Giustizia

  • In attesa di Giustizia: gioco, partita, incontro!

    Il  tema della Giustizia permane all’ordine del giorno alimentando le turbolenze interne alla barcollante coalizione di Governo ed in quanto punctumpruriens della politica poteva restare estraneo al dibattito l’emergente movimento (o quello che sia) delle “Sardine”? Non sia mai, e allora al leader di quella che potrebbe diventare una forza interlocutrice è stato chiesto in un’intervista se sia favorevole o contrario alla prescrizione. Questa la sua autorevole risposta: “se un bambino autistico quando gli passa un pallone da basket questo ritrae le mani, come fa a passargli la palla e fare in modo che questo la raccolga con le mani che non sa usare?”. Benissimo! A tacer del fatto che non risulta che gli autistici abbiano minorato l’uso degli arti, il considerando di Mattia Santori ha il sapore di una supercazzola e viene da domandarsi se non gliela abbiano preparato gli autori di Amici Miei, ovviamente per fargli uno scherzo.

    Uno a zero, palla al centro. Intanto in vista della giornata di mobilitazione della Avvocatura proprio contro la modifica della prescrizione, il 28 gennaio a Roma, è stata indetta una astensione dalle udienze per consentire di parteciparvi. E – forse conseguenza delle esortazioni davighiane a porre un freno alle iniziative, ovviamente deplorevoli poiché dilatorie, degli avvocati –  succede anche questo: un Presidente di Corte d’Appello telefona ad un’avvocata milanese invitandola, sostanzialmente, a revocare la dichiarazione di astensione per il 28 gennaio perché per quel giorno sono stati citati dei periti: tutto ciò sebbene la dichiarazione di astensione fosse stata depositata, come da protocollo, con largo anticipo proprio per consentire la migliore riorganizzazione della udienza e la controcitazione dei testimoni.

    Alla risposta negativa della Collega, il Magistrato ha reagito stizzosamente lamentando che, oltretutto, prima che l’Avvocato procedesse ad avvertire i propri consulenti di non venire in udienza si sarebbe dovuta consultare con la Corte.

    A questo punto non è fuor di luogo rammentare che l’Avvocato, con la sua astensione, esercita un diritto riconosciuto dall’ordinamento ed assimilabile entro certi termini a quello di sciopero che è munito addirittura di tutela costituzionale. Ogni compressione di questo diritto, partitamente se fruito nel rispetto delle regole, ha un nome nel codice penale: tentativo di violenza privata… e buongiorno anche a lei, Presidente.

    Due a zero. Il gran finale della settimanale galleria degli orrori viene riservato alla Eccellenza Fofò Bonafede che sistematicamente regala perle di insipienza: questa volta, intervistato da Lilli Gruber, ha affermato che “gli innocenti non finiscono in carcere”.La bizzarra uscita del Guardasigilli è smentita dai dati prodotti dal suo Dicastero secondo i quali negli ultimi 25 anni vi è stata una media di oltre tre cittadini al giorno arrestati ingiustamente e per questo indennizzati dallo Stato con una spesa di circa trenta milioni all’anno.

    Ma non basta. Incalzato su Twitter dalla figlia di Enzo Tortora che gli ha fatto memoria della emblematica vicenda di suo padre, Bonafede ha messo la cosiddetta pezza peggiore del buco sostenendo che voleva dire che gli assolti non restano in carcere. Bontà sua e del suo mentore secondo il quale non vi sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca. Qualcuno mi dica, lo prego, che siamo su Scherzi a Parte…

    Invece, tre a zero, gioco, partita, incontro. Il dibattito si articola in questi modi, su questi palcoscenici, con questi protagonisti, verrebbe da dire personaggi in cerca di autore, quasi mai  garantendo la presenza di un giurista per sviluppare un contraddittorio ragionato e possibilmente non urlato su una Giustizia che, di questo passo, dovremo aspettare ancora molto a lungo.

  • Tortora Enzo e Bonafede ministro della giustizia…

    Non ho mai amato come personaggio televisivo Enzo Tortora perché non mi piacevano i suoi programmi, tanto meno Portobello. Ma questo non mi ha impedito di comprendere il dramma umano di una persona ingiustamente detenuta ed accusata da una magistratura arrogante quanto incompetente.

    Contemporaneamente ho assistito al progredire della carriera dei magistrati che lo accusarono ingiustamente i quali indipendentemente dal disastro (successivamente e finalmente emerso e  dimostrato) hanno proseguito nella propria carriera  come se nulla fosse.

