Giustizia

  • In attesa di Giustizia: scandalo a Brescia

    Una cronaca giudiziaria miope e impreparata, se non in mala fede nella spasmodica ricerca della notizia che incrementi ascolti e vendite, ha gridato allo scandalo a causa di una sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Brescia con la quale è stato prosciolto per vizio totale di mente un anziano, Antonio Gozzini, accusato dell’omicidio della moglie.

    L’ossessione giustizialista di cui è preda questo paese, è stata così alimentata dopo il levarsi di molte ed indignate voci senza che nessuna si sia soffermata a considerare un dato banale: quando viene riconosciuta la incapacità di intendere e di volere si viene prosciolti, semplicemente non si è imputabili.

    Da un passaggio della arringa difensiva in favore di Antonio Gozzini in cui si è alluso a una forma di gelosia delirante è stato fantasiosamente distillato il concetto che l’uomo sia stato assolto perché la gelosia è considerata una scriminante e la decisione della Corte bresciana è stata tacciata di un arretramento plurisecolare della giurisprudenza determinando la sgomentata reazione del quarto potere al cospetto dell’ennesimo femminicidio impunito: questa volta a causa di giudici che riportano la loro decisione a una tradizione giuridica simile a quella vigente tra i boscimani che condannava la donna ad una posizione subordinata, prossima alla schiavitù.

    Tutto ciò, si badi bene, senza che siano state depositate le motivazioni della sentenza: e per evitare questo starnazzante disaccordo sarebbe stato – viceversa – sufficiente fare governo di semplice buon senso.

    Buon senso con cui considerare che è impossibile una persona possa essere stata assolta semplicemente perché ha un delirio di gelosia…salvo che non sia lo stesso giudice meritevole di un accertamento psichiatrico.

    Una sentenza di quella natura, infatti, è ovvio che sia stata preceduta da una perizia psichiatrica che ha accertato la incapacità di intendere e di volere dell’imputato, qualunque fosse la natura della patologia. Almeno questo un cronista giudiziario dovrebbe saperlo: ma se ignora basilari fondamenti del processo penale non è del tutto ingiustificata la reazione del cittadino che legge i giornali. In effetti, ci sarebbe da indignarsi ma non per quello che si è verificato, piuttosto per come è stato raccontato.

    Si tratta di un problema ormai incistato del nostro sistema: il rapporto tra processo e mass media, la assoluta approssimazione con cui vengono trattate le vicende processuali; e va a finire che non solo note influencers finiscono ingannate intervenendo a sproposito (e la domanda è: perché intervengono, a prescindere?) ma anche il giurista cui è affidata la Guardiania dei Sigilli della Repubblica cade vittima di una informazione largamente imperfetta. Rincorrendo gli umori dell’opinione pubblica (dato a cui siamo ormai rassegnati), l’Onorevole Bonafede preannuncia che manderà gli Ispettori a Brescia…ma perché, perché? In fondo lui è il Ministro della Giustizia, è un avvocato: è, forse, chiedere troppo che prima rifletta sul fatto che – alla base di quella sentenza – potrebbe esservi anche un problema di genetica molecolare, scienza che studia l’influenza del profilo genetico sul comportamento degli individui, di relazione tra sintomi psicopatologici ed alterazioni della attività cerebrale?

    Sì, questo sarebbe chiedere troppo ad Alfonso Bonafede ma non lo è che – prima di parlare, di prendere iniziative – si procuri se non la motivazione della sentenza (che ancora non è depositata) una copia della perizia psichiatrica: di questa, come di tutte, per comprendere contenuto e valutazione finale si può tranquillamente saltare tutta la parte illustrativa molto tecnica – destinata ai periti di parte – e passare direttamente a quella con scritto in grassetto  “Conclusioni” che sono sinteticamente redatte a prova di cretino. Dunque, vanno benissimo.

  • In attesa di Giustizia: scusi, lei è un assassino?

    Da quasi dieci anni la cronaca giudiziaria si è occupata della sparizione della signora Marinella Cimò, allontanatasi da casa nel 2011 senza lasciar alcuna traccia; il marito, Salvatore Di Grazia, ne aveva denunciato la scomparsa solo dopo dieci giorni inducendo gli inquirenti a concentrare su di lui i sospetti ed a procedere per l’ipotesi di omicidio nonostante il mancato rinvenimento del corpo della donna.  Salvatore Di Grazia è stato processato e condannato quale autore del delitto.

    Nei giorni scorsi, i tempi sono sempre quelli che sappiamo, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’imputato e reso esecutiva una condanna a 25 anni di reclusione.

