Giustizia

  • In attesa di Giustizia: Sporting theory of trial

    Con questa definizione, negli Stati Uniti, ci si riferisce al processo penale visto come un agone sportivo nel quale “vince il migliore”. Non necessariamente la giustizia: del resto la giustizia degli uomini è per sua natura fallace, motivo per cui – nonostante l’avversione di molti  – il nostro ordinamento prevede tre gradi di giudizio come la maggior parte dei sistemi democratici.

    La terminologia usata dagli americani appare forse eccessiva, peraltro, non si deve dimenticare che il modello processuale adottato negli U.S.A. è un “accusatorio puro”, cioè a dire un processo di parti nel quale Pubblico Ministero e Difesa sono effettivamente sullo stesso piano e un giudice terzo ed imparziale funge solo da arbitro del dibattimento garantendo il rispetto delle regole, il giudizio finale è affidato alla giuria che deve valutare, molto laicamente ed oltre ogni ragionevole dubbio, la consistenza delle prove dell’accusa e non affermare l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato: tanto è vero che la formula di proscioglimento è “not guilty”, non colpevole, a significare semplicemente che il Public Prosecutor non è riuscito a dimostrare la fondatezza della propria tesi, non necessariamente che l’accusato sia innocente.

    Tra le parti, accusa e difesa, a regola – oltretutto – c’è molto fair play: vinca il migliore (o giù di lì) è quindi una terminologia che, ben interpretata, ci può stare.

    Da noi non è così: a parte il fatto di avere un sistema processuale dove vengono impiegati termini come “giusto processo” e “giudice terzo” “ragionevole dubbio”, nella prassi si tratta di enunciazioni prive di contenuto effettivo e l’amministrazione della giustizia penale soffre, in larga misura, delle nostalgie di un ordine giudiziario che si sente orfano dell’inquisitorio e di Procure che mal digeriscono le sconfitte.

    Qualche esempio? Torino, già capitale del Regno, ne offre un paio veramente inquietanti e recentissimi, a margine del giudizio di appello sulla cosiddetta “Rimborsopoli del Consiglio Regionale” che si sta nuovamente celebrando dopo un massiccio annullamento delle precedenti condanne da parte della Cassazione.

    Uno degli imputati, l’ex Consigliere Regionale Angelo Burzi, nel frattempo e pur assolto, si è suicidato non reggendo più la tensione generata da dieci anni di processo che gli hanno rovinato la vita ed, a fronte delle manifestazioni di solidarietà e cordoglio pervenute da più parti, il Procuratore Generale di Torino, Saluzzo, respingendo le accuse di persecuzione giudiziaria e disparità di trattamento ha invitato a moderare i toni perché si rasentava il “vilipendio della magistratura”. Fuori luogo è dir poco.

    Gli Intoccabili…ma ci sono ancora? Sembrerebbe di no, ma dipende da che parte arrivano le critiche: nel corso della requisitoria nel medesimo processo il Sostituto Procuratore Generale, Avenati Bassi, nel criticare la sentenza della Cassazione di annullamento delle condanne ha sostenuto che chi l’ha decisa e chi l’ha scritta non capisce niente di diritto e non avrebbe neppure dovuto superare il concorso in Magistratura.

    Avenati Bassi, invece, sembra che abbia superato il concorso in Magistratura Democratica: infatti, dopo aver chiesto – sempre nella stessa  indagine – la condanna degli esponenti di centrodestra e l’assoluzione di quelli di centrosinistra non ha ritenuto inopportuno accettare la designazione del PD come consulente per la Commissione Parlamentare di inchiesta sulle banche.

    Una vita fa c’era almeno un buon gusto maggiore: un Presidente di Sezione della Corte d’Appello di Milano, a metà anni ’90, scrisse – ma con toni garbati e riservatamente – al Primo Presidente della Cassazione lamentando il numero, secondo lui eccessivo, di annullamenti di sentenze della sua Sezione…e il Primo Presidente, sempre educatamente, rispose: “Dica ai suoi giudici di scriverle meglio”.

  • In attesa di Giustizia: vieni avanti, cretino!

    Il 1982 non fu solo l’anno dell’indimenticabile “Mundial” di Spagna ma anche quello di uscita di una spassosissima commedia intrepretata da Lino Banfi per la regia di Luciano Salce: “Vieni avanti cretino”.

    La trama parlava dei tentativi di un ex detenuto, appena uscito dal carcere, che tenta senza fortuna di reinserirsi nella società con l’aiuto di un parente impiegato presso un ufficio di collocamento dando origine ad una serie di spassosissime gag.

    Il nostro articolo, invece, tratta un argomento molto meno divertente, anzi, ed è una vera e propria carica di cretini.

    Mentre la Guardasigilli Cartabia, con il contributo delle Commissioni istituite presso il Ministero della Giustizia e pur tra infinte polemiche, tenta di dare respiro al sistema giudiziario con riforme che valgono – tra l’altro – l’erogazione di fondi del PNRR, si è tenuto il concorso per 310 posti di magistrato ordinario.

    Posti destinati in parte a rimpinguare l’organico ed in altra a bilanciare i pensionamenti e, di questi tempi, anche arresti e destituzioni disciplinari dall’ordine giudiziario che stanno falcidiando la pianta organica.

    310, in fondo, non sono nemmeno molti ma, ahinoi, si devono sempre fare i conti con le esauste casse dello Stato che dovrebbero provvedere a pagarne poi gli stipendi e – più o meno – ogni anno quelli sono i posti messi a concorso: all’ultimo hanno partecipato quasi seimila candidati ed i lettori penseranno che sia un numero straordinariamente in eccesso ma non è così.

    Infatti, solo 3.797 hanno completato le tre prove scritte, gli altri hanno abbandonato prima di consegnare l’ultimo elaborato perché evidentemente non si sentivano sicuri del proprio lavoro e in tal modo hanno evitato di “bruciarsi” uno dei tre tentativi che al massimo sono concessi per partecipare a questo concorso.