    La vicenda di Enzo Tortora rappresenta per ogni democratico e liberale il simbolo del disastro che può nascere da una mancanza di pesi e contrappesi all’interno di uno Stato. Nel caso specifico la magistratura rappresenta uno dei poteri costitutivi dello stesso Stato democratico ma quando privo di una qualsiasi valutazione del proprio operato di un organo terzo diventa libero da ogni responsabilità e quindi arbitrario.

    Quando un ministro della giustizia, che ovviamente non può avere nessuna responsabilità in relazione ad una vicenda accaduta decenni fa, ma che con una superficialità che rappresenta un insulto dice alla figlia di Enzo Tortora che “nessun innocente va in prigione” non esiste altra possibilità se non le sue dimissioni immediate per manifesta incompetenza.

    Si può anche non amare Enzo Tortora come personaggio televisivo ma è fondamentale comprendere il valore della sua storia e del suo  calvario giudiziario ed umano in un contesto democratico per assicurare un futuro a questo povero Paese.

  • In attesa di Giustizia: il Signor Nessuno

    La settimana scorsa questa rubrica si è interessata a talune esternazioni – non nuove nel contenuto – del Dott. Piercamillo Davigo, criticandole con fermezza. La mezza dozzina di lettori che avranno avuto la pazienza di leggere l’articolo potranno riguardarle se necessario: quella de Il Patto Sociale, peraltro, non è stata l’unica voce a levarsi per contrastare la furia inquisitoria con cui il Magistrato invoca riforme che, in contrasto con principi cardine della giustizia nel mondo occidentale, hanno un solo aggettivo coerente: liberticide.

    Nei confronti di  Davigo si è mosso, tra gli altri, l’Ordine degli avvocati di Torino, con un comunicato a firma dalla presidente, Avv. Simona Grabbi, nel quale si chiede l’intervento della Procura Generale presso la Cassazione affinchè promuova un procedimento disciplinare a carico “Al fine di porre fine” – reca il comunicato – alle sue “ormai quotidiane e avvilenti esternazioni”.

    Certamente, le  affermazioni di uno che, dopo l’esperienza in Procura, ha fatto a lungo il giudicante anche in Cassazione, ed ora parla da un seggio del C.S.M. suscitano perplessità e preoccupazione per il tenore che è riassunto da una sua celebre frase: “non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca”. Il tutto con una lettura molto soggettiva, sarebbe da dire sua propria ed unica di alcuni canoni costituzionali, in particolare a proposito del ruolo dell’avvocato e della presunzione di non colpevolezza.

    La reazione dell’Ordine Piemontese ha generato quella rabbiosa dell’houseorgan degli orfani dell’inquisizione: Il Fatto Quotidiano*, che a firma di Gianni Barbacetto ha offerto una durissima reprimenda nei confronti della Presidente Grabbi difendendo a spada tratta le opinioni di Piercamillo Davigo.

    Cosa avrà mai scritto l’Avvocato Grabbi, o meglio sottoscritto visto che si tratta di un documento consiliare e – pertanto – condiviso dagli altri componenti del Consiglio? Sostanzialmente quello che si è sostenuto anche da queste colonne, e cioè a dire che Davigo  non tiene in alcuna considerazione dei principi per cui “l’Uomo ha sacrificato la propria vita e talvolta anche la libertà, così garantendo la nascita di quella società libera di cui oggi tutti noi beneficiamo”. Vergogna! Contestare chi ha avuto il coraggio di stravolgere la Costituzione che, in fondo è anche datata e i cui redattori sono omuncoli sconosciuti del rango di Einaudi e Calamandrei,  ostentando “una concezione inquisitoria del processo penale tipica degli Stati autoritari” in cui l’imputato è, invece, un “presunto colpevole” e con “la determinazione della pena”, il giudice si vendica “della mancata scelta di riti deflattivi, in palese violazione dei diritti costituzionali”.

    Bene, la penso anche io così è l’ho scritto, forse anche i lettori de Il Patto Sociale hanno condiviso quelle riflessioni e non coltivano – come Davigo dimostra – “un profondo disprezzo del ruolo istituzionale dell’Avvocato nel processo, disegnato come l’istigatore di condotte processuali dilatorie al solo fine di poter locupletare abusando di diritti che il processo riconosce all’imputato o finanche espletando attività difensiva del tutto inutile, qualora l’assistito sia ammesso al gratuito patrocinio, al solo fine di aumentare la parcella”.

