Giustizia

  • Achtung, binational babies: la doppia faccia della giustizia familiare

    La settimana scorsa abbiamo illustrato come un trasferimento in Germania possa comportare la perdita dei figli, portando ad esempio il caso concreto di un papà italiano. Oggi vogliamo illustrare, sempre basandoci su storie vere e ben documentate, ciò che succede se invece è la mamma del bambino ad essere italiana e il padre è tedesco. L’inizio della vicenda non ha nulla di particolare, i due si conoscono in Italia, si innamorano, si sposano, dal loro amore nasce un bambino. Poi lui la convince a trasferirsi in Germania ed è così che tutta la famiglia si trova sottoposta alla giurisdizione tedesca. Lei, come la maggior parte delle persone, ovviamente non sa nulla del sistema familiare di quel paese, inoltre pensa che tutto ciò non la riguardi, perché loro tre sono una famiglia unita. Quando però il comportamento del marito cambia e lei scopre con orrore il passato, ed ora anche il presente nascosto dell’uomo che ha sposato, dovrà scoprire anche come funziona il sistema familiare tedesco. Il marito era tossicodipendente ed è ora ricaduto nella dipendenza, ecco il motivo del suo cambiamento. La vita in comune si fa insostenibile e per tutelare sia se stessa che il bambino, si separa. Resta in Germania e continua a far frequentare al figlio il padre, cercando di nascondere al piccolo la triste dipendenza. Si adopera in tutti i modi affinché il piccolo continui a guardare il padre come il suo eroe, affinché i legami con la famiglia paterna si mantengano forti, affinché loro due genitori continuino a dialogare per il bene del bimbo. Lui si dimostra riconoscente nei confronti della moglie, lodandola spesso per come educa il bambino e per come ha imparato a gestire la sua vita in un paese straniero. Sembrerebbe che i due adulti siano riusciti in modo lucido e responsabile a gestire la nuova situazione e, tra un ricovero in clinica e l’altro, la famigliola si incontra per far sì che papà e figlio si vedano, ma i due non restano mai da soli, bensì sempre con almeno un membro della famiglia paterna presso cui la mamma porta il bambino. Ma quest’uomo, questo padre, mentre da un lato continua a dire e scrivere alla moglie quanto apprezza il suo operato, dall’altra la trascina in tribunale, sostenuto da un’avvocatessa decisa a far passare questa mamma per una, come oggi si dice, “madre malevola”.

    Poiché non le si può oggettivamente rimproverare nulla e per fare in modo che la sua accondiscendenza vacilli, le si chiede di dar via a degli incontri in cui padre e bambino restino da soli. Di fronte ai problemi del marito, la donna non se la sente di avvallare tale modalità e chiede con forza la presenza di una terza persona che si prenda la responsabilità di quanto potrebbe accadere o meglio, che impedisca si concretizzino situazioni problematiche. Lei non vuole assolutamente essere sempre presente, ma chiede che gli incontri si svolgano con un parente (della famiglia paterna, visto che la sua è in Italia!) o con la persona che il giudice vorrà designare ed alla quale conferirà la responsabilità degli incontri. Il padre è unanimemente riconosciuto come affetto da dipendenza da sostanze e, secondo quanto scrive la sua stessa avvocata, in maniera irreversibile ed è forse per questo che nessuno vuole assumersi tale responsabilità. Il giudice non è stato fino ad ora in grado di nominare nessuno che svolga questo ruolo e le udienze in tribunale continuano. In quelle aule si procede lentamente ma inesorabilmente al capovolgimento dei fatti: il problema non è più il padre con dipendenze che entra ed esce dalle cliniche, ma la madre italiana che impedirebbe il rapporto padre-figlio. La spiegazione sintetica di quanto accade è una sola: la mamma è italiana e il padre è tedesco e questa è la giustizia equa e giusta del 2021 in Germania, Europa.

    Contatto in caso di necessità: sportellojugendamt@gmail.com

  • In attesa di Giustizia: immunità di gregge o del pastore?

    In epoca di pandemia l’immunità di gregge sembra essere un obiettivo primario da raggiungere ma, a quanto pare, ci sono forme di immunità – in qualche modo collegate all’emergenza sanitaria – che sono state conseguite addirittura in anticipo: argomento che vale la pena essere affrontato non prima di avere richiamato gli sviluppi di una indagine clamoroso, in realtà non l’unica ma solo l’ultima in ordine di tempo, che ha come sfondo l’acquisto ed il commercio di dispositivi di protezione individuale.

    Il riferimento è all’inchiesta romana, coordinata da quell’eccellente magistrato del Pubblico Ministero che è Paolo Ielo, in cui insieme ad altri risulta coinvolto Mario Benotti (patron del consorzio Optel e di Microproducts) per la fornitura di milioni di mascherine da produttori cinesi, mascherine che – tra l’altro – dovrebbero avere un costo industriale incoerente con il prezzo poi praticato in rivendita, garantendosi così marginalità fuori dall’ordinario.