    Fuori un terzo dei partecipanti, ce ne sarebbero stati comunque a sufficienza e quei quasi quattromila aspiranti  hanno portato a termine le prove, pur consapevoli della difficoltà (legata anche al voto assegnato) perché si sentivano  ragionevolmente certi di avere delle chances di entrare in graduatoria.

    Ebbene, la prova è stata superata solo da 88 di loro e sono tutti soggetti  non solo laureati in giurisprudenza ma già qualificati dall’avere superato altra selezione: il concorso in magistratura è, infatti, “di secondo grado” e come tale prevede un percorso professionale precedente (avvocato, docente universitario, dirigente di ente pubblico…).

    Qualche migliaio di emuli di Davigo – e questo già fa paura – tornerà (per fortuna?), almeno per un po’, ad occuparsi di ciò che facevano prima e – quindi – sono fatti salvi i livelli occupazionali. Bene ma non benissimo perché questa strage di candidati non è frutto di un eccessivo rigore della commissione esaminatrice o di prove di concorso di difficoltà pari alla scienza missilistica necessaria per mandare l’uomo su Marte: i problemi sono stati l’approssimativa conoscenza della lingua italiana, di grammatica e sintassi e certamente non saranno mancati grossolani svarioni in diritto. Insomma, siamo al cospetto di un autentico cimitero culturale.

    Spontanea sorge la domanda: come hanno fatto costoro, non tanto a prendere una prima abilitazione e neppure la laurea ma, ancor prima, a superare l’esame di terza media inferiore? Da domani, tuttavia ve li ritroverete tutti al loro posto: avvocati, ma anche magistrati onorari, dottori di ricerca, funzionari di Polizia.

    E’ il fallimento di una scuola massacrata da riforme idiote e di un’università diventata semplice esamificio.

    Ora siamo di fronte ad una vera e propria carica di cavalleria di cretini per di più patentati perché abilitati a svolgere altre mansioni, altre professioni, tutte delicate e che cercano di conquistare il diritto alla più complessa di tutte tra quelle umanistiche; qualcuno c’è anche il rischio che prima o poi ce la faccia e – a giudicare di ciò che si vede in giro – è già successo, senza indulgere a criticare quell’anima bella di Antonio Di Pietro perché sbagliava (e sbaglia tuttora) i congiuntivi ma, al confronto è meritevole di Presidenza della Accademia della Crusca.

  • In attesa di Giustizia: tabù

    Fino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso ogni volta che si registrava un sovraccarico di lavoro nel settore penale degli uffici giudiziari il rimedio era nel ricorso all’amnistia: nulla che, allora, sconvolgesse la coscienza dei cittadini; il provvedimento decongestionava efficacemente l’arretrato cancellando fascicoli per “reati nani” tipo l’ingiuria, la guida senza patente, i furtarelli in supermercato.

    Storicamente, a parte l’amnistia “Togliatti” che accompagnò un momento storico di pacificazione sociale,  si è sempre trattato di forme di “perdono” contenute di solito accompagnate dall’indulto e cioè a dire da uno “sconto” di pena (generalmente ricompreso tra i sei mesi e i due anni) per coloro che erano stati condannati definitivamente, ma non per tutti ed esclusi alcuni reati molto gravi come la rapina o grossi traffici di droga, che contribuiva a dare un po’di sollievo a carceri sempre alle prese con il sovraffollamento.

    Tutt’ad un tratto, in conseguenza di una modifica della Costituzione che ha previsto una maggioranza parlamentare di problematico raggiungimento (2/3 sul testo complessivo e 2/3 su ogni singolo articolo della legge) per l’approvazione di un’amnistia, e non casualmente dai tempi di Mani Pulite che hanno segnato l’inizio dell’epopea giustizialista, parlare di provvedimenti di clemenza è diventato un tabù e solo sollecitarli (tranne quando a farlo è stato il Pontefice) è diventata una manifestazione di pensiero politicamente scorretto, il sintomo di una manovra volta a soccorrere – neanche a dirlo – amici e compagni di partito corrotti e corruttori sebbene, per la verità, un’amnistia per tali reati non vi sia mai stata.

    L’arretrato di milioni di processi penali non celebrati si è – ovviamente – ancor più appesantito a causa del fermo quasi totale dei Tribunali in tempi di pandemia: ma guai a parlare di soluzioni che consistano nella estinzione dei reati, anche di piccolo cabotaggio, per dare respiro ad un sistema allo stremo.

    I tabù, peraltro, possono essere astutamente sfatati: ecco allora, tra le pieghe della riforma che dovrebbe farci guadagnare i fondi del PNRR, spuntare la panacea di tutti i mali. Nella legge delega, infatti, è previsto che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace ed uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati di indicare nei progetti organizzativi delle Procure al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo anche conto del numero degli affari da trattare e delle risorse disponibili il tutto allineandosi con le capacità di assorbimento del carico da parte degli uffici giudicanti.

    Tradotto: un’operazione di eugenetica giudiziaria mediante selezione delle indagini che si possono accantonare e dei processi che non si faranno mai perché non ci sono uomini, aule, risorse, denari.

    Un’amnistia strisciante approvata per legge che rafforza quanto già previsto in termini analoghi da una circolare del Consiglio Superiore della Magistratura di qualche anno fa: la parolaccia “clemenza”, però non viene pronunciata in nome, piuttosto, della positiva visione prospettica di una ottimizzazione del funzionamento degli Uffici. Anche il popolo pentastellato, che con quei paroloni ha una rarefatta dimestichezza, plaude all’iniziativa che se non altro ha il merito di sfilare la foglia di fico che da lustri ricopre le pudenda di un’amministrazione della Giustizia in perenne debito di ossigeno che si arrangia come può.

