Giustizia

  • In attesa di Giustizia: il silenzio dell’innocente

    Sembra che il nostro sia divenuto uno Stato moralizzatore: addirittura giunge notizia che a Pavia una coppia di fidanzati sia stata multata nella misura di 400 euro per essere stati sorpresi, da agenti in borghese ma in servizio, ad abbracciarsi e, dunque, senza rispettare le norme sul distanziamento fisico. Qualcosa di simile, peraltro, era già accaduto un anno fa circa; dove? direte voi, un anno fa non c’erano né il covid – 19 né rigorosi DPCM! Ma come, dove? In un centro commerciale ad Arak, Iran; i due innamorati in quella occasione furono arrestati per oltraggio alla pubblica decenza frutto di degenerazione da cultura occidentale o qualcosa di simile. Non possono lamentarsi i ragazzi pavesi: perché da noi le pene sono severe ma giuste e, forse, in un prossimo futuro avremo anche sei divisioni di Assistenti Civici che vigileranno con rigore sull’osservanza delle regole anti contagio  e sulla sobrietà di effusioni altrimenti pericolose.

    L’insegnamento morale che vuole instillarsi nella popolazione sembra – tuttavia – essere a due velocità: ci sono argomenti che, almeno per alcuni, pare preferibile non affrontare sebbene meritevoli di attenzione e della dovuta critica, possibilmente anche costruttiva. Tra questi, vi è quanto emerge dalle intercettazioni che riguardano i magistrati.

    Si tratta di una copiosa messe di conversazioni e di messaggi,  che alza il velo su uno squallido mercimonio di incarichi e di favori, raccolta durante le indagini della Procura di Perugia su Luca Palamara.  Uno che, solo a guardarlo in fotografia, suggerisce riflessioni lombrosiane e se lo incontri di notte, anche se tace, gli dai subito la borsa.

    L’emersione dello scandalo ha portato con sé numerose implicazioni, comprese quelle a proposito della correttezza della informazione. O, forse, consolida convincimenti proprio sul livello etico di ambiti sensibili della cosa pubblica; e, se quanto fuoriuscito dal vaso di Pandora umbro non sempre integra reati, molti discutibili comportamenti rilevano quali illeciti disciplinari gravi.

    In tutto ciò, taluni pennivendoli, come era da immaginarsi, hanno “silenziato” queste ultime notizie  soprattutto nelle porzioni che attengono alla opacità dei loro rapporti con frange della magistratura; ma l’attenzione è ugualmente e prepotentemente tornata su un tema che da mesi non ne era più oggetto provocando, tra l’altro, sconquasso e dimissioni in seno alla Associazione Nazionale Magistrati.

    Nel dimettersi dall’incarico, il suo Presidente, Luca Poniz – persona, peraltro, ottima e corretta – ha, tuttavia, fuori luogo parlato di un attacco alla magistratura e indignandosi, questa volta sì,  perché atti di indagine vengono resi pubblici. Curioso: la magistratura sotto attacco da se stessa…l’immagine evocata dal Consigliere Poniz ricorda il Tafazzi della Gialappa’s Band.

    Un bagno di umiltà sarebbe stato preferibile: i magistrati sono uomini con pregi e difetti come tutti, non tutti, per fortuna, come i parlanti ascoltati dai colleghi di Perugia ma non sono nemmeno gli unti del Signore, ed è ora che imparino che esiste la vergogna. Ed anche le scuse per condotte aberranti.

    La nostra Costituzione recita che “la Giustizia è amministrata in nome del popolo” significando, tra le altre cose, che i cittadini devono poter avere un controllo non solo sulle modalità della sua amministrazione ma anche su chi esercita la giurisdizione. L’informazione in proposito non può essere né condizionata prima né mistificata poi.

    L’affaire Palamara ha fatto saltare il coperchio su un malcostume diffuso proprio nell’ambito dell’Ordine Giudiziario e non c’è ragione per cui si debba tentare di secretare il tutto quando il cittadino comune che finisce sotto processo viene abitualmente osteso alla gogna ben prima di una sentenza di condanna anche solo sulla base di prove circostanziali e non di evidenze come possono essere i portati di intercettazioni dal contenuto, purtroppo, inequivocabile.

    L’ipocrisia, peraltro, è un male antico della politica, perché – in fondo – anche in questo caso di politica si tratta se si riguarda al Consiglio Superiore della Magistratura come ad un organo che ne è pesantemente condizionato.

    Ma ora si sta andando ben oltre: non bastasse il volo degli stracci in prima serata tra Guardasigilli e P.M., si sono risapute queste chiacchiere che svelano al grande pubblico ciò che tutti gli addetti ai lavori sapevano da sempre (ma non ne avevano le prove) sul sistema correntizio di gestione del C.S.M. e le sue degenerazioni.

    Ciliegina sulla torta di questi giorni mettiamoci anche un Procuratore Capo della Repubblica arrestato con accuse infamanti. Sempre nel silenzio, almeno uno dei suoi ex sostituti, nel processo che lo riguarda, si è visto richiedere una pena pesantissima per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari.

    I miasmi che intossicano il “sistema giustizia” sono ormai  intollerabili e ad essi si aggiunge il silenzio assordante su questa vicenda di Sergio Mattarella, che responsabilità non ne ha certo, protrattosi troppo a lungo: un intervento rigoroso ed autorevole nel suo ruolo non solo di garante della Costituzione ma di Presidente del C.S.M., sarebbe stato doveroso e non solo auspicabile già molto prima della convocazione di un plenum straordinario del Consiglio cui ha partecipato con un discorso che – francamente – è il  compendio di inevitabili ovvietà allocate al minimo sindacale.

