Giustizia

  • In attesa di Giustizia: il lungo addio

    Questo era il titolo di un romanzo di Raymond Chandler che può ben attagliarsi alla vicenda del pensionamento di Piercamillo Davigo intervenuto per raggiunti limiti di età mentre sedeva come Consigliere a Palazzo dei Marescialli. L’ex P.M. di Mani Pulite le ha provate tutte pur di rimanere al C.S.M., sebbene vi fossero – tra l’altro – precedenti regolati dal Consiglio di Stato in senso contrario alle sue aspettative. Ospite di Piazza Pulita su LA 7, l’ormai ex magistrato ha detto che se solo avesse avuto un cenno (dal Presidente Mattarella, si intende) circa l’orientamento del Comitato di Presidenza in senso opposto alla sua permanenza, si sarebbe immediatamente dimesso.

    Ma, vien da dire, ce ne sarebbe stato veramente bisogno? Un uomo che conosce la legge e la sua interpretazione non avrebbe dovuto avere dubbi circa le proprie prospettive e l’accanimento con cui ha perseguito il tentativo di restare al Consiglio non trova giustificazione.

    Tuttavia, in questa vicenda, vi è forse qualche affiorante retroscena che potrebbe spiegare le ragioni per cui nessun cenno gli è stato fatto, facendogli anzi coltivare l’illusione che l’epilogo potesse avere un lieto fine: non è da escludere che fino all’ultimo sia cercato di salvare, più che il soldato Davigo, l’assetto politico del C.S.M. che aveva appena giudicato e rimosso dalla magistratura, con molta fretta (ne abbiamo trattato di recente), Luca Palamara.

    Se e fino a qual punto il dott. Davigo (che faceva parte della sezione disciplinare del CSM) avesse fatto affidamento proprio su questa inerzia, lo sa solo lui; ma la partita  è probabile che si sia giocata su questo tavolo, non certo su quello della controversia tecnico-giuridica.

    Ma quando poi, con malcelata amarezza, egli lamenta che quel silenzio ingannevole dei vertici del C.S.M. lo abbia ingenerosamente esposto ad un danno di immagine, come di un magistrato “attaccato alla poltrona”, scivola nella retorica populistica un po’ troppo facile, ancorché a lui assai congeniale.

    Il dott. Davigo (che per non farsi mancare nulla, pare, abbia avviato altra controversia per veder retroattivamente rivalutata la sua sconfitta nella corsa a Primo Presidente della Corte di Cassazione) deve prendersela solo con sé stesso. Il quadro dei principi era ed è chiarissimo, il Consiglio di Stato si era già pronunciato esattamente sul punto quando egli ha deciso di ingaggiare questa battaglia. Ed anzi, egli aveva avuto altre due eccellenti occasioni per buttare dignitosamente la spugna: il giudizio negativo della Commissione che di norma lui stesso presiedeva ed il parere drasticamente negativo della Avvocatura dello Stato, incredibilmente secretato: il che la dice lunga su quanto il Consiglio o gran parte di esso stesse cercando di sostenerlo. Imputet sibi avrebbero detto i latini.

    Una vicenda un po’ squallida, detto senza infingimenti e dai contorni resi ancor più opachi dal voto finale espresso dal CSM, che conferma una volta di più l’attuale crisi di autorevolezza e credibilità della magistratura italiana e del suo vertice istituzionale. Ancora una volta, su una questione del tutto tecnica, si è votato per schieramenti e per dosimetrie correntizie. Il tema era se un magistrato in pensione possa rimanere in carica: cosa c’entra la corrente di appartenenza? Ogni commento è superfluo e si ponga attenzione alla critica che è stata rivolta al voto libero ed “imprevisto” del dott. Nino di Matteo che per il solito Travaglio – che incarna l’idea platonica della faziosità più incontinente – sarebbe un voto “inspiegabile”; per molti, anche all’interno della stessa magistratura, sarebbe stata addirittura una ritorsione contro il silenzio di Davigo sulla nota vicenda della mancata nomina di di Matteo a capo del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria. Insomma saremmo al cospetto di una guerra tra bande. Piace, invece, presumere, almeno presumere, un gesto di onestà intellettuale e di libertà morale da parte di un magistrato in un momento in cui la crisi della giurisdizione rende sempre più vana l’attesa di Giustizia.

  • Il fallimento voluto ed attuato di una riforma

    Quando la legge non può far valere i propri diritti, rendete almeno

    legittimo che la legge non impedisca di infliggere i torti.

    William Shakespeare; da “Re Giovanni”

    La riforma del sistema della giustizia in Albania, ad oggi, risulterebbe essere una delle più negoziate, discusse e contestate. Ma purtroppo, fatti realmente accaduti alla mano, risulterebbe essere un fallimento voluto e programmato come strategia d’azione per essere, in seguito, anche attuato. Sono tanti, ma veramente tanti tutti quei fatti accaduti, evidenziati e noti pubblicamente che dimostrerebbero e testimonierebbero questa affermazione. L’autore di queste righe, a più riprese, ha trattato l’argomento durante questi anni, cercando di informare sempre il nostro lettore in modo oggettivo, riferendosi soltanto ai fatti pubblicamente noti ed accertati.