    A prescindere da alcuni profili di dubbia costituzionalità di una disciplina che sembra violare, primo tra tutti, il principio di obbligatorietà della azione penale sarebbe stato forse preferibile mettere mano ad una consistente depenalizzazione: soprattutto nelle leggi speciali più che nel codice esistono migliaia di reati semplicemente ridicoli che, prima della destinazione all’oblio intasano e rallentano le Procure con adempimenti iniziali indispensabili quali la iscrizione della notizia di reato, la convalida di un sequestro, la formazione di un fascicolo che verrà poi dimenticato. Qualche esempio? L’utilizzo di stalloni non autorizzati dal veterinario provinciale nella monta equina o l’impiego di vernici non omologate per dipingere le linee di galleggiamento delle navi, tanto per citarne un paio e, chi ne ha voglia, può ritrovare un vecchio articolo di questa rubrica (La parabola dei pappagallini) che tratta l’argomento.

    Sfortunatamente, anche la depenalizzazione è un tabù, la sola parola è impronunciabile da un legislatore per il quale il ricorso al diritto punitivo, invece che essere visto come dovrebbe e cioè uno strumento sussidiario di controllo sociale, è fonte inesauribile di soddisfacimento della pancia dell’elettorato con quanto ne deriva in termini di consenso.

    Per la Giustizia, probabilmente, l’attesa è ancora lunga.

  • In attesa di Giustizia: Tu quoque

    Se ne è accennato in numeri precedenti di questa rubrica: è stato rafforzato, mediante il recepimento di una direttiva europea, il fondamentale principio della presunzione di innocenza che – tra l’altro – protegge l’accusato da «mediatiche sovraesposizioni deliberatamente volte a presentarlo all’opinione pubblica come colpevole prima dell’accertamento processuale definitivo». In tal senso si è già espresso il Giudice per le Indagini Preliminari di Milano, Fabrizio Filice, richiamando proprio la direttiva Ue n. 343 del 2016, per escludere che i giornalisti, che nel 2015 avevano epitetato come «taroccato», «una patacca» il video in cui veniva mostrato il furgone bianco di Massimo Bossetti che girava intorno alla palestra di Yara Gambirasio, avessero diffamato il capo dei RIS di Parma che aveva querelato tutti sparando ad alzo zero.

    Eppure, si trattava di un dato oggettivo: il video era una ricostruzione priva di scopo probatorio, realizzata a fini comunicativi (o, meglio: suggestivi), tanto da non rientrare nemmeno negli atti del (vero) processo; tuttavia fu ampiamente diffuso anche per tramite le numerose trasmissioni televisive che si interessano di cronaca giudiziaria.

    «I video del furgone di Bossetti sono adattati per la stampa», così, Luca Telese in un articolo su Libero criticando un processo mediatico che precedeva e surrogava il processo penale: e quel video era in effetti altamente incriminante, sebbene fosse stato confezionato ad hoc montando frame di molteplici furgoni simili a quello di Bossetti al fine di rispondere alle pressioni mediatiche e dare in pasto ai giornalisti – e all’Italia intera – un perfetto mostro da copertina.

    Dall’epoca dei plastici con la villetta della Franzoni montati in studio da Bruno Vespa, i processi vengono ormai celebrati in parallelo fuori dalle aule del Tribunale con totale mancanza di garantismo nei confronti dell’imputato che viene presentato e, spesso, implicitamente giudicato come presunto colpevole con modalità da Festival di San Remo. Il video confezionato ad arte non è altro che la ciliegina sulla torta di un sistema malato che ha portato una Procura a relazionarsi coi media in modo poco trasparente nei confronti dell’opinione pubblica (cioè quel Popolo Italiano in nome del quale viene amministrata la Giustizia), e sicuramente scorretto nei confronti delle parti in causa.

    Del tutto condivisibile la critica fatta dai giornalisti: serviva, forse, pressione popolare per avere un percorso spianato davanti alla Corte di Assise? Di certo se l’intento era quello di creare un colpevole perfetto può dirsi pienamente raggiunto.

    Ora, vi è da sperare, tramite il recepimento alla Direttiva UE n. 343 del 2016, attuato pur con agio di cinque anni, che l’Italia potrà e dovrà impedire il ripetersi di uno scempio simile…che non è l’unico esempio che si può portare ma solo il più clamoroso e recentemente valutato.

    E ripensando all’origine e allo sviluppo di questa vicenda viene alla mente quando Cesare, in punto di morte, disse: “tu quoque Brute fili mi”.

    I giornalisti, proprio loro che normalmente sono i principali alleati di certe Procure nell’alimentare il processo mediatico in funzione degli interessi dell’impresa editoriale, e gli inquirenti che tendono ad assicurarsi visibilità ed influenzare il giudizio, questa volta sono i protagonisti inconsapevoli della valorizzazione della presunzione di innocenza.

    Un processo, quello deciso dall’ottimo Giudice Filici, che si conclude giustamente senza colpevoli ma – per altro verso – anche impunemente: infatti nè gli investigatori nè la Procura di Bergamo saranno mai chiamati a rispondere di quella che viene definita eufemisticamente una scorrettezza.

    Bossetti, ormai, è colpevole fino a prova contraria e può essere che quel video non abbia contribuito più di tanto alla sua condanna: il percorso che deve seguire la Giustizia degli uomini, però, è sicuramente un altro. Restiamo in attesa, forse in futuro andrà meglio.

  • In attesa di Giustizia: fantasia al potere

    Settimana abbastanza tranquilla sul fronte giudiziario, nella misura in cui i magistrati non si sono arrestati tra di loro e sembra che sia avviata alla conclusione la storia infinita della nomina del Procuratore Capo di Roma mentre quello di Milano – Francesco Greco – ha festeggiato il settantesimo compleanno e con esso la pensione che comporta anche l’esaurirsi automatico di un procedimento disciplinare che fu avviato, un paio di mesi addietro, mancando già dei tempi tecnici per arrivare ad una decisione proprio per l’imminente pensionamento; nel frattempo, l’indagine cui era sottoposto a Brescia si avvia all’archiviazione.

    Insomma, tutto è bene quello che finisce bene, ma non per tutti: come per Riccardo Fuzio, già Procuratore Generale della Cassazione che aveva confidato a Luca Palamara l’esistenza dell’inchiesta aperta a Perugia nei suoi confronti, e che era stato assolto dalle accuse di rivelazione di segreto d’ufficio.

