Giustizia

  • In attesa di Giustizia: quod deus coniunxit, homo non separet

    Tratto dal Vangelo di Matteo, in diritto canonico questo brocardo esprime il principio della indissolubilità del matrimonio e sembra attagliarsi alla perfezione alla visione che il legislatore (ispirato non poco dalla Associazione Nazionale di categoria) ha delle carriere dei Magistrati: guai a chi osi proporre di separarle come viceversa avviene in molte democrazie occidentali che adottano un sistema processuale accusatorio.

    La separazione, a partire dal concorso di accesso alle funzioni giudiziarie, tra Pubblici Ministeri e Giudicanti corrisponde ad un principio di civiltà pienamente condivisibile ma nel nostro Paese si è resa necessaria una raccolta di firme per dare vita ad un disegno di legge di iniziativa popolare perché di ciò si iniziasse – di malavoglia – a parlarne alle Camere. Dopo un primo passaggio in commissione giustizia, il testo è approdato nei giorni scorsi in Aula sostenuto nel dibattito da parlamentari di ispirazione liberale come Sisto e Costa ma, ahimè, vittima del fuoco di sbarramento (manco a dirlo) di M5S e PD che ha rimandato il d.l. in commissione con raffinati argomenti come quello del Dem Bazoli che paventa la reazione della magistratura. Confessione non necessaria di una politica tenuta sotto schiaffo.

    D’altronde proprio un grande magistrato e giurista come Renato Bricchetti lo ha affermato senza infingimenti: se la magistratura non vuole la separazione delle carriere non se ne farà niente. Dargli torto è impossibile: il PD li teme e i pentastellati sono  il partito  dei P.M., della torsione autoritaria e manettara. Serve altro o c’è ancora chi si illude che se ancora non abbiamo la separazione delle carriere,  l’assetto e l’equilibrio democratico del Paese è assicurato – tra l’altro – da quella dei poteri?

    Ancora Renato Bricchetti, presidente di sezione della Suprema Corte, intervenuto dopo la seduta alla Camera ad un webinar organizzato dall’Unione Camere Penali, con grande onestà intellettuale ha detto: “Le vere riforme non si possono fare con l’accordo di chi le subisce” ed ha, altresì osservato che sono maturi i tempi per una rivoluzione culturale, possibile però solo attraverso una rivoluzione meccanica sulle carriere: con la quale – tra l’altro – viene  restituita autorevolezza indipendenza e forza al giudice, innanzitutto al GIP rispetto al P.M., proprio attraverso la separazione di chi giudica da chi accusa.

    Bricchetti, per chi non lo conosce, è uno che la carriera se l’è separata da solo: nato giudicante non ha mai inteso nemmeno provare la funzione inquirente, come altri hanno fatto, ovviamente, anche a parti invertite. Viene in mente qualche grande Pubblico Ministero rimasto sempre tale, sia pure dando permanente sfoggio di equilibrio, come Carlo Nordio. Ma questi esempi non rappresentano la maggioranza.

    Circa la urgente necessità della separazione delle carriere vi è la prova vivente: Piercamillo Davigo, nato P.M.,  si vantava di avere denunciato alla Procura Militare dei poveri alpini di leva che trovava addormentati durante il turno di sentinella nel corso delle esercitazioni cui partecipava per l’aggiornamento come ufficiale di complemento; passato in seguito, alle funzioni giudicanti in Corte d’Appello a Milano ha lasciato dietro di sè un tappeto di tappi di bottiglie di champagne stappate quando se n’è andato…approdando, peraltro, in Cassazione.

    Pulpito, quest’ultimo, dal quale ha lanciato l’intemerata secondo la quale non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca.

    Il disegno di legge sulla separazione delle carriere, con buona pace del valore aggiunto dato dal fatto che è di iniziativa popolare, viene in buona sostanza destinato ad un freezer parlamentare, Davigo e i suoi emuli, i suoi epigoni, l’Eccellenza Bonafede,  la redazione intera del Fatto Quotidiano, possono tornare a sorridere. E anche stavolta la Giustizia può attendere.

  • In attesa di Giustizia: sbatti il mostro in prima pagina

    Un cane che morde un uomo non è una notizia: lo è il contrario e così nulla vi è di più ghiotto – per chi si occupa di cronaca giudiziaria – di un operatore del settore del diritto che finisce sotto processo.

    Accadde così un paio di anni fa, e ne trattò anche questa rubrica, che l’avvocato romano Francesco Tagliaferri venisse indagato per rapporti suppostamente illeciti con esponenti della criminalità organizzata; autentico galantuomo, penalista di grande esperienza e notorietà del Foro di Roma, Tagliaferri fu messo immediatamente alla gogna da parte dei media che – come da consuetudine – più che riferire una notizia trattavano l’argomento con ampio risalto in termini che, sostanzialmente erano l’anticipazione di una sentenza di condanna. Comunque sia, Tagliaferri fu pubblicamente crocifisso per colpe tutt’altro che dimostrate.

    Per fortuna in questo Paese l’attesa di Giustizia non è sempre caratterizzata da tempi biblici e neppure le sentenze sono frutto del “modello Venezia” di cui abbiamo parlato proprio la settimana scorsa: già decise, con tanto di motivazione, prima ancora che si celebri il processo: il percorso giudiziario di Francesco Tagliaferri è stato abbastanza celere e si è di recente concluso con un’assoluzione. Assoluzione di cui nessuno ha parlato, non una riga neppure sui quotidiani della Capitale, qualcosa – tutt’al più – si trova sulla free press o setacciando Google sebbene il suo difensore abbia inviato un brevissimo comunicato stampa alle agenzie ed alle testate giornalistiche (soprattutto quelle che si erano avventate sulla notizia di un avvocato che “si vende l’anima per soldi” diventando favoreggiatore di una banda di narcotrafficanti).

    Gli avvocati, del resto, si sa che non sono esattamente dei beniamini dell’opinione pubblica e meno di tutti lo sono i penalisti che vengono sovente dipinti come complici dei loro assistiti, dunque il silenzio è il minimo che ci si debba aspettare quando viene ristabilita la verità e restituito l’onore a chi si è tentato di toglierlo con accuse azzardate e ingiustificato clamore mediatico.

    Nel frattempo a Piacenza un magistrato di grande valore ed esperienza, il Procuratore Grazia Pradella, al termine di un’indagine delicatissima condotta con largo impiego di tecnologie audio – video ne ha illustrato i contenuti e commentato gli arresti di tutti i Carabinieri, compreso il sottufficiale in comando, appartenenti ad una stazione dell’Arma che è stata messa – caso unico nella storia – sotto sequestro. I militari sono accusati di reati molto gravi, talune evidenze appaiono piuttosto solide (filmati e intercettazioni ambientali) e, comunque, vale anche per loro la presunzione di non colpevolezza.

    Il seguito delle investigazioni ed il processo accerteranno le responsabilità di ognuno, se vi sono; nel frattempo, tuttavia, c’è qualcuno che non ha perso l’occasione di parlare a sproposito dimenticandosi di collegare la bocca al cervello, ammesso che in quest’ultimo abiti almeno uno sperduto neurone.

    Non facciamo nomi, sebbene il soggetto in questione sia stato in proposito anche intervistato in un programma radiofonico molto seguito: basti dire che si tratta di un ex deputato M5S privo di qualsiasi competenza in materie giuridiche in ragione del suo differente percorso di studi, anche questo verosimilmente seguito alle scuole serali ma al buio.

    Ebbene, trattando dell’arresto di questi Carabinieri il sociologo dell’ultim’ora ha messo in evidenza come si tratti di sei meridionali su sei ed ha annotato che – sebbene essere meridionale non significhi essere delinquente – vi è sicuramente una predisposizione genetica a fare del male in chi è nato in un Sud arretrato dal quale proviene la maggior parte dei delinquenti: come esempio ha citato la mancanza di valtellinesi dediti a sciogliere i bambini nell’acido.

    Sociologia criminale di infimo livello alimentata da una notizia che, anche questa volta, si assimila a quella dell’uomo che morde il cane e non viceversa: chi è estraneo alla vicenda, non conoscendo gli atti, dovrebbe astenersi da ogni commento e meno che mai da analisi di impronta vagamente lombrosiana. Ma tant’è: a margine vi è solo da rallegrarsi che il nostro già disastrato sistema giustizia non disponga del processo con giuria se il rischio è che ci finiscano personaggi simili.

    In ogni caso e per trarne le dovute conclusioni, sappiano i lettori de Il Patto Sociale che io sono meridionale. Ma ho anche tanti difetti.

  • In attesa di Giustizia: salvis iuribus

    Salvis iuribus è una locuzione latina utilizzata in giurisprudenza – generalmente apposta in calce a lettere o atti – che sta a significare: fatti salvi i diritti.

    In pratica è una formula che serve ad indicare l’intenzione di chi scrive di avvalersi di tutti i mezzi consentiti e previsti dalla legge per tutelare i propri diritti: secondo prassi viene annotata al termine degli atti introduttivi delle cause civili ma ciò non toglie che chi è sottoposto ad un processo penale abbia ampia facoltà di estendere le proprie ragioni (con testimonianze, consulenze, controinterrogatorio dei testimoni a carico, e la deposizione propria a discarico) la cui sintesi è affidata all’arringa dell’avvocato in cui consiste il culmine del processo, l’atto finale prima della decisione.

    In sostanza, un processo non può e non deve essere deciso prima che l’intero insieme delle evidenze a discolpa sia illustrato dal difensore in una corretta dialettica con l’organo dell’accusa che conclude per primo.

    Sembra, peraltro, che non sempre così vadano le cose: talvolta si scopre che vi sono addirittura sentenze scritte prima del giudizio, era già capitato a Brescia qualche tempo fa, è successo un paio di settimane fa e nuovamente a Venezia, in Corte d’Appello.

    La sensazione, forse più di una sensazione, che simili accadimenti siano tutt’altro che isolati ed infrequenti c’è e c’è sempre stata basandosi su taluni indicatori: ma quando il sospetto diviene una certezza, lo sgomento non è minore. Sarà che la speranza è l’ultima a morire e nella Giustizia, intesa come categoria dello spirito comportante vincoli etici e indicazioni culturali inderogabili, si continua a credere. Magari a torto, da quel che si vede.

    E’ necessario premettere e chiarire in Corte d’Appello – per legge – il processo inizia con la relazione fatta da uno dei tre magistrati il quale illustra cosa è accaduto nel precedente grado di giudizio, sintetizza la sentenza di primo grado e le ragioni di ricorso dell’appellante.

    A Venezia, come anche altrove, è invalso l’uso di trasmettere, con posta elettronica qualche giorno prima dell’udienza, la relazione ai difensori ed al Sostituto Procuratore Generale assegnatario del fascicolo: un metodo più che accettabile che consente di dedicare più tempo a discussione e decisione ma…invece che la relazione è accaduto che agli avvocati sia stata spedita una bozza di motivazione di condanna, per di più frutto evidente di un “copia e incolla”. Altro che salvis iuribus: siamo di fronte al fenomeno delle condanne anticipate, alla ritenuta superfluità del processo. Il passo successivo ricalcherà – per chi la ricorda – la trama di Minority report?

    Poco convincente la spiegazione data dai vertici degli Uffici Giudiziari della Laguna: si tratterebbe di un sistema invalso di bozze contenenti ipotesi di decisione redatte sulla base di uno schema fisso. Sarà, ma guarda caso sono sempre bozze di sentenze di condanna (fu così anche a Brescia, nel precedente analogo e noto) con buona pace della presunzione di innocenza.

    Gli avvocati del Foro di Venezia sono insorti e hanno chiesto al Ministro l’invio degli ispettori: il seguito lo sapremo, forse, nelle prossime puntate.

    Nel frattempo sta per iniziare anche il processo disciplinare a carico di Luca Palamara il quale – per una prima volta, seguirà poi il processo penale – sta verificando cosa significhi difendersi avendo gli strumenti per farlo e ha depositato una lista con circa 130 testimoni: nei processi, per vero, conta di più la qualità che non la quantità di chi depone e qui sembra che la prima, con moltissimi nomi di persone coinvolte nelle sue trame, scarseggi un po’. Ma la giustizia deve seguire il suo corso ordinario ed ordinato ed anche per l’ormai ex P.M. vi è da augurarsi che le regole siano rispettate e non che una decisione sia già scritta ed avvenga al grido di “muoia Sansone con tutti i fi…libustieri!”

  • In attesa di Giustizia: cucchiaio di legno

    Il cucchiaio di legno è il trofeo destinato alla nazionale di rugby che si classifica ultima nel torneo chiamato Sei Nazioni e deriva il suo nome da una antica tradizione dell’Università di Cambridge secondo la quale gli studenti con i voti di profitto più bassi veniva scherniti con la consegna di un simile utensile da cucina: da inizio millennio la nostra nazionale di palla ovale lo ha vinto già quattordici volte.

    Se un analogo riconoscimento ci fosse anche per l’amministrazione della Giustizia, non avremmo rivali: durante il question time  l’ineffabile Bonafede ha rilevato la impraticabilità a breve – per motivi burocratici e di logistica – del reimpiego degli immobili (chiusi ed inutilizzati) delle sedi giudiziarie soppresse al fine di aumentare il numero delle udienze, assicurando il distanziamento fisico ed aggredendo l’arretrato enorme che si è creato durante il lockdown. Certo, tutto ciò è inevitabile se ci si pensa solo adesso… peraltro, il Guardasigilli si è autocelebrato affermando di aver affrontato degnamente la crisi e di aver fatto il possibile per far uscire la Giustizia dalla paralisi dovuta al Covid – 19. A fonte della accertata Caporetto del sistema il cucchiaio di legno è meritatissimo come il suggerimento di cambiare pusher: evidentemente gli vende roba di cattiva qualità.

    Nel frattempo, invece che dedicarsi a qualcosa di più costruttivo nel settore, sembra che il Senato sia impegnato nell’esame di un disegno di legge che prevede di istituire una giornata di commemorazione delle vittime di errori giudiziari, Enzo Tortora in primis. Inutile dire che PD e M5S hanno votato contro e vi è da presumere che la posizione del Guardasigilli corrisponda a quella del suo partito.

    Sarà…ma la giornata di celebrazione degli errori dello Stato in danno dei cittadini è una di quelle cose che, se non ci fosse da piangere, dovrebbe far ridere.  Purtroppo – anche per i soldi sborsati dai contribuenti in risarcimenti – non c’è proprio nulla da ridere.

    A voler cercare il pelo nell’uovo (ed il legislatore certe cose dovrebbe saperle), il nome scelto non è neppure corretto: errore giudiziario è quello che definisce una sentenza irrevocabile che si scopre, in seguito ad un procedimento di revisione, essere sbagliata, non un arresto seguito da assoluzione. Tortora non c’entra nulla perché alla fine, fu assolto e le sentenze soggette a revisione non sono moltissime come le carcerazioni preventive ingiustificate.

    Sono, invece numerosi – se ne è trattato in altre occasioni su queste colonne –  i casi di arresti ingiusti, seguite da riparazioni economiche che, tra l’altro, pesano sul bilancio dello Stato. Forse si dovrebbe chiamare “giornata delle misure cautelari sbagliate”:  cacofonico, ma renderebbe meglio l’idea.

    Così facendo, però, dovremmo interrogarci su un sacco di cose, a cominciare dalla facilità con la quale si emettono i provvedimenti restrittivi e, inevitabilmente, rendersi conto che servono una riforma del codice e dell’ordinamento giudiziario (compresa la responsabilità civile dei magistrati), altro che una inutile giornata della memoria.

    Insomma, per esemplificare: se quello che leggiamo è tutto vero, errore giudiziario è la condanna di Silvio Berlusconi. Il caso Tortora, invece e semmai, è la prova che, a volte, le cose funzionano: lentamente ed anche con il sacrificio della libertà. Da noi l’attesa di Giustizia ha i suoi tempi, spesso pagando il prezzo di milioni di euro all’anno di risarcimenti e richiami della CEDU per i più disparati motivi: in compenso è sempre garantita la vittoria di un cucchiaio di legno del settore.

    Manuel Sarno

  • Similitudini

    …La corruzione è dappertutto, il talento è raro. Perciò, la corruzione è

    l’arma della mediocrità che abbonda, e voi ne sentirete ovunque la punta.

    Honoré de Balzac; da “Papà Goriot”

    Così diceva convinto Vautrin al giovane Eugene de Rastignac. Correva l’anno 1819. In quel tempo tutti e due vivevano a Parigi. Vautrin, ladro e usuraio, era stato condannato ai lavori forzati, ma era evaso appena aveva potuto. Il suo vero nome era Jacques Collin, ma negli ambienti della malavita parigina lo avevano soprannominato ‘Inganna-la-morte’ (Trompe-la-Mort). La polizia lo stava cercando dappertutto, perché era una persona molto pericolosa. Eugene de Rastignac invece, uno dei personaggi non solo del romanzo Papà Goriot, ma anche di molti altri romanzi della Commedia Umana di Balzac, era un giovane di 21 anni, arrivato a Parigi per studiare legge. Lui non sapeva niente di Vautrin. Un giorno Vautrin cercava di spiegare a Rastignac che in questo mondo “non ci sono principi, ma soltanto eventi. Non ci sono leggi, ma soltanto circostanze”. E che “…l’uomo intelligente si adatta agli eventi e alle circostanze per dominarle”. Vautrin consigliava a Rastignac di “non insistere con le proprie convinzioni”, e nel caso servisse, se qualcuno glielo chiedeva, “doveva vendere i suoi principi”. Si, proprio vendere, in cambio di soldi o altro! Vautrin rappresentava a Parigi la “Società dei diecimila”, che era un raggruppamento non di ladri comuni, ma “di ladri di alto livello”. E lui gestiva enormi quantità di denaro per conto della Società. Balzac ci racconta che i soci erano persone che “non si sporcano le mani per delle piccole cose e non si immischiano in affari se non riescono a guadagnare, come minimo, diecimila franchi”. Da buon usuraio qual era, Vautrin vede anche in Rastignac una persona dalla quale poteva approfittare, essendo lui un povero giovane di provincia, ma ambizioso ed arrivista, Vautrin propone a Rastignac un accordo, dal quale poteva avere un guadagno del 20% come commissione. Accordo che non si concluse, anche perché, finalmente, Vautrin viene arrestato dalla polizia.

    Duecento anni dopo quegli eventi, maestosamente raccontati da Balzac nel suo romanzo Papà Goriot, le cose si ripetono, generando, tra l’altro, delle similitudini. In ogni parte del mondo, così come in Albania. Guarda caso, l’attuale primo ministro viene chiamato anche il “signor 20%”. Lo hanno soprannominato così dopo le diverse accuse pubbliche, fatte da quando era il sindaco di Tirana. Secondo quelle accuse lui, o chi per lui, chiedeva ai costruttori una commissione del 20% dell’investimento in cambio del permesso per costruire. Durante questi ultimi anni il primo ministro albanese è stato accusato ripetutamente e pubblicamente, documenti alla mano, in albanese e in altre lingue, di molti fatti gravi. Le accuse pubbliche riguardavano e riguardano, tra l’altro, gli stretti legami che lui, e/o chi per lui, ha con la criminalità organizzata. Legami che si basano su un solido supporto reciproco. Una collaborazione quella, che secondo le documentate e ripetute accuse pubbliche, ha permesso al primo ministro i suoi due mandati istituzionali e altre vittorie elettorali. Mentre alla criminalità organizzata ha garantito affari miliardari. Compresi, tra l’altro, la diffusa coltivazione della cannabis su tutto il territorio nazionale e il traffico illecito di stupefacenti. Traffico che continua indisturbato, come dimostrano i fatti resi noti dalle procure dei paesi confinanti, ma soprattutto quelle italiane. Soltanto una settimana fa è stato sequestrato sulle coste italiane un grosso carico di droga proveniente dall’Albania.

    Il primo ministro albanese è stato accusato di aver nascosto delle condanne in altri paesi europei. Accuse fatte, anche quelle, sia in albanese che in altre lingue. Una decina di giorni fa un noto collezionista di icone, durante un’intervista televisiva in prima serata, ha ripetuto la sua accusa. E cioè che l’attuale primo ministro albanese è stato arrestato e condannato in Francia agli inizi degli anni ’90 per traffico di icone rubate! Quella del collezionista, durante l’intervista televisiva una decina di giorni fa, non era soltanto una ripetuta accusa ma, come ha dichiarato lui, era anche una sfida pubblica al primo ministro. Ad oggi però, il primo ministro, che ha denunciato ufficialmente “per calunnia” molte persone, compresi politici, giornalisti e/o redazioni di giornali e altri media in Albania e in altri paesi, non ha detto neanche una sola parola e non ha presentato nessun ricorso “per calunnia” contro il collezionista di icone. E se fossero vere le accuse fatte dal collezionista, ma non solo da lui, sia in albanese che in altre lingue, allora si aggiunge un’altra similitudine tra il primo ministro albanese e Vautrin.

    Le similitudini non finiscono qui però. Sempre in base alle tante denunce e accuse pubbliche, risulterebbe che il primo ministro albanese sia anche il rappresentante istituzionale degli interessi miliardari di certi raggruppamenti occulti locali ed internazionali. Guarda caso, un altra similitudine con Vautrin, che era il rappresentante della sopracitata “Società dei diecimila”, come ci racconta Balzac nel suo romanzo Papà Goriot. Il nostro lettore conosce ormai l’emblematico caso del barbaro e vigliacco abbattimento, notte tempo, il 17 maggio scorso, dell’edificio del Teatro Nazionale, in pieno centro di Tirana. Si tratta proprio del caso per eccellenza che dimostra e testimonia la stretta collaborazione tra il potere politico con la criminalità organizzata e certi clan occulti. Una pericolosa collaborazione che sta alle fondamenta della nuova dittatura sui generis ormai restaurata ed operativa in Albania. L’unica incognita, almeno pubblicamente, è chi comanda in quella “combriccola”. Tutti ormai sanno però, che l’abbattimento del Teatro Nazionale rappresenta un affare criminale miliardario, che parte dal riciclaggio del denaro sporco, proveniente dai traffici illeciti e dalla corruzione ai più alti livelli, per poi continuare con grossi investimenti e introiti garantiti. Per agevolare ed ufficializzare tutto ciò, il primo ministro albanese presentò ed approvò in Parlamento una “legge speciale”, in piena estate del 2018, per passare in grande fretta la proprietà pubblica ad un privato, noto cliente del potere politico. Ormai il riciclaggio del denaro sporco è un’allarmante realtà in Albania. Una realtà che è stata testimoniata, tra l’altro, anche dai due ultimi rapporti annuali del MONEYVAL (Comitato di esperti per la valutazione delle misure contro il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo; una struttura del Consiglio d’Europa). Dai rapporti si evidenzia che “…la corruzione rappresenta grandi pericoli per il riciclaggio del denaro in Albania”. E che “…l’attuazione della legge, ad oggi, ha avuto una limitata attenzione per combattere la corruzione legata al riciclaggio del denaro”! Il nostro lettore è stato informato di tutto ciò (Abusi e corruzione anche in tempi di pandemia; 4 maggio 2020). E non poteva essere diversamente, con un simile “rappresentante istituzionale” qual è il primo ministro albanese. Come era anche Vautrin per la sopracitata “Società dei diecimila”. E queste sopracitate sono soltanto alcune delle similitudini tra i due.

    Chi scrive queste righe trova attuale quanto scriveva Balzac nel suo Papà Goriot. E cioè che anche in Albania nel 2020, come in Francia del 1819, la corruzione la trovi dappertutto. Ed è l’arma della mediocrità che abbonda, la cui punta si sente ovunque. L’autore di queste righe è convinto però che, diversamente da quanto accadeva a Parigi nel 1819, dove Vautrin veniva arrestato dal sistema della giustizia, in Albania nel 2020 il sistema della giustizia è controllato personalmente proprio dal primo ministro. Nel 1819 Vautrin consigliava a Rastignac che, se servisse, “doveva vendere i suoi principi”. Mentre il primo ministro albanese, nel caso abbia mai avuto dei principi, ormai li ha già venduti ai richiedenti. Ad un buon prezzo però!

  • In attesa di Giustizia: 1984

    Ci mancava solo questa: a distanza di anni, salta fuori un nastro, sul quale è incisa la voce di un magistrato – purtroppo (od opportunamente, a seconda dei punti di vista) deceduto e quindi impossibilitato a confermare o smentire – che racconta a Berlusconi e a qualcun altro che la sentenza dell’agosto 2013 fu dettata da ragioni politiche e non giuridiche.

    Non c’è niente da fare, meritiamo di morire di intercettazioni perché viviamo di intercettazioni: aveva ragione Orwell, il grande fratello come oggi  lo conosciamo è arrivato forse un po’ dopo il 1984 ma ormai è tra noi e ci  osserva senza tregua.

    Poniamo l’attenzione, per un istante, su una serie di ovvietà e proviamo a trovare una sintesi a margine di questa ennesima, sconcertante, vicenda:

    1. quella sentenza non convinceva e neppure la premura con cui venne disposta la discussione del ricorso in periodo feriale senza che vi fossero reali ragioni di urgenza;
    2. il sospetto vi è sempre stato che le azioni giudiziarie contro Silvio Berlusconi (e il modo in cui erano condotte) non fossero del tutto immuni da condizionamenti metagiuridici (fermiamoci qui, il rischio querele inizia a corrersi un po’ troppo spesso);
    3. è molto singolare che un magistrato confessi il più grave tra i peccati giudiziari al diretto interessato;
    4. perché attendere che il magistrato fosse morto per svelare il contenuto del colloquio?
    5. perché tutto questo capita oggi, in piena bufera per il caso Palamara?
    6. la causa civile intentata a Milano da cui è emersa questa “verità rivelata” non sarà stato un espediente per ottenere proprio questo risultato?
    7. chi ha deciso la causa civile, peraltro, appartiene all’ordine giudiziario esattamente come coloro che condannarono Berlusconi.

    Ovvietà che ci fanno intendere come la questione vada presa con le molle, in ogni caso.

    Resta, però, il fatto che, ancora una volta, tutto nasce (e muore) in una intercettazione, occulta o compiacente che sia e che, attraverso il contenuto di un nastro (o di un file), emergano fatti o verità di cui nessuno sapeva niente e che dipendono esclusivamente da quel nastro.

    Moriremo di intercettazioni. Anzi: ci intercetteremo tutti, precostituendoci prove da usare, prima o poi, pro o contro qualcuno. E nessuno crederà più a nulla, o saremo tutti dannati.

    D’altra parte, siamo sulla strada giusta: la credibilità dei magistrati è compromessa; i processi si fanno in tv; le vicende giudiziarie non si chiudono mai.

    Ci mancava solo questa: è il trionfo del relativismo di cui parlava quel sant’uomo di Ratzinger.

    E, intanto, l’attesa di giustizia continua.

  • In attesa di Giustizia: chi entra, chi esce

    Storie di questi giorni, apparentemente diverse ma con un minimo comune denominatore: si tratta di un arresto ed una scarcerazione, entrambe fanno scalpore ed entrambe fanno gridare all’ingiustizia ma – in realtà –  c’è giustizia in entrambi i casi.

    Emilio Fede stava scontando una condanna definitiva in regime di detenzione domiciliare nella sua abitazione di Milano. Essendo un beneficio consentito dall’ordinamento penitenziario, aveva chiesto al Magistrato di Sorveglianza di potersi recare a Napoli per incontrare la moglie che non vede da tempo e festeggiare con lei il suo ottantanovesimo compleanno.

    Dando per scontata l’autorizzazione (in effetti l’istanza era priva di controindicazioni), il giornalista si organizza la trasferta: Frecciarossa, pernottamento in un albergo sul lungomare e una cena romantica con vista sul Borgo dei Pescatori. Senza aspettare che gli venga notificato quel permesso cui aveva diritto, Emilio Fede esce di casa e parte in direzione Napoli: una città che, con la sua struggente bellezza, può essere complice di amori mai sopiti o da ritrovare.

    Non doveva e non poteva andare così: l’impazienza doveva essere contenuta e misurata sul provvedimento del Magistrato e, attenzione, perché da noi, quando vuole la Giustizia sa essere implacabile e rapidissima: più che altro, in questo caso, l’evasione viene scoperta – perché tale, tecnicamente è – in quanto Emilio Fede aveva avvisato i Carabinieri di Milano che sarebbe partito; viene così individuato senza difficoltà, definirlo latitante è pure tecnicamente corretto e quindi viene  prelevato da ben quattro uomini delle Forze dell’Ordine che lo riconducono in albergo con obbligo di permanervi fino a nuove determinazioni dell’autorità giudiziaria. Per tutta una serie di ragioni, anche queste corrette, che per brevità vengono omesse non viene condotto in carcere. A quasi novant’anni, per una pizza annunciata insieme alla moglie sarebbe stato anche un po’ troppo…

    Giustizia, dunque è fatta non senza richiamare il brocardo dura lex sed lex: qualcuno su questa vicenda ci ridacchia e passa oltre, qualcuno sicuramente pensa che “se l’è cercata e gli sta bene”.

    L’altra storia, invece, è quella che ha sgomentato il Guardasigilli facendo gridare allo scandalo uno stuolo di indignati in servizio permanente effettivo: Massimo Carminati, imputato principale del processo c.d. Mafia Capitale è stato scarcerato perché si è fatto cinque anni e sette mesi di custodia cautelare, senza che nei suoi confronti sia intervenuta una sentenza irrevocabile di condanna. Lo prevede la legge, prima ancora la Costituzione: non si può restare detenuti in eterno nell’attesa di una sentenza definitiva, ci sono dei termini e non sono nemmeno brevi. Quando la condanna di Carminati diventerà irrevocabile tornerà in carcere, sempre che la Corte d’Appello di Roma gli infligga una condanna ad un periodo di reclusione superiore alla carcerazione già subita, dal momento che la Cassazione ha detto quello romano non era un aggregato mafioso. Implacabile anche lui, il Ministro della Giustizia ha subito mandato gli Ispettori per verificare cosa fosse successo ma in fondo bastava procurarsi un codice di procedura, pochi articoli dal 303 in avanti e se per l’Eccellenza Bonafede un codice è troppo, per calcolare la durata massima della carcerazione preventiva può bastare qualcuno che gliela spiega e un calendario. Morale? Due storie tanto diverse e tanto simili, come si diceva all’inizio anche se un po’ complicate da capire per i non addetti ai lavori che, forse, su queste colonne si è contribuito a comprendere verificando che, nonostante tutto, conserviamo un barlume di Stato di diritto, pure per i malacarne.  Ancora difficile da comprendere per i giacobini de noantri? Può darsi e viene in mente il pensiero di un vecchio, grande, avvocato: il diritto è una materia ostica per me, figuratevi per voi.

  • In attesa di Giustizia: non guardate nell’abisso

    Qualcuno ricorderà la vicenda di Martina Rossi, studentessa genovese ritrovata morta dopo essere precipitata dalla camera dell’hotel di Palma di Maiorca ove stava trascorrendo un periodo di vacanza e che – secondo l’accusa – stava cercando di sfuggire ad un tentativo di stupro raggiungendo un terrazzo adiacente.

    Il fatto è di nove anni fa e poteva essere comprensibile non serbarne memoria, se non fosse che – con i tempi della nostra giustizia – si è celebrato un paio di settimane fa il giudizio di appello per i due imputati richiamando l’attenzione sulla cronaca giudiziaria con una vicenda obiettivamente grave ed un processo delicato, senza contare la penuria di notizie in questo settore in periodi di covid – 19 e sostanziale chiusura dei Tribunali.

    Infatti, sin dalle prime ore del mattino e sebbene in ruolo ci fossero altri giudizi da trattare, nell’aula destinata e nella area antistante si andava allestendo una selva di microfoni e telecamere che avrebbe accompagnato il processo, con buona pace del divieto di assembramento…per non parlare delle condizioni in cui rischiava di versare l’indipendenza del Giudice: al sicuro quanto l’aplomb di un ultras quando l’arbitro fischia un rigore al novantesimo contro la sua squadra del cuore.

    L’attesa era, ovviamente, per una conferma della sentenza di condanna: la morte tragica di una giovane impone che ci sia un colpevole, anche un colpevole purchessia perché questo è il Paese dove – secondo la linea di pensiero propugnata da Piercamillo Davigo – innocenti non ve ne sono ma solo malvissuti che riescono a farla franca.

    Non era difficile prevedere che se la Corte avesse pronunciato una sentenza di proscioglimento si sarebbe scatenato l’inferno. E così è stato, nonostante le pressioni mediatiche e della folla in fermento: assoluzione.

    Occasione ghiottissima per dare sfogo a reti unificate alla solita sceneggiata giustizialista in cui si strumentalizza la sofferenza delle vittime e dei loro parenti per sostenere che le tesi dell’accusa sono verità rivelate e che i processi e le sentenze sono, nel migliore dei casi, inutili orpelli pretesi da quei complici occulti degli imputati che sono i loro difensori.

    Sulla notizia si è anche avventata una trasmissione che fa audience proprio con i dolori altrui: e quando tutto questo va in onda sul Servizio Pubblico, senza che vi sia una conoscenza puntuale degli atti ed in mancanza di una motivazione della sentenza è, tutto sommato, un’aggravante.

    Nell’attesa dei cittadini, quelli in nome dei quali viene amministrata la giustizia per dettato costituzionale, non c’è, evidentemente, un argomento razionale che spieghi per quale ragione questa sentenza, come mille altre in precedenza, sarebbe stata giusta solo se avesse condannato qualcuno.

    Il nostro sembra essere diventato l’unico paese al mondo nel quale ogni assoluzione è vissuta come una sconfitta della Giustizia, una infamia intollerabile. Non si conosce il processo bensì solo una decisione ancora priva di argomenti a sostegno ma se non si getta in pasto alla pubblica opinione una condanna e, quel che più conta, un condannato l’armageddon manettaro si mette in moto inesorabile. D’altronde e non a caso, Davigo una poltrona nei salotti televisivi la trova sempre, e di rado con dei contraddittori, nella incessante semina del pensiero unico forcaiolo.

    E’ notizia di questi giorni che sono stati arrestati alcuni “indignati speciali” che si aggiravano armati di coltello nei pressi delle abitazioni dei due imputati assolti con intendimenti più che chiari.

    Forse è inutile aspettare Giustizia, se questo è l’abisso di inciviltà giuridica in cui siamo precipitati ed al quale sarebbe meglio non guardare perché, poi, l’abisso guarderà dentro di noi.

    Manuel Sarno

     

     

  • In attesa di Giustizia: ma quale cabina di regia? Ma mi faccia il piacere!

    Ci siamo: riprende con normalità – o quasi, o forse no – la funzione giurisdizionale che è sostanzialmente ferma da mesi con immaginabili ripercussioni di cui abbiamo già trattato in precedenza.

    Il Guardasigilli ha preannunciato la costituzione di un team di esperti che guiderà la Giustizia, organizzando il lavoro dei tribunali in sicurezza, verso nuovi traguardi di efficienza e garanzie che consentiranno di recuperare il tempo perduto durante la fase più critica dell’emergenza epidemiologica ed, anzi, condurre verso un radioso futuro cui guardare con ritrovato ottimismo.

    Per il momento, una cosiddetta “cabina di regia nazionale per la gestione dell’attività giudiziaria durante la fase 2 dell’emergenza da Covid-19” istituita il 22 maggio ha prodotto – sempre che sia stata almeno in parte opera sua: la circostanza non è chiara – una circolare sulla ripresa a pieno regime dal 1° luglio il cui contenuto si può così sintetizzare. “la supercazzola brematurata con scappellamento a destra, per due, come fosse antani e tarapiotapioco”. E si badi: riapertura trionfalmente annunciata a ridosso delle ferie giudiziarie già calendarizzate con ammirevole solerzia dal Consiglio Superiore della Magistratura.

    Cabine di regia, trusts di cervelli al lavoro, risorse umane, economiche e nuove tecnologie promesse senza risparmio…ma arriveranno risultati concreti o dovremo accontentarci di documenti programmatici di contenuto commisto tra la opacità e il banale?

    L’esperienza appena trascorsa non fa ben sperare e se ne è scritto in proposito più volte: la Giustizia non è stato ritenuto un servizi essenziale se è vero come è vero che l’attività giudiziaria  è stata ridotta al minimo assoluto, in assenza di linee guida dal vertice dell’Amministrazione che non fosse un’indicazione di massima di chiusura e lasciando ai Capi dei singoli Uffici le scelte sul territorio, in ragione della diffusione del contagio: così stimolando una babele di determinazioni anche a livello di singolo circondario o distretto e – di fatto – cessando, salvo marginali eccezioni ogni attività.

    Era una promessa fatta dallo scorso numero de Il Patto Sociale: indicare quali attività si sarebbero potute organizzare nei Tribunali senza venir meno ai presidi di sicurezza, partendo dal presupposto che ci sono punti vendita del Conad più piccoli di molte aule di giustizia dove ingressi, igiene, distanziamento fisico, sono stati gestiti senza difficoltà. E dove non ci sono i Carabinieri o guardie giurate a controllare all’entrata.

    Era sufficiente prevedere uno sfoltimento dei ruoli di udienza – con una previsione di orario non complicata – e notifiche via pec, indicando per la celebrazione solo quei processi nei quali era stato previsto un patteggiamento sulla pena, una remissione di querela per conseguenza di riparazione del danno, la semplice lettura del dispositivo di sentenza. E, poi, ancora: udienze di opposizione ad archiviazione, qualche giudizio abbreviato di modesta portata per tipologia di imputazioni e numero degli imputati. Sarebbe stato, invece, più complicato celebrare udienze di assunzione prove tranne quelle, e non sono poche, in cui le parti (P.M. e difensore) condividono che possa essere acquisito dal Giudice il fascicolo con gli atti di indagine senza sentire testimoni. E tutto questo solo per fare alcuni esempi e solo nel settore penale.

    Molte udienze di rapida celebrazione e molte altre oltre a quelle suggerite, utili anche a concludere un processo, si sarebbero potute celebrare per la facilità di stabilire orari e durata e – di conseguenza – gli accessi in aula. Migliaia di giudizi inutilmente lasciati in sospeso non sarebbero andati ad accrescere un arretrato di dimensioni già sgomentevoli, anzi, lo si sarebbe potuto aggredire.

    Cabina di regia o iniziativa di chissà quale massimo esperto, si è invece pensato ad un’altra geniale soluzione per contrastare l’epidemia nei Palazzi di Giustizia: con i magistrati per altri versi disoccupati  sono stati sospesi i termini per il deposito delle motivazioni delle sentenze, una delle attività che generalmente svolgono proprio a casa.

    Non c’è bisogno di demandarla ai posteri: a voi ogni valutazione in attesa che la Giustizia torni ad essere – se mai lo sarà – una cosa seria in questo sventurato Paese.

  • In attesa di giustizia: falsa ripartenza

    Nei giorni scorsi si è riunito per la prima volta il tavolo di lavoro convocato dal Ministro della Giustizia il cui compito è studiare le migliori modalità di ripresa dell’attività giudiziaria nella seconda fase dell’emergenza sanitaria ma anche su un progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario e del funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura.

    Con il lock down ormai alle spalle l’attività nei Tribunali sarebbe dovuta riprendere, in particolare la celebrazione delle udienze, ma tutto ciò si è verificato solo in misura minima.

    Ferma restando la disomogeneità sul territorio delle linee guida alla riapertura dei palazzi di giustizia (di cui abbiamo già trattato), sono molti i problemi che continuano a frapporsi al ritorno ad un regime normale di funzionamento che – quando tutto va bene – è a tre cilindri: è tutt’ora necessario chiedere appuntamenti  via mail, non sempre riscontrate, per poter accedere alle cancellerie e alle segreterie – aperte con orario e personale ridotto – e l’attività di udienza non supera il 15 – 20% dei ruoli.

    Lo stallo deriva per larga misura dal collocamento in smart working della maggior parte del personale amministrativo che, peraltro, da casa non può accedere né ai fascicoli né ai registri essendo precluso l’accesso all’intranet ministeriale per motivi di sicurezza. Più che di smart working si dovrebbe parlare di no working  o ferie retribuite…ma dirlo pubblicamente non è politicamente corretto e delude i fautori dell’“andrà tutto bene”; si aggiunga che i sindacati dei funzionari amministrativi fanno resistenza ad un ritorno alla normalità lamentando pericoli persistenti per la salute connessi al ritorno sul posto di lavoro “fisico” e accusano la lobby degli avvocati di fare pressioni in senso contrario a tutela dei propri interessi economici.

    Certo gli avvocati, in assenza di uno stipendio fisso ma con costi, invece, costanti vorrebbero tornare a lavorare, ma non hanno obiettato nulla nei momenti di maggiore criticità e migliaia di loro negli ultimi cento giorni si sono dovuti accontentare (chi è riuscito ad ottenerla) della elemosina da 600€.

    I problemi, tuttavia, sono ben altri e tutte le rappresentanze dell’Avvocatura li hanno evidenziati durante la consultazione dal Ministro della Giustizia, sottolineando come l’attuale contesto con la leva del motore della giustizia su “avanti adagio” sia privo di giustificazione, viste le modalità generali della ripresa delle attività nel Paese e la concreta situazione epidemiologica. L’organizzazione giudiziaria è un servizio pubblico e il suo sostanziale fermo si risolve in una negazione dei diritti ai cittadini. La babele dei tanti provvedimenti dei capi degli Uffici – ed a cascata dei singoli giudici – si è rivelata una risposta inadeguata al ripristino della funzione.

    Curiosamente, a questo tavolo di lavoro non hanno partecipato rappresentanti della Associazione Nazionale Magistrati che, forse, avrebbero potuto collegarsi da remoto (soluzione che piace tanto alla magistratura associata) almeno durante l’ora d’aria.

    L’Unione delle Camere Penali ha sollecitato un intervento diretto da parte del Governo per consentire – mentre già incombono le ferie giudiziarie –  in tempi rapidi il ritorno alla normalità sia pure nel rispetto delle regole sanitarie che valgono per tutti, con l’ulteriore previsione della possibilità di tenere udienze ovunque anche nel pomeriggio, recuperando se del caso la giornata del sabato e financo  il periodo ordinariamente coperto dalla sospensione feriale: misure necessarie per aggredire da subito l’enorme arretrato, acuito dalla chiusura. Il Ministro si è riservato di adottare l’iniziativa politica dopo avere ascoltato ragioni, critiche  e suggerimenti. Vedremo che ne sarà, certo è che l’attesa di Giustizia sta allungando i tempi e di molto meglio per gestire l’emergenza si sarebbe potuto fare già durante il lock down. Ne riparleremo.

Pulsante per tornare all'inizio