    In attesa di Giustizia ci terremo, allora, i miasmi a renderci impossibile il respiro, senza neppure un Dante alla cui pietas rivolgere il proprio “ricordati di me che son l’Italia”.

  • In attesa di Giustizia: scampato pericolo

    Ce l’ha fatta, scampato pericolo come previsto: il peggiore Guardasigilli della storia repubblicana, repubblichina, monarchica, pre – unitaria, forse dai tempi delle Signorie e dei Comuni, si è visto confermare la fiducia nonostante le perplessità precedenti al voto manifestate da Italia Viva. Perplessità che non avevano illuso nessuno tra coloro che non avrebbero dubbi se comperare o meno un’auto usata da Renzi.

    La domanda potrebbe, a questo punto, essere una sola: cosa sia stato negoziato in cambio. Ma non andiamo oltre, quelle vigenti sono regole da basso impero, altro che seconda o terza Repubblica. Andare più oltre, tra l’altro, esporrebbe eccessivamente al rischio di una querela…ammesso che Bonafede sappia cosa sia (cit. fonte mantenuta anonima ma attendibile).

    Il Ministro della Giustizia, peraltro, nel suo intervento si è detto disponibile a monitorare (non rivedere…) l’istituto della prescrizione così come modificato, che è frutto di infinite polemiche anche all’interno della maggioranza di Governo.

    Insomma, un contentino che non accontenta nessuno neppure per la complementare promessa di costituire una Commissione Ministeriale, appunto di “monitoraggio” degli effetti delle nuove regole sulle sorti del processo penale.

    Tra l’altro, non è una novità, ne aveva già fatto cenno mesi addietro, ma si tratta di un’idea quantomeno balzana perché mettere sotto osservazione il funzionamento della prescrizione modificata, per ragioni spiegate più volte anche su queste colonne, equivale a rinviare a tempi indefiniti e del tutto ipotetici tanto i risultati dello studio quanto gli eventuali interventi correttivi.

    E mentre si conferma, di fatto, il “fine processo mai” nulla più è dato sapere dei propositi (buoni o criticabili che siano, più probabile la seconda ipotesi) di riformare il processo penale riducendone i tempi, magari con un DPCM, tanto in voga di questi tempi.

    Aspettiamo, allora, che venga insediata – se mai lo sarà – questa Commissione di Monitoraggio, proposta sostenuta da Italia Viva, ed i cui lavori portino ad una rivisitazione critica della attuale politica giudiziaria sostenuta da via Arenula, a cominciare dalla riforma della prescrizione.

    Vi è anche una certa confusione sugli scopi di questa Commissione se si riguarda ciò che sarebbe nelle aspettative di taluni esponenti del PD e le parole del Ministro: forse quella che parrebbe negoziata sul voto di fiducia non ha nulla a che fare, con quella di “monitoraggio” della quale parla Bonafede, e del resto siamo di fronte ad un’ennesima, inascoltabile ed inguardabile sceneggiata sulla scena politica.

    Quello che potrebbe servire davvero è un gruppo di studio che lavori seriamente alle riforme del sistema giudiziario: possibilmente con i componenti che siano scelti tra giuristi di chiara fama e che non ascrivano tra i titoli di selezione l’essere parenti (oggi si dice prossimi congiunti), amanti (rectius affetti stabili) di qualcuno, trombati alle elezioni, collettori di voti o personaggi in cerca di autore con il patronaggio di qualche influente amico.

    Serve qualcuno che voglia rimboccarsi le maniche e sappia come farlo, per aprire un nuovo percorso: ma i monitoraggi dei disastri  lasciano il tempo.

    Noi, con fiducia (la nostra) al lumicino, restiamo in attesa di Giustizia e, forse, orgogliosamente di querele.

  • In attesa di Giustizia: indietro tutta

    E’ possibile che i lettori di questa rubrica, questa settimana, si aspettassero una nota a commento della liberazione di Silvia Romano: nient’affatto. E’ una vicenda nella quale l’unico interesse che varrebbe la pena approfondire è quello se vi sia stato o meno il pagamento di un riscatto per poi distillarne un giudizio sull’azione politica di governo e la correttezza della informazione (in questo come in simili casi) non certo per polemizzare sulla sottrazione ad altri capitoli di bilancio di risorse destinabili a più nobili scopi, trattandosi – eventualmente – di fondi riservati dei Servizi.

    La risposta al quesito è – comunque – molto semplice: basta dare un’occhiata ad una qualsiasi immagine di gruppo che immortala i militanti di Al-Shabaab e ci si rende subito conto che è fuori da ogni logica ipotizzare una liberazione che non sia stata preceduta da una battaglia campale ed è altrettanto opinabile che sia avvenuta in esito ad un amabile confronto  tra negoziatori. Tutto il resto, conversione, legami con i sequestratori, motivazioni per il volontariato in Africa non sono fatti nostri ma questioni private di Silvia Romano sulle quali non vale la pena addentrarsi rischiando, oltretutto, di sconfinare nel gossip: e questo su Il Patto Sociale non avviene.

    Magari due righe si potevano dedicare alla mozione di sfiducia al Ministro della Giustizia che andrà in Aula questa settimana ma potrà essere più utile trattarne dopo e non prima del voto. Viceversa del Guardasigilli, che chi scrive non vorrebbe nemmeno come amministratore di condominio, può essere valutata l’azione di governo nel periodo di emergenza sanitaria.