    Contro questa sentenza si è, però, appellata in questi giorni la Procura Generale di Perugia (sede giudiziaria competente per i magistrati romani) e, parrebbe, con un certo fondamento: Fuzio, infatti, era stato prosciolto motivando che in occasione delle prime confidenze non vi era stata ancora secretazione degli atti: come se una delle più alte cariche del sistema giudiziario non sia comunque tenuto al riserbo a prescindere dalla esistenza di un passaggio meramente formale.

    La porzione più fantasiosa della motivazione è – però – quella che riguarda la rivelazione di altre notizie, quelle in seguito coperte dal segreto istruttorio: è stato, infatti, ritenuto che il fatto sia di particolare tenuità, quindi irrilevante dal punto di vista penale; si dice in sentenza che Palamara già sapeva qualcosa e che, quindi, si trattava di  innocenti ed innocui chiacchiericci tra vecchi amici e colleghi…senza considerare – tra l’altro – che i due, per accordarsi sul dove come vedersi e parlarne, a riprova che non fossero proprio sciocchezzuole, usassero telefoni a loro non riconducibili e stratagemmi vari per mantenere quegli incontri e i loro contenuti riservati.

    Il premio fantasia della settimana spetta però, ancora una volta e con pieno merito, al nostro legislatore. Albert Einstein diceva che il segreto della creatività è nel saper tenere nascoste le proprie fonti: il nostro Parlamento dispone, evidentemente, di fonti ispiratrici sulle quali è meglio stendere un velo pietoso. Ed è in ogni caso difficile individuarle tutte, salvo qualche celebre esponente del furore giacobino.

    La creatività, allora, si traduce non di rado in sciatteria normativa; d’altronde, come ricordava Cordero: «a terminologie esatte corrisponde chiarezza di idee». E di idee chiare non se ne segnalano molte, partitamente in materia di giustizia e legislazione.

    L’ultima perla partorita dalle Camere si rinviene nel nuovo codice della strada pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 9 novembre: per tutelare gli automobilisti ed evitare distrazioni alla guida viene introdotto il divieto di affiggere lungo le strade pubblicità con messaggi sessisti, discriminatori, lesivi delle diversità, dell’orientamento politico e religioso…concetti molto vaghi che riecheggiano i contenuti del d.d.l. Zan senza che sia ben chiaro a chi verrà assegnato il compito di valutare (e con che criteri) i cartelloni, tutti i cartelloni che fiancheggiano le decine di migliaia di chilometri di statali, provinciali, autostrade, tangenziali, strade urbane ed extraurbane e piste ciclabili, naturalmente. Come se, fino ai giorni nostri, se ne fossero visti molti.

    E’ vero, probabilmente e per esempio, che fu fatto molto peggio quando anni fa fu inserita una modifica della legge sul traffico di droga all’interno del decreto legislativo con cui venivano dettate disposizioni per l’organizzazione delle Olimpiadi invernali del Sestrière (poi dichiarate incostituzionali per eccesso di delega a distanza di anni, creando un putiferio per rimettere ordine nella infinità di processi celebrati e conclusi nel frattempo con pene tecnicamente illegali): che sia da considerare un segnale positivo? Ai posteri e a chi dovrà giudicare i “consigli per gli acquisti” l’ardua sentenza.

  • In attesa di Giustizia: i coinvolti

    Qualche mese dopo la  vicenda del Giudice Scroccone che non pagava i conti dei ristoranti abitualmente frequentati, storia  dal retrogusto acre del “regolamento di conti” a mezzo stampa dopo una soffiata (come si dice in gergo poliziesco), eccone un’altra con protagonista una toga buongustaia che – però – ha ottenuto rarefatta mediatica, tranne che dalla stampa piemontese: forse perché ci sono altri problemi di cui occuparsi, oppure per non infierire sulle spoglie di una magistratura ormai destituita di autorevolezza e credibilità con grave pregiudizio dei molti che lavorano alacremente e con onestà non solo intellettuale.

    Insomma, i motivi possono essere molti non ultimo quello che il Dottor Andrea Padalino, oggi giudice a Vercelli, ha dei trascorsi come GIP di Mani Pulite e proprio la Procura di Milano ha appena chiesto tre anni di reclusione per lui, accusato di corruzione in cambio di pranzi, cene e pernottamenti nella amena location gestita da Antonino Cannavacciuolo.

    E’ l’ennesimo sintomo  del malessere – che non sembra destinato ad esaurirsi – da cui è affetto l’Ordine Giudiziario riflettendosi inesorabilmente sulla fiducia che l’opinione pubblica ripone nell’amministrazione della Giustizia; i cittadini, tra l’altro, non hanno potuto assistere al giudizio poiché questo processo si sta celebrando con rito abbreviato e perciò senza udienza pubblica; allora, forse, sarebbe stato più corretto (in questo come in altri casi) dare l’informazione dopo una sentenza.

    Ma noi siamo fatti così, inguaribili garantisti e, fatta la premessa che il giudice Padalino ha vivacemente contestato le accuse, siamo molto lontani dal pensiero della buon’anima del Procuratore di Milano Francesco Borrelli che, in un carteggio del 1993 con l’allora Guardasigilli Flick, scriveva che quando vi è una confessione appare persino un po’ farisaico che per prendere atto della realtà si debbano attendere le sentenze: quasi che nel nostro ordinamento non sia previsto che anche la confessione vada verificata per scongiurare il rischio che sia commesso il reato di auto calunnia che – a sua volta – può avere infinite motivazioni. Basti come esempio quello dello “Zio Michele” nel famoso processo per l’uccisione di una adolescente ad Avetrana.

    Esigenze di “cassetta”, prossimità politiche e vere e proprie forme si sottocultura fanno invece sì che la gogna mediatica costituisca regola di base della cronaca giudiziaria sino al punto da creare un nuovo soggetto processuale sconosciuto ai codici: il coinvolto.