    La cronaca giudiziaria, quasi interamente di tendenza colpevolista, è soddisfatta perché è stato individuato un responsabile ed inflitta una pena superando l’ostacolo dell’assenza di una prova diretta del fatto. Recentemente, tra l’altro, proprio la Corte di Cassazione ha pronunciato una sentenza di grande spessore che affronta proprio il tema della inutilizzabilità dei meri sospetti per addivenire a una condanna essendo richiesta la sussistenza, perlomeno, di indizi (che sono cosa ben diversa) plurimi e concordanti e come tali idonei a superare la soglia del ragionevole dubbio. E’ la cosiddetta “regola B.A.R.D.” , acronimo derivato dal diritto anglosassone che sta, appunto, per Beyond Any Reasonable Doubt.

    Concetti difficili da digerire per un’opinione pubblica intrisa di davighismo, che si abbevera alla fonte di Marco Travaglio, celebrando – quali che siano – i fasti manettari. Altro che controllo sulla giurisdizione da parte del popolo: tale compito è ormai terziarizzato come dimostra (tra i tanti esempi) un servizio andato in onda a Quarto Grado – con la partecipazione del condannato Di Grazia – che restituisce un quadro preoccupante della nostra epoca e consente di riflettere sul “grado di salute” del nostro sistema giudiziario.

    L’intervista a Di Grazia, nell’imminenza dell’arresto per espiare la pena, lascia sgomenti per modalità ed intenti: l’uomo  viene, infatti, sottoposto ad un giudizio demolitorio, reo non solo del delitto per cui è stato processato, ma anche (forse soprattutto) di aver osato sostenere fermamente la sua innocenza.

    A questo uomo anziano – dalla personalità  particolare, ma non per questo immeritevole di rispetto – sono stati rivolti pressanti interrogativi, quasi a voler ottenere in diretta una confessione mai resa o un’informazione mai concessa.

    “Dov’è il corpo di sua moglie? ”E ancora: “Di Grazia ha ucciso o no sua moglie? Sa io la domanda gliela dovevo fare”… “Ma Di Grazia lei ha 83 anni ed è stato condannato a 25 anni: lei sa cosa vuol dire questo? Cosa ha messo nella valigia (per il carcere), un libro o un pensiero di sua moglie? Ed ancora “Glielo avevo detto Di Grazia di far meno lo strafottente, l’arrogante il burlone perché era palese che c’erano gli indizi contro di lei: ora può fare tutto quello che vuole, ricorrere a procedure e cavilli, ma la sostanza è tutta qua”.

    Domande che non abbisognano di commenti ulteriori circa  la loro gratuità e  sottesa pretesa moralista. Il processo, concluso nelle aule, prosegue e persiste nella sua forza inquisitoria nelle sedi dei talk show o su web, quasi che una sentenza non sia  adeguata a placare la sete di giustizia.

    Una giustizia responsabile di non aver fornito tutte le risposte si pretenderebbe di avere. Insomma un “limite” del sistema processuale. Un limite che – se ci pensiamo – forse è connesso ad una prassi sempre più consueta di accesso (od abuso) al processo indiziario in cui difetta la prova diretta o storica del fatto illecito da accertare e nel quale il Giudice – seppur nel rispetto delle norme e all’esito di una ragionata analisi di quegli elementi – sceglie tra un ventaglio di ipotesi “probabili” quella che egli soggettivamente ritiene “più ragionevole, più credibile”, addivenendo ad una decisione che seppur corrisponde all’accertamento di una verità processuale lascia contorni irrisolti e domande inevase. Un percorso logico giudico in cui l’errore diviene una variabile assai concreta.

    Su tali premesse si erge l’uomo comune nelle vesti del censore, proseguendo in quel compito che la Giustizia ha solo parzialmente assolto; un uomo che sente ancora l’esigenza di chiedere, nonostante una sentenza di condanna definitiva, “Scusi, lei è un assassino”? E meno male che, se nel nostro sistema l’attesa di giustizia è sempre lunga, perlomeno non abbiamo il processo con giuria.

  • Una riforma volutamente programmata fallita

    L’inganno è nel cuore di chi trama il male.