    La prima conclusione che può trarsi dal blocco pressoché totale dell’attività giudiziaria su tutto il territorio è che la Giustizia non è stata considerata un servizio essenziale; che ciò dipenda da mancanza di volontà, di risorse o da entrambe – come è più probabile – non è certamente una giustificazione ma neppure una spiegazione accettabile: meno che mai ora che, ad una settimana dall’avvio della cosiddetta Fase 2 la situazione nei tribunali è sostanzialmente immutata ed i tribunali sono nel caos. Basti dire che circa il 90% dei processi penali è stato rinviato, in molti casi già al 2021.

    Il 12 maggio resterà, dunque, come una data del tutto teorica di fine lockdown per la Giustizia rivelandosi, piuttosto, come il capodanno da non festeggiare di una Caporetto prossima ventura frutto di ulteriore crescita dell’arretrato e della mancanza di adeguati strumenti deflattivi.

    Le 131 Camere Penali territoriali hanno avviato un monitoraggio nelle rispettive Sedi (il Ministero dov’è? Non competeva, forse, ad uno dei suoi dipartimenti occuparsene?) posto che, dalle prime battute, si registra una tendenza a non ripartire, almeno con gradualità, in larga misura ingiustificata.

    Uno dei problemi principali cui si lega la criticità attuale sembra doversi rinvenire nella mancanza di linee di indirizzo omogenee, avendo il Governo scaricato sui Capi dei singoli Uffici l’elaborazione dei programmi organizzativi di ripresa. Capi degli Uffici che, sovente, nemmeno si parlano tra di loro – anche a livello locale – cosicché laddove ve ne sia più di uno, come a Milano (Corte d’Appello, Procura Generale, Tribunale di Sorveglianza, Tribunale Ordinario, Procura della Repubblica, Tribunale dei Minorenni, Procura della Repubblica per i Minorenni, T.A.R. e – perché no – Giudice di Pace) la babilonia è assicurata.

    Ne derivano, di conseguenza, problemi concreti  per comprendere il da farsi e come organizzarsi gli impegni anche all’interno di una stessa realtà. A tacere del fatto che se – poniamo, per esempio – un avvocato di Varese ha (teoricamente) prevista un’udienza a Busto Arsizio non è scontato che gli siano noti i protocolli  attuali ed attuati in un circondario di Tribunale confinante con il suo. Quindi non sa se la sua udienza si farà oppure no; ancora meno probabile è che qualcuno gli risponda al telefono per fornire indicazioni, le mail con il preavviso di rinvio arrivano, se arrivano, il più delle volte è a ridosso dell’incombente. L’ingresso nei palazzi di giustizia, peraltro, è precluso se non si dimostra l’assoluta necessità ed urgenza: ma come si fa a dimostrare che non si è stati avvisati o aggiornati su qualcosa? Allora bisogna affidarsi al consiglio e le indicazioni di qualche collega del posto oppure confidare che su qualche sito internet si trovino informazioni ed augurarsi che siano attendibili. Figurarsi come può regolare la propria agenda un testimone o un perito…

    Ovviamente nessuno sa nulla circa la dotazione di mascherine, guanti, sanificazione degli ambienti e lo smart working non è di fatto attuabile perché ai cancellieri è vietato accedere alla rete intranet da casa.

    E abbiamo trattato solo del settore penale: nel civile, con alcuni milioni di cause pendenti, le cose non vanno assolutamente meglio. Forse una schiarita si avrà in seguito alla convocazione, seguente ad uno stimolo della Unione delle Camere Penali, dei Presidenti dei Distretti di Corte d’Appello al CSM. Dal Ministero, invece, nessuna reazione.

    Così è se vi pare, questo è il meraviglioso mondo di un servizio considerato, evidentemente, di essenzialità inferiore a quella della rivendita di fiori recisi, con tutto il rispetto per i fiorai, e quando si parla di attesa di Giustizia la parola d’ordine sembra essere sempre la stessa: macchine indietro tutta!

  • Due pesi e due misure

    Doppio peso e doppia misura, sono due cose che il Signore aborrisce

    Da “Proverbi di Salomone; 20/10”

    Sì, il Signore aborrisce, detesta tutti coloro che volutamente usano criteri diversi per valutare simili situazioni. Lo conferma quanto è stato scritto nel Libro dei Proverbi di Salomone (Pv. 20/10): “Pondus et pondus, mensura et mensura, utrumque abominabile apud Deum”. Lo stesso messaggio biblico si conferma anche nel Libro del Deuteronomio (Dt. 25; 13-15): “Non avrai nel tuo sacchetto due pesi diversi, uno grande e uno piccolo. Non avrai in casa due tipi di efa (l’unità ebraica di misura; n.d.a.), una grande e una piccola. Terrai un peso completo e giusto, terrai un’efa completa e giusta, perché tu possa avere lunga vita nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà, poiché chiunque commette tali cose, chiunque commette ingiustizia è in abominio a Signore”.

    In questo periodo di pandemia, sono tante e spesso inattese, le serie ed urgenti problematiche da affrontare e risolvere, problematiche, con le quali si stanno confrontando i governi e le istituzioni specializzate in tutto il mondo. In questo periodo sono state prese delle decisioni difficili. Sono state attuate anche molte misure insolite e restrittive, che hanno coinvolto centinaia di milioni di cittadini in tutti i continenti. Misure che spesso, riferendosi al rispetto delle libertà e dei diritti umani in alcuni paesi, sono al limite dell’intollerabile. E si tratta proprio di quelle libertà e di quei diritti previsti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti umani e dalla Convenzione europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali. Diritti e libertà sancite anche dalle Costituzioni dei singoli paesi. Tranne nelle dittature.