    Nulla che debba sorprendere più di tanto poiché in questo sventurato Paese le disgrazie e le calamità naturali sembrano costituire un richiamo formidabile per gli sciacalli: qualcosa era già successo, per esempio, in occasione della ricostruzione successiva al terremoto in Abruzzo ed anche ora, dagli ascolti telefonici, sembrerebbe che il proseguimento della pandemia e delle restrizioni precauzionali conseguenti sia stato tra gli auspici di imprenditori di modesto livello etico.

    Siamo solo in una fase di indagine, gli sviluppi potranno confermare o smentire le iniziali ipotesi di accusa e la presunzione di non colpevolezza deve essere riconosciuta a tutti ma, non c’è dubbio, il portato delle conversazioni e le ulteriori evidenze sin qui acquisite in merito al rapporto costi/ricavi propongono un quadro inquietante.

    Nel decreto di perquisizione della Autorità Giudiziaria romana destinato ai soggetti inquisiti ed alle rispettive aziende si legge che allo stato non vi è prova che gli atti della struttura commissariale siano stati compiuti dietro elargizione di corrispettivo il che, tradotto, significa che comunque si indaga per verificare se si siano realizzati fatti di corruzione per indurre all’acquisto mediante pubbliche commesse Il Commissariato per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contrasto dell’emergenza epidemiologica: tutto ciò anche perché risultano centinaia di intercettazioni tra gli indagati e Domenico Arcuri il quale – come lamentano due di essi al telefono – si sarebbe improvvisamente sottratto alla interlocuzione, circostanza ritenuta sintomatica della imminenza di qualche problema in arrivo. A pensar male si fa peccato ma non si sbaglia avrebbe detto Giulio Andreotti ma tale repentina interruzione dei rapporti senza che vi sia, corrispettivamente, una qualche segnalazione di possibili anomalie nelle relazioni commerciali da parte dell’autorità commissariale è vagamente sospetta, come traspare dalla porzione del decreto di sequestro che è stata richiamata.

    Arcuri, intanto, già gode di una forma di immunità che non è quella di gregge ma del pastore: intrufolata – alla maniera dell’ormai ex avvocato degli Italiani – in un decreto Cura Italia c’è una norma che si cura, invece, di munire il Commissario Arcuri di poteri di spesa assai vasti e di un vero e proprio scudo rispetto a sgradite curiosità della Corte dei Conti. Nel frattempo, pure spendendo denaro pubblico per acquisti sovrapprezzati, vi è da pensare che al Commissario Arcuri sia in astratto riconoscibile il benefit di 50.000 € all’anno per obiettivi raggiunti che il suo incarico prevede…sempre che, prima dell’incasso un Commissario di altro genere non vada a bussare alla sua porta.

  • In attesa di Giustizia: giustizia feudale

    Quando questo numero de Il Patto Sociale andrà in stampa (si fa per dire) alla guida del Governo dovrebbe ormai esserci Mario Draghi e nella compagine, con certezza, mancherà Alfonso Bonafede: un bene per il Paese ma, paradossalmente, un pregiudizio per questa rubrica privandola della possibilità di commentare le sistematiche castronerie di cui si è mostrato capace.

    D’altronde, dire che la fine dell’Esecutivo sia stata determinata da un sabotaggio di Italia Viva è una mera esemplificazione: l’iniziativa di Renzi ne è stata solo la causa formale e la crisi affonda le sue radici nella inefficienza dell’azione di governo, partitamente in ambiti molto sensibili quali l’organizzazione del programma vaccinale, la gestione del piano Next Generation e – naturalmente per quanto qui interessa – l’amministrazione della Giustizia.

    L’opacità delle menti di coloro cui sono state affidate le sorti dell’Italia ha sortito interventi confusi e inadatti a fronteggiare l’emergenza determinando, piuttosto, un significativo aggravamento della crisi di efficienza in cui, comatosamente, già versava quest’ultimo settore.

    Invece di dar vita ad una disciplina organica e strategicamente pensata per consentire la prosecuzione della attività dei tribunali in tempi di pandemia l’emergenza è stata affidata a disarmoniche e cervellotiche previsioni, mutanti nel tempo ed interpolate nei decreti ristori, che ha determinato forme di supplenza peggiorative della situazione.

    Il riferimento è ad una sorta di delega verso il basso della potestà normativa che si è concretizzata – se ne è trattato anche in altri numeri de Il Patto Sociale – in una babele di protocolli e decreti di sapore feudale perché emanati e sottoscritti alla “periferia dell’Impero” dai Capi degli Uffici Giudiziari in assenza di un qualsivoglia coordinamento anche nell’ambito del medesimo territorio.

    Gli esiti sono stati disastrosi a prescindere dalla impossibilità per gli operatori di settore di comprendere il da farsi a seconda di dove e come si doveva, per esempio, depositare un atto o richiedere le copie di un fascicolo. Più recentemente, tra l’altro, si è rilevata anche esistenza di atti “dimenticati” perché, pur formalmente inviati ad un indirizzo pec corretto sono rimasti sospesi nel web a causa di confusa e complessa ripartizione interna degli indirizzi tra cancellerie di un medesimo Ufficio, giusta la disposizione di un Presidente di Corte d’Appello.

