se si sia in presenza di comportamenti contrari al dovere di dignità e decoro imposti dall’etica professionale e la cui violazione determina sanzioni disciplinari; forse sì, forse no ma un’unica certezza si può ricavare da questo tentativo di emulazione dei Ferragnez: il buon gusto è un perfetto sconosciuto. Trascurando l’evidenza secondo cui le due giovanotte sembrano trascorrere più tempo nelle SPA che in studio, il momento di grande crisi imporrebbe probabilmente un rigoroso understanding nel rispetto di quelle decine di migliaia di colleghi, più o meno giovani, che faticano a pagare le bollette. Opinione personale è che non ne esca una gran bella figura della classe forense: forse siamo in presenza di un derby con la magistratura.

  • In attesa di Giustizia: niente di nuovo sul fronte occidentale

    Le settimane passano, progetti di riforma e disegni di legge si susseguono ma nonostante i buoni propositi,  il settore della Giustizia non sembra risentirne in meglio.

    Siano sufficienti, come al solito, un paio di esempi scelti  tra gli ultimi che si potrebbero fare.

    Accade innanzitutto – o, forse, sarebbe meglio dire “accadde qualche tempo fa” – a Potenza, in un processo per omicidio ed altri gravi reati, che prima ancora di prendere la parola il difensore si sentisse raccomandare dal Presidente della Corte di Assise di Appello  di non superare la mezz’ora per illustrare le sue ragioni.

    Ebbene: la legge prevede che il Presidente diriga la discussione, impedisca ogni divagazione, ripetizione o interruzione ed è prevista a pena di nullità l’osservanza delle disposizioni concernenti l’intervento dell’imputato ed il diritto di difesa.

    L’ammonimento, però, in questo caso è stato preventivo e viene, allora, da domandarsi: quale divagazione o quale ripetizione può esservi stata se il difensore non ha neppure aperto bocca? Per non parlare delle interruzioni: queste sì vi sono state ma da parte del Giudice che ad un certo punto ha fatto rilevare che si era già sforato il termine di oltre cinque minuti, anzi quasi dieci e, fatto partire il cronometro, ha intimato di arrivare alle conclusioni in sessanta secondi.

    Sentenza poi confermata, ed impugnata con ricorso per Cassazione eccependo – tra gli altri motivi – anche  la violazione del diritto di difesa per l’arbitraria limitazione temporale del suo esercizio. Risultato: rigetto del ricorso ed anche di ciò non vi è da stupirsi se i lettori ricordano quanto trattato su queste colonne poche settimane fa circa il funzionamento della Corte. Siamo ai giorni nostri: è stata da poco depositata la motivazione e l’avvocato zittito sta passando la parola alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

    Nel frattempo, proprio la Suprema Corte di Cassazione, garante ultimo del rispetto delle regole processuali e della interpretazione della legge, è stata “decapitata” dal Consiglio di Stato che ha annullato le nomine del Primo Presidente e del Presidente Aggiunto perché il C.S.M. non aveva rispettato parametri di valutazione dei candidati previsti da sue stesse circolari interne; per addivenire a questa decisione ci sono voluti un paio d’anni durante i quali abbiamo avuto ai vertici della Magistratura due giudici che probabilmente sono ottime persone ma non avevano i titoli per occupare quei posti.

    Ci sarebbero anche altre questioncelle: da quelle legate allo stipendio di circa 8.000€ netti al mese percepito per un ruolo che non poteva essere ricoperto, alla necessità di ricominciare le procedure di valutazione da parte del Consiglio Superiore lasciando – nel frattempo – la Cassazione senza vertici.  Tanto per non farsi mancare nulla, proprio il relatore ed estensore della sentenza era stato promosso alle funzioni di Giudice del Consiglio di Stato da una commissione di cui faceva parte il magistrato oggi vincitore del ricorso. Anche se non obbligatoria, la scelta di astenersi sarebbe stata più prudente e di buon gusto.

    Intanto, tra due settimane si inaugurerà l’Anno Giudiziario e siccome è il Primo Presidente della Cassazione a tenere il discorso di apertura, chi andrà al suo posto? Qualcuno che non lo è: un Facente Funzioni o un Presidente delegittimato? E questo in fin dei conti è il minore del problemi; viene, piuttosto, da chiedersi   cosa ci aspetta nel 2022: sarà due volte Natale e festa tutto l’anno come cantava Lucio Dalla?

    Difficile a credersi se questi sono gli auspici dei primi di gennaio e piuttosto che a Lucio Dalla sembra più ragionevole richiamarsi a Remarque: nulla di nuovo sul fronte occidentale con l’aggravante della pandemia.   L’attesa di Giustizia è destinata a durare ancora a lungo.

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