    Barbacetto conclude la sua intemerata domandandosi se l’avvocato Grabbi esclude che ciò succeda? Forse vive nel Paradiso subalpino del Diritto. Ma avremmo qualche esempio da farle, almeno qui sulla Terra.

    Parole della redazione de Il Fatto Quotidiano, musica di Piercamillo Davigo con una generalizzazione inaccettabile a supporto di affermazioni incondivisibili ma pericolose per la presa che possono avare su una certa porzione della opinione pubblica.

    Della rubrica “In attesa di Giustizia” e del suo curatore, invece, non si registrano critiche, nemmeno un accenno ad una querela piccola piccola: sappiatelo, chi scrive qui ed a cui dedicate un po’ del vostro tempo non conta nulla, almeno per Gianni Barbacetto e accoliti e, forse, dovrei d’ora in poi firmarmi come “Il Signor Nessuno”.

    *Il Fatto quotidiano, 17 gennaio 2020

  • In attesa di Giustizia: critica della (ir)ragion pratica

    Due cose riempiono l’animo  di ammirazione e venerazione sempre nuove e crescenti, quanto più sovente e a lungo si riflette sopra di esse: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me; così Immanuel Kant conclude la sua Critica della Ragion Pratica.

    Sfortunatamente, tra queste due dimensioni, il cielo stellato e la legge morale – da cui discende quella positiva – può esserci una dolorosa scissione: prova ne sia il fatto che, nell’orizzonte del nostro Paese, oltre al cielo, abbiamo anche un Parlamento stellato. Anzi, pentastellato, che tra i suoi apicali annovera  agronomi prestati al diritto ed astri fiancheggiatori del calibro di Piercamillo Davigo che non è né sciocco né impreparato (per ciò solo ancora più insidioso) ma è il paradigma della furia giacobina del Movimento in materia di giustizia.

    La sua voce si è di recente e nuovamente alzata, tra l’altro, dalle colonne del “Fatto Quotidiano”, facendo accapponare la pelle persino ai più tiepidi cultori del garantismo mettendo in mostra l’arsenale completo degli strumenti che trasformano il processo in un momento di esclusiva inquisizione.

    Lancia i suoi strali, innanzitutto contro il sistema delle impugnazioni che – a suo dire – servono solo a diluire i tempi sostenendo che la pena ha “anche” funzione rieducativa (in realtà, questa è l’unica funzione assegnatale dalla Costituzione Repubblicana che, così sembra, è ancora in vigore) e l’avvocato che ricorre in Appello o in Cassazione, differendola danneggia il suo assistito.

    Il Davigo-pensiero, fermamente contrario al giudizio di Appello (e costui è stato a lungo Giudice di Corte d’Appello e in seguito di Cassazione…), non è nuovo e ostenta una singolare concezione del doppio grado di giurisdizione che, neanche a dirlo, è posto a presidio di parametri costituzionali quali la presunzione di non colpevolezza.

    Naturalmente, anche la scelta del rito, oltre agli appelli infondati, sono motivo di indignazione e vengono invocati istituti da mutuare dal processo americano secondo il quale, tradotto dal c.d. Dottor Sottile Guai poi, per Davigo, “se l’imputato si dichiara innocente,  e sceglie il rito ordinario invece che patteggiare, e poi si scopre che era colpevole, lo rovinano con pene così alte che agli altri passa la voglia di provarci”.  L’elogio del patteggiamento a fare il paio con la pena esemplare, la quale con l’art. 27 della Costituzione non ha nulla a che vedere, la galera inflitta quale prezzo per l’esercizio di un diritto.

    Si potrebbe andare oltre ma, per concludere, basti il suggerimento che viene proposto per porre un argine ai ricorsi per Cassazione: solidarietà del difensore nel pagamento della sanzione pecuniaria (che può andare fino a seimila euro) che viene irrogata all’imputato se l’impugnazione è ritenuta inammissibile. Oggi, ne abbiamo scritto in altre occasioni, il tasso di inammissibilità – con opinabili giustificazioni – è ben superiore al 70%. E così, anche le esangui casse dello Stato troverebbero un po’ di sollievo.