    Dal libro dei proverbi; 12/20

    Da migliaia di anni gli esseri umani si sono resi conto e, in seguito, sono diventati consapevoli della necessità di avere delle regole per gestire la loro vita in società. Regole che stabilivano i diritti e i doveri di ciascuno nei rapporti con gli altri. L’insieme di quelle regole, chiamate anche legislazioni e/o codici, hanno cercato di mettere ordine e di far rispettare i concetti del diritto e del dovere, delle libertà e degli obblighi in quelle società. Uno dei primi legislatori della storia si ritiene sia stato Zaleuco di Locri, vissuto nel VII secolo a.c. (Locri Epizefiri, città della Magna Grecia, secondo gli storici è stata l’ultima colonia greca in Calabria, n.d.a.). Da documenti scritti, risulterebbe che Strabone, uno dei più noti storici dell’antichità, considerava addirittura che le leggi stabilite da Zaleuco di Locri, riconosciute anche come il suo Codice o legislazione, sono state le prime leggi scritte ed applicate dagli antichi greci stabiliti nella Magna Grecia. Leggi che rispecchiavano anche le esperienze delle altre città dell’antica Grecia. Riferendosi ai documenti storici, risulterebbe che la legislazione di Zaleuco abbia consolidato il buon funzionamento del sistema giuridico, servendo come base per i secoli a venire. Secondo Demostene, noto oratore e politico ateniese, vissuto nel quarto secolo a.c., parte integrante della legislazione di Zaleuco era anche una legge, secondo la quale “…l’abrogazione o la modificazione di una legge poteva essere proposta solo dopo essersi presentati dinnanzi all’assemblea con un laccio al collo che, in caso di rifiuto della proposta, sarebbe diventato strumento di morte per il proponente”. L’esistenza di questa legge la confermerebbe anche lo storico Polibio, vissuto nel secondo secolo a.c. Secondo documenti storici, che si riferiscono a Polibio, risulterebbe che egli abbia affermato che “… nel caso in cui, rispetto all’interpretazione di un decreto, magistrato e cittadino presentassero opinioni differenti, dovrebbero entrambi presentarsi davanti all’assemblea cittadina, indossando un laccio che sarebbe poi stato stretto attorno al collo di colui la cui interpretazione si sarebbe rivelata errata”. Un obbligo, quello proposto da Zaleuco di Locri, che evidenziava l’esigenza della massima responsabilità, sia dei legislatori che proponevano, abrogavano e modificavano le leggi, che dei giudici che le interpretavano quelle leggi e dei cittadini che pretendevano i loro diritti.

    Nel corso dei secoli tutte quelle regole e leggi, proposte ed attuate nell’antichità, ovviamente sono state modificate e adattate alle realtà vissute in varie parti del mondo e secondo la forma dell’organizzazione [statale] delle società. Ma una cosa deve essere riconosciuta a quelle regole e leggi, traendo anche i dovuti insegnamenti. E cioè l’imparzialità nel giudicare il colpevole e nel condannare in base alle responsabilità riconosciute. Secondo alcune testimonianze tramandate da secoli, risulterebbe che anche Zaleuco di Locri si sia tolto un occhio per non far togliere tutti e due al figlio, colto in flagranza mentre stava commettendo adulterio. Perché chi infrangeva le regole doveva essere condannato, chiunque esso fosse! Un ottimo insegnamento per tutti i tempi, anche per questi in cui viviamo!

    Insegnamento che purtroppo rimane del tutto ignorato, deriso e inapplicabile in Albania. Perché coloro che infrangono per primi le regole sono proprio quelli che hanno il dovere di rispettarle, compresi legislatori, governanti e giudici. Sono innumerevoli le testimonianze che, senza ombra di dubbio, confermerebbero e dimostrerebbero questa realtà, dati e fatti accaduti quotidianamente e pubblicamente noti alla mano. Sono veramente tanti gli scandali e gli abusi che danneggiano la cosa pubblica, ma che, purtroppo, “sfuggono” all’obbligatoria attenzione delle diverse istituzioni del sistema “riformato” della giustizia in Albania. E non poteva essere altrimenti. Perché gli “strateghi” della riforma del sistema di giustizia avevano ideato proprio una riforma che doveva servire per raggiungere un preciso e ben concepito obiettivo: quello di costituire un sistema “riformato” di giustizia, che doveva ubbidire ai governanti e ai legislatori, a scapito dei cittadini, della comunità e della cosa pubblica. Una “riforma” che doveva permettere al primo ministro di controllare personalmente e/o da chi per lui, tutto il sistema della giustizia, e a tutti i livelli.

    Da quando, nel dicembre 2015, è stato presentato pubblicamente per la prima volta il contenuto della Riforma del sistema della giustizia, si era capito subito che quella riforma mirava la messa sotto controllo del sistema. Obiettivo che, soltanto sulla carta, prevedeva e garantiva la totale indipendenza istituzionale del sistema della giustizia dalla politica. Allora il primo ministro, la propaganda governativa e molti “opinionisti assoldati” hanno cercato di convincere l’opinione pubblica sulla bontà dell’obiettivo strategico della “Riforma”. A loro si sono uniti, determinati e perentori, i soliti “rappresentanti internazionali”, spesso infrangendo anche quanto previsto dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche. Sono stati proprio quei “rappresentanti internazionali” che hanno dato delle convincenti ragioni e dei solidi argomenti sulla necessità dell’avvio della Riforma del sistema di giustizia in Albania. Loro si sono presentati al pubblico come i credibili garanti di tutto il processo e della bontà della Riforma, una volta approvata e attuata. Poi, nell’arco di pochi anni, si verificò e continua quotidianamente a verificarsi che, purtroppo, tutto era stato ideato, voluto, programmato ed attuato in modo tale da permettere la realizzazione dell’obiettivo posto da prima che la “Riforma” stessa avesse inizio ufficialmente. E cioè di fare una “Riforma” per controllare il sistema, proprio dalla politica, il che significa dal primo ministro e/o da chi per lui, compromettendo seriamente l’indipendenza del sistema della giustizia dagli altri due poteri dello Stato e/o da altre istituzioni. Quanto è accaduto e sta accadendo dal 2016 ad oggi, dati e fatti accaduti e denunciati alla mano, dimostrerebbe proprio questa realtà pericolosa e seriamente preoccupante. Realtà che testimonia la restaurazione e il consolidamento di una nuova dittatura in Albania, gestita da un’alleanza, ormai operativa, tra il potere politico, la criminalità organizzata e certi clan occulti locali ed internazionali.