    Non può sorprendere che tutto ciò sia opera della creativa redazione de Il Fatto Quotidiano che, commentando la formazione della nuova Giunta Comunale romana, ha stigmatizzato la circostanza che il Gualtieri abbia chiamato ad assisterlo nientemeno che tre persone “sfiorate dall’inchiesta sul Mondo di Mezzo” e cioè quella cosiddetta “Mafia Capitale”. Ma cosa vorrà mai significare “sfiorato”? Si tratta di coloro che non sono mai stati neppure interrogati e le relative posizioni sono state rapidamente archiviate per radicale mancanza di elementi di prova che potessero giustificare anche solo il rinvio a giudizio.

    Eccoli: i coinvolti, quelli di cui nessuno probabilmente aveva mai saputo nulla ma che vengono serenamente sputtanati con nome, cognome ed incarico assegnato dal Sindaco, in un articolo a cinque colonne, accomunati ad un quarto personaggio, nominato City Manager, tutt’ora indagato per un presunto abuso di ufficio (reato già modificato e parzialmente abrogato per legge) basato su elementi così fragili che in oltre quattro anni non hanno portato nemmeno alla chiusura delle indagini.

    Nulla, invece, si troverà tra quelle pagine a proposito della decina di condanne per diffamazione – sia in sede penale che civile – divenute definitive a carico di Marco Travaglio, vedovo Conte. Forse sarà una banale dimenticanza o – chissà – magari si tacciono per non intaccare il dogma della infallibilità dei giudici reclamando il diritto di cronaca e la funzione di super eroe del Direttore chiamato alla missione di punire i malvagi e redimere una Nazione.

  • In attesa di Giustizia: silenzio stampa

    Il Consiglio dei Ministri nei giorni scorsi ha approvato il decreto legislativo che recepisce la Direttiva Europea sulla presunzione di innocenza che, tra le altre cose, impone notevoli restrizioni alle modalità di comunicazione delle autorità giudiziarie con lo scopo di impedire la formazione nell’opinione pubblica di pregiudizi nei confronti di chi sia sottoposto ad un processo senza che vi sia ancora stata una sentenza.  La notizia ha avuto un’eco modesta, sebbene faccia con un’altra – altrettanto recente – che conferma la bontà del provvedimento normativo: il proscioglimento di numerosi giornalisti querelati per diffamazione avendo osato commentare in termini negativi un singolare accadimento del 2015.

    Qualcuno ricorderà la vicenda legata al video del furgone del muratore accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio che risultò essere una ricostruzione confezionata dai Carabinieri concordata con la Procura e realizzata per “esigenze di comunicazione”, come ammesso dal Comandante del Raggruppamento di Parma, Giampiero Lago, nel corso dell’interrogatorio da parte dei difensori di Massimo Bossetti.

    In due parole, un falso marchiano che – soprattutto sui giudici popolari, poteva avere influenza; e questa vicenda ha anche almeno un’altra sorta di “parente lontano” in quella del bazooka piazzato nel 2010 davanti alla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria per minacciare l’allora Capo dell’Ufficio, Giuseppe Pignatone. Ai giornalisti, in conferenza stampa, ne fu mostrato uno salvo poi ammettere che non era quello effettivamente trovato (che nessuno ha pubblicamente mai visto).

    In due parole: la nuova legge proibisce i processi mediatici, poiché creati con prove non vagliate da nessuno e di origine incerta se non decisamente opaca ed attraverso i quali si tende a prefigurare l’esito di un processo vero e proprio. Parliamo di un’informazione giudiziaria ridotta ad acritico cagnolino da riporto di chi, per dirla con Leonardo Sciascia, amorevolmente accompagna le notizie fin sulla porta del proprio ufficio facendovi meritare bassissima considerazione.

    Considerazione che in certi casi, se possibile,  è ancor più bassa: sul giornale di Travaglio – tanto per fare un esempio che non stupirà – è di recente stato pubblicato, movimento per movimento, l’estratto conto di Matteo Renzi tratto da una informativa della Guardia di Finanza…per il primo che commenta che è giusto così e che Renzi se lo merita “perché va in Arabia” è in palio un cartonato a grandezza naturale dell’indimenticabile Ministro Danilo Toninelli e per i primi dieci che farfuglieranno qualcosa dell’affossamento del d.d.l. Zan il cartonato sarà pure autografato.

    Poco spazio, invece ha avuto la notizia che un creativo P.M. lodigiano aveva trovato il tempo di indagare Mattia Maestri – meglio noto come Paziente Uno – per epidemia colposa, anche se non era certamente il primo contagiato dal Covid 19, anche se non aveva violato nessun protocollo di prevenzione ma era stato dimesso dal pronto soccorso e rimandato a casa prima di un definitivo ricovero. Anche se del Coronavirus fino al 21 febbraio 2020 nessuno al di fuori di Palazzo Chigi sapeva niente sebbene – anche questo nel silenzio stampa – già da fine gennaio fosse stato proclamato lo stato di emergenza; così come nulla più si sa della inchiesta della Procura di Bergamo che lambiva molto da vicino Giuseppe Conte & C. per identiche possibili, e forse più sostenibili, imputazioni.

    Informazione troppo spesso ad corrente alternata a seconda di chi indaghi, e chi sia indagato e perché.

    Per Maestri, all’incubo del contagio e della sottoposizione a terapie totalmente sperimentali (fortunatamente andate a buon fine) si è aggiunto, sino alla recente archiviazione, il tormento di essere inquisito da qualcuno che ha ritenuto negligenza penalmente rilevante tornare a casa perché così deciso dai sanitari a fronte di sintomi di una malattia sconosciuta ma equivocabili con quelli di altre patologie note. Fantasia al potere (giudiziario), e così è se vi pare.

  • In attesa di Giustizia: In der Strafkolonie

    La scorsa settimana, questa rubrica si è occupata di un rarissimo caso (sembra addirittura l’unico in assoluto) di richiesta di danno erariale da parte della Corte dei Conti ad un G.I.P. e un P.M. il primo dei quali aveva ordinato l’arresto di una persona senza che vi fossero i presupposti, il secondo per averne curato la materiale esecuzione senza accorgersi del fatto di non avere, egli stesso, fatto la indispensabile richiesta.