    A Milano il Museo della Tortura ha chiuso i battenti trasferendosi altrove, e anche la Colonna Infame – eretta a monito sulle macerie della casa di Giangiacomo Mora dopo il supplizio suo e di Guglielmo Piazza quali presunti untori – fu demolita nel 1778 essendo divenuta testimonianza di una grossolana ingiustizia: ma, forse, varrebbe la pena recuperare qualche Vergine di Norimberga, un paio di gogne, riedificare la Colonna e l’attesa di giustizia (?!), quella almeno auspicata da Piercamillo Davigo, verrebbe soddisfatta. Quanto al cielo, vi è da sperare che almeno cinque delle sue stelle si appannino in fretta e la legge morale, quella che vuole che la giustizia sia una categoria dello spirito comportante vincoli etici ed indicazioni culturali inderogabili, torni ad essere criterio guida della normazione e del dibattito.

  • In attesa di Giustizia: la solitudine del difensore

    Questa settimana la rubrica non si occuperà espressamente di vicende giudiziarie ma di quella umana di un professionista del settore.

    Giacomo Nicolucci era un giovane penalista di Lanciano, un marito e un padre e, naturalmente un difensore (il termine racchiude un significato superiore rispetto ad “avvocato”) che – come tale – portava dentro di sé le angosce che solo chi si occupa della vita dei propri simili può provare: sì, perché sia pure in termini diversi, la professione forense si rassomiglia a quella di un chirurgo. La libertà e l’onore sono i valori che il difensore tutela e dalla cui salvaguardia dipende il destino dei suoi simili che glieli hanno affidati, senza fare distinzioni tra buoni e presunti cattivi ma solo tra garanzie rispettate ed altre calpestate di cui pretendere l’osservanza: il processo non è la sede per ottenere vendette sociali ma giustizia e giustizia significa anche pena adeguata al fatto ed alla persona che si accerti lo abbia commesso. Il tormento interiore non è poca cosa e gli affanni personali, quasi sempre passano in secondo piano, in silenzio, nella solitudine che accompagna scelte quasi mai semplici o scontate da cui dipende il futuro di altri uomini.

    Giacomo Nicolucci, durante i giorni che, per tradizione, sono di festa e trascorsi nella serenità famigliare si è tolto la vita e non ne sapremo mai il motivo: ma non importa, dietro ad un gesto così estremo deve esserci una disperazione profonda, qualcosa che è maturato ed ha macerato l’animo di un essere aduso a convivere con i problemi altrui facendoli propri mai potendoli condividere per il rispetto estremo che si deve al segreto professionale: tutt’al più, se lo si ha, con un co-difensore. Ma, alla fine, l’avvocato è sempre solo con quelle ansie che lo consumano un giorno dopo l’altro.

    Quale che sia la ragione che ha indotto Giacomo Nicolucci a rivolgere contro di sé una pistola, di fronte alla immensa e sconosciuta tragedia interiore che lo ha mosso ed a quella della sua famiglia è dovuto solo dolente rispetto.

    Ma c’è chi non la pensa così e, sia pure dovendosi riconoscere a chiunque libertà di pensiero, indignano, danno il voltastomaco, certi commenti apparsi in rete da parte di un gruppo di vegani o animalisti o entrambe le cose: ma verrebbe da dire, più correttamente, di  sub umani.

    Giacomo era un cacciatore, come lo sono per natura la maggior parte delle creature e, francamente, anche se non si condivide l’attività venatoria dell’uomo, sono inaccettabili commenti  – se ne citano un paio solo a mo’ di esempio – quali “io non la vedo una morte tragica, vedo la vita di tutte le creature che non moriranno per il suo divertimento…lo vedo come uno psicopatico assassino che per divertirsi deve trucidare altri esseri viventi.  Morto lui, vivi loro, quindi champagne!” oppure “Grandeeee, l’unico e l’ultimo sparo giusto che ha fatto”.

    Tutto ciò porta ad una riflessione amara: anche questo, sfortunatamente, è il Paese reale. Vengono i brividi a pensare che gente così possa far parte di una Corte d’Assise come giudice popolare contribuendo ad amministrare giustizia in nome del popolo italiano, alla educazione che può declinare sui propri figli, al fatto – non ho remore a dirlo –  che abbiano il diritto di esprimere il voto in un urna. Gli animali cui sembrano tenere tanto, sono di gran lunga migliori di chi mostra di non avere nessuna interiorità, di chi disprezza quella vita che, diversamente, sostiene di voler tutelare all’estremo.

    Neppure le belve più feroci sarebbero capaci di tanta insensibilità, di una simile mancanza di compassione per una tragica fine, una fine giunta in solitudine, subitanea nell’esecuzione e – forse – nella determinazione come spesso lo sono le decisioni che i difensori devono adottare nella loro estrema solitudine. Ma una cosa non sanno i nazi-vegani: che una toga, quella toga che Giacomo indossava e che incarna i valori della libertà e dei diritti, anche se insanguinata non muore mai.