    Il Consiglio d’Europa, riferendosi a quanto è accaduto e sta accadendo in molti paesi europei in questo periodo di pandemia, il 7 aprile scorso ha pubblicato un Documento informativo intitolato “Il rispetto della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti dell’uomo, nell’ambito della crisi sanitaria del COVID-19”. L’obiettivo di questo documento è quello di informare ed istruire le istituzioni che hanno potere decisionale in tutti i paesi membri del Consiglio d’Europa, per meglio affrontare la crisi. Ma, allo stesso tempo, di non violare neanche i principi base della democrazia, dello Stato di diritto e di rispettare i diritti innati e fondamentali dell’uomo. E non a caso. Perché durante questi ultimi mesi, sono state verificate delle tendenze totalitaristiche da parte di alcuni dirigenti anche in determinati paesi europei. Preoccupato da questi sviluppi, il Consiglio d’Europa ribadisce che “La principale sfida sociale, politica e legale con la quale si affronteranno i nostri Stati membri, sarà la loro capacità di rispondere con efficacia a questa crisi, garantendo, allo stesso tempo, che le misure che verranno prese non violino […] i valori fondamentali dell’Europa riguardo la democrazia, lo Stato di diritto e i diritti dell’uomo”. Ma per evitare ed impedire ogni tipo di abuso con il potere conferito, si avverte che “Ai governi non si deve dare ‘carta bianca’ dai parlamenti, per prendere qualsiasi tipo di misura”. Ogni competenza che i parlamenti delegano ai governi deve solo e soltanto “abbassare il pericolo dell’abuso da parte dei governi”. Il sopracitato documento, tra l’altro, considera come molto importante la libertà dei media, ragion per cui si ribadisce che i governi. “…hanno il dovere di garantire, durante tutto lo stato dell’emergenza, la libertà dei media ad aver accesso alle informazioni ufficiali”. E anche che i governi “…non devono usare le misure dell’emergenza per chiudere la bocca ai giornalisti critici, oppure agli oppositori politici”.

    Il 30 marzo scorso, il Parlamento ungherese ha approvato una legge dando pieni poteri al primo ministro per combattere il coronavirus. In base a quella legge a lui sono stati conferiti poteri straordinari senza limiti di tempo. Diritti e poteri che permettono al primo ministro di chiudere anche il Parlamento e/o di cambiare o sospendere leggi esistenti. Il Parlamento ungherese ha dato così “carta Bianca” al primo ministro, il quale potrà ormai e fino a quando deciderà lui, governare liberamente per decreto, da solo e senza essere impedito da nessuno!

    Sono state diverse e immediate le reazioni da parte delle massime autorità dell’Unione europea e di altre istituzioni internazionali. Reazioni che esprimevano la massima preoccupazione per quella decisione del parlamento ungherese e per le probabili conseguenze. All’inizio di marzo il Consiglio Europeo aveva programmato un richiamo per l’Ungheria, avvertendo che non avrebbe tollerato un “indefinito e incontrollato stato di emergenza che non garantisce i principi base della democrazia”. Mentre il Consiglio d’Europa ha avvisato che “uno stato d’urgenza indefinito e incontrollato non può garantire il rispetto dei principi fondamentali della democrazia”.

    L’8 aprile scorso la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha ordinato alla Polonia di sospendere immediatamente l’attività della Camera Disciplinare, accogliendo la richiesta della Commissione europea. La Camera era stata costituita nel 2017 per trattare i casi disciplinari contro i giudici. Ma secondo la Commissione europea, tramite la Camera Disciplinare il governo polacco poteva controllare la magistratura, parte del sistema della giustizia. Il che, secondo la Commissione europea, potrebbe mettere in pericolo l’indipendenza del potere giuridico in Polonia.

    Le reazioni delle massime autorità dell’Unione europea, nel caso dell’Ungheria, e la delibera della Corte di Giustizia dell’Unione europea, nel caso della Polonia, esprimono la preoccupazione reale delle strutture dell’Unione europea, riferendosi alla violazione delle libertà e dei diritti previsti. Cosa che non è successa, però e purtroppo, nel caso dell’Albania. È vero che l’Albania non è un paese membro dell’Unione, ma dal 1995 l’Albania è membro del Consiglio d’Europa. Poi, il 26 marzo scorso, il Consiglio europeo ha deciso però l’apertura dei negoziati per l’adesione all’Unione europea! Il nostro lettore, durante tutte queste settimane, è stato informato di questa decisione e di tutte le sue preoccupanti conseguenze. Così com’è stato informato spesso, e a tempo debito, della galoppante e ben radicata corruzione a tutti i livelli, della connivenza dei massimi rappresentanti politici e/o istituzionali con la criminalità organizzata e certi raggruppamenti occulti internazionali, nonché dell’abuso continuo del potere conferito, a scapito dei cittadini e della cosa pubblica, anche in questo periodo di pandemia. In Albania, dati e fatti accaduti e pubblicamente denunciati alla mano, il primo ministro controlla personalmente, oltre al potere esecutivo e quello legislativo, anche il potere giudiziario. Soprattutto in questi mesi. La riforma del sistema di giustizia e l’operato della Commissione Indipendente di Qualifica, una struttura simile alla Camera Disciplinare polacca, sono una “storia di successo” per i massimi rappresentanti della Commissione europea. Invece, sempre dati e fatti accaduti pubblicamente denunciati alla mano, purtroppo si tratta di una riforma volutamente fallita. Lo testimonia, tra l’altro e soprattutto, il non funzionamento, da più di due anni, della Corte Costituzionale, con tutte le gravi e derivate conseguenze.