    Ed è stata proprio la latitanza del Governo a determinare – senza peraltro alcun rispetto della gerarchia delle fonti –  il ricorso a rimedi sovente rivelatisi peggiori del male.

    Nel frattempo sono decine se non centinaia di migliaia i fascicoli che rimasti del tutto fermi o arenati intasando i ruoli di udienza con semplici rinvii per la mancanza o imperfezione di qualche notifica: ed all’orizzonte non si vede alcuna prospettiva migliore anche perché gli strumenti promessi e preannunciati come di imminente consegna per consentire il lavoro agile ai funzionari amministrativi non si sono ancora visti.

    L’aggravamento della situazione è tale che, per quanto possa essere competente il Guardasigilli che Mario Draghi sceglierà, risolverla si presenta come un’impresa disperata e complicata anche dalla esigenza di porre fine al devastante “diritto protocollare” che nel frattempo è invalso evitando che il superamento con norme omogenee sul territorio determini ulteriori difficoltà per problemi di interpretazione circa l’efficacia o meno nel tempo di talune disposizioni.

    Forse la soluzione per ritornare ad una parvenza di normalità (almeno nel settore penale) può rinvenirsi in un’amnistia a maglie larghe: si tratta di un male più che mai necessario, e che – tipicamente – segnala l’incapacità dello Stato, di questo Stato e di quel Governo di fornire un adeguato servizio Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: rimedi peggiori del male

    Il cosiddetto “Avvocato degli Italiani” (uno da cui non farsi scrivere neppure una diffida al vicino di casa che ascolta i Rolling Stones ad alto volume in orario notturno) ha tolto il disturbo e vi è da sperare che la politica politicante non abbia la meglio imponendo, tra l’altro, al Premier incaricato la permanenza di Fofò Bonafede al Ministero della Giustizia… salvo che non possa rendersi utile per fare delle fotocopie.

    Il cambio della guardia in via Arenula con una figura di ben altro ed alto profilo è tanto auspicabile quanto necessaria al fine di mettere in campo una riforma radicale della giustizia che è rivendicata altresì tra i presupposti fondamentali per garantirsi il riconoscimento dei fondi europei destinati a sostenere la rinascita del Paese dopo l’emergenza sanitaria.

    Al momento il legislatore (l, rigorosamente minuscola) ha elaborato un disegno di legge delega per migliorare l’efficienza del processo penale che si può definire – tanto per utilizzare un eufemismo – per nulla convincente e risolutivo se confrontato con la attuale crisi di autorevolezza ed effettività della giurisdizione. Del resto, dall’homo ridens e dalla sua compagnia di giro non poteva attendersi di meglio.

    Un progetto innovativo deve innanzitutto prevenire l’attuale irragionevole durata del processo che – con la attuale disciplina della prescrizione – ha perso certezza dei tempi. L’obiettivo può raggiungersi solo con la previsione di termini tassativi per la ultimazione delle diverse fasi e sanzioni nel caso che non vengano rispettati. Inadeguata, in proposito, appare la via ipotizzata della sanzione disciplinare – vista anche l’inaffidabilità dell’Organo preposto, quel C.S.M. ostaggio degli interessi correntizi e clientelari –  e sarebbe preferibile prevedere equi indennizzi in caso di proscioglimento se non l’improseguibilità dell’azione penale.

    E’, inoltre, necessario riaffermare la centralità del dibattimento che, attualmente, è sbilanciato a tutto vantaggio delle indagini preliminari in contrasto con lo spirito informatore del codice del 1989; si badi che il progetto di riforma prevede addirittura l’eliminazione sostanziale di termini di durata per inchieste legate a specifiche ipotesi di reato ritenute di maggiore allarme sociale cioè a dire una variabile inconciliabile con le certezze richieste da una materia che incide sulla libertà dei cittadini.

    In quest’ottica, appare irragionevole per non dire apertamente incostituzionale la previsione di una specie di “federalismo giudiziario” che rimette la selezione di criteri di priorità di trattazione dei reati da perseguire ad una casistica disomogenea e variabile misurata sui diversi uffici giudiziari presenti nel territorio nazionale.

    Cercando di sintetizzare ed esemplificare il più possibile argomenti e concetti per “i non addetti ai lavori”, non si può, infine, trascurare la mortificazione tendenziale del giudizio di appello trasformato in un simulacro della giurisdizione: meglio sarebbe, piuttosto, stabilire un regime rigoroso di inammissibilità delle impugnazioni sul modello del processo civile. Non è la soluzione ottimale ma – se non altro – offrirebbe maggiori possibilità di una trattazione più approfondita e ragionata dei processi che superino tale sbarramento.