  • 01.01.2020: la dittatura 4.0

    Lo storytelling contemporaneo ha descritto ampiamente i termini attraverso i quali vengono definiti i poteri forti, siano essi espressione del mondo della finanza o dell’economia come di altre corporazioni.

    Viceversa, quando si pensa al potere forte dello Stato il ricordo va inevitabilmente ai paesi dell’Est Europa.

    La storia insegna come la ragione di Stato o, meglio, gli interessi di coloro che in nome dello Stato operavano risultassero prevalenti in rapporto ad ogni normale diritto fondamentale dei cittadini in virtù della suprema applicazione dell’ideologia socialista e comunista. La stessa amministrazione della Giustizia gestiva la propria attività in funzione dell’applicazione della preminenza degli “interessi dello Stato” rispetto a quelli del povero cittadino.

    All’interno delle democrazie occidentali, viceversa, la prescrizione nasce come Istituto a tutela dei diritti del cittadino al quale viene riconosciuto il diritto fondamentale di risultare non colpevole fino a sentenza  passata in giudicato. Quando uno Stato e la propria amministrazione della Giustizia non riescono a rimanere entro i termini della prescrizione per avviare a conclusione i procedimenti giudiziari le ragioni risultano molteplici. Innanzitutto una prima motivazione va ricercata (1) nella scarsità di risorse finanziarie ma anche nell’assoluta libertà (2) priva di ogni controllo o anche di una semplice verifica sull’efficienza della Magistratura accompagnate da una sostanziale depenalizzazione (3) di tutti i reati fino a cinque anni.

    Quando si verificano le condizioni ai punti 1.2.3. allora si pongono due soluzioni.

    La prima è quella di introdurre una serie di verifiche relative all’efficienza della Magistratura (utilizzando organi terzi o elezioni del Procuratore della Repubblica come negli Stati Uniti) assieme ad una contemporanea attribuzione di maggiori risorse finanziarie alla magistratura che comprenda anche la costruzione di nuove case penitenziarie. Oppure si abolisce la prescrizione come questo sciagurato governo ha deciso a partire dal primo gennaio 2020. Una scellerata decisione che permette allo Stato ma soprattutto a chi in  suo nome opera  di avviare un’indagine e un monitoraggio “sine die” relativi alle attività e alla vita di ogni cittadino. Una rivoluzione che attenta ai diritti fondamentali del cittadino onesto e che trova la silente complicità della Magistratura.

    Di fatto l’Italia uscirà dal novero delle democrazie occidentali per entrare di fatto, dal primo gennaio 2020, nella nuova forma istituzionale di uno Stato il quale nell’articolazione della Giustizia risulta molto simile ai paesi dell’est prima della caduta del Muro di Berlino.

    Di fatto cosi si definisce una moderna dittatura 4.0.

  • In attesa di Giustizia: ad Asti niente brindisi per la giustizia

    Era già capitata la stessa cosa o qualcosa di molto simile in varie occasioni venute di cui si è venuti a conoscenza, a me personalmente ben due volte a Milano, ma al peggio non c’è mai fine ed una giustizia (con la g rigorosamente minuscola) approssimativa, indignante, si potrebbe definire tranquillamente volgare ha dato nuovamente prova di sé pochi giorni fa ad Asti.

    Qualcuno l’ha definita gaffe del Tribunale e sembra che questo termine vada per la maggiore ultimamente anche quando è decisamente inappropriato per difetto e in questo caso l’accaduto va ben oltre, come conseguenze, gli strafalcioni in diritto penale del Ministro Bonafede di cui la rubrica si è interessata la settimana scorsa.

    Orbene, il fatto riguarda un delicato processo per violenza sessuale su un minore, in corso di celebrazione ad Asti, con due imputati; terminata l’istruttoria dibattimentale si è passa alla discussione: dapprima il Pubblico Ministero, subito dopo la parte civile e uno dei difensori con rinvio a successiva udienza per la discussione del difensore del secondo imputato e la decisione. E proprio all’”ultimo atto”, la settimana scorsa, si ha un esito imprevedibile: il Tribunale entra in aula e, invece che sedersi e dare la parola alla difesa, resta in piedi ed il Presidente legge il dispositivo di una sentenza di condanna ad undici anni di reclusione. Il tutto nello sgomento di tutti i presenti, primo tra tutti l’avvocato che avrebbe ancora dovuto sostenere le ragioni del proprio affidato e che energicamente insorge.