    A chi scrive queste righe, lo spazio non gli permette di presentare al nostro lettore tanti altri argomenti che dimostrerebbero, nel caso dell’Albania, l’operato con due pesi e due misure da parte dei massimi rappresentanti dell’Unione europea. Egli è comunque convinto che purtroppo in Albania sta accadendo proprio quello che teme il Consiglio d’Europa. Essendo però altrettanto convinto che tutto ciò accade anche grazie al modo di operare con due pesi e due misure delle istituzioni europee. E l’Albania ne rappresenta un caso molto significativo ed eloquente. A tutti ricorda però che usare doppio peso e doppia misura sono due cose che il Signore aborrisce.

  • In attesa di Giustizia: libertà di insulto

    I pazienti lettori di questa rubrica, forse, si aspettavano una nota dedicata al contenuto delle ultime intercettazioni emerse nell’affaire “Palamara” da cui si ricavano inquietanti – sebbene non inaspettati – retroscena alla nomina del Procuratore Capo di Roma: ma, ormai, è acqua (quasi) passata, lasciamo stare nell’ossequio di quel detto popolare secondo il quale una certa sostanza organica più la si rimesta e più puzza. O, più probabilmente, si sarà immaginato un commento a margine del feroce scontro in atto tra il cosiddetto Guardasigilli e il Magistrato Di Matteo – ora al CSM – a proposito di altri poco edificanti retroscena alla nomina a dirigente in importanti Dipartimenti del Ministero della Giustizia: uno dei due con certezza mente (perché è impossibile che due antagonisti, dialetticamente agli antipodi uno dell’altro, dicano entrambi la verità), magari mentono entrambi ed il riserbo in argomenti delicatissimi sembra essere un optional; così i contorni della vicenda rimangono opachi, racchiusi tra atti di indagine resi noti parzialmente, mere ipotesi e suggestioni; il tutto “a scoppio ritardato”, due anni dopo i fatti…chissà perché? Trascuriamo anche questo tema: troppo nebuloso il contesto.

    Questa settimana, invece, l’argomento è strettamente allineato alla denominazione della rubrica: si parla di una Giustizia la cui attesa non si è fatta attendere ed il messaggio è che – dunque – volendo si può. Sembrerebbe una buona cosa…

    Accade a Caltanissetta, Sede competente per i reati di cui risultano vittime o accusati i Magistrati di Palermo, e tutto molto ma molto velocemente: notizia di reato di novembre e, ad oggi (in tempi, oltretutto di lock down rigoroso anche per gli Uffici Giudiziari) non solo si sono già concluse le indagini, ma abbiamo già una richiesta di archiviazione.

    Questi i fatti: siamo a Palermo, come detto, uffici della Procura Distrettuale Antimafia – forse la più blindata d’Italia – e un uomo tenta di accedervi senza qualificarsi in alcun modo. Un sottufficiale dei Carabinieri del Servizio Scorte chiede allora, ad una persona a lui sconosciuta, i documenti ottenendo un implicito rifiuto da colui che avrebbe potuto essere chiunque. Il soggetto, infatti, volta le spalle al militare e tira dritto, provocando la reiterazione della domanda. Chiedere è lecito, rispondere è cortesia, rispondere “ma va affa…”  e proseguire oltre in una zona delimitata e presidiata non è proprio in linea con il galateo, certamente lo è con il codice penale che prevede il reato di oltraggio a Pubblico Ufficiale.

    Il fatto è avvenuto in presenza di altri Carabinieri, tutti in divisa e tutti in servizio, in un territorio dove la mafia fa brillare le autostrade, a rischiare la vita per tutelare quella degli altri: anche del Pubblico Ministero che si è rifiutato di mostrare un documento. Si trattava, infatti, di uno dei Sostituti Procuratori: si è difeso ammettendo i fatti e lamentando, stizzito, la circostanza di non essere stato riconosciuto e – pertanto – ha sostenuto di essere lui vittima di un atto arbitrario cui si è  giustamente ribellato.

    Per i Colleghi di Caltanissetta va bene così: il sottufficiale avrebbe dovuto capire chi aveva di fronte anche se non lo conosceva, il “vaffa” se lo è andato a cercare. E da ora in avanti l’Arma dovrà istituire corsi di arte divinatoria per impedire che si ripetano episodi di lesa maestà.

    Esemplare, tornando alle considerazioni iniziali,  la velocità con cui il procedimento è stato trattato e per di più da un Ufficio situato in un territorio ad alta densità criminale, oberato dai fascicoli, dalle necessarie priorità da  offrire ai processi con detenuti, a quelli per reati gravi, per fatti di criminalità organizzata.

    Ma anche il prestigio di un Magistrato costituisce una priorità non trascurabile: con un carico pendente potrebbe persino subire dei rallentamenti nell’avanzamento di carriera, una condanna potrebbe essere fatale in un successivo disciplinare e lo stipendio ne risentirebbe. Per fortuna la Giustizia non sempre ha tempi biblici, magari è un po’ ad assetto variabile ma prendiamo quello che c’è di positivo (se c’è…) da questa vicenda in attesa che sia il Giudice delle Indagini Preliminari a valutare la richiesta di archiviazione. Intanto, a voi i commenti.

  • In attesa di Giustizia: libertà

    Libertà, parola che molti considerano fuori moda, pronti ad accettare anche l’affossamento ingiustificato dei diritti fondamentali o la loro limitazione con criteri interpretativi affidati alle FAQ della Presidenza del Consiglio o al Carabiniere che ferma i passanti con il mitra spianato. Parola bellissima che invece dobbiamo sempre avere come stella polare di riferimento; per tutti è l’estremo di una privazione sino ad ora mai sperimentata e che deve far riflettere su quanto possa essere afflittiva.

    Ed una riflessione particolare merita un’emergenza nell’emergenza: quella carceraria perché il carcere è luogo per eccellenza di privazione della libertà ed è parte del territorio.