    Che il sistema di giustizia in Albania avesse bisogno di essere riformato nessuno l’ha messo mai in dubbio. Che il sistema subisse delle ingerenze politiche, ignorando consapevolmente la sua indipendenza, anche questo era un dato di fatto. Che il sistema fosse considerato corrotto e che la giustizia venisse data in funzione del “miglior offerente”, si sapeva bene. Soprattutto da coloro che perdevano ingiustamente e clamorosamente cause soltanto perché l’altra parte poteva pagare o perché era politicamente raccomandata. Che il sistema avesse “contribuito” che le proprietà dei cittadini, soprattutto quelle costituite prima dell’avvento della dittatura comunista nel 1944 e poi, dopo il crollo della dittatura, ereditate dai veri proprietari, attualmente risultino “alienate”, anche questo è un dato di fatto. Lo sanno bene adesso tanti proprietari che vengono considerati, sarcasticamente e ingiustamente, come “ex proprietari” e che non riescono ad appropriarsi delle loro proprietà. Ma adesso, sempre dati e fatti accaduti alla mano, risulterebbe anche che il sistema della giustizia sia pericolosamente e politicamente controllato da una sola persona. E cioè dal primo ministro e/o da chi per lui. Il che è proprio l’opposto contrario degli obiettivi strategici posti e che dovevano essere raggiunti con la Riforma del sistema di giustizia in Albania, uno dei quali prevedeva la reale e garantita indipendenza del sistema dagli altri poteri istituzionali. L’altro prevedeva la fine dell’impunità dei politici corrotti e colpevoli, i quali costituiscono, purtroppo, una combriccola molto numerosa in Albania.

    Il funzionamento di uno Stato democratico, o che mira a diventare tale, si basa sulla separazione dei poteri. E per poteri si intendono il potere legislativo, quello esecutivo ed il potere giuridico. In più, tutti i tre poteri devono essere indipendenti l’uno dall’altro. E proprio l’indipendenza tra i tre poteri garantisce il buon funzionamento di uno Stato democratico, impedendo ingerenze ed abusi di potere, nonché fenomeni di corruzione. La necessità della divisione dei poteri in uno Stato era già prevista da Aristotele e Platone nell’antica Grecia circa 2300 anni fa. Un principio quello della divisione dei poteri che è stato trattato anche nei secoli scorsi da vari filosofi, tra i quali anche Locke e poi Montesquieu. A quest’ultimo si attribuisce la formulazione dell’attuale teoria della divisione dei poteri. Per Montesquieu era indispensabile la separazione dei tre poteri, rendendoli indipendenti l’uno dall’altro, in modo da evitare l’assolutismo e salvaguardare la libertà dei cittadini. Lui era convinto che “… chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti”, Ragion per cui, secondo Montesquieu, in modo che “… non si possa abusare del potere occorre che […] il potere arresti il potere” (Spirito delle leggi; 1748). E per garantire che tutto ciò funzioni, in tutti gli Stati democratici, o che mirano a diventare tali, vengono prese tutte le necessarie misure legali che garantiscono il funzionamento del principio “Check and balance – Controllo e bilanciamento [reciproco]”. Un principio questo che prevede il funzionamento di strutture e meccanismi, basati sulla legge, per mantenere e garantire sempre l’equilibrio tra i tre poteri che operano in uno Stato.

    Ovviamente quando si parla di un sistema di giustizia, si fa riferimento all’insieme delle strutture necessarie che lo compongono e a tutto l’organico che fa funzionare quelle strutture. In Albania era diventato indispensabile l’avvio di una seria e ben concepita riforma radicale del sistema della giustizia. Da anni se ne parlava e finalmente, a fine del 2014, si diede inizio alla riforma. Adesso però, a fatti accaduti e compiuti alla mano, risulterebbe che quella riforma è stata voluta e attuata non per riformare e mettere finalmente ordine sul sistema, ma per far controllare quel sistema dal potere esecutivo. Le cattive lingue però ne parlarono già da allora. E il tempo adesso sta dando loro ragione. In Albania il potere esecutivo controllava pienamente il potere legislativo, soprattutto dal febbraio del 2019, quando i deputati dell’opposizione scelsero di consegnare i loro mandati parlamentari. Attualmente però controlla anche il potere giudiziario. Ed essendo ormai, purtroppo, una realtà facilmente verificabile che il potere esecutivo in Albania, dal 2013, viene identificato nella persona del primo ministro, allora risulterebbe che lui controlla tutti e tre i poteri che, secondo Montesquieu garantiscono il funzionamento di uno Stato democratico. Da sottolineare però che quando Montesquieu formulava la sua teoria della separazione dei poteri non esistevano i media come un quarto potere, come ormai vengono definiti. Sempre dati e fatti accaduti ed ufficialmente denunciati alla mano, da anni ormai il primo ministro albanese controlla personalmente, o tramite persone a lui legate, anche i media. Una preoccupante e pericolosa realtà questa che si sta evidenziando e si sta aggravando in Albania, giorno dopo giorno! Tutto il resto è semplicemente e vistosamente un disperato tentativo propagandistico per nascondere questa realtà vissuta e sofferta quotidianamente dalla maggior parte dei cittadini albanesi.

    Tornando al fallimento voluto ed attuato della riforma del sistema di giustizia, diventa doveroso evidenziare anche il ruolo che hanno avuto in tutto ciò i “rappresentanti internazionali”. Anche di questo l’autore di queste righe ha scritto spesso ed ha informato sempre il nostro lettore. Come sopracitato, uno degli obiettivi della riforma era la reale e garantita indipendenza del sistema dagli altri poteri istituzionali. L’altro prevedeva la fine dell’impunità dei politici corrotti e colpevoli. Proprio di quei politici che uno dei “rappresentanti internazionali” chiamava i “Pesci grandi”. Ma purtroppo la Riforma ha fallito, anche sotto gli occhi dei “rappresentanti internazionali”, in tutti e due suoi basilari obiettivi. Non solo, ma addirittura ormai non si parla più dell’indipendenza del sistema di giustizia dagli altri poteri. “Stranamente”, da qualche tempo ormai, sia il primo ministro albanese e i suoi rappresentanti che i “rappresentanti internazionali” parlano soltanto e semplicemente della lotta contro la corruzione! Niente più “indipendenza del sistema”! E niente più “politici corrotti e colpevoli”! Un “diabolico” cambiamento di strategia di comunicazione pubblica le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Tranne che del primo ministro e dei “rappresentanti internazionali”, che parlano di successi raggiunti dalla “Riforma”!

    Chi scrive queste righe, anche questa volta, avrebbe avuto bisogno di molto più spazio per evidenziare e analizzare quanto è accaduto e sta accadendo con la “Riforma” di giustizia in Albania. Promette però di riprendere e trattare di nuovo questo argomento molto importante; il fallimento voluto ed attuato di una riforma. Nel frattempo suggerisce a tutti gli autori della “Riforma” e ai “rappresentanti internazionali” quanto scriveva Shakespeare nel suo Re Giovanni. E cioè che quando la legge non può far valere i propri diritti, rendete almeno legittimo che la legge non impedisca di infliggere i torti.

  • In attesa di Giustizia: emergenza continua

    I contagi, purtroppo, segnano una curva in decisa risalita: è in arrivo la seconda ondata, quella in cui nessuno credeva sebbene se ne fosse anticipato il rischio. Non diversamente da quello che sembra accadere nel settore della sanità, invece che lavorare d’anticipo per prevenire i problemi, anche in quello della giustizia si corre ai ripari con un certo ritardo. Piuttosto che niente è meglio piuttosto, si dirà ed è di pochi giorni fa la notizia di un accordo tra Ministro di Giustizia e sindacati del comparto sulla organizzazione di uno smart working lontano dalla versione caricaturale praticata in fase di lockdown, e purtroppo anche oltre, con uffici giudiziari che, se va tutto bene, funzionano tutt’ora a due cilindri (nemmeno a tre…).

    Come si è annotato in precedenti articoli, il personale distaccato a casa non era autorizzato ad accedere ai registri ordinariamente accessibili dall’ufficio ed alla rete protetta: uno smart working all’amatriciana, insomma. Ora, sebbene nulla di preciso si sappia della gara per la fornitura, dovrebbero essere consegnati migliaia di computer portatili, con licenza di accesso ai dati riservati agli uffici. Bene, una volta tanto e se funzionerà, il sistema potrà costituire senz’altro un valore aggiunto anche trascorsa la fase emergenziale.

    Nessuna notizia, peraltro, sul corrispondente accesso smaterializzato degli avvocati agli uffici giudiziari. Male, anzi malissimo perché non servono strumenti tecnologici nuovi ma solo una normativa che autorizzi l’uso della pec per depositare gli atti difensivi: ora, invece, si è costretti ad andare in Tribunale, facendo lo slalom tra divieti, file in assembramento, prenotazione di accessi concessi con evidente fastidio come se l’ingresso fosse facultato a degli untori.

    Vero è che il deposito telematico di atti presuppone una riorganizzazione della fase ricettiva degli stessi, ma è un problema banale da risolvere.

    Massima comprensione per quelle che sono le priorità di chi ci governa, ma oltre ai diritti sindacali, pur legittimi, il diritto di difesa dei cittadini non può essere trascurato prima che questo attivismo a senso unico, sollecitato dalla previsione della possibile ricaduta in condizioni di grave emergenza sanitaria, determini una ulteriore emergenza nell’emergenza.

    E, a proposito di emergenza, sarebbe anche giunto il momento per avere una informazione univoca, chiara e trasparente sui dati reali del fenomeno epidemico, dalla cui dimensione dipenderanno scelte cruciali nelle prossime settimane (tra le quali, dunque, anche quelle relative allo svolgimento dell’attività giudiziaria).

    Lungi da ogni forma idiota di negazionismo, anzi, sono da considerare grottesche le resistenze pseudo-libertarie alle regole di distanziamento sociale ed all’uso della mascherina: ma non si può più negare il dato di una torbidità della informazione sulla epidemia. Anche un analfabeta in matematica, comprende la totale arbitrarietà della comunicazione di numeri dei contagi in valore assoluto, accompagnati a mezza bocca dalla variabile dei tamponi effettuati, come se fosse informazione di contorno.

    Perché si insiste nella diffusione di dati privi del benché minimo rigore statistico?

    Le informazioni di rilevanza pubblica non sono un patrimonio che il Governo di un Paese democratico possa amministrare in modo inspiegabilmente arbitrario, oscuro, nebuloso: ne risentono la vita sociale, l’economia, ovviamente la dislocazione di presidi sanitari e non può trascurarsi il settore della giustizia la cui attesa, altrimenti, con l’aggiunta delle criticità portate dalla epidemia l’attesa diventerà infinita. Insomma, dateci informazioni, invece di dare i numeri.

  • In attesa di Giustizia: nulla di nuovo sotto il sole

    Non è vero che la Giustizia è stata dimenticata dalla politica: ma forse sarebbe stato meglio così.

    Con un preoccupante disegno di legge delega presentato alle Camere già da qualche mese e pronto per essere esaminato, un governo a fine corsa, capace solo di alimentare la sua spinta populista, prosegue con l’obiettivo di demolizione delle garanzie processuali in nome di principi incompatibili con la Costituzione e le regole del giusto ed equo processo.

    E’ stupefacente la ostinata incapacità di comprendere i veri “mali” del sistema processuale penale non meno della dalla pretesa di propagandare come panacea un insieme di inutili, anzi dannose riforme contenute in un progetto che si propone come l’ennesimo spot ed ha come testimonial il Ministro Bonafede: il che basterebbe a valutarne – senza leggere – il livello qualitativo

    L’inclito Guardasigilli, tra le altre cose, nel suo progetto, propone:

    1. di rendere fruibili le prove acquisite durante un dibattimento indipendentemente dal fatto che – con i tempi dei nostri processi è ipotesi frequente – nel frattempo siano fisicamente cambiati i giudici del tribunale: con ciò affidando la decisione a chi può solo leggere ciò che è accaduto ma non ha partecipato, anche formulando domande e ponendo questioni, alla formazione delle prove medesime; 2. di rendere monocratico il giudice di appello, perdendo definitivamente il valore della collegialità e la possibilità di un confronto si questioni delicate; 3. di burocraticizzare i tempi del processo con inutili sanzioni disciplinari anziché con interventi volti a dare concretezza al sacrosanto principio della ragionevolezza dei tempi processuali (il cittadino sarà eterno indagato e merce di ricatto sul terreno della politica); 4. Infine un farsesco incremento dei riti speciali intesi come deflattivi ma rimpolpati di automatismi preclusivi come piace ad ogni legislatore autoritario.

    Il segno dei tempi, direte voi.

    Infatti i Parlamentari sembra che rimangano sordi alle sollecitazioni – molte congiunte – della Avvocatura e Magistratura che hanno, viceversa, indicato la strada virtuosa da seguire.

    Di loro vorremmo ricordarci  come degni rappresentati della nobile funzione legislativa, non come yes men pronti a schiacciare bottoni approvando progetti preconfezionati in nome del nulla. La speranza è l’ultima a morire.

    Nel frattempo sta andando a conclusione il procedimento disciplinare a carico di Luca Palamara: l’accusa ha chiesto la destituzione dall’ordine giudiziario e così sarà all’esito – anche in questo caso – di un processo, piaccia o non l’accusato (e non è che possa piacere molto o ispirare simpatia), certamente tra i meno garantisti cui si sia assistito: perché c’era un colpevole designato cui è stato negato di far sentire la stragrande maggioranza dei suoi testimoni e che è stato giudicato da un collegio composto da molti personaggi in qualche modo coinvolti a loro volta. Un processo dal retrogusto vagamente staliniano e quando questo articolo verrà letto ci sarà già la scontata decisione: una condanna che giunge dopo avere opportunamente evitato approfondimenti per evitare il rischio che saltassero fuori un po’ troppi scheletri fino ad oggi silenziosamente custoditi negli armadi con ciò provando a salvare il salvabile della immagine di una parte della Magistratura, una parte dalla quale – comunque – ci si aspetta che renda giustizia. E la legalità? Restate pure in paziente attesa anche di quella:  non c’è nulla di nuovo sotto il sole.

  • In attesa di Giustizia: tetti di vetro

    Ci risiamo, c’è chi del parlare a sproposito sembra che ne faccia una ragione di vita: mentre è in corso il procedimento disciplinare suo a carico, il P.M. (o ex tale…) Luca Palamara preannuncia – o, forse, minaccia – di fare nuove rivelazioni a proposito delle scelte retrostanti agli attacchi giudiziari nei confronti di Matteo Salvini: e già dalle chat a suo tempo intercettate emergeva che il PD aveva chiesto ai magistrati di incastrarlo.

    Per altro verso si sono sopite ma riecheggiano ancora le voci circa un “aggiustamento” sfavorevole e pilotato della sentenza della Cassazione volta a creare un precedente nei confronti di Silvio Berlusconi che ne avrebbe determinato la decadenza da senatore ed un lungo fermo dalla vita politica attiva.

    Gli atti del procedimento penale riguardante sempre Luca Palamara, per conto loro, si sono rivelati una specie di vaso di Pandora da cui sono fluiti miasmi e liquami che hanno fortemente delegittimato la magistratura essendosi alzato il velo sul diffuso e squallido mercimonio degli incarichi sull’uso strumentale dell’azione giudiziaria, sui mezzucci con i quali – anche a costo di ricorrere alla calunnia – si interveniva per stroncare la carriera di questo o di quel magistrato a seconda di clientele, amicizie, schieramenti, convenienze.

    La realtà si è proposta come molto peggiore di quello che si immaginava e temeva: ora, tuttavia, il Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, bontà sua, rivela di chi è la colpa della deriva morale della magistratura (m, rigorosamente, sempre minuscola): questo unto del Signore è costretto ad ammettere che c’è un problema di corruzione ma la responsabilità è degli avvocati che dovrebbero vigilare sul comportamento dei propri colleghi che inducono in tentazione i poveri giudici solleticandone l’ingordigia.

    Ecco, si va sempre a parare lì: la colpa è degli avvocati che sono disposti a tutto pur di vincere una causa. Nicola Gratteri prima di dare aria alla bocca dovrebbe, per esempio e non è l’unico di questi tempi, dare uno sguardo agli atti del processo a carico di un Pubblico Ministero che esercitava in Puglia (ora arrestato e con il giudizio in corso) che, a tacer di peggio, durante i colloqui con i difensori faceva allusioni del tipo “bell’orologio, avvocato” lasciando intendere che uno analogo come cadeau sarebbe stato gradito e che avrebbe garantito riconoscenza: uno che si era assicurato la copertura dell’allora capo del suo ufficio – attualmente ospite anche lui del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria – e le cui continue e diffuse malefatte sono state svelate solo grazie al coraggio e all’onestà di una giovane sostituta.

    Sì, perché una Magistratura ancora immune da condizionamenti, pulita e coerente con la sua funzione esiste ancora, dei Magistrati che sono leali servitori dello Stato ci sono, ma non sembra proprio che sia il momento migliore per provare a difenderne l’onorabilità gettando fango sull’avvocatura con illazioni completamente fuori luogo perché è la notte del Potere Giudiziario, nella cui oscurità si sono svelati a muoversi veri e propri zombie fuoriusciti  da antri massonici e pronti a succhiare il sangue di una morente democrazia, famelici anche della propria specie che non esitano a cannibalizzare.

    Illustre Dottor Gratteri, un bel tacer non fu mai scritto o, come si dice da qualche parte: chi ha tetti di vetro non tiri sassi al vicino.

  • In attesa di Giustizia: in difesa del diritto di difesa

    Incurante delle proteste e delle forti prese di posizione levatesi in seguito alla morte di Ebru Timtik – di cui questa rubrica si è occupata alcuni numeri fa – il regime di Erdogan ha fatto incarcerare qualche altra decina di avvocati colpevoli solo di avere svolto il loro ministero assistendo dei dissidenti.

    Nel Bel Paese, le cose vanno decisamente meglio – ma non ci vuole, poi, un grande sforzo – rispetto alla Turchia ma la funzione difensiva continua ad essere invisa e mal sopportata almeno da certa parte della Magistratura, oltre che dalla opinione pubblica.

    Accade così che un eccellente avvocato romano, Alessandro Diddi, venga segnalato al competente Consiglio di Disciplina con un esposto – ad iniziativa del Presidente della Corte d’Appello – che censura alcune affermazioni pronunciate nel corso dell’arringa proprio del giudizio di appello del processo noto come “Mafia Capitale” nel quale l’avv. Diddi assisteva ed assiste uno dei principali imputati; affermazioni considerate sconvenienti e lesive del prestigio della magistratura e come tali in violazione del codice deontologico, relative al contenuto di una sentenza con cui la Corte di Cassazione aveva precedentemente, ancora nella fase delle indagini affrontato il tema della custodia cautelare, salvo poi essere smentita nel corso del giudizio.

    Forse, allora, l’avvocato Diddi non aveva tutti i torti a svolgere critiche, magari anche aspramente come può avvenire quando una difesa è molto coinvolgente; e c’è un ulteriore dato, che fa riflettere: sebbene l’arringa incriminata risalga a due anni fa – e pur avendola udita – l’arringa difensiva, curiosamente, i giudici ne hanno rilevato la portata offensiva solo ora (l’esposto è di giugno 2020), evidentemente dopo lunga meditazione.

    Sembra di poter dire che segnalare all’organo di disciplina un avvocato, per il solo fatto di avere adempiuto al suo mandato difensivo, è atto inaccettabile che attenta alla libertà dell’esercizio di difesa anche perché la notizia, sempre a proposito della tempistica, è pervenuta all’interessato solo nel mese di agosto, quando di solito non si muove foglia, e poco prima del suo ritorno in aula per svolgere l’intervento nel processo Mafia Capitale dopo l’annullamento della Cassazione.

    Siamo, fortunatamente, ancora lontani da scenari “turchi” ma dopo le minacce di morte ai Colleghi che hanno accettato la difesa per l’omicidio di Willy a Colleferro si assiste da un ennesimo attacco alla funzione difensiva che è un valore comune e deve potersi esercitare al riparo da atti che ne possano condizionare la libertà, come nel caso dell’avv. Diddi raggiunto da contestazioni inspiegabilmente tardive e perciò ingiustificabili come qualsivoglia reazione postuma.

    E’ sconcertante dover ribadire l’inviolabilità del diritto di difesa, che dovrebbe essere immune dal timore che ciò che si dirà in aula: il rispetto della funzione e della libertà dell’avvocato sono valori comuni ad ogni democrazia ed in tempi di populismo dilagante è bene rispondere con fermezza a simili attacchi che altro non producono se non rendere sempre più vana l’attesa di Giustizia.

     

  • In attesa di Giustizia: la giustizia nel paese reale

    I tempi, i modi della Giustizia, la legislazione sottostante sono l’argomento di questa rubrica e negli ultimi tempi si è visto poco di buono, meno che mai, su tutti questi fronti complice la pandemia.

    Una recente vicenda, che ha molto colpito l’opinione pubblica, però impone di essere commentata: l’omicidio di Willy, il ragazzo di colore vittima di una vile e violentissima aggressione avvenuta a Colleferro.

    Sulla sua morte orribile si è detto e se ne parla ancora moltissimo, i presunti (e, francamente, probabili) responsabili sono stati celermente individuati e tratti in arresto: tuttavia un assassino è tale solo dopo la sentenza che lo ha definitivamente ritenuto tale, altrimenti i processi non servono e la regola forse vale ancora di più quanto  più uno appare colpevole  perché se si cede a questa suggestione la Giustizia è finita e tanto vale trascinare i sospettati in piazza per darli in pasto alla folla inferocita.

    E non c’è minore violenza nello strumentalizzare frasi attribuite alle famiglie degli indagati la cui fonte è incerta, lo è invocare punizioni esemplari, scatenare una caccia al mostro collettiva con tutti i comfort tecnologici, impiegando le chat, i social network, le apparizioni, anche fugaci, sui media. Così significa alimentare la Giustizia che verrà di una carica emotiva rischiando di renderla ingiusta.

    Non è mestieri affrontare il merito della vicenda, senza disporre degli atti che però sono finiti ai telegiornali prima ancora che nella cancelleria del Giudice ed a disposizione degli avvocati. E non è neppure il caso di fare ipotesi: sarebbero solo ragionamenti astratti sulla natura del reato – omicidio preterintenzionale o volontario – le colpe dei singoli partecipi, sulle circostanze.

    Non è questo il punto. Il punto è che tutti dovrebbero sforzarsi di capire che senza un giusto processo (e quelli celebrati su Facebook, a Chi l’ha visto, o durante improvvisati comizi davanti alle telecamere non solo non è “giusto” come la Costituzione vuole ma nemmeno è un processo, senza il rigoroso rispetto del solo meccanismo che autorizza lo Stato a punire un individuo, ma è qualcosa che quello che assume il nome sinistro di vendetta. Insomma, chi invoca: “Dateli a noi”, sul piano etico si comporta esattamente come si sarebbero comportati gli accusati di quel crimine: si fa giustizia da solo e a modo suo.

    E in tutto questo, non poteva mancare l’attacco a chi esercita il mestiere del difensore: gli avvocati sono stati bersaglio di insulti e minacce gravi, confermando che il popolo degli indignati non è migliore dei loro assistiti.

    Per coloro che li denigrano e provano a intimidire sarebbe utile la lettura di una sentenza della Cassazione del 29.03.2000 in cu isi legge che “Il difensore di un imputato, invero, si trova astretto a dover osservare, da un canto, veri e propri doveri giuridici connessi alla nobile funzione che è chiamato a svolgere, espressi attraverso formule dai contorni spesso assai vaghi, ma assicurati dal giuramento che presta prima di entrare a fare parte dell’ordine. È indubbio che l’esercizio del diritto di difesa, in quella accezione particolare riferibile ai soggetti legittimati al patrocinio, ha nel nostro ordinamento il più ampio ambito di espansione, nella prospettiva di assicurare l’effettiva attuazione del principio di cui all’art. 24, 2 comma, della Costituzione. Deve, quindi, essere apprezzata la condotta del difensore, che ha il diritto – dovere, costituzionalmente garantito, di difendere gli interessi della parte assistita nel migliore modo possibile nei limiti del mandato e nell’osservanza della legge e dei principi deontologici e cioè di adoperarsi con ogni mezzo lecito a sottrarre il proprio assistito, colpevole o innocente che sia, alle conseguenze negative del procedimento a suo carico.”  E senza il contributo degli avvocati, l’attesa di Giustizia sarebbe del tutto vana.

  • In attesa di Giustizia: Il potere dei più buoni e altre sconvenienze

    Questo è il titolo della più recente produzione scientifica dell’Avvocato Lorenzo Zilletti, responsabile del Centro Studi “Aldo Marongiu” dell’Unione delle Camere Penali e potrebbe ben essere una raccolta di argomenti che sono stati trattati in questa rubrica: giurisprudenza creativa, disarmonie di sistema, legislazione indigeribile. In due parole: attesa di giustizia.

    Ridotto nelle dimensioni ma ricco di contenuti, con una prosa cinica e lucidamente disincantata, il libro affronta temi di attualità coniugando impegno civile e ironia.

    In attesa di giustizia, dunque: sullo sfondo vi è il malfunzionamento del sistema penale, caratterizzato da un grottesco “rovescio comico della terribilità”.

    Dall’abuso sistematico delle intercettazioni in salsa gossip con la indebita diffusione di materiale penalmente irrilevante sui media nazionali (fenomeno ben descritto ricorrendo all’espediente narrativo di “dieci conversazioni che vorrebbero restare riservate”) e raccontando l’episodio di un praticante inesperto per poi affrontare con una tragicomica riproposizione “all’italiana” del processo a Dominique Strauss-Kahn immaginando come sarebbe andata a finire se avessero processato l’ex ministro dell’Economia francese nella penisola invece che oltreoceano.

    L’ironia, come anticipato, non manca e rende gradevole la lettura anche ai non addetti ai lavori; vi è anche una porzione dello scritto in cui si affronta il principio di legalità penale e processuale che è definito, nel suo irresistibile “vocabolario semiserio” – a cui è dedicata una sezione della seconda parte -, come “materia di studio nei corsi di laurea in archeologia”.

    E proprio a questo principio è dedica tutta la parte finale del pamphlet, o meglio, ne viene celebrato il funerale. Non solo a causa di un legislatore sempre più sciatto, incapace e schiavo del populismo penale, ma anche e soprattutto per via di chi applica, o dovrebbe applicare, le leggi: il giudice. Per Ailletti l’organo giudicante è ormai divenuto un “burocrate creativo” che, abbandonata la sua naturale funzione di arbitro, e quindi di decisore terzo ed imparziale, ha deciso di sfidare il principio di legalità creando nuove norme, aggirandosi “disinvolto nel labirintico sistema multilivello delle fonti fabbricando la regola secondo le proprie preferenze politiche e culturali”.

    D’altronde il titolo è eloquente, proprio come quello di questa rubrica: non c’è spazio per le illusioni, non esistono poteri buoni.

    Qualcosa di molto simile lo disse anche Fabrizio De André secondo il quale certo bisogna farne di strada per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni.

    Forse il pensiero del cantautore non era rivolto esclusivamente al settore del diritto ma si attaglia perfettamente alla amara considerazione secondo la quale solo apparentemente il giudice sta nel mezzo, sul confine che separa il bene dal male. In ogni caso, egli si annovera tra i buoni.

    Raccomandatissimo, buona lettura…in attesa di Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: porte girevoli

    Se ne parla da sempre: della inopportunità che vi siano commistioni tra magistratura e politica. In particolare sono da evitare giri di giostra dalla magistratura alla politica e ritorno che riportano alle più belle pagine di Sciascia. Chi amministra giustizia non ha solo il dovere della imparzialità ma deve anche apparire tale: il che non può essere, dopo avere operato scelte di campo e di schieramento nette, soprattutto laddove ci si debba occupare di uomini che appartengono alla categoria degli avversari politici.

    La notizia non è recentissima, risale a qualche settimana addietro, ma è l’ultima che illustra plasticamente quella inopportunità di cui si è parlato all’inizio: in argomento abbiamo il Dott. Nicolò Marino, già nella Direzione Distrettuale Antimafia di Caltanissetta, ora approdato a Roma, dove è Giudice per le Udienze Preliminari dopo una parentesi come assessore all’energia e ai servizi di pubblica utilità della regione siciliana nella Giunta Crocetta e del quale, in quel segmento di vita, si trovano prese di posizione taglienti contro questo o quel personaggio.

    Ed è lui il GUP che, contraddicendo la Procura della Capitale, ha rinviato a giudizio Luca Lotti: uno dei nomi eccellenti della maxi-indagine sul caso Consip.

    Marino aveva assunto l’incarico di assessore regionale nel dicembre del 2012 e ha ultimato l’incarico di governo il 14 aprile 2014. Sedici mesi in cui la toga è rimasta piegata nell’armadietto del palazzo di giustizia, mentre di lui rimangono agli atti decine di articoli e di dichiarazioni politiche. Particolarmente entusiasta agli esordi, è entrato poi in rotta di collisione con il governatore Crocetta. Con i Dem, peraltro, ha un rapporto equivoco, un amore incompreso. È stato in seguito ad un input di Pierluigi Bersani che il PD, con Crocetta, propose un modello inedito, una Giunta fatta di volti nuovi e certamente strutturati, tra i quali appunto un magistrato antimafia come assessore alle utilities. Con Matteo Renzi – nel 2014 – prova a dialogare, e aggancia il renziano Davide Faraone, come risulta dal verbale di una audizione resa da Nicolò Marino – in veste di ex assessore regionale e non di magistrato, o forse entrambe – davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti.

    Ed eccoci ai giorni nostri, quando non più assessore ma giudice, Nicolò Marino si  ritrova con l’ex pretoriano di Renzi in aula per il quale il P.M. aveva già chiesto l’archiviazione e in udienza sentenza di non luogo a procedere: ma l’ex ministro Luca Lotti dovrà andare a giudizio ugualmente per rivelazione di segreto d’ufficio.

    Indipendenza dalla Procura ovvero questa decisione ha a che vedere con antagonismi politici non sopiti? Non lo sapremo mai, certezze non ve ne sono e non è affatto da escludere che la scelta del giudice Marino sia frutto solo di un giudizio sereno e privo di fattori di inquinamento;  tuttavia sarebbe decisamente meglio evitare anche l’insorgere del dubbio e gli strumenti ci sono: l’astensione per motivi di opportunità oppure, come ha fatto Gianrico Carofiglio, dimettersi dalla magistratura dopo avere ricoperto incarichi politici e dedicarsi ad altro. Ecco, in attesa di Giustizia, magari leggetevi un suo libro: Carofiglio è stato un ottimo magistrato, un senatore scopertosi poco avvezzo ai palazzi del potere (dai quali non è stato particolarmente amato) e al di là delle trame che possono piacere o no, scrive in un italiano impeccabile. Un uomo da cui c’è molto da imparare.

  • In attesa di Giustizia: quaggiù qualcuno ci ama

    Non è una novità e non è la prima volta che se ne parla in questa rubrica: certo si è che la categoria degli avvocati e – più che mai quella dei penalisti – non è ai vertici della scala di popolarità tra la gente comune, almeno fino a quando non incorre nella sfortunata esperienza di una imputazione, certamente non ha tra i suoi fans l’Associazione Nazionale Magistrati, il furore giustizialista alimentato da larga parte della classe politica la illustra come complice dei peggiori criminali.

    In un Paese nel quale, tra le tante, l’infrastruttura di cui si avverte sempre più la mancanza è una immateriale e cioè a dire la cultura, fa piacere leggere queste riflessioni tanto più apprezzate quanto inattese di Isabella Bossi Fedrigotti pubblicate sul Corriere della Sera tempo fa.

    Chi l’avrebbe mai detto che la nota scrittrice avesse un passato come quello che descrive e che ne vada così orgogliosa come traspare dalle sue parole?

    In gioventù ho assunto, controvoglia, qualche patrocinio penale. È stata un’esperienza che mi ha segnato. Poi la vita mi ha portato altrove. La difesa penale è il compito più alto, giusto e nobile che possa svolgere un avvocato, anche la difesa dei più efferati criminali. Ma come? come può essere impresa meritevole difendere i criminali?

    Anche il peggiore degli assassini (o peggio) resta un essere umano. Dovrà giustamente sottostare alla sua giusta pena. Ma non può essere condannato per qualcosa che non ha fatto solo perché è “un infame”, non può essere picchiato o torturato perché “è un mostro”, non può essere condannato sommariamente, con prove dubbie, ad una pena esorbitante perché così chiedono i media, l’opinione pubblica o un magistrato troppo zelante.

    Devi farti dieci anni di galera? Va bene, ma siano dieci e non undici, le accuse siano chiare, le prove siano prove, e debitamente prodotte, la procedura sia rispettata. Per questo ci sono io che ti difendo. Non ti difendo contro la giustizia, ma per la giustizia. Perché tu, anche se assassino, resti un uomo e non diventi carne da macello.

    In secundis, la maggior parte dei criminali – non tutti – son gente ferita, squinternata, squilibrata, ignorante, grezza, impaurita, in una parola debole, che si ritrovano soli in un mondo di ufficiali di polizia, pubblici ministeri, giudici, periti, ecc., tutta gente laureata, di condotta integerrima, che fa il proprio lavoro, inserita in un sistema col suo complesso sistema di regole e regoline e che sono potenzialmente suoi nemici. È giusto che ci sia almeno uno laureato, in giacca e cravatta, che conosce il sistema e non ne è intimidito, che lavora per lui, che è dalla sua parte.

    Ma non diciamo anche noi nel Salve Regina “avvocata nostra”? Tutti finiremo di fronte ad un tribunale a dar conto di quello che abbiamo fatto e non fatto, detto e non detto. Ci vuole un avvocato anche lì, o no?

    Grazie, Isabella, lo dico da avvocato ma prima ancora da cittadino: leggendo queste righe – riportate nella loro originale interezza – scritte con intensa sintesi da chi non è di parte o emotivamente coinvolto forse sarà più facile comprendere quale sia il ministero del difensore, quale la sua cruciale importanza in quella attività così complessa ed impattante nella vita tanto dei presunti autori quanto delle vittime dei reati.

    Un attività volta a contribuire a che si renda giustizia, una giustizia quella degli uomini che sia – se non altro – il meno imperfetta possibile.

Pulsante per tornare all'inizio