    A questo punto la triste commedia degli equivoci giudiziari assume contorni ancora più inquietanti: il Presidente, come se nulla fosse, straccia fisicamente il foglio con la decisione e fa rientrare il Tribunale in camera di consiglio per poi uscirne segnalando l’intenzione di astenersi, cioè a dire in parole povere, a ritirarsi in buon ordine lasciando spazio per riprendere il processo a tre nuovi giudici senza pregiudizi (o, almeno, si spera).

    Tutto sospeso, per ora, il Primo Presidente del Tribunale di Asti sta raccogliendo gli elementi fattuali per raggiungere delle determinazioni: aiutiamolo anche se non è difficile capire il da farsi, ma è Natale e siamo tutti più buoni. Poi, chi vivrà vedrà.

    Per cominciare si dovrebbero trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica perché stracciando fisicamente il foglio con il dispositivo è stato commesso un reato di falso per soppressione, poi anche i verbali dell’udienza (o, meglio, della farsa) alla Procura Generale della Cassazione perché faccia aprire un fascicolo al C.S.M. nei confronti di tutti e tre i componenti del Collegio con l’auspicio che qualcosa avvenga, magari che vengano spediti celermente altrove: a Lanusei, per esempio (è un Tribunale con gravi carenze di organico), ma ad ammortare cambiali andate smarrite invece che decidere della vita e della libertà dei cittadini.

    In attesa di Giustizia…il nome dato a questa rubrica esprime sempre ogni giorno di più quella che resta una speranza dispersa tra inerzie ed approssimazioni legislative, scarsità di risorse, pulsioni forcaiole, mancanza di buon senso e frequente disprezzo per la funzione difensiva.

    Buon Natale a tutti Voi e, i più fervidi auguri, se potete se proprio dovesse capitare, di non finire mai sotto processo ad Asti, fosse solo per un banale abuso edilizio. Almeno finché quei tre caballeros non saranno destinati all’ammortamento di cambiali o – meglio ancora – a qualche esercizio spirituale dedicandosi più proficuamente all’agricoltura.

     

  • In attesa di Giustizia: il guardasigilli della porta a fianco

    La settimana scorsa ci siamo occupati della Maratona oratoria per la verità sulla prescrizione, iniziativa organizzata a Roma di fronte alla sede della Corte di Cassazione volta a sensibilizzare l’opinione pubblica su questo argomento di grande attualità e fonte di contrasti all’interno della maggioranza a guida (si fa per dire…) del Paese. Chi avesse la pazienza di rileggere il pezzo, ritroverà le parole di un’avvocata che ha descritto la manifestazione come un momento per contrastare l’ignoranza di coloro che non sanno di cosa parlano, il pregiudizio di chi ha deciso prima di conoscere e l’ottusità di chi non vuole ascoltare.

    Tra costoro si annovera uno dei fautori della riforma della prescrizione: il Ministro della Giustizia. Bonafede, trattando nuovamente l’argomento nel corso della puntata di Porta a Porta subito successiva al termine della Maratona è incappato in una clamorosa gaffe (così definita per bontà d’animo pre natalizia) o, meglio, in uno strafalcione inascoltabile. Il Guardasigilli, che nella precedente vita faceva l’avvocato, sostenendo con forza l’esigenza di evitare che i reati restino impuniti per decorso del tempo (oggi già lunghissimi), ha detto che – tra l’altro – il problema si pone quando non si riesce a dimostrare il dolo e quindi il reato diventa colposo con termini di prescrizione molto più bassi.

    Orbene, secondo la lettera del codice penale ed in base all’elemento psicologico dell’autore, il delitto può essere di tre tipi: doloso quando è voluto come conseguenza del comportamento di chi ne è l’autore, preterintenzionale quando la conseguenza della condotta è più grave di quella voluta inizialmente dall’agente, colposo quando l’evento rimproverabile si verifica per negligenza, imprudenza o inosservanza di regolamenti, ordini discipline.

    Il codice, poi, prevede tassativamente, le diverse ipotesi di delitto individuandole singolarmente: ve n’è una sola di preterintenzionale, la maggior parte sono dolosi e quando si è inteso prevedere la punibilità anche per colpa, il crimine è previsto autonomamente in quanto tale.