    Tant’è: l’auspicio in questi giorni è per un “Governo dei migliori” ma basterà? Perché con le attese dei politici e la funzione parlamentare bisogna pure fare i conti e nei banchi di Montecitorio e Palazzo Madama non è che sieda proprio il meglio del Paese e una buona parte dei membri di quelle Assemblee prende ordini da una misteriosa piattaforma e da un comico che fa ridere solo il suo (ex) Ministro della Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: letture consigliate lontano dai pasti

    Da qualunque parte io corressi anelando la felicità, dopo un aspro  viaggio pieno di errori e di tormenti, mi vedeva spalancata la sepoltura dov’io mi andava a perdere con tutti i mali e tutti i beni di questa inutile vita: in queste parole che preannunciano il suicidio di Jacopo Ortis echeggia tutta quella eroicità che al gesto era stata riconosciuta da buona parte della letteratura settecentesca, da Goethe ad Alfieri, ma potrebbero rappresentare anche il pensiero di Giuseppi Conte alla vigilia della relazione sulla Giustizia alle Camere del suo discepolo Fofò Bonafede, in calendario il 27 gennaio e di cui questa rubrica si era interessata nello scorso numero de Il Patto Sociale.

    In realtà, persino Conte si era capacitato del fatto che poco vi fosse di nobile nel porre fine alla inutile vita del suo Governo con un hara – kiri non affidato alla katana da samurai, bensì scandito da una salva di pernacchi, in stereofonia tra Camera e Senato; alla crisi si è arrivati perché il Premier non ha avuto il coraggio di affrontare l’Aula al fianco del Ministro della Giustizia, perennemente ilare senza che ve ne sia ragione alcuna per esserlo.

    Nella medesima settimana, peraltro, il Guardasigilli è stato di scena alla inaugurazione dell’Anno Giudiziario a Roma, in Corte di Cassazione e a Catanzaro; le cronache non rassegnano nulla di memorabile a proposito di queste due apparizioni: il che, probabilmente, non dipende dalla certificata insipienza dell’uomo quanto dal fatto che ogni e qualsivoglia argomento in materia di giustizia, proprio da quel fatidico mercoledì 27 gennaio, è stato sovrastato dal clamore della pubblicazione del libro intervista di Alessandro Sallusti a Luca Palamara.

    Diventato subito introvabile, “Il Sistema” ha goduto anche di anticipazioni e commenti praticamente a reti unificate ed è una lettura che fa davvero male mentre – giusto in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario – in ogni Sede di Corte d’Appello ci si è spesi per rievocare ipocritamente figure di magistrati martiri piuttosto che affrontare il tema della Caporetto dell’amministrazione della Giustizia e del malaffare che la permea e dispiace impiegare questo termine che ridonda ingiustamente a danno dei molti appartenenti all’ordine giudiziario che, pure, svolgono con sacrificio e competenza il loro ministero.

    Narra Palamara dell’esistenza di un sistema che non solo governa le nomine ai vertici degli Uffici ma determina o frena l’avvio di indagini secondo le convenienze e connivenze politiche, riesce persino ad orientare la giurisprudenza della Corte Costituzionale attraverso gli assistenti di studio che sono magistrati nominati dalle correnti del C.S.M. che influenzano le decisioni della Corte.

    Non più tardi di alcuni mesi addietro, quando questo vaso di Pandora stava iniziando a far fluire i propri veleni e miasmi, l’Uomo del Colle si azzardò – dopo iniziali ed imbarazzati silenzi – a parlare in proposito di “modestia etica”: un garbato eufemismo che ha più il sapore della pavida presa di distanza da un verminaio di chi la Costituzione mette a garanzia di sé ed alla Presidenza del C.S.M. e che dovrebbe esprimere ben altro rigore ed autorevolezza.

    “Il Sistema” è una lettura consigliata anche se ne emerge uno stomachevole abbraccio tra organi dello Stato che dovrebbero essere tra di loro indipendenti e bilanciati ed – invece – sembrano intesi solo a garantirsi reciprocamente favori, impunità e potere: una lettura cui dedicarsi, preferibilmente lontano dai pasti e se qualcuno tra i lettori coltiva ancora l’attesa di giustizia…beh, se ne faccia una ragione ma sarà davvero molto lunga.

  • In attesa di Giustizia: DJ set

    Un DJ set è per il DJ quello che per il musicista è il concerto, ovvero lo spettacolo in cui l’artista presenta al pubblico la musica da lui selezionata utilizzando più volte la tecnica del mixaggio… e mercoledì 27 gennaio ne andrà in scena uno assai atteso dagli addetti ai lavori del settore della Giustizia: parliamo dello show a Camera e Senato del più celebre dei Disc Jockeys nostrani: quel Fofò cui – incomprensibilmente – è affidata la guardiania dei Sigilli della Repubblica.

    Relazione sullo stato della Giustizia, che potrebbe riassumersi in una sola parola: “disastroso” e così sollevando deputati e senatori dal tormento di ascoltare frottole ammannite con quell’inestinguibile sorriso che evoca il detto latino risus abundat in ore stultorum.

    Invece, chissà cosa toccherà sopportare: forse la magnificazione del processo a distanza, il cui impiego è stato rivolto ad incombenti giudiziari che sarebbe stato preferibile – e possibile senza grandi difficoltà dal punto di vista del garantito distanziamento sociale – celebrare in presenza omettendone, invece, una quantità che si sarebbero potuti agevolmente svolgere da remoto. Forse tratterà il tema della attenzione alla salute dei cancellieri destinati allo smart working seppure in mancanza degli strumenti idonei a fare alcunchè da casa tranne la moka per trasformare incolpevolmente tutta la giornata in una pausa caffè. O, chissà mai, la generosa opzione di sospendere i termini di redazione e deposito delle sentenze: proprio un’attività che, a regola, si svolge dal domicilio.