    In una simile pericolosa e preoccupante realtà, il sistema “riformato” di giustizia si è sottomesso ubbidiente agli ordini dei “potenti”. Dimostrando così, palesemente, la realizzazione del vero obiettivo della Riforma”. Sono tante, ma veramente tante le evidenze che testimonierebbero la cattura ed il controllo del sistema di giustizia in Albania. Mentre i “rappresentanti internazionali” continuano a parlare ancora di “successi”! Chissà perché?! Nel frattempo però, da circa tre anni ormai, non funzionano la Corte Costituizionale e la Corte Suprema. Il che significa “mani libere” per tutti coloro che vogliono infrangere le leggi. Proprio quelle leggi approvate e/o modificate da coloro che adesso le ignorano. E si sa benissimo e pubblicamente chi sono.

    Chi scrive queste righe è convinto che la “Riforma” della giustizia in Albania è stata volutamente programmata perché fallisse da coloro che gestiscono la cosa pubblica. Di tutto ciò egli ha spesso informato il nostro lettore. E continuerà a farlo, considerando il sistema di giustizia uno dei tre poteri di uno Stato democratico che devono essere realmente indipendenti. Chi scrive queste righe trova molto significativo il contenuto di quella legge di Zaleuco di Locri che prevedeva un laccio al collo dei legislatori che abrogavano e modificavano le leggi. Sarebbe stato un deterrente per tutti coloro che hanno voluto, programmato e attuato il fallimento della Riforma del sistema di giustizia in Albania. Compresi anche i soliti e sempre presenti “rappresentanti internazionali”. Di tutti coloro che hanno l’inganno nel cuore, perché hanno tramato e tramano il male.

  • In attesa di Giustizia: taci, il nemico ti ascolta

    Mentre vi è – lo abbiamo registrato anche di recente – chi non dispone del buon gusto di tenere la bocca chiusa (specie se l’utilità non va oltre la ossigenazione di una coppia isolata di neuroni), su talune vicende, senza che la cosa stupisca più di tanto, il silenzio è d’oro. Nel senso che vi sono fatti per trovare notizia dei quali bisogna mettersi d’impegno per recuperare qualcosa saccheggiando la rete, oppure avendo l’occasione di vivere personalmente quegli accadimenti.

    Per esempio: chi tra i lettori conosce il nome di Michele Nardi, inteso come l’ex giudice per le indagini preliminari a Trani e poi P.M. a Roma? Probabilmente nessuno e pochi sanno che poco più di una decina di giorni fa costui è stato condannato a sedici anni e nove mesi di carcere: l’accusa ne aveva chiesti venti.

    Avrà ammazzato qualcuno? No, ma – forse – una imputazione per omicidio sarebbe stata meno infamante di quelle poste alla base di una condanna così severa: associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Michele Nardi è stato ritenuto al vertice di quello che è stato ribattezzato “il sistema Trani” un gruppo di magistrati, funzionari di polizia ed avvocati che manipolavano i processi: del gruppetto, secondo altra sentenza, faceva parte pure Antonio Savasta (altro Pubblico Ministero a Trani) che si è visto infliggere dieci anni di reclusione e sequestrare beni per un paio di milioni abbondanti di euro e, per ora, mancano all’appello l’ex Procuratore Capo di Trani, Capristo che è stato arrestato successivamente per concussione ed il suo successore al vertice di quella Procura Antonino Di Maio: il processo a costoro è da poco iniziato.

    Dunque, si sta accertando giudizialmente l’esistenza del “sistema Trani” con buona pace di chi in passato ha subito un processo in quel Tribunale: e viene da domandarsi se di vicende come questa non dovrebbe esservi una maggiore informazione tenendo da conto che la nostra Costituzione prevede che la Giustizia sia amministrata in nome del popolo italiano e ciò significa che i cittadini hanno (se viene concessa…) la possibilità di controllare come la giustizia sia amministrata. Anche a Trani, per utilizzare l’ultimo esempio, in ogni caso essendo informati circa l’esistenza e lo sviluppo dei processi a carico di magistrati sia pure nel rispetto della presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva.