    Dunque è assolutamente falso quello che ha osservato Sua Eccellenza e non lo è sulla scorta di cervellotiche e strampalate elucubrazioni dottrinarie o cavillosità avvocatesche ma in base ad un complesso normativo in vigore da circa novant’anni.

    Vespa – che, pure, è laureato in giurisprudenza ed ha una moglie magistrato – abbozza alle parole del Ministro, non lo corregge né incalza, nessuno in studio è presente per un contraddittorio tecnico e ragionato in argomento che, se fosse avvenuto in occasione di un esame di profitto universitario di diritto penale avrebbe inesorabilmente condotto il candidato ad una valutazione largamente inferiore ai 15/30.

    La gaffe, continuiamo bonariamente a chiamarla così, è diventata virale inducendo anche reazioni molto forti come quella dell’Ordine degli Avvocati di Palermo il quale, rilevato che le dichiarazioni di Bonafede sono del tutto errate dal punto di vista tecnico giuridico e ingenerano pericolosa confusione nell’opinione pubblica e che le regole processuali e sostanziali in ambito civile e penale siano basate sulla errata conoscenza degli istituti giuridici, ha chiesto espressamente le dimissioni del Ministro indirizzando la propria delibera ad organi di stampa, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Consiglio Nazionale Forense.

    Non succederà nulla, purtroppo, così almeno è da temere; ma, lo abbiamo detto, è Natale e insieme agli auguri che – come curatore di questa rubrica – formulo a tutti i lettori, concludo con una sorta di preghiera: Signore, perdona a loro che non sanno quello che fanno (e che dicono). Dio salvi l’Italia dai Ministri preterintenzionali.

  • In attesa di Giustizia: i maratoneti

    I protagonisti di questo numero della rubrica non sono propriamente atleti e neppure emuli del personaggio mirabilmente interpretato da Dustin Hoffman, bensì le centinaia di avvocati penalisti che dal 2 dicembre e per tutta la settimana si sono alternati dalle prime ore del mattino e fino a sera su un palco allestito di fronte alla Corte di Cassazione, impegnati nella “Maratona oratoria per la verità sulla prescrizione” organizzata dall’Unione delle Camere Penali  durante il periodo di astensione dalle udienze, che qualcuno lo chiama sciopero, proclamata per protesta contro l’inerzia di legislatore e governo nel riformare – come vanamente promesso un anno fa – il settore della giustizia penale in vista della entrata in vigore del nuovo regime della prescrizione che la elimina dopo il giudizio di primo grado.

    Sul modello dello Speakers’ Corner di Hyde Park (che, tra l’altro, non è lontano dal luogo ove sorgeva il patibolo di Londra…ma ogni analogia con la prossimità alla Cassazione è puramente casuale), il palchetto dell’Unione ha offerto l’opportunità di offrire al pubblico un dibattito non stop su un argomento molto attuale ed oggetto di inaccettabili mistificazioni che non sono mancate neppure durante questo periodo di agitazione.

    Ne sono di esempio le garbate e profonde considerazioni del giureconsulto Alessandro Di Battista secondo il quale la prescrizione “salva il culo ai potenti”, cui ha risposto seccamente il Presidente dell’Unione Giandomenico Caiazza o la dimostrazione inequivoca di voluta disinformazione (l’ignoranza, in questo caso, non è immaginabile) di un esponente dell’Associazione Nazionale Magistrati che nel corso della trasmissione RAI “Agorà” ha sostenuto per l’ennesima volta che la prescrizione è frutto di callidi stratagemmi degli avvocati venendo – peraltro – immediatamente sbugiardato da Piero Sansonetti presente in studio.

    La raccogliticcia maggioranza di Governo sul tema della prescrizione e della riforma della Giustizia si è quantomeno incrinata ed il dibattito è tornato ad animare anche la politica: alcuni esponenti dei diversi partiti si sono persino affacciati al luogo della maratona per partecipare in qualche modo alla discussione, la manifestazione – nella sua singolarità – ha richiamato l’attenzione dei media contribuendo a far affluire pubblico incuriosito in Piazza Cavour.

    Insomma, è stato un successo, frutto di una notevole e fantasiosa capacità comunicativa di cui si è dimostrata capace l’Unione sfruttando le armi migliori di cui dispongono i suoi iscritti: la parola, la competenza, l’onestà intellettuale, lo spirito di sacrificio. E la maratona non è stato il solo esempio di intelligente ed originale forma di protesta messa in campo: ridentem dicere verum, quid vietat? Osservava Orazio e il Prof. Giovanni Flora, già Ordinario di Diritto Penale a Firenze, ha realizzato un video clip nel quale – su parole e musica del celeberrimo “Senza fine” di Gin Paoli – canta, senza stonature né falsificazioni, le ragioni del processo senza fine.  Applausi, anzi, standing ovation.