    Risarcita dallo Stato con circa 21.000€ la vittima di questo grossolano strafalcione giudiziario, alla Corte dei Conti si è avviata la procedura per il riconoscimento del danno erariale, in egual misura ed in capo ai due protagonisti negativi, in ragione della loro colpa grave nella vicenda: approfondendo l’argomento dopo il primo articolo, è stato possibile verificare che – peraltro – le già esangui casse della Pubblica Amministrazione sono state solo parzialmente ristorate.

    Al P.M., infatti, non è stato addebitato nulla, essendosi giustificato con la circostanza che il fascicolo era rimasto al Giudice e a lui era stata trasmessa solo l’ordinanza cautelare da eseguire: dunque non si era potuto accorgere che di quella persona non aveva mai richiesto la carcerazione, dimenticandosi del tutto anche della corrispondente indagine che – pure – aveva personalmente svolto.

    Il G.I.P., invece, ha fatto ricorso al giudizio abbreviato previsto anche dal Codice della Giustizia Contabile che consente di pervenire ad una rapida definizione delle controversie garantendo l’incasso per l’Erario di somme certe ma considerevolmente ridotte rispetto all’ammontare effettivo del danno cagionato; non consta neppure l’avvio di un disciplinare al C.S.M. ed i progressi in carriera di entrambi paiono immeritatamente salvi.

    L’approfondimento ha consentito anche di verificare che praticamente mai  vi è una rivalsa dello Stato  per le riparazioni da ingiusta detenzione nei confronti di chi le ha cagionate e che gravano sul bilancio per una media di circa trenta milioni all’anno. Questo perché è necessario che la Corte dei Conti sia attivata da un esposto del cittadino vittima del torto che, di regola, non sa che può farlo ed è, comunque, privo di interesse; in alternativa vi è la segnalazione da parte del Ministero della Giustizia…ma, si sa, cane non mangia cane.

    In sostanza, la Procura Contabile, per quanto sia di sua competenza, non dispone accertamenti per poi chieder conto dei sostanziosi esborsi per indennizzi dovuti a riparazione degli errori giudiziari, accertando se vi sia stata almeno colpa grave nel determinarli, perché nessuno, normalmente, la attiva.

    Come si potrebbe fare, allora, per realizzare in questo settore una forma di spending review,  prevenendo il pregiudizio economico per lo Stato, tenuto conto del sostanziale disinteresse del privato per il ristoro del danno erariale e della difesa corporativa del settore pubblico? La soluzione potrebbe essere di ispirazione letteraria.

    Durante il periodo di tirocinio, bisognerebbe far interpretare ai neo magistrati la parte del condannato nel racconto di Kafka “Nella Colonia Penale”, in cui si narra di prigionieri incarcerati senza neppure sapere di cosa fossero stati accusati e condannati sulla base di una semplice denuncia perché il processo sarebbe stata una inutile perdita di tempo nel quale l’imputato ha la facoltà di mentire, può persino portare testimoni falsi, la difesa avrebbe propinato menzogne…dunque un vero e proprio intralcio alla giustizia.

    In una parola: l’idea di giustizia che ispira il pensiero di Piercamillo Davigo e dei suoi epigoni… almeno finché non tocca a loro, come accade “In der Strafkolonie”, sperimentare, in senso stretto sulla propria pelle la conoscenza postuma delle proprie colpe con la sottoposizione finale ad una mostruosa macchina chiamata “erpice” che incide sulla schiena dello sventurato il nome del delitto per cui è stato condannato e che solo così potrà finalmente conoscere.

  • Casi simili, opinioni opposte della Commissione europea

    Non siamo che menzogna, doppiezza, contrarietà
    e ci nascondiamo e ci camuffiamo a noi stessi.

    Blaise Pascal

    Il 19 ottobre scorso a Strasburgo, durante la plenaria del Parlamento europeo, si è verificato anche l’inevitabile proseguimento dello scontro tra la Commissione europea e la Polonia. Uno scontro che continua da tempo e che si è ulteriormente accentuato dopo l’ultima sentenza della Corte Costituzionale di Polonia del 7 ottobre 2021 che sancisce la priorità della legislazione polacca a quella dell’Unione europea. Uno scontro che continua, mentre da alcuni anni si stanno delineando in Europa sempre più marcatamente e chiaramente due schieramenti: gli europeisti e i sovranisti. Schieramenti che non dibattono e non si scontrano soltanto nelle aule del Parlamento europeo, ma anche nei singoli Paesi membri dell’Unione. Molti analisti politici considerano questo scontro tra la Commissione europea e la Polonia come il più serio e problematico, dopo quello con il Regno Unito, finalizzato con il referendum del 23 giugno 2016, per l’uscita dall’Unione europea.  Tutto ha avuto inizio dopo la costituzione della Camera disciplinare della Corte Suprema polacca, nell’ambito della riforma del sistema della giustizia, avviata già dal 2015. Il compito istituzionale della Camera disciplinare era quello di fare la supervisione dei giudici, godendo anche del diritto di revocare la loro immunità. Il che significava renderli soggetti di procedimenti penali, nonché di altri provvedimenti punitivi. La riforma del sistema di giustizia non solo ha suscitato attriti politici ed istituzionali in Polonia, ma ha anche scaturito diversi contenziosi con la Commissione europea. Contenziosi che si focalizzavano sulle disposizioni delle nomine dei giudici come “passibili di violazioni del diritto comunitario” e che sono finiti poi alla Corte di Giustizia europea. La Camera disciplinare della Corte Suprema polacca, secondo le accuse depositate, veniva considerata come una struttura che metteva a repentaglio e comprometteva il principio della separazione dei poteri, essendo anche “un potenziale mezzo di intimidazione dei magistrati”. Tutto ciò perché la nomina dei membri della Camera disciplinare passava attraverso il Consiglio nazionale della Magistratura, la cui costituzione veniva fatta su base politica. Si contestava il fatto che la scelta dei membri della Camera disciplinare, alla fine dei conti, sarebbe stata influenzata politicamente del Parlamento. La Commissione europea ha avviato lo scorso anno una procedura di infrazione contro la Polonia. Le ragioni venivano rese note dal Commissario europeo per la Giustizia, il quale specificava che “…la legge sulla Magistratura non fosse coerente con una serie di disposizioni fondamentali dei Trattati”, riferendosi ai Trattati costituenti dell’Unione europea. Aggiungendo anche che “…la legislazione contestata mette a repentaglio l’indipendenza della magistratura in Polonia”. Nonostante tutto, la Corte Costituzionale polacca, non adeguandosi con quanto aveva stabilito la Corte di Giustizia europea, ha affermato, il 14 luglio scorso, che “…le sentenze emesse non erano giuridicamente vincolanti”. Ragion per cui non ha riconosciuto l’efficacia della sentenza C-791/19 della Corte di Giustizia dell’Unione. Sentenza, quella, che chiedeva alla Polonia di sospendere la legge nazionale, affermando il primato del diritto nazionale sul diritto europeo. Immediata è stata anche la risposta della Corte di Giustizia europea, la quale affermava che “…la Repubblica di Polonia è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 267, secondo e terzo coma, del TFUE” (acronimo del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea; n.d.a.). In più, dando ragione alla Commissione europea, la Corte di Giustizia europea stabiliva che “… il sistema disciplinare adottato dal governo polacco è del tutto incompatibile con il diritto dell’Unione e dovrà essere interamente smantellato”.