    Una società civile si deve occupare di chi da solo non può farcela soprattutto nei momenti di difficoltà e di fronte al dilagare del Covid-19 è stato da subito evidente quanto fosse necessario intervenire nei luoghi di detenzione perché in quei luoghi c’è chi da solo non può farcela perché la sua volontà e capacità dipendono da altri, nello specifico dallo Stato nelle sue articolazioni competenti.

    A fronte delle sollecitazioni provenienti dalle più diverse voci volte a segnalare che le precarie condizioni delle carceri italiane non consentono un’adeguata gestione della pandemia intramuraria anche a causa del sovraffollamento, le risposte adottate dal governo sono state di mera facciata.

    I provvedimenti di scarcerazione adottati dalla magistratura di sorveglianza sulla base della normativa vigente, contrariamente a quanto erroneamente riportato da alcuni quotidiani, hanno riguardato un numero limitato di detenuti, alcune – ancora meno – hanno fatto scalpore per la caratura criminale dei beneficiati e la complessiva gestione della criticità ha portato alle dimissioni del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che presto sarà sostituito con funzionario di sicura fede manettara.

    Non si può, tuttavia, sottovalutare questa bomba epidemiologica ad orologeria che sono gli istituti di pena: sono necessari interventi  strutturali a livello nazionale, ma anche soluzioni concrete a livello territoriale, quali spazi ove ospedalizzare i detenuti positivi ed alloggi da mettere a disposizione di coloro che non riescono a beneficiare di misure alternative alla detenzione solo perché non ne hanno uno.  In questa ottica si è mosso il Comune di Milano con approvazione a larga maggioranza di un ordine del giorno sull’emergenza carcere,  e che si è reso disponibile ad offrire alloggio presso le case di sua proprietà ad una ventina di carcerati nonché a riceverne altre  positive al Covid-19  presso l’hotel Michelangelo.

    Ma è di vitale importanza individuare nuovi spazi ove poter ricevere e curare le persone detenute con sintomi di infezione virale.

    In un momento di grave pericolo quale quello attuale, la situazione drammatica delle carceri e della diversa umanità che per ruolo e ragione la compone, è un’emergenza che nessuno, nell’ambito delle proprie specifiche competenze, può esimersi dall’affrontare nell’interesse non solo dei detenuti (il che, ormai, appare sempre politicamente scorretto) ma degli operatori penitenziari e della collettività tutta perché nessuno o quasi – contagiato o no – è detenuto per sempre.

    La Costituzione vale anche per i detenuti, garantisce il diritto ad una pena giusta ed improntata al senso di umanità, il loro diritto alla salute non è affievolito e la custodia cautelare in carcere per chi è ancora in attesa di giudizio è espressamente prevista dal codice come residuale: principi da non dimenticare finché si aspira a restare nel novero delle democrazie in cui Giustizia non resti una parola vuota di significato.

  • In attesa di Giustizia: attesa fatale

    Poco prima di Pasqua è mancato il Maresciallo Orazio Castro, divorato da una lunga ed inesorabile malattia; chi era Orazio Castro, cui solo qualche testata ha dedicato un ricordo?

    Un servitore dello Stato, di lui il Colonnello De Caprio, alias capitano Ultimo ha scritto: “in silenzio muore il Maresciallo Orazio Castro, comandante della stazione dei Carabinieri di Aci Sant’Antonio. Festeggiano le jene sui cadaveri dei leoni uccisi pensando di avere vinto ma le jene rimangono jene e i leoni, leoni. Lui combatte, lui vive”.

    Per quasi tre lustri questo militare pluridecorato è stato perseguitato dalla giustizia: un uomo che – ricoprendo anche incarichi di rilievo nella DIA – si è speso per l’intera vita a difendere ideali di giustizia e per contrastare la mafia, proprio lui è stato imputato in un processo per associazione mafiosa,  bersagliato dalle accuse provenienti  da cosiddetti collaboratori di giustizia.

    Collaboratori di giustizia che, non di rado, per acquisire maggior credito e meriti agli occhi degli inquirenti non esitano a coinvolgere personaggi di spicco sebbene estranei al lor milieu criminale. Oppure, più semplicemente, regolano conti in sospeso con avversari a quali non possono più opporsi con una raffica di Kalashnikov.

    Collaboratori di giustizia da cui le Procure dipendono e di cui tendono a tutelare all’estremo la credibilità: se ritenuti inattendibili riguardo ad un accusato “eccellente”, il rischio è che l’ombra della calunnia  comprometta l’impianto accusatorio di un intera indagine.

    E così contro la assoluzione, giunta già in primo grado, di Orazio Castro è stato fatto appello dal P.M. e avverso la sentenza della Corte che confermava quel proscioglimento la Procura Generale ha fatto ricorso per Cassazione incappando in una pronuncia di inammissibilità; che, tradotta,  equivale a dire impugnazione campata per aria.

    La giustizia ha trionfato, si dirà: considerazione corretta se non fossero stati necessari tredici anni per arrivare alla parola fine, se non ci si fosse dovuti confrontare con l’ottusa insistenza dei Pubblici Ministeri e della loro rarefatta equidistanza dalle parole di malfattori asseritamente pentiti.

    Tredici anni di sofferenze che hanno minato il fisico di un militare che nella vita non ha avuto paura di nulla ma ferito a morte dagli attacchi alla sua moralità, come uomo e Carabiniere.

    Ha vinto le sue battaglie, Orazio Castro: anche la prima con un cuore malridotto dalle angosce indotte dalla esperienza giudiziaria, ma una attesa di giustizia infinita ha avuto la meglio su di lui. E una giustizia troppo lenta non è giustizia. Nel dolore e nello sconcerto per come questa vicenda umana e processuale si è sviluppata,  resta una sola consolazione: l’immagine che ricorderemo è quella di un valoroso e di un martire. Di attesa di giustizia si muore;  l’insegnamento è inequivocabile e da Enzo Tortora in avanti gli esempi sono molti, e quasi tutti  sono meno conosciuti.