    Qualcosa, intanto, sembra muoversi a Montecitorio e dintorni a livello di ripensamenti sulla modifica della prescrizione e riforme possibili anche se è preferibile non pensare a cosa possa partorire l’ennesima normativa frutto di compromessi ed arditi equilibrismi politici ma, più difficilmente, di competenze effettive nella materia da trattare.

    Resta però l’immagine di quella Piazza Cavour da qui l’Avvocatura esce vincitrice: una piazza che, come ha ricordato l’avvocata Cinzia Gauttieri, è stata una testimonianza di militanza vera contro l’ignoranza di coloro che non sanno di cosa parlano, il pregiudizio di chi ha deciso prima di conoscere e l’ottusità di chi non vuole ascoltare. Una vittoria di chi la Giustizia l’ha veramente a cuore e si batte perché la sua attesa non sia né indefinita né vana.

     

  • In attesa di Giustizia: si salvi chi puo’…nessuno!

    Grottesca, inquietante, inaccettabile, la vicenda che ha riguardato un imputato in attesa di giudizio a Milano, emersa per caso come spesso accade a quelle che riguardano “gli ultimi” anzi, gli ultimi degli ultimi il cui destino giudiziario non interessa seriamente a nessuno. Questa volta neppure al suo avvocato che – come si ripete spesso in questa rubrica – dovrebbe essere il custode delle garanzie processuali e il tutore della libertà personale dei propri assistiti, fino a quando non debba essere necessariamente e giustificatamente sacrificata.

    Arrestato e condannato a quindici mesi di reclusione, il protagonista della nostra storia viene rimesso in libertà dal Tribunale non rilevandosi esigenze che impongano il permanere della custodia in carcere sino a sentenza definitiva di condanna.

    Il difensore, peraltro, fraintende il senso del provvedimento liberatorio e invita il proprio assistito a recarsi subito dai Carabinieri di Rozzano (dove aveva la residenza) per comunicare che era stato posto agli arresti domiciliari.

    Presentatosi alla caserma di Rozzano, neppure il militare di servizio legge con attenzione il documento che gli viene mostrato e redige il verbale di sottoposizione agli arresti domiciliari, certificando che da quel momento competevano al Comando Stazione i controlli per il rispetto dei regime di prigionia in casa.

    Per una persona che vive da sola, gli arresti domiciliari presentano il problema legato alla possibilità di attendere ad ordinarie ed inderogabili occupazioni come farsi la spesa piuttosto che recarsi in farmacia o dal medico: niente paura, ci pensa l’avvocato…che non ha capito nulla e presenta un’istanza al Tribunale volta ad ottenere l’autorizzazione ad assentarsi due ore al giorno dal luogo di arresto per provvedere alle proprie esigenze di vita. E gli errori, incomprensibili aumentano ma non finiscono qui.

    L’istanza, come tutte, passa al visto del Pubblico Ministero che non si accorge che riguarda una persona che dovrebbe essere libera e formula il suo parere.

    Poi è il turno del Tribunale: siamo nel periodo feriale, in agosto, e la richiesta viene assegnata ad un Giudice diverso da quello che aveva disposto la liberazione e…nemmeno lui si accorge di nulla e autorizza l’imputato ad uscire di casa per le indispensabili incombenze. Cosa che lo sventurato fa ma sbagliando in due occasioni l’orario: i Carabinieri se ne avvedono e lo denunciano anche per evasione.

    L’uomo, che non è uomo di legge ma non del tutto stupido, rileggendo le carte del suo processo di cui dispone legittimamente, inizia a nutrire qualche sospetto e interpella un nuovo avvocato che, finalmente interviene nella maniera corretta ed interrompe la catena di errori (o orrori che dir si voglia) ottenendo che sia riconosciuta l’ovvia – ma non per tutti – circostanza che l’imputato doveva essere libero in attesa di giudizio di appello.

    La Giustizia si è fatta un po’ attendere ma alla fine – si fa per dire – ha trionfato. Quanto ci ha messo tra errori e distrazioni di uno e dell’altro? Un annetto, un anno di privazione della libertà che non doveva esserci.

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