    Ma in ordine a talune vicende tutto tace o, quantomeno, è fortemente silenziato.

    Se l’è cavata meglio Antonio Ingroia, ex P.M. antimafia divenuto in seguito avvocato e politico (non sembra con grande fortuna in entrambi i casi): solo un anno e dieci mesi di galera per peculato, inflitti a metà novembre. A quanto pare, l’uomo si concedeva pranzi da gourmet e soggiorni in alberghi di lusso a spese della società regionale “Sicilia e – Servizi”, oggi “Sicilia Digitale” di cui era stato posto al vertice dal Governatore Crocetta.

    Ricorrerà in appello, e nell’attesa, però, arriva per lui una buona notizia. “Giustizia è fatta!” proclama Antonio Ingroia: il 26 novembre scorso il TAR del Lazio gli ha “restituito” la scorta che gli era stata tolta riconoscendogli una perdurante esposizione al rischio per il ruolo svolto come inquirente e seppur cessato da almeno dieci anni. Di questo trionfo apprendiamo in quanto la comunicazione è stata seguita proprio dall’ufficio stampa di Ingroia. Ma questo sarà davvero un trionfo della giustizia? Se non altro, l’”ex” di turno potrà spostarsi senza il fastidio di comperarsi un’auto, pagare assicurazione, carburante, tagliandi e cambio pneumatici: viene tutto fornito graziosamente dal Ministero dell’Interno insieme all’autista.

    Certamente, bisognerebbe saperne di più per farsi un’idea più ragionata su vicende come queste ma – come sembra – il silenzio è d’oro allorché gli argomenti ridondano a disdoro di quella che resta una casta non adusa ad essere criticata, con la presunzione di essere intoccabile ma la cui popolarità è in caduta verticale. Taci, dunque, giornalista: il nemico ti ascolta.

  • Violenza contro le donne: imparare a combatterla sin dalle scuole elementari

    Il 25 novembre è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, un dramma sul quale andrebbero accesi i riflettori tutti i giorni, senza mai spegnerli. Il problema, malgrado leggi più punitive e iniziative istituzionali e private, è ancora purtroppo molto grave, come raccontano le cronache quotidiane, perché le violenze domestiche, fisiche e psicologiche, sono in aumento e restano le discriminazioni. Combattere questa piaga si può anche con una adeguata educazione che inizia sin dalle scuole elementari.

  • In attesa di Giustizia: senza vergogna

    Negli ultimi giorni ha suscitato interesse un’indagine condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, denominata “Farmabusiness”,  con l’esecuzione degli arresti che hanno riguardato – tra gli altri nomi di spicco – Domenico Tallini, Presidente del Consiglio Regionale della Calabria raggiunto da una incolpazione preliminare di concorso esterno in associazione mafiosa: reato che – giova ricordarlo – non è neppure previsto dal codice penale ma è una elaborazione giurisprudenziale (sfortunatamente assecondata dalla Cassazione)frutto della vèrve manettara che da tempo caratterizza tanto la legislazione quanto l’amministrazione della giustizia.

    A commentare questa  vicenda giudiziaria è intervenuto – perdendo l’ennesima buona occasione per tacere – il senatore Nicola Morra, Presidente pentastellato della Commissione Parlamentare Antimafia e primatista delle idiozie: di che pasta sia fatto, e con lui tutta la claque del capocomico, è infatti noto da tempo ma questa volta ha decisamente passato il segno affermando in un’intervista che, essendo stato il più votato nel collegio di Catanzaro, Domenico Tallini è la dimostrazione che ogni popolo ha la classe politica che si merita. Affermazioni tanto più gravi se si considera il ruolo istituzionale della persona da cui provengono.

    Non pago di avere anticipato il giudizio di colpevolezza a poche ore da un arresto in attesa di giudizio e di aver, quantomeno, dato dei presunti ‘ndranghetisti a tutti i calabresi, costui – premettendo, in un raro anelito di onestà intellettuale, di riconoscersi politicamente scorretto – ha anche affermato, con argomento fuori contesto e dai sottintesi opachi, che era altresì noto a tutti che Jole Santelli fosse una grave malata oncologica e se ai calabresi (cioè i presunti malvissuti di cui sopra) tutto questo è andato bene, ognuno deve ritenersi responsabile delle proprie scelte.

    Questa settimana la rubrica prende spunto da temi di giustizia sconfinando nella critica politica: ma di certi comportamenti non si può tacere, auspicando che il dibattito acceleri il momento di un giudizio irrevocabile non in merito ad imputati ed imputazioni ma sulla parabola, non solo politica, del cabarettista e dei suoi adepti.