    Sua Eccellenza il Ministro attenderà, magari, la prima salva di applausi dalla claque delle truppe cammellate e giallovestite subitanemente imitate dai colleghi del PD atterriti all’idea che possa aggravarsi la crisi con il rischio di perdere il cadreghino prima dell’inizio del salvico semestre bianco perchè la parola d’ordine è una e una sola: resistere fino a giugno.

    Ma la musica non è finita: può immaginarsi il silenzio sulla epocale riforma della prescrizione? Non sia mai e dalla dorata consolle fluiranno le note che parlano della incessante battaglia che il condottiero trapanese ha vinto debellando la criminalità diffusa nel Paese che si affidava alle infinite astuzie di quegli azzeccagarbugli degli avvocati per far trascorrere il tempo sottraendo i propri assistiti al magli della giustizia secolare: una battaglia, questa e come altre, che ha avuto il supporto di media autorevoli come Il Fango Quotidiano, pardon, Il Fatto Quotidiano, e di celebrati orfani dell’inquisizione come Piercamillo Davigo.

    Tutte frottole ma poco importa e qui non è escluso che dai banchi dell’alleato di governo il plauso si intiepidisca ma non di molto: infatti è già stato redatto un disegno di legge (a firma, tra gli altri, Orlando Andrea, non Vittorio Emanuele) di modifica della legge e che ripristina il corso della prescrizione ma con tempistiche che possono soltanto definirsi truffaldine, probabilmente ritenute buone solo a salvare la faccia tentando di spendersi come garantisti.

    Il tormento potrebbe essere di lunga durata e Dio non voglia che vengano magnificate le doti – facendone anche i nomi dei partecipanti – delle diverse cabine di regia allestite al Ministero della Giustizia per fronteggiare l’emergenza: potrebbero essere attesi sotto casa per un’ovazione finale da parte di operatori del diritto e cioè a dire un cospicuo lancio di uova marce.

    Nulla, invece, vi sarà da attendere quanto alla ignominiosa condizione in cui versa ormai da tempo il Tribunale di Bari (quello chiuso perchè pericolante) o il dubbio, già aleggiante, che – dopo aver dilapidato milioni in monopattini e banchi da luna park –  vi siano le risorse per pagare gli stipendi ai neo Magistrati che stanno per entrare in ruolo.

    L’elenco delle disfunzioni sarebbe ancora molto lungo ma – certamente – non vi sarà fatto cenno e non per ragioni di sintesi: Socrate, tra l’altro, ricordava che l’intelligenza dell’uomo si rivela nella sintesi e non è certo questo il caso.

  • In attesa di Giustizia: la parola alla difesa ai tempi del grande freddo

    Succede anche questo, e della deriva cui sembra avviato il processo penale di Appello se ne è trattato di recente proprio in questa rubrica.

    Siamo a Milano, alla Seconda Sezione della Corte d’appello sez. 2 Milano, udienza in presenza – cioè con la richiesta dei difensori di andare in aula e discutere invece che affidarsi alla lettura degli atti senza contraddittorio da parte della Corte – e come dal ruolo d’udienza risultano solo tre cause “in presenza” fissate a distanza di quindici minuti una dall’altra, indipendentemente dalla delicatezza degli argomenti da trattare, a seguire una decina di processi “cartolarizzati”: si dice così di quelli in cui è stata rinunciata l’oralità…che dovrebbe essere il cuore del processo penale.

    La prima udienza è fissata alle 9.15 ma la Corte si palesa con mezz’ora di ritardo: quella mezz’ora in cui si era già previsto di “sbrigare” un paio di pratiche. Inutile dirsi che nessuna giustificazione né – men che mai – scusa del ritardo viene offerta.

    A Milano andiamo un po’ meglio che a Bari dove si facevano le udienze nelle tende da campeggio perché il Tribunale è risultato edificio abusivo (e fatiscente in maniera pericolosa) o a Genova il cui Palazzo di Giustizia risiede in una struttura destinata ad un ospedale ed ora non garantisce i livelli di aereazione necessari per la prevenzione del contagio: dunque le udienze si fanno dove capita, altrove.

    Bene, dunque, ma non benissimo nel capoluogo lombardo ma nell’aula i microfoni non funzionano, le porte – chissà perché –  vengono lasciate aperte, entrano aria fredda e rumori esterni, il frastuono dell’androne del primo piano.