    In seguito alle sopracitate sentenze della Corte Costituzionale polacca e della Corte di Giustizia europea, il 19 ottobre scorso, durante la plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo, si sono verbalmente e duramente scontrati la presidente della Commissione europea ed il primo ministro polacco appartenente al partito nazionalista Diritto e Giustizia di estrema destra. La presidente della Commissione europea ha dichiarato, tra l’altro: “Noi siamo preoccupati per la recente sentenza della Corte costituzionale polacca. La Commissione europea sta valutando attentamente questa sentenza”. Affermando anche: “…posso, però, già dirvi oggi che sono fortemente preoccupata perché [la sentenza] mette in discussione la base dell’Unione europea e costituisce una sfida diretta all’unità degli ordinamenti giuridici europei”. Non si è fatta attendere neanche la risposta del primo ministro polacco. Secondo lui “…l’Unione europea, non è uno Stato; gli Stati membri restano padroni, sovrani dei trattati. Sono gli Stati membri che decidono quali competenze delegare all’Unione europea”. Perché per lui “la massima legge in Polonia è la Costituzione”, specificando che “…la Corte Costituzionale polacco non ha mai dichiarato che quanto previsto dai trattati dell’Unione europea sia incompatibile con la legge polacca”. Il primo ministro ha anche aggiunto che per la Corte Costituzionale polacca “… una specifica interpretazione del diritto dell’Unione europea è in conflitto con la Costituzione polacca”. Il primo ministro polacco ha fatto riferimento con sdegno a quella che ha definito una “rivoluzione strisciante” attuata dalle istituzioni dell’Unione europea, basandosi su quella che lui ha definito come “la logica del fatto compiuto”. Alla fine del suo intervento, il primo ministro polacco ha dichiarato convinto che “la Polonia è attaccata in modo parziale e ingiustificato. Le regole del gioco devono essere uguali per tutti. Respingo la lingua delle minacce e del ricatto”. Perché, secondo lui, “Troppo spesso abbiamo a che fare con un’Europa dei doppi standard”.

    Che le istituzioni dell’Unione europea, soprattutto la Commissione europea, possano agire con dei “doppi standard” lo testimonia un caso simile a quello riferito prima, ma affrontato in un modo del tutto opposto dalla Commissione europea. Si tratta della riforma del sistema della giustizia in Albania e delle strutture simili con la Camera disciplinare della Corte Suprema in Polonia. Si tratta di strutture costituite nell’ambito della riforma di giustizia, sia in Polonia che in Albania. Strutture che hanno il compito di vagliare e verificare la compatibilità e l’integrità professionale e morale dei membri del sistema di giustizia. In Polonia dei giudici, in Albania dei giudici e dei procuratori. In Albania sono due le strutture, previste dalla Costituzione, che hanno avuto ed esercitano questo diritto: la Commissione Indipendente della Qualificazione e, in secondo grado, il Collegio Speciale d’Appello. I membri di queste due strutture sono selezionate dal Parlamento. Ma in Albania però, diversamente dalla Polonia, dati e fatti accaduti e che stanno accadendo alla mano, documentati ed ufficialmente denunciati dal 2017 ad oggi, tutte e due queste strutture costituzionali risulterebbero essere personalmente controllate dal primo ministro e/o da chi per lui. L’autore di queste righe ha spesso, da anni ormai, informato il nostro lettore di tutto ciò. Ma mentre la Commissione europea considera la Camera disciplinare della Corte Suprema in Polonia come politicamente controllata e perciò debba essere abolita, considera, invece, un successo le due sopracitate strutture in Albania! Come considera, da anni ormai, un “entusiasmante successo” tutta la riforma del sistema della giustizia in Albania. Anche di questo l’autore di queste righe ha continuamente informato il nostro lettore. La Commissione europea, trattando così due simili casi ed esprimendo due opinioni ben opposte, non fa altro che dare ragione a quello che ha dichiarato il primo ministro polacco durante la plenaria del Parlamento europeo, il 19 ottobre scorso. E cioè che “troppo spesso abbiamo a che fare con un’Europa dei doppi standard”.