    L’infelicissima uscita di Morra descrive plasticamente cosa siano e siano sempre stati  i Cinque Stelle: il nulla mischiato con l’odio.

    Consapevoli dell’irreversibile declino non può, quindi, sorprendere che alzino i toni alla loro maniera sgomentati dalla prospettiva che, al primo voto utile, torneranno alla disoccupazione dalla quale il pingue capopopolo li ha sottratti.

    Ovviamente fin quando avranno un alito di vita politica continueranno a fomentare l’odio per distrarre l’opinione pubblica dalla propria carnevalesca incapacità (che proprio sulla vicenda della sanità calabrese ha dato tragica prova di sé). Lo sopporteremo, consci che peggio di quanto fatto finora non potranno fare. Come in ogni giudizio restano però le responsabilità, e non potranno esserci amnistie.

    Berremo fino in fondo l’amaro calice che costoro ci hanno messo in tavola, comprensivo dei disastri cagionati con interventi scellerati ed omissioni gravi nel momento dell’emergenza, ma poi ne sarà chiesto conto.

    A cominciare da chi a questi cialtroni tiene il sacco, terrorizzato, non meno di loro, dal doversi trovare un lavoro mentre a noi verrà serbato il compito di ricostruire sulle macerie fumanti, del sistema giustizia,  e non solo, che hanno lasciato.

  • In attesa di Giustizia: profondo rosso

    Ne abbiamo appena parlato ma, sfortunatamente, si deve tornare in argomento: nulla è cambiato a dispetto di promesse e proclami e l’amministrazione della Giustizia si avvia al tracollo finale, sopraffatta anch’essa dalla seconda  ed ampiamente prevista ondata di contagi.

    I rimedi e gli interventi annunciati – e non solo nel settore di cui si occupa questa rubrica – quando ci sono  (e non è scontato) nel migliore dei casi sono tardivi e nel peggiore raffazzonati se non entrambe le cose come a proposito della estensione del metodo di celebrazione del processo a distanza la cui disciplina è stata inserita nei decreti “ristori” con una tecnica legislativa bizzarra per la assoluta disomogeneità degli argomenti.

    Questa non è, peraltro, una novità assoluta né un primato dell’attuale maggioranza di Governo: anni fa venne modificato il Testo Unico sugli Stupefacenti con un decreto legislativo che conteneva disposizioni sulla celebrazione delle Olimpiadi Invernali di Torino: c’è voluto un po’ ma quella modifica è stata sbriciolata dalla Corte Costituzionale per eccesso di delega creando, tuttavia, una serie di problemi non indifferenti a causa delle decine di migliaia di processi per droga celebrati, nel frattempo e per anni, con una “legge illegale”.

    Nessuno, allora, ebbe la decenza di ammettere – scusandosi in qualche modo – la commissione di un errore pacchiano per il c.d. “legislatore”: ma da sempre, quando si tratta di riconoscere i propri  errori, la nostra classe politica ha un comportamento simile (per chi lo ricorda…) a quello di Fonzie di Happy days a cui si attorcigliava la lingua proprio in quel momento cruciale.

    Ogni tanto viene anche da chiedersi se – con qualche lodevole eccezione – gli accademici assurti ai sogli della politica nazionale non abbiano conseguito i propri titoli con un concorso in cui sono richiesti i punti fragola dell’Esselunga.

    A tacere della tecnica e della topografia normativa, ritornando in maniera più mirata alla soluzione, accettabile a talune condizioni, di celebrare i processi a distanza è appena il caso di dire che ci sono sedi giudiziarie che la primavera scorsa non avevano gli strumenti tecnologici necessari e che non li hanno tutt’ora e non parliamo di scienza missilistica: con buona pace della criticità data dal dover far spostare avvocati, testimoni, periti ed imputati anche da una regione rossa ad un’altra. I rinvii delle udienze sono la conseguenza scontata.

    L’On. Bonafede, che al Ministero della Giustizia occupa la scrivania che fu di di Zanardelli, Rocco, Vassalli e Conso (per citarne alcuni che si rivoltano nella tomba), qualche settimana fa aveva annunciato trionfalmente la distribuzione in corso di migliaia e migliaia di computer nuovi che avrebbero consentito a cancellieri e funzionari amministrativi di lavorare da casa con aumento della produttività e riduzione del rischio di contagio.

    Interpellato in proposito un Dirigente del Tribunale Penale di Milano ha così risposto: “se crede anche a Babbo Natale, visto il periodo, gli scriva la letterina e veda se, almeno per me, un computer per il collegamento da remoto me lo fa avere…”.