    Il processo è per bancarotta, le pene sono elevate si capisce che in primo grado è durato anni e vi sono sette capi di imputazione e un’infinità di questioni processuali e l’avvocato inizia ad illustrare con la attenzione necessaria ma dopo una manciata di minuti – sì, qualcuno in più del quarto d’ora complessivo che si voleva dedicare a questa vicenda – il Sostituto Procuratore Generale di udienza interviene ed interrompe lamentandosi che fa freddo, c’è corrente d’aria e troppo rumore…già le porte aperte che, forse bastava chiudere. Quindi chiede alla corte di intervenire per togliere la parola al difensore: “Tanto avvocato, il suo dotto appello possiamo leggerlo tutti. E poi ci sono altri processi. E poi il diritto alla salute viene prima del diritto di difesa!”.

    Già, fa freddo e allora ecco il presidente (donna) annuire vistosamente approvando le richieste del Sostituto Procuratore Generale e dice: “avvocato c’è il covid, possiamo leggerlo il suo appello, le manderemo la sentenza via pec entro stasera”. Già, magari farlo anche decidere da un algoritmo a computer.

    Per chi non lo sapesse, oltre il 40% delle sentenze vengono riformate in secondo grado, sarà per questo che l’appello è così inviso? E per chi ci crede ancora, l’attesa di giustizia continua…

  • In attesa di Giustizia: vergogniamoci per loro

    “Vergogniamoci per loro: servizio di pubblica utilità per chi non è capace di vergognarsi da solo”. Così si intitolava una rubrica di “Cuore”, settimanale satirico diretto da Michele Serra; questo articolo ne mutua il titolo ma, francamente, per quello che si andrà a illustrare, c’è poco da ridere.

    Cominciamo dall’ineffabile legislatore la cui mente confusa ha partorito la bestialità del giudizio di appello a fasce, un po’ come le regioni colorate. Senza addentrarsi in dettagli, che al lettore atecnico risulterebbero meno interessanti e che all’operatore del diritto provocano emicranie ed altri malori assortiti allo stomaco, basti dire che – modificando il testo di un decreto legge “ristori” –  ha dettato nuove regole che prevedono  modalità differenziate di celebrazione dei processi a seconda che essi si celebrino (od, ormai, si siano celebrati) dal 9 al 23 novembre 2020, dal 25 novembre al 9 dicembre 2020 e – infine – dal 10 dicembre 2020 al 31 gennaio 2021. E dal primo febbraio? Chi lo sa? In Italia, del resto, come ricordava Giuseppe Prezzolini, non c’è nulla di più definitivo del provvisorio e nulla di più provvisorio del definitivo. E, soprattutto, c’è il nulla, il vuoto torricelliano al Ministero della Giustizia. Vergogna.

    Continuiamo con un altro accadimento degli ultimi giorni che fa quasi rimpiangere di non avere Kim Jong – un al potere: se non altro si saprebbe con certezza ed in anticipo di essere spiati in ogni momento della vita senza paludare il sistema di norme garantiste che vengono sistematicamente eluse e la cui elusione trova sempre qualcuno pronto a giustificarla.

    Dunque, un avvocato (non è l’unico caso, solo il più recente noto) ha ritrovato tra gli atti di un processo la trascrizione di alcune sue conversazioni telefoniche con un cliente. La legge vieta di intercettare le comunicazioni con il difensore, e se ciò accade per un caso fortuito il contenuto è inutilizzabile.

    Ebbene, in questo ultimo caso – però – l’assistito era detenuto e telefonava al suo difensore dal carcere il che non avviene mediante comode cabine telefoniche o apparecchi installati nelle confortevoli camere di detenzione (così si chiamano tecnicamente le celle) bensì attraverso un centralino che contatta il numero desiderato ed è ben noto chi sia il destinatario della chiamata perché l’autorizzazione alle telefonate viene concessa dalla Autorità Giudiziaria con rigorosa individuazione delle utenze raggiungibili. Dunque si sapeva benissimo in anticipo con chi sarebbe intervenuto il colloquio ma si è origliato lo stesso.

    Vergogniamoci per chi eventualmente abbia autorizzato questa violazione gravissima delle regole, oppure per chi si è disinteressato di un divieto espresso, per chi è rimasto curiosamente in ascolto invece che disinserire subito la intercettazione, per chi ha trascritto il tutto. Insomma c’è l’imbarazzo della scelta.

    Gran finale con Piercamillo Davigo il quale, dopo essersi visto rifiutare la permanenza al C.S.M. sebbene pensionato ed esposto ad una miserevole figura facendosi dichiarare inammissibile il ricorso contro tale decisione per aver sbagliato a quale Autorità Giudiziaria rivolgersi, invece che godersi il meritato riposo dopo una vita laboriosamente spesa ad inchiavardare manette si è trovato una occupazione diversa rispetto a fare le parole crociate al parco.

    Infatti, prontamente, la Direzione de Il Fatto Quotidiano gli ha offerto un ruolo di opinionista: e delle sue opinioni non ha esitato a fare mistero con un primo editoriale nel quale illustra che quanto sostenuto circa il sovraffollamento carcerario siano fake news volte a giustificare incomprensibili scarcerazioni determinate dalla emergenza sanitaria.

    Sostiene, tra l’altro, l’ineffabile “Dottor Sottile” che in Italia ad ogni detenuto sono garantiti spazi vitali pari a nove metri quadri che si abbassano a cinque nel caso che in cella – pardon, camera di detenzione – gli ospiti siano due: “lo stesso spazio per cui viene concessa l’abitabilità” tuona indignato l’ex P.M. Non è vero niente, ma che importa?