    Purtroppo, che la Commissione europea operi spesso con “due pesi e due misure”, è dimostrato e testimoniato ufficialmente da altri casi. Lo testimoniano anche quanto hanno pubblicamente detto due ministri della giustizia, quello della Macedonia del Nord e quella del Kosovo. L’occasione è stata una conferenza internazionale svolta a Tirana il 7 ottobre scorso. Riferendosi alla riforma della giustizia nel suo Paese, il ministro macedone ha dichiarato che “La Commissione europea ha proibito in maniera esplicita alla Macedonia [del Nord] di adattare la [sua] riforma di giustizia secondo il modello albanese”! Mentre, durante la stessa conferenza, la ministra della giustizia del Kosovo ha dichiarato che “la Commissione europea non solo non ci ha chiesto, ma ha insistito di non essere preso come esempio il modello albanese [della riforma di giustizia] a causa delle non buone ripercussioni che ha prodotto”! Ma non sono solo questi due Paesi ai quali la Commissione europea sconsiglia di attuare una riforma del sistema della giustizia simile a quella albanese. Chissà però perché la Commissione europea, tramite le sue massime autorità, continua a considerare la riforma della giustizia in Albania una “storia di successo”?! Di simili dichiarazioni infondate e preoccupanti, fatte dalle massime autorità della Commissione europea, il nostro lettore è stato spesso e da anni ormai informato dall’autore di queste righe. L’ultima volta è stata due settimane fa (Ipocrisia istituzionale svanita dopo una decisione unanime; 11 ottobre 2021).

    Il 19 ottobre scorso, lo stesso giorno in cui a Strasburgo, durante la plenaria del Parlamento europeo, si è verificato lo scontro tra la presidente della Commissione europea ed il primo ministro polacco, è stato pubblicato anche il Rapporto di progresso della Commissione per i Paesi aspiranti all’adesione all’Unione europea, per il periodo giugno 2020 – giugno 2021. Ebbene, di nuovo nel caso dell’Albania, la Commissione affermava che “…l’Albania ha continuato ad implementare la complessiva riforma della giustizia che risulta [essere] un buon progresso” (Sic!). Ci sono anche altre constatazioni che urtano con la vera, vissuta e sofferta realtà albanese, come purtroppo accadde da alcuni anni. Chissà perché?!

    Chi scrive queste righe avrebbe avuto bisogno, anche in questo caso, di molto più spazio per trattare oggettivamente questo argomento per il nostro lettore. Ma lo farà in seguito, anche perché non mancheranno le occasioni nelle quali l’atteggiamento e le dichiarazioni delle massime autorità della Commissione europea risulteranno essere di “due pesi e due misure”. Occasioni nelle quali per dei casi simili, le opinioni della Commissione europea saranno ben opposte. Chissà però se qualcuno delle massime autorità della Commissione, in qualche momento di sincera riflessione, abbia pensato quello che ha scritto Pascal circa quattro secoli fa. E cioè che non siamo che menzogna, doppiezza, contrarietà e ci nascondiamo e ci camuffiamo a noi stessi.

  • In attesa di Giustizia: nelle mani degli esperti

    Alzi la mano chi coltiva tra le proprie letture preferite la relazione della Corte dei Conti sulle spese sostenute dallo Stato per errori giudiziari ed ingiuste detenzioni.

    Eppure, anche da un testo come questo – che non si annovera tra i più appassionanti – si possono ricavare informazioni e dati che risultano utili, sebbene di nessun conforto, a comprendere in che condizioni versa l’amministrazione della Giustizia: talvolta con annotazioni davvero sorprendenti, come questa che arricchisce la galleria degli orrori di questa rubrica.

    Partiamo dal brocardo ne procedat iudex ex officio che esprime un fondamentale principio risalente, come intuibile, al diritto romano e da allora applicato anche da giudici contemporanei con il quale è fatto divieto ad un giudice di procedere di sua iniziativa quando manchi la proposizione di una domanda “di parte”: vale a dire del cosiddetto attore nel processo civile e del Pubblico Ministero in quello penale.

    Ciononostante, accade in una cittadina del Sud che un giudice delle indagini preliminari – magistrato con una certa anzianità di servizio – ordini l’arresto di un indagato e di sua figlia per false fatturazioni sebbene il P.M. avesse chiesto la carcerazione solo dell’uomo.

    Per legge è il Pubblico Ministero che cura l’esecuzione degli arresti ma nemmeno lui si accorge che sta per essere incarcerata una persona per la quale non ha fatto richiesta; le Forze dell’Ordine eseguono entrambi i mandati di cattura e solo qualche giorno dopo, in occasione dell’interrogatorio “di garanzia” si riesce a chiarire l’equivoco, chiamiamolo così usando un eufemismo per quello che in sostanza è un sequestro di persona: scarcerazione per assenza dei presupposti di legge.

    Come si vede, non era questione di interpretare una legge confusamente articolata, oppure di fare complicate ricerche di precedenti giurisprudenziali ma solo di leggere con attenzione la richiesta finalizzata a privare della libertà almeno una persona ed applicare un principio millenario ed immutato…e saper contare fino a due.

    Tutto è bene, però, ciò che finisce bene (o quasi): tornata in libertà, la donna è stata in seguito risarcita con circa 21.000€ di cui ora la Corte dei Conti chiede la restituzione a Giudice e P.M., responsabili a tutta evidenza del danno erariale prodotto. Nel rispetto degli interessati non facciamo nomi perché la notizia è sfuggita (chissà come mai?) ai media, a tacer del fatto che ci sono accertamenti ancora in corso.

    Chi vivrà vedrà come andrà a finire, soprattutto se le polizze assicurative dei due magistrati garantiscono anche contro il verificarsi di eventi simili o se dovranno pagare di tasca loro; sarà interessante anche sapere se saranno sottoposti ad un procedimento disciplinare e che futuro avrà la loro carriera ma – come si è detto – tutto è bene ciò che finisce bene e non è fuor di luogo pensare che non vi saranno conseguenze particolari per questi campioni del diritto, forse perché qualcuno sosterrà che si tratta di errorucci dai quali sicuramente si è tratto un arricchimento della esperienza.

    E, come scriveva Niels Bohr – che non era un giurista ma un fisico che, peraltro, ha vinto un Nobel – “Un esperto è uno che ha fatto tutti gli errori possibili nel suo campo”.

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