    Processi rinviati, Tribunali senza connessione, personale amministrativo a casa a non lavorare, incolpevolmente… cancellerie semi deserte, il vuoto delle aule affidato all’isolato passaggio di un Carabiniere a guardia del nulla: è l’immagine del lock down di una Giustizia in profondo rosso ma, lo può ben spiegare Rocco Casalino – memore dell’esperienza del confessionale del Grande Fratello – anche la solitudine può essere un momento di beatitudine.

  • In attesa di Giustizia: giustizia in rosso

    Ci siamo: almeno in alcune regioni è di nuovo zona rossa e molte attività  sono state chiuse,  la libertà di movimento grandemente limitata. Il governo, tra le altre cose si è occupato delle aule scolastiche, ma ha sostanzialmente dimenticato quelle in cui si amministra Giustizia. Cosa tutt’altro che insolita.

    O meglio: un decreto legge in cui si tratta di giustizia c’è ma è anteriore al DPCM che distingue il Paese in fasce di rischio contagio e si basava su una situazione di fatto che, oggi, potrebbe valere forse per le zone arancioni, ma non per quelle rosse.

    Sarebbe infatti davvero singolare che, vietate le lezioni in presenza a 20 alunni, si consentisse la celebrazione di processi con più avvocati, magistrati, cancellieri, testimoni ed imputati in ambienti in cui spesso il ricircolo dell’aria è problematico. Del resto, il concetto di aula non cambia se muta la natura dell’attività svolta al suo interno.

    Intanto già si moltiplicano i rinvii dei procedimenti già fatti slittare durante il lockdown di primavera perché, come era immaginabile, con i servizi amministrativi adibiti ad un “lavoro agile” sprovvisto degli strumenti necessari ad evitare che fossero in realtà ferie retribuite, un numero sgomentevole di notifiche non è stato fatto o lo è stato in maniera irregolare.

    Una soluzione che si sta riproponendo per evitare che le esigenze di sicurezza e prevenzione del contagio confliggano con quelle di prosecuzione della attività giudiziaria è quella che prevede – per tempi  e materie definite – la trattazione da remoto: che convince poco anche per la permanente mancanza di strumenti tecnologici adeguati, ma rappresenta (almeno per le zone rosse) un’alternativa prudentemente praticabile.

    Anche in questo caso, come è accaduto nel settore della sanità, vi è stato il tempo per allestire le migliori condizioni di lavoro e di supporto logistico volte a fronteggiare la prevedibilissima “seconda ondata” facendo tesoro dell’esperienza maturata nei primi mesi dell’anno e invece…

    …invece abbiamo i proclami del Guardasigilli a proposito della distribuzione di migliaia di nuovi computer portatili che renderanno finalmente possibile l’assolvimento delle funzioni di cancelleria anche in smart working ma – per ora – non se ne sono ancora visti e ci sono uffici che neppure dispongono di una casella pec. Il raffinato giurista, peraltro, è di buonumore a giudicare dall’espressione ridente scolpita in permanenza sul volto: forse perché ha letto la bozza del decreto “ristori bis” nella quale, tra le molte perle, in merito al processo penale di appello, si prevede che la trattazione “fisica” dell’udienza debba essere richiesta dagli avvocati almeno 25 giorni prima della data prevista per la celebrazione.

    Senonché la legge prevede che l’avviso di fissazione sia notificato almeno 20 giorni prima della medesima data.

    Forse è questo che alimenta il buonumore di Bonafede: dal processo da remoto si sta passando al processo per veggenti ed una classe forense dotata di capacità predittive sarà anche in grado di pronosticare l’esito dei processi evitando di iniziare o proseguire quelli il cui destino è già noto.

    Un po’ quello che avevano pensato gli autori e sceneggiatori di Minority Report solo che nel nostro caso sono gli autori dei testi a far pensare ad una minoranza, o meglio ad una minorazione. Quella mentale, con buona pace di una Giustizia perennemente in rosso, dimenticata da tutti la cui attesa inizia ad apparire disperata.

  • Ukraine’s constitutional court crisis alarms IMF and Western backers

    Ukraine’s president Volodymyr Zelensky has submitted a bill to dismiss all 15 judges of the Constitutional Court that will plunge Ukraine into a major constitutional crisis.

    The judges have accused Zelensky of trying to carry out a constitutional coup, as neither the president nor parliament have any powers to remove judges on the Constitutional Court. Judges can only remove each other with a two-thirds majority vote, and even then it can only be done because of health problems.

    The bill follows a controversial decision by the court to strike down key anti-corruption laws that were put in place at the insistence of the country’s main donors, including the International Monetary Fund.

    Last week, the court dismissed punishment for politicians who falsely declare their assets. Zelensky called the judges’ decision “worthless” and taken by the judges amid a “real conflict of interest”, according to Zelensky’s draft bill. The head of the country’s national defense council, Oleksy Danilov, said the ruling was a threat to national security.