    Come scriveva Checov: l’onore non può essere tolto da nessuno, si può solo perdere. Con  Orazio Castro ci hanno provato, ma il suo onore lo ha conservato pagandone con la vita il prezzo a quello Stato ed a quelle Istituzioni che non ha mai smesso di servire e rispettare anche quando ne è stato abbandonato.

  • In attesa di Giustizia: mi alzo in piedi

    L’emergenza  sanitaria ha avuto riflessi  di grande impatto sull’amministrazione della giustizia: gran parte delle attività sono in stallo, udienze rinviate  tranne quelle indifferibili per il necessario rispetto a termini di decadenza. Si sono visti i primi processi a distanza, in video conferenza: a questo strumento, forse indispensabile allo stato ma pieno di controindicazioni (a partire dalla efficienza e continuità del segnale mentre si è in collegamento, dalla qualità audio, dalla impossibilità di produrre documenti in tempo reale), sta già guardando con interesse Piercamillo Davigo che intende suggerire di rendere ordinaria la modalità per ora eccezionale. Certo, un processo così è ciò che di più simile si possa avere a un “non processo”, sicuramente allineato al pensiero manettaro del noto magistrato. Il processo penale è una cosa molto seria in cui sono in gioco valori e interessi primari di imputati e persone offese e deve avere la sua ritualità, perché la forma molto spesso è sostanza ed anche spirito, come si può ricavare dalle parole – che ripropongo volentieri – di una Collega di Matera, l’Avvocata Shara Zolla.

    “E poi mi alzo in piedi… quel fatidico momento in cui sei chiamato a difendere. E si difende alzandosi in piedi per rispetto a chi siede al nostro fianco, “garante della lealtà dello Stato, all’ultimo gradino della scala sociale”, l’indifendibile. E mi alzo per rispetto a chi ascolta ed è di fronte a me. E mi alzo per chi è dietro di me perché sappia che non sono lì per chiacchierare. Sin dal primo giorno in cui sono entrata in aula ho guardato con occhi da innamorata chi, con indosso la veste nera, la nostra amata toga, aveva quel coraggio di alzarsi e parlare di fronte a tutti, per spiegare i perché di un qualcosa che per tutti era solo da condannare. Indelebile è quel brivido che scorreva le prime volte sulla pelle quando, terrorizzata, con voce tremula o insicura, inebriata dalla consapevolezza di avere nelle mani la vita di quella persona che mi sedeva a fianco, mi alzavo e raccontavo, e spiegavo cosa non poteva essere condiviso di fronte alle richieste di una punizione, di una condanna che vivevo e sentivo come ingiusta. Non ho mai avuto bisogno del microfono perché, una volta in piedi, la voce trovava il suo spazio e, col passare del tempo, è diventato un arduo esercizio trattenerla. Dal 5 marzo non varco le porte del Tribunale e non entro in Aula. La mia toga è in Tribunale nell’armadietto 204 nei pressi dell’Aula Pagano. Mi sembra di averla abbandonata lì, sola, in isolamento da quarantena anch’essa. E’ una parte di me che ho abbandonato al buio! Ed è rimasta al buio la nostra anima di difensori. E se non la indosso, e se non mi alzo in piedi, vuol dire che in questo momento non difendo i diritti di quel cittadino e del mio Stato di fronte i quali ho giurato di esercitare la mia funzione, essere Avvocato. Mi chiameranno nei prossimi mesi a presenziare all’udienza in difesa di “nessuno”, e l’aula sarà un luogo inumano nel suo essere ormai una stanza virtuale. E non avrò nessuno alle mie spalle. E non avrò nessuno dinanzi: di fronte, solo un’immagine virtuale, magari un trucco della fantascienza mascherata da scienza e progresso, con cui potrò colloquiare allorquando mi sarà consentito. E non indosserò la toga, perché la toga si indossa solo in Aula, di fronte ad un Giudice, distante nella giusta misura, alla presenza del Pubblico Ministero in una pubblica udienza. E non potrò alzarmi! E allora la voce sarà fioca, perché altrimenti il microfono gracchia!

    E non sarò in piedi! Ed una parte di me sarà andata via per sempre!

    Ma non posso e non voglio rassegnarmi.

    La mia toga mi aspetta ed io non la lascerò lì sola.

    Ed io sarò in piedi a difendere chi mi siede a fianco.”

  • In attesa di Giustizia: cronaca nera

    Tribunali sostanzialmente chiusi, Procure al lavoro sotto traccia e – come sembra – principalmente sulle tracce di responsabili del contagio nelle residenze per anziani ma il distanziamento sociale tiene necessariamente lontani i cronisti giudiziari dalle loro fonti all’interno dei palazzi di giustizia o delle questure, e persino le trasmissioni televisive dedicate al gossip giudiziario si sono riconvertite al tema esclusivo della pandemia.

    Il momento è stimolante per fare riflessioni pensando a ciò di cui non disponiamo ed a cui siamo abituati: come la cronaca nera che, per le ragioni illustrate, ora langue anche se non sarà per molto ancora…e nella quotidianità fatta in gran parte di ricerca di notizie sull’andamento del contagio e dei possibili rimedi, accade che balzi all’attenzione anche un articolo di “giudiziaria” pubblicato da un giornale omanita.