    Vergogniamoci, dunque, anche per lui, per Marco Travaglio, per chi legge Il Fatto Quotidiano credendo a qualcosa di quello che c’è scritto e che vada oltre la sede della redazione.

    Vergogniamoci anche per chi vede in personaggi come questi esempi da emulare, figure immortali nella storia patria ed a questo punto, parafrasando un po’ Brecht, sfortunata è la terra se ha bisogno di simili eroi.

  • In attesa di Giustizia: la pazienza è la virtù dei forti

    E’, probabilmente, noto a tutti  il caso di Chico Forti – i media ne hanno trattato anche ultimamente con una buona notizia – detenuto da vent’anni in un carcere della Florida, condannato per omicidio all’esito di un processo altamente indiziario che ha sollevato dubbi molto seri non solo sulla sua colpevolezza ma anche sul rispetto delle regole.

    La buona notizia è che il Governatore della Florida ha accolto la richiesta di Forti di poter scontare il residuo della sua pena in Italia.

    Il trasferimento nel paese di origine per l’espiazione di una condanna è previsto su base pattizia, convenzioni ed accordi internazionali e prevede che, preventivamente, vi sia il riconoscimento della sentenza straniera nella Nazione di cui il detenuto ha la cittadinanza.

    Chico Forti si è risolto a chiederlo solo dopo moltissimi anni di carcere poiché seguire questa strada comporta la rinuncia a richiedere ed ottenere la revisione del processo, sua unica ragione di vita. Ma la ripetizione del processo gli è sempre stata negata ed ostinarsi a chiederla non avrebbe portato a nulla.

    Il riconoscimento della sentenza americana da parte della nostra Autorità Giudiziaria determina la possibilità che Chico Forti, una volta rientrato sul territorio (ed in un carcere) nazionale sia sottoposto alle norme di diritto penale e ordinamento penitenziario italiano: il che significa che, sebbene negli USA sia stato condannato all’ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale, qui potrà fruire di benefici  – non automatici ma ben possibili previa valutazione dei presupposti da parte degli organi competenti – che in tempi non lunghi dovrebbero restituirgli la libertà.

    Come si è detto, l’Italia sarà vincolata dall’accertamento dei fatti come risultano dalla sentenza emessa negli Stati Uniti e non potrà quindi concedere la revisione del processo: e questo per Chico Forti significa che non sarà mai consentito neppure di provare a vedere riconosciuta la propria innocenza ma, se non altro, lo sarà  tornare ad una vita normale da uomo libero.

    A quest’uomo è dovuto grande rispetto per la dignità con cui ha accettato la sofferenza di una lunghissima prigionia trascorsa battendosi innanzitutto per la revisione, sacrificando la possibilità di ottenere altri vantaggi: richiama un po’ il caso di Raul Ghiani (ma chi lo ricorda tra i lettori più giovani?), condannato all’ergastolo in un processo che fece scalpore a cavallo tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta, il quale si ostinò a sperare in una revisione del processo – che con il codice di procedura penale dell’epoca era straordinariamente difficile da ottenere – rifiutandosi di chiedere la grazia al Presidente Leone che, da avvocato penalista, non aveva mai nascosto il proprio dubbio circa la sua colpevolezza. Si arrese dopo ventotto anni e la ottenne da Pertini.

    Ghiani è ormai preistoria della cronaca giudiziaria, Chico Forti il tragico testimonial della brutalità che caratterizza anche altri sistemi processuali. Se davvero è colpevole  – possiamo dirlo senza alcuna esitazione –  ha già pagato il suo debito e la lunghissima attesa di la giustizia merita di essere ricompensata almeno con la libertà in nome delle sofferenze che ha subito, per il dolore patito dai suoi familiari e, soprattutto, dello sgomento perché gli Stati Uniti non gli hanno riconosciuto la garanzia di un giusto processo, di una adeguata difesa né, pervicacemente, di una possibilità di riparazione vanificando l’impegno, la serenità e la dignità con cui si è battuto ma ha anche accettato tutto ciò.

    Buona vita, buon ritorno a casa: anche salire su quel volo di rientro è una piccola vittoria, un riconoscimento alla pazienza, virtù dei Forti.

  • In attesa di Giustizia: elogio degli avvocati e della difesa da parte di un p.m.

    Quella che dovrebbe essere normalità appare, a volte, come qualcosa di eccezionale: in un momento storico in cui la Magistratura conosce un crollo di credibilità e di autorevolezza, è giusto “cedere la penna” a un Magistrato, uno dei tanti che svolge con scrupolo, onestà intellettuale e sacrificio il proprio ministero: questa, dovrebbe essere questa la normalità che denota cultura della giurisdizione e caratterizza i rapporti tra i protagonisti del processo penale. La parola al Pubblico Ministero, Dott. Marco Imperato.

    “Ma come fai a difendere un criminale?”: è questa la domanda che spesso viene rivolta ad un avvocato.

    Faccio il Magistrato, sono un pubblico ministero e quindi sono il responsabile delle indagini e il titolare dell’azione penale; forse penserete che anch’io me lo chiedo…e invece vi sbagliate.

    Questa domanda è figlia di un grave e diffuso pregiudizio che vede il mestiere del difensore come almeno potenzialmente ambiguo dal punto di vista etico, se non peggio. Il dubbio nasce da almeno due gravi errori e fraintendimenti di partenza.

    Prima di tutto si sta presumendo sin dall’inizio la colpevolezza di colui che viene difeso. Niente di più sbagliato, illiberale e pericoloso. E lo dice la nostra Costituzione: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.

    Il giudizio di colpevolezza è l’approdo possibile ed eventuale del processo, non il presupposto o l’esito scontato. Le regole per la raccolta e la valutazione delle prove non sono cavilli da Azzeccagarbugli ma presidi fondamentali che fanno la differenza tra lo Stato liberale di diritto e i regimi (guardate la vicenda di Patrick Zacki in Egitto se avete qualche dubbio su quale sia il sistema migliore in cui vivere).

    Tutto il processo penale moderno nasce con l’obiettivo principale di garantire i diritti di difesa dell’individuo di fronte alla forza del potere pubblico e di evitare di condannare persone che non siano responsabili al di là di ogni ragionevole dubbio (non una certezza scientifica ma uno standard molto alto che non viene richiesto in nessun altro ambito del diritto).

    Il secondo pregiudizio che fonda quel sospetto verso gli avvocati dipende, invece, dal fatto che si tende ad identificarli con l’imputato (ingiustamente ritenuto presunto colpevole visto che giudicare ci fa sentire più sicuri e forti e invece comprendere e dubitare è attività sempre faticosa e scomoda).

    L’avvocato non difende la presunta condotta illecita, bensì garantisce il rispetto delle regole e dei diritti del suo assistito e, d’altronde, i magistrati non giudicano la persona in quanto tale ma solo le sue azioni.

    Vi garantisco che, se anche il mio mestiere spesso si traduce nel sostenere l’accusa (ma prima viene l’obbligo di cercare le prove anche a favore e, più in generale, la ricerca della verità processuale) io spero sempre di trovarmi di fronte avvocati professionali ed attenti: so che il processo avrà uno sviluppo migliore, sarà più approfondite il suo esito più vicino a quell’ideale così irraggiungibile di giustizia che dovremmo inseguire anche nelle aule di giustizia.

    Chi vuole un difensore debole o intimidito non ha a cuore l’accertamento della verità e cerca solo mani libere per un comodo (e, quindi, spesso sbagliato) esercizio del potere di giurisdizione.

    In questo periodo sto scoprendo un testo che ribalta il diffuso sentire giustizialista: “La Resurrezione” di Tolstoj. Il grande romanziere russo dipinge un affresco in cui in prigione finiscono soprattutto le vittime di un sistema ingiusto e diseguale mentre chi esercita il potere è spesso privo di sensibilità e di pietà.

    Questo il paradosso finale …”attualmente l’unico posto che si convenga a un uomo onesto in Russia è la prigione!”.

    Può sembrare una provocazione ma è un monito che da P.M. mi porterò dentro: un esercizio cieco e burocrate del potere rischia di tradursi in una perpetrazione di ingiustizia se non sono garantiti i diritti di difesa e non siamo tutti uguali di fronte alla legge.

    L’Italia e l’Europa del 2020 non sono la Russia di fine Ottocento: siamo la patria di Beccaria e Calamandrei e le regole della Costituzione e della CEDU sono baluardi dei diritti, inclusi quelli di difesa.

    Quello che si rischia è un scollamento tra il sentimento popolare diffuso e le regole del diritto: quando i principi non vengono più compreso e condivisi si crea una pericolosa frattura che produce un approccio non equilibrato verso i temi della giustizia e semina sfiducia verso le istituzioni e la legalità.

    Occorre un dibattito pubblico che cerchi di fare appello alla ragione e non ai peggiori sentimenti che ci abitano.

    Occorre vigilare e contribuire affinchè sui media e sui social la giustizia non sia oggetto di tifo e provocazioni ma di approfondimento e confronto. Spesso la cronaca e il chiacchiericcio da bar cercano solo capri espiatori mentre abbiamo bisogno di comprensione per contrastare davvero i fenomeni criminali che guastano la convivenza sociale.

    Occorre, infine, che avvocatura e magistratura non siano percepite e non si percepiscano come nemici di cui diffidare. Certamente l’Autorità Giudiziaria ha un ruolo e delle responsabilità diverse da quelle dei difensori, ma gli avvocati incarnano le garanzie di difesa e indebolirli o attaccarli vorrebbe dire indebolire ed attaccare lo Stato di diritto.

    Un Paese con degli avvocati meno liberi è un Paese in cui rischiamo di essere meno liberi tutti.

    Standing ovation per queste riflessioni: che siano il migliore viatico per il futuro di tutti, un futuro in cui l’attesa di Giustizia sia affidata a persone come Marco Imperato.

    Auguri di cuore.

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