    The IMF has been holding back some of its funds until it is satisfied with the country’s progress in dealing with corruption, which is considered one of Ukraine’s biggest issues. Zelensky told the media that the IMF threatened to pull its support after the court verdict.

    The ambassadors of the G7 nations, which includes the US, the UK, Germany, France, Canada, Japan, and Italy, said they “stand with the Ukrainian people” following the Constitutional Court verdict.

     

  • La Commissione UE deferisce Belgio, Grecia, Paesi Bassi e Polonia in tribunale per pratiche fiscali

    La Commissione europea ha deciso di deferire Belgio, Grecia, Paesi Bassi e Polonia alla Corte di giustizia europea (CGUE) per alcune pratiche fiscali che si ritiene violino le leggi dell’Unione.

    L’azione legale intrapresa dall’esecutivo dell’UE mira a garantire che gli Stati membri rispettino i loro obblighi ai sensi del diritto dell’Unione, a beneficio dei cittadini e delle imprese.

    Secondo la Commissione il Belgio penalizza i contribuenti non residenti attraverso la sua legislazione sulla deducibilità dei pagamenti degli alimenti dal reddito imponibile dei non residenti. La detrazione dei pagamenti degli alimenti, noti anche come pagamenti di matrimonio o di mantenimento, dal reddito imponibile dei non residenti che guadagnano meno del 75% del loro reddito nel paese viene rifiutata dal Belgio. Viene inoltre rifiutato nei casi in cui il contribuente non abbia un reddito imponibile significativo nello stato di residenza, rendendo impossibile la detrazione dei pagamenti di cui sopra dal reddito imponibile nello stato di residenza. La Commissione sostiene che i contribuenti non residenti hanno esercitato il diritto alla libera circolazione dei lavoratori, tuttavia il Belgio non consente la detrazione degli assegni alimentari né dal loro reddito imponibile nel loro stato di residenza, né in Belgio, che è considerato come lo stato di occupazione. La CGUE aveva già stabilito che tale legislazione è contraria alla libertà di circolazione dei lavoratori.

    Per quanto riguarda la Grecia, la mossa della Commissione ha come obiettivo la legislazione fiscale del paese che differenzia il trattamento fiscale tra le perdite di affari subite a livello nazionale e le perdite in un altro stato dell’UE/SEE. Sebbene entrambe le imprese siano soggette a tassazione in Grecia, il trattamento delle perdite subite all’estero è limitato, con l’UE che sostiene che il trasferimento costituisce una restrizione al diritto di stabilimento. La Commissione ha intrapreso la prima fase della procedura di infrazione nel 2018, inviando una lettera di costituzione in mora alla Grecia, mentre un parere motivato è seguito un anno dopo.

    Circa i Paesi Bassi, l’azione riguarda tre diverse norme olandesi relative al regime fiscale transfrontaliero delle pensioni. In particolare, i fornitori di servizi stranieri sono tenuti a fornire garanzie alle autorità olandesi se il capitale pensionistico viene trasferito dai Paesi Bassi a un fornitore straniero o se i fornitori stranieri vogliono fornire servizi sul mercato olandese. Lo stesso vale per gli ex dipendenti che trasferiscono il capitale pensionistico a un fornitore di servizi straniero o che cercano di acquistare servizi pensionistici da un fornitore straniero. Il terzo caso si riferisce ai lavoratori mobili impiegati fuori dal Paese. I trasferimenti del capitale pensione a fornitori stranieri sono esenti da imposta solo se i fornitori stranieri si assumono la responsabilità per eventuali crediti fiscali, o se sono gli stessi contribuenti a fornire una garanzia. Secondo la Commissione, le condizioni imposte dai Paesi Bassi limitano gravemente la libera circolazione dei cittadini e dei lavoratori, la libertà di stabilimento, la libera prestazione di servizi e la libera circolazione dei capitali.

    Un altro stato membro da deferire alla CGUE è la Polonia, in quanto il paese viola le norme dell’UE sull’esenzione dell’alcol importato utilizzato nella produzione di medicinali. Le norme dell’UE prevedono un’esenzione obbligatoria dall’accisa per le importazioni di alcol etilico utilizzato nella produzione di medicinali, tuttavia la Polonia non concede questa esenzione quando gli importatori di alcol non scelgono di utilizzare un regime di sospensione dei dazi.

    Nel caso della Polonia, la Commissione ha sostenuto che Varsavia viola le disposizioni dell’UE sull’armonizzazione delle strutture delle accise sull’alcole e sulle bevande alcoliche e il principio di proporzionalità, non rimborsando le accise pagate sull’importazione di alcol etilico utilizzato per produrre medicinali dopo che il dazio è stato pagato.

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