    Uno pensa all’Oman, medio oriente, e prima ancora di leggere il luogo comune ti fa dire: beduini! Chissà questi che ai ladri – l’articolo tratta proprio di simili furfanti – tagliano le mani che rapporto difficile avranno con la presunzione di innocenza!

    Poi salta all’occhio subito una cosa: le foto degli arrestati sono coperte per non renderli riconoscibili, i nomi sono ridotti ad iniziali o non citati del tutto e il pezzo è di fredda cronaca, privo di qualsiasi valutazione sulle responsabilità che restano presunte e senza magnificazioni dell’operato degli inquirenti.

    Proviamo a immaginare come un articolo analogo sarebbe stato scritto in Italia, magari preceduto da un proclama a reti unificate del Ministro dell’Interno?

    “Con una brillante operazione al termine di una meticolosa indagine coordinata dalla locale Procura della Repubblica, la polizia ha arrestato una banda di pericolosi criminali  (non presunti ladri, come scrive il giornalista omanita) dedita al furto nei grandi magazzini.

    I componenti della associazione per delinquere, sulle cui tracce gli investigatori erano ormai da tempo, sono stati tradotti in carcere.

    Nella ordinanza di custodia cautelare (che i giornalisti non dovrebbero avere, almeno non subito) si legge che in moltissime occasioni hanno (e non: avrebbero) rubato borse ed oggetti vari presso catene della grande distribuzione.

    Tre degli arrestati hanno precedenti specifici per furto e reati contro il patrimonio (leggasi: sono certamente loro, i ladri. A che serve il processo?). Le indagini sono ancora in corso e non si escludono clamorosi sviluppi”.

    Va bene, direte voi, ma alla fine a questi gli tagliano le mani!…non è detto perché il sistema processuale dell’Oman è un accusatorio puro di  tradizione britannica: quindi molto garantista.  Comunque sia, qualcosa da imparare lo abbiamo anche dagli omaniti: in attesa di Giustizia e sia pure nel rispetto del diritto di cronaca i processi non si fanno sui giornali e meno che mai anticipando sentenze di condanna.

  • In attesa di Giustizia: gratta che ti passa

    Per ora il sistema Giustizia è decisamente in stallo e non mancano le preoccupazioni su come gestire tanto l’emergenza quanto il periodo successivo con l’enorme accumulo di arretrato che si sta generando.

    Per fortuna, tra le risorse umane del Paese, c’è Il Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, che ha una soluzione o una spiegazione per tutto a cominciare dalle preoccupazioni per la diffusione della epidemia all’interno degli istituti di pena che, con inarrestabile solerzia, contribuisce a rimpopolare.

    Numeri alla mano, Nicola Gratteri offre l’immagine di carceri che costituiscono piuttosto un insuperabile baluardo contro la pandemia, tanto che i detenuti dovrebbero considerarsi dei privilegiati;  intervistato da Lilli Gruber, ha snocciolato le cifre che gli darebbero ragione:  solo ventuno contagiati su 60.000 detenuti e duecento agenti penitenziari su 120.000. Se poi le fonti sono imprecisate, i dati non sono aggiornati, o non lo sono tutti i giorni, mancano proiezioni, pazienza.

    L’indice di contagio di  1 a 3 valido per i liberi, in questi termini, non lo è per i detenuti e, quindi, che restino tutti dove sono: lo facciamo per il loro bene. Questa epidemia si risolve in una opportunità da non perdere per chi predica il credo del “buttiamo via la chiave”.

    Il sovraffollamento, però, è in ogni caso un problema da risolvere a prescindere dal momento attuale, su questo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ci ha già diffidato, non è disponibile a trattare.

    Il Procuratore fa allora notare, questa volta dalle colonne de Il Fatto Quotidiano, che il problema non sono i troppi detenuti ma le poche carceri e il rimedio è lì sotto i nostri occhi miopi:  basta edificare in sei mesi (testuale, sei mesi) quattro carceri da cinquemila posti l’uno (si, ha detto cinquemila: San Vittore, per fare un esempio, ha una capienza regolamentare inferiore a novecento unità).

    Un gioco da ragazzi per le ricche casse dello Stato, pronte a fronteggiare anche il reclutamento di migliaia di nuovi agenti della penitenziaria, funzionari civili, personale sanitario da adibire ai nuovi istituti di pena e la snella burocrazia che presiede alla realizzazione di opere pubbliche. Voi credevate che ci volesse un quarto di secolo a struttura? Siete dei disfattisti: se lo dice Gratteri significa che si può fare in sei mesi.

    Così come si possono fare molti più processi risolvendo in un amen ogni arretrato rendendo ordinarie le regole che sono state previste per evitare la paralisi totale durante la fase di emergenza sanitaria. Come? Semplicissimo dice Gratteri: trasformando la amministrazione della Giustizia in una attività di smart working.

    Basta munirsi di un computer, installare Skype  o qualcosa di simile, e le udienze si possono celebrare tranquillamente stando a casa (o in galera) riducendo i tempi morti e – quindi – aumentando la produttività, le notifiche si potrebbero, a questo punto, fare via Instagram e le copie degli atti e delle sentenze ordinate e consegnate da Glovo.  La rete è satura, il wi-fi funziona male, un terminale si guasta nel bel mezzo di una discussione? Poco male, tanto non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca  – la linea di pensiero, in ultimo, è sempre quella – e il dispositivo di una sentenza, magari, può essere inviato con WhatsApp (letto in piedi, mi raccomando).

    Il futuro è arrivato e ci voleva il covid-19 per scoprirlo! Come diceva Confucio, il male è il bene che ancora non si conosce…o, forse, lo diceva Gratteri? La Giustizia è in panne e non arriva mai? Preoccupazione fuori luogo: Gratta che